Diffondere il virus dell’occupazione: lo sputo come arma nelle mani di Israele coloniale

Ramzy Baroud

14 aprile 2020 – Middle East Monitor

Sputare addosso a qualcuno è un insulto universale. In Israele, tuttavia, sputare sui palestinesi ha una storia completamente diversa.

Ora che sappiamo che il coronavirus mortale può essere trasmesso attraverso goccioline di saliva, i soldati israeliani e i coloni ebrei illegali sono duramente impegnati a sputare addosso al maggior numero di palestinesi, alle loro macchine, maniglie di porte ecc.

Se la cosa ti sembra troppo surreale e ripugnante, allora potrebbe essere che sei meno informato di quanto pensi della particolare natura del colonialismo israeliano.

In tutta onestà, gli israeliani sputano addosso ai palestinesi da molto prima che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ci tenesse lezioni sulla natura elusiva della malattia COVID-19 e sulla necessità cruciale di esercitare il “distanziamento sociale”.

In effetti, se cerchi su Google la frase “sputi israeliani”, verrai inondato dai molti interessanti risultati della ricerca, come “Giudice di Gerusalemme agli ebrei: non sputate sui cristiani”, “I cristiani di Gerusalemme vogliono che gli ebrei smettano di sputare su di loro”, e il più recente,” I coloni israeliani che sputano sulle auto palestinesi sollevano preoccupazioni per il tentativo di diffondere il coronavirus”.

È interessante notare che nel corso degli anni la maggior parte di questa copertura giornalistica è stata fatta dai media israeliani, mentre riceve scarsa attenzione da parte dei media occidentali.

Si potrebbe facilmente classificare tali atti degradanti come un ulteriore esempio del falso senso di superiorità degli israeliani sui palestinesi. Ma il deliberato tentativo di infettare con coronavirus i palestinesi sotto occupazione è ben più che un oltraggio, anche per un regime di insediamento coloniale.

Due particolari elementi di questa storia richiedono un approfondimento.

In primo luogo, l’atto di sputare sui palestinesi e le loro proprietà, sia da parte dei soldati dell’occupazione che dei coloni, è stato ampiamente segnalato in molte parti della Palestina occupata.

Ciò significa che, nel giro di pochi giorni, la cultura dell’esercito e dei coloni israeliani ha rapidamente adattato il razzismo preesistente sino ad usare un virus mortale come strumento finale per soggiogare e nuocere ai palestinesi, sia fisicamente che simbolicamente.

In secondo luogo, [è notevole] il grado di ignoranza e buffoneria che accompagna questi atti razzisti e umilianti.

Il paradigma di potere che ha governato il rapporto tra Israele colonialista e palestinesi colonizzati ha seguito finora un corso tipico, secondo cui le cattive azioni di Israele rimangono per lo più impunite.

Quegli israeliani razzisti che stanno deliberatamente cercando di infettare i palestinesi con il COVID-19 pensano e si comportano non solo da criminali, ma anche incredibilmente da sciocchi.

Quando i soldati israeliani arrestano o picchiano gli attivisti palestinesi, hanno la stessa probabilità di contrarre il coronavirus quanto di trasmetterlo.

Ma, naturalmente, Israele sta facendo molto di più per complicare, se non bloccare del tutto gli sforzi palestinesi per contenere la diffusione del coronavirus.

Il 23 marzo un lavoratore palestinese, Malek Jayousi, è stato espulso dalle autorità israeliane al checkpoint militare di Beit Sira, vicino a Ramallah, perché sospettato di avere il coronavirus.

Un filmato del povero lavoratore rannicchiato vicino al checkpoint, dopo essere stato “scaricato come spazzatura”, è diventato virale sui social media.

Per scioccante che fosse quell’immagine, si è ripetuta in altre parti della Cisgiordania.

Ovviamente i lavoratori palestinesi non erano stati testati per il virus, ma avevano semplicemente manifestato sintomi para-influenzali, abbastanza da far sì che Israele se ne liberasse come se la loro vita non avesse importanza.

Due settimane dopo, il governatore palestinese della città occupata di Qalqiliya, Rafi ‘Rawajbeh, ha detto ai giornalisti che l’esercito israeliano avrebbe aperto diversi tunnel per le acque reflue a nord della città palestinese, pensando di impiegare di nuovo operai palestinesi in Cisgiordania senza previo coordinamento con l’Autorità Nazionale Palestinese.

Senza fare i test a quelle centinaia di lavoratori irregolari, l’Autorità Nazionale Palestinese, che già opera con una capacità limitata nell’affrontare la malattia, si troverà nell’impossibilità di contenere la diffusione del virus.

Le denunce palestinesi del deliberato tentativo di Israele di favorire la diffusione del coronavirus in Palestina sono state ulteriormente confermate da Euro-med Monitor [Ong per la difesa dei diritti umani, ndtr.] di Ginevra, che il 31 marzo ha invitato la comunità internazionale a indagare sul “comportamento sospetto” dei soldati israeliani e dei coloni ebrei.

Durante i raid dell’esercito israeliano contro case palestinesi, i soldati “sputano contro macchine parcheggiate, bancomat e serrature di negozi, il che fa sospettare si tratti di tentativi deliberati di diffondere il virus e causare panico nella società palestinese”, ha dichiarato Euro-Med.

L’articolo 56 della Quarta Convenzione di Ginevra non dice nulla sull’obbligo per i membri della potenza occupante di smettere di sputare sulle comunità occupate e soggiogate; molto probabilmente perché è previsto che un comportamento così sordido sia evidentemente inaccettabile e non richieda uno specifico riferimento testuale.

Tuttavia l’articolo 56, come ha recentemente sottolineato Michael Lynk, relatore speciale delle Nazioni Unite per la situazione dei diritti umani nel territorio palestinese, impone a Israele, potenza occupante, di “garantire che siano utilizzati tutti i mezzi preventivi necessari e disponibili per ‘combattere la diffusione di malattie contagiose ed epidemie.’”

Tuttavia Israele sta drammaticamente venendo meno al suo obbligo giuridico.

Persino il sindaco israeliano di Gerusalemme, Moshe Leon, ha sottolineato la disuguaglianza nella risposta ufficiale israeliana alla diffusione del coronavirus.

Nella sua lettera del 7 aprile al direttore generale del Ministero della Sanità israeliano Moshe Bar Siman Tov, Leon ha messo in guardia contro “la grave carenza di attrezzature mediche negli ospedali (palestinesi) a Gerusalemme est (occupata), in particolare di attrezzature e dispositivi di protezione per condurre i test del coronavirus.

Al di là delle gravi carenze negli ospedali di Gerusalemme est e in Cisgiordania, la situazione nella Striscia di Gaza assediata è semplicemente disastrosa; il Ministero della Sanità di Gaza ha dichiarato il 9 aprile di aver esaurito tutti i kit per il test del coronavirus, che peraltro non erano mai stati più di poche centinaia.

Ciò significa che i numerosi abitanti di Gaza già in quarantena non saranno rilasciati in un prossimo futuro e che i nuovi casi non verranno individuati e tanto meno guariti.

Nelle ultime settimane abbiamo spesso segnalato questo terrificante scenario prossimo venturo, specialmente perché Israele usa il coronavirus come occasione per isolare ulteriormente i palestinesi e barattare potenziali aiuti umanitari con concessioni politiche.

Senza un intervento immediato e sostenibile da parte della comunità internazionale, la Palestina occupata, e specialmente Gaza impoverita e assediata, potrebbero diventare un focolaio di COVID-19 per gli anni a venire.

Israele non cederà mai senza un intervento internazionale. Se non sarà chiamata a risponderne, neppure un virus mortale cambierà mai le abitudini di una vile occupazione militare.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




In mezzo alla pandemia aumentano del 78% le aggressioni dei coloni

Tamara Nassar

11 aprile 2020 electronicintifada

In piena pandemia di COVID-19 nella Cisgiordania occupata si registra un forte aumento della violenza dei coloni israeliani contro i palestinesi.

Anche dopo che il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha chiesto un cessate il fuoco globale per ostacolare la diffusione della pandemia, Israele ha ucciso due palestinesi, incluso un bambino, e incrementato gli attacchi.

Israele ha continuato i suoi “raid militari in Cisgiordania, condotto arresti diffusi e detenzioni amministrative, ha permesso gravi accessi di violenza da parte dei coloni e ha continuato la sua draconiana chiusura della Striscia di Gaza”, ha affermato l’organizzazione per i diritti palestinesi Al Haq.

Nelle ultime due settimane di marzo, il numero di aggressioni dei coloni contro i palestinesi è stato del 78% superiore al solito, secondo il gruppo di monitoraggio dell’ONU OCHA.

Durante questo periodo, “almeno 16 assalti di coloni israeliani hanno ferito cinque palestinesi e causato gravi danni materiali”, ha riferito l’OCHA.

Anche se Mohammad Shtayyeh, primo ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese, ha ordinato un isolamento di due settimane a tutti i residenti palestinesi in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, la sua decisione non ha avuto alcun impatto sui circa 800.000 israeliani che vivono negli insediamenti illegali.

Quei coloni condividono strade, negozi di alimentari e distributori di benzina con i palestinesi, sottoponendoli spesso a molestie verbali, aggressioni fisiche e danni materiali.

Le forze israeliane “non sono intervenute per prevenire i comportamenti illeciti, fornendo invece sostegno e protezione ai coloni, garantendo che tali individui non venissero chiamati a rispondere dei loro atti e consolidando l’attuale regime di impunità”, ha affermato Al Haq.

I coloni godono di un’impunità pressoché totale per le violenze che commettono contro i palestinesi, il che li incoraggia ad aumentare le aggressioni.

Oggetto di continui assalti, i palestinesi si stanno sforzando di prendere tutte le precauzioni sanitarie contro la pandemia di coronavirus. In effetti, i coloni stanno sfruttando l’isolamento per aumentare le loro violenze con poche resistenze da parte dei residenti palestinesi.

Assalto a un cimitero

Giovedì i coloni israeliani hanno vandalizzato le lapidi del cimitero palestinese nel villaggio di Burqa in Cisgiordania.

Ghassan Daghlas, che controlla le attività dei coloni nella Cisgiordania settentrionale, ha riferito all’agenzia di stampa palestinese WAFA che i coloni sono entrati nel villaggio attraverso l’adiacente e già evacuato insediamento israeliano di Homesh.

Homesh è stata liberata dai suoi residenti israeliani nel 2005 come parte del presunto “disimpegno” israeliano a Gaza e in diversi villaggi della Cisgiordania. La terra, che apparteneva al villaggio di Burqa, fu dichiarata zona militare e chiusa negli anni ’70.

Il mese scorso i coloni hanno picchiato e lanciato pietre contro un contadino che lavorava la propria terra nella zona di Homesh.

“Uno di loro aveva in mano una pistola”, ha detto ad Al Haq Ali Mustafa Mohammad Zubi, 55 anni.

“Ogni volta che provavo ad alzarmi e correre via mi buttavano a terra, mi picchiavano e mi aggredivano verbalmente.”

Colpito con un’ascia

Inoltre, un palestinese è stato ricoverato in ospedale dopo che i coloni israeliani lo hanno assalito con un’ascia il 24 marzo nel villaggio cisgiordano di Umm Safa, a ovest di Ramallah.

Un colono stava entrando con una mandria di 50 mucche in un uliveto a ovest del villaggio.

Otto residenti del villaggio, accompagnati dal vice capo del consiglio locale, Naji Tanatrah, sono andati a chiedergli di lasciare il villaggio. Mentre stava per ritirarsi, cinque coloni armati sono arrivati su due veicoli con asce e almeno un fucile e hanno preso ad aggredire Tanatrah, riferisce B’Tselem.

Un colono ha colpito Tanatrah alla testa con l’ascia, facendolo cadere a terra sanguinante. I coloni hanno continuato a picchiare il 45enne che giaceva sanguinante a terra.

Alcuni abitanti sono riusciti a recuperare Tanatrah e spostarlo in un ospedale di Ramallah, dove è stato operato e gli è stata diagnosticata una frattura al cranio.

“Ho trascorso cinque giorni in ospedale e me ne sono andato appena ho potuto, temendo di contrarre il coronavirus” avrebbe detto Tanatrah, come riferisce il quotidiano israeliano Haaretz.

Il giorno successivo, decine di coloni hanno tentato di entrare nel villaggio di Einabus, sempre nella zona di Nablus.

Contemporaneamente i coloni attaccavano un pastore nel villaggio di al-Tuwani, nelle colline a sud di Hebron. Il 27 marzo sei coloni, alcuni armati, hanno attaccato il pastore mentre stava pascolando il suo gregge, riferisce B’Tselem. Uno dei cani dei coloni lo ha morso al braccio e all’addome; è stato portato in una clinica medica dove l’hanno vaccinato contro la rabbia.

Il giorno seguente i coloni hanno lanciato pietre contro tre abitanti che tornavano ad al-Tuwani.

Altri abitanti del villaggio sono arrivati per aiutarli finché sono giunti i militari israeliani e hanno lanciato candelotti di gas lacrimogeno contro gli abitanti del villaggio.

Le forze israeliane hanno arrestato tre abitanti del villaggio, rilasciandone due su cauzione.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Nel pieno dell’epidemia da coronavirus i soldati israeliani gettano immondizia e sputano sui veicoli palestinesi in Cisgiordania

6 aprile 2020 – Palestine Chronicle

Secondo l’agenzia di stampa palestinese WAFA, mentre i palestinesi cercano di combattere la diffusione della letale pandemia da coronavirus, oggi nella città della Cisgiordania meridionale di Beit Ummar soldati israeliani hanno scaricato rifiuti contaminati ed hanno sputato sulle portiere di veicoli e sulle porte delle case.

L’attivista locale Muhammad Awad ha detto alla WAFA che un folto gruppo di soldati israeliani ha fatto irruzione in una zona di Beit Ummar – situata vicino al blocco di colonie illegali di Gush Etzion – ed ha gettato in mezzo alle case del villaggio vetri contaminati con una sostanza sconosciuta, nonché rifiuti, siringhe e guanti usati.

I soldati israeliani hanno anche sputato sulle macchine e sulle porte delle case ed insultato gli abitanti con termini razzisti, ha detto Awad, sollevando il sospetto che i soldati vogliano intenzionalmente diffondere il coronavirus tra i civili palestinesi di quella zona.

Dopo che i soldati se ne sono andati dalla città, i volontari locali del Comitato di Emergenza di Beit Ummar hanno sterilizzato le due zone e distrutto e bruciato tutto ciò che i soldati avevano gettato.

Il 31 marzo l’Euro-Med Monitor [organizzazione indipendente per la protezione dei diritti umani, ndtr.] con sede a Ginevra ha chiesto alla comunità internazionale di proteggere i palestinesi e costringere i soldati israeliani a porre fine alle incursioni nelle città e cittadine, che mettono a rischio le misure preventive messe in atto dall’Autorità Nazionale Palestinese per controllare l’epidemia da coronavirus.

Ha chiesto inoltre di indagare sul comportamento sospetto di molti soldati e coloni israeliani, che sembra essere un tentativo di diffondere il contagio, e di far sì che quanti ne sono stati responsabili rispondano dei loro atti.

Secondo il Ministero della Sanità palestinese stamattina sono stati confermati 15 nuovi casi di coronavirus in Cisgiordania, che hanno portato il totale in Palestina a 252.

(Palestine Chronicle, WAFA, reti sociali)




In Cisgiordania i coloni approfittano del confinamento dovuto al coronavirus per annettere terre palestinesi

Akram Al-WaaraBetlemme, Cisgiordania occupata

1 aprile 2020Middle East Eye

Mentre gli attacchi dei coloni sono moneta corrente, è stato constatato un netto aumento delle violenze dopo la proclamazione dello stato d’emergenza sanitaria.

Nella Cisgiordania occupata i coloni sfruttano l’isolamento imposto allo scopo di rallentare la propagazione del nuovo coronavirus per annettere terre palestinesi e condurre attacchi contro i civili e le loro case.

Negli ultimi giorni sono stati riferiti almeno tre episodi durante i quali dei coloni israeliani hanno spianato dei terreni palestinesi e pavimentato delle strade nei distretti di Nablus, Gerusalemme e Betlemme.

È stato anche osservato un picco di aggressioni contro i palestinesi e i loro beni. Middle East Eye ha documentato violenze nei villaggi di Madama, Burqa e Burin.

Normalmente subiamo attacchi da parte di coloni diverse volte al mese,” spiega a MEE Ghassan al-Najjar, un attivista di Burin, villaggio situato a 5 km. a sud di Nablus.

Ma dopo che siamo stati posti in isolamento a causa del coronavirus essi sono decuplicati”, dice il trentenne, aggiungendo che i coloni, sotto la protezione dei soldati israeliani, ormai fanno quotidianamente delle incursioni nel villaggio.

Aggiunge che degli abitanti della colonia di Har Brakha hanno cercato di impadronirsi di terre palestinesi nella periferia del villaggio.

I coloni sanno che le persone restano in casa per via del coronavirus, quindi cercano di approfittarne per attaccarci e prendere ancor più terre”, lamenta l’attivista.

Un netto aumento delle aggressioni

Mentre gli attacchi di coloni in Cisgiordania sono moneta corrente, alcuni attivisti di tutto il territorio occupato hanno segnalato un netto incremento di violenze dopo la proclamazione dello stato d’emergenza sanitaria a causa della pandemia di coronavirus all’inizio di marzo.

A sud della Cisgiordania, nel distretto di Betlemme, centro dell’epidemia del coronavirus in Palestina, l’attivista quarantottenne Mahmoud Zawahreh riferisce a MEE che in questi ultimi giorni i coloni hanno adottato tattiche simili nel comune di Khallet al-Nahleh.

I coloni cercano di impadronirsi di una collina di questo villaggio fin dal 2013. Nel corso degli anni, racconta Zawahreh, i coloni della vicina mega-colonia di Efrat hanno tentato di ricostruire l’“avamposto” che vi si trovava, dopo il suo smantellamento da parte delle forze israeliane.

Una sentenza ha stabilito che le terre appartengono a palestinesi e le tende dei coloni sono state smantellate”, ricorda Zawahreh. “Fino a poco tempo fa non avevano tentato di tornare qui.”

Negli ultimi giorni in effetti i coloni sono tornati, questa volta con più tende, serbatoi d’acqua e generatori elettrici. Lunedì scorso hanno iniziato a tracciare una strada sterrata per creare un più facile accesso all’avamposto.

La crisi del coronavirus limita gli spostamenti dei palestinesi, soprattutto intorno a Betlemme, a causa della quarantena e del coprifuoco imposti dal governo”, spiega Mahmoud Zawahreh.

I coloni lo sanno e ne approfittano. Sanno che le persone avranno troppa paura di venire in gran numero e protestare contro questi tentativi, come si faceva prima. Quindi è una situazione ideale per prendere il controllo del territorio”.

«Tra il martello dell’occupazione e l’incudine del coronavirus »

Mentre la pandemia non mostra alcun segnale di rallentamento, i palestinesi dicono di essere costretti a scegliere tra proteggere la loro salute e proteggere le loro terre.

A causa dei coloni e dell’occupazione noi non possiamo seguire le direttive fissate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità o dal nostro governo per proteggerci dal coronavirus”, afferma Ghassan al-Najjar.

Se restiamo a casa ci proteggiamo dal virus, ma finiamo per perdere le nostre terre”.

Cercando di difendere il villaggio riducendo al minimo l’esposizione degli abitanti tra di loro e coi coloni, l’attivista e altri giovani della regione di Burin hanno creato un piccolo gruppo incaricato di proteggere le terre durante l’isolamento.

Normalmente tutto il villaggio viene a difendere le terre, ma ora lavoriamo in piccoli gruppi e facciamo dei turni per ridurre al minimo l’esposizione potenziale”, spiega. “È quello che possiamo fare per il momento.”

Da Khallet al-Nahleh, Mahmoud Zawahreh esorta la comunità internazionale a fare pressione sul governo israeliano perché metta fine ai “crimini dei coloni” in Cisgiordania.

È triste e frustrante per noi palestinesi vedere che durante questa epidemia l’umanità dovunque si unisce per difendersi e proteggersi reciprocamente da questo virus, mentre qui i coloni fanno il contrario. Sfruttano il virus a loro vantaggio, per nuocere all’umanità degli altri e rubare la terra altrui”, denuncia.

In Palestina siamo schiacciati tra il martello dell’occupazione e l’incudine del coronavirus”

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA del periodo 17 – 30 marzo 2020

La notte del 22 marzo, le forze israeliane hanno sparato e ucciso un palestinese 32enne e ferito un suo parente; i due viaggiavano su una strada principale vicino al villaggio di Ni’lin (Ramallah).

Fonti militari israeliane hanno affermato che i due erano implicati nel lancio di pietre contro veicoli israeliani; secondo i familiari, erano impegnati nell’acquisto di viveri. Le autorità israeliane hanno trattenuto il corpo dell’uomo ucciso. Questo decesso porta a nove il numero di palestinesi uccisi dalle forze israeliane in Cisgiordania dall’inizio dell’anno.

In Cisgiordania, in vari scontri, sono stati feriti dalle forze israeliane altri 40 palestinesi, tra cui sette minori. Rispetto alle settimane precedenti, ciò rappresenta un netto calo, attribuito alle restrizioni di accesso imposte nel contesto della crisi COVID-19. La maggior parte dei [40] ferimenti (26) sono stati registrati nel villaggio di At Tuwani (Hebron), ad opera delle forze israeliane, intervenute in seguito a scontri tra residenti e coloni israeliani che, in precedenza, avevano fatto irruzione nel villaggio [vedi i dettagli in un paragrafo successivo]. Sei degli altri ferimenti sono stati registrati a Kafr Qaddum (Qalqiliya), nel corso delle manifestazioni settimanali contro l’espansione degli insediamenti e le restrizioni di accesso. Dei 40 feriti, 24 sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeni, 7 sono stati aggrediti fisicamente, 6 sono stati colpiti da proiettili di gomma e 3 da proiettili di armi da fuoco.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 72 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 64 palestinesi, tra cui dieci minori. 21 di queste operazioni hanno avuto luogo a Hebron (di cui 13 nella zona H2 della città sotto controllo israeliano) e 20 a Gerusalemme Est. Il numero complessivo di operazioni è diminuito di quasi il 30%, rispetto alla media quindicinale registrata dall’inizio dell’anno.

A Gaza, il 27 marzo, un gruppo armato palestinese ha lanciato un missile contro Israele e le forze aeree israeliane hanno effettuato un attacco aereo su Gaza. Non sono state riportate vittime, ma, a quanto riferito, sono state danneggiate strutture militari nel nord di Gaza.

In almeno 22 occasioni, per far rispettare le restrizioni di accesso alle aree di Gaza adiacenti alla recinzione perimetrale israeliana ed a quelle di mare al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco: non sono stati registrati danni. In due di questi episodi, due palestinesi sono rimasti feriti: un pescatore ed un uomo che avrebbe tentato di infiltrarsi in Israele; inoltre, sono state confiscate alcune reti da pesca. In un caso, ad est di Khuzaa (Khan Younis), le forze israeliane sono entrate a Gaza ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

Nel contesto della crisi COVID-19, le autorità israeliane hanno ulteriormente limitato l’accesso dei palestinesi a Gerusalemme Est ed alla “Seam Zone”, [cioé i lembi di] territorio palestinese chiuso tra la Linea Verde e la Barriera; ai palestinesi residenti in questa zona sono stati bloccati tutti i normali permessi che consentivano loro di raggiungere il resto della Cisgiordania [attraversando la Barriera]. Ai residenti che forniscono servizi essenziali sono stati concessi permessi speciali, mentre l’accesso per i casi di emergenza deve essere richiesto quando necessario. Allo stesso modo, con poche eccezioni, sono stati sospesi tutti i permessi che concedevano agli agricoltori della Cisgiordania di attraversare la Barriera per accedere ai loro terreni posti nella suddetta area [“Seam Zone”]. Anche per i pazienti sottoposti a cure mediche è stato bloccato l’accesso negli ospedali di Gerusalemme Est; ad eccezione dei casi di emergenza e dei malati di cancro.

Nello stesso contesto [crisi COVID-19], l’uscita delle persone da Gaza verso Israele (incluso il passaggio in Cisgiordania) e verso l’Egitto, è stata in gran parte sospesa. Dal 12 marzo, il valico di Erez, controllato da Israele, è stato chiuso per tutti i titolari di autorizzazioni, compresi oltre 5.000 lavoratori e commercianti giornalieri; è consentito solo il passaggio per i casi di emergenza medica e per i pazienti oncologici. Dal 15 marzo è stata bloccato il passaggio in uscita attraverso il valico di Rafah, controllato dall’Egitto.

In Area C della Cisgiordania, per mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 20 strutture di proprietà palestinese, sfollando due persone e causando ripercussioni su altre 170 [segue dettaglio]. A Ibziq, una Comunità beduina nella valle settentrionale della Giordania, le autorità hanno demolito una casa e sequestrato otto tende fornite come aiuto umanitario: quattro di queste tende dovevano essere utilizzate come rifugi temporanei, durante le evacuazioni imposte ai residenti per consentire le esercitazioni militari israeliane; le altre quattro erano utilizzate come moschea e clinica. Le altre demolizioni hanno interessato strutture legate al sostentamento in cinque Comunità. Uno di questi casi si è verificato nel villaggio di Deir Ballut (Salfit), dove è stato demolito un locale ad uso agricolo, mentre una cisterna d’acqua, finanziata da donatori, è stata danneggiata in base all’ “Ordine militare 1797” che prevede la demolizione o il sequestro di strutture senza licenza e quindi considerate “nuove”. A partire dalla dichiarazione del 5 marzo, relativa allo stato di emergenza COVID-19 nei Territori occupati, le autorità israeliane hanno demolito (o costretto le persone ad autodemolire) o sequestrato 40 strutture, sfollando 26 palestinesi e creando ripercussioni diverse, per entità e tipo, su altri 260.

Almeno 16 attacchi da parte di coloni israeliani hanno provocato il ferimento di cinque palestinesi e gravi danni materiali [segue dettaglio]. Tale numero di attacchi rappresenta un aumento del 78% rispetto alla media quindicinale di episodi similari registrati dall’inizio del 2020 . In due casi separati, accaduti alla periferia dei villaggi di Umm Safa ed Ein Samiya (entrambi a Ramallah), gruppi di coloni israeliani hanno aggredito due palestinesi, in un caso con un’ascia e nell’altro con un martello, ferendoli gravemente. Altri due pastori sono stati aggrediti e feriti fisicamente (in un caso, da un cane sguinzagliato da coloni), mentre pascolavano le pecore nei pressi di Ein al Hilweh (Tubas) e At Tuwani (Hebron). Quest’ultima Comunità ha anche subìto un’incursione di coloni che ha innescato successivi scontri con le forze israeliane (vedi sopra). Il villaggio di Burqa (Nablus) ha assistito a cinque episodi separati in cui coloni dell’insediamento di Homesh hanno fatto irruzione nella Comunità, aggredendo fisicamente e ferendo un contadino, lanciando pietre contro veicoli, sradicando alberi e vandalizzando strutture. L’insediamento colonico di Homesh era stato evacuato nel 2005, ma è stato ripopolato negli ultimi anni. Anche nei villaggi di Al Mughayyir (Ramallah) e Khashem ad Daraj (Hebron), gruppi di coloni hanno fatto irruzione, tagliando le gomme di numerosi veicoli e rubando tubature per l’acqua. Inoltre, coloni israeliani hanno sradicato 100 ulivi di proprietà palestinese piantati vicino all’area di insediamento colonico di Gush Etzion (Betlemme). In due episodi verificatisi nella zona H2 della città di Hebron, controllata da Israele, coloni israeliani hanno rubato o danneggiato telecamere di sorveglianza in una casa e in una scuola, entrambe oggetto della violenza dei coloni.

Un israeliano, conducente di un autobus, è stato ferito su una strada vicino al villaggio di Kisan (Betlemme), in seguito al lancio di pietre contro il suo veicolo ad opera di palestinesi. Secondo una ONG israeliana, altre otto auto israeliane, che viaggiavano su tangenziali vicino ai governatorati di Ramallah e Nablus, hanno subito danni per lancio di pietre.




Il blocco di Israele contro il coronavirus intralcia il lavoro per i diritti umani, ma non i soprusi

Judith Sudilovsky

31 marzo 2020 – +972

Le associazioni per i diritti umani segnalano che le direttive per l’emergenza di Israele stanno rendendo più difficile monitorare e proteggere i diritti dei palestinesi durante la pandemia

Alcune associazioni per i diritti umani palestinesi ed israeliane affermano che le direttive d’emergenza emanate dalle autorità israeliane, che con la scusa del coronavirus vietano la libertà di movimento e altre attività, stanno rendendo più difficile monitorare, documentare violazioni israeliane dei diritti umani palestinesi e difendere da esse in vari aspetti della vita.

Stiamo ancora monitorando casi, ma le nostre ricerche non sono in grado di essere presenti e documentare nel suo complesso l’area,” dice Rania Muhareb, ricercatrice giuridica e responsabile della sensibilizzazione presso Al-Haq, un’organizzazione palestinese per i diritti umani con sede a Ramallah. “È molto difficile dire se ci sono più o meno incidenti, per la semplice ragione che in questa situazione è più complicato avere tutte le informazioni con la rapidità di sempre.”

Le violazioni, spiega Muhareb, includono la continua confisca di terre e i progetti di costruzione di colonie israeliane e della barriera di separazione nella Cisgiordania occupata; la violenza contro i contadini palestinesi; incursioni e arresti in città e villaggi palestinesi; demolizioni di case.

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Queste violazioni evidenziano un tentativo diffuso e sistematico di compromettere i diritti dei palestinesi durante un’emergenza sanitaria pubblica di portata internazionale,” afferma. Nonostante la grave crisi, “Israele continua ad avere il tempo di portare avanti queste azioni illegali.”

Muhareb evidenzia un incidente del 19 marzo nel villaggio di Sawahra Al-Sharqiya, a Gerusalemme est, in cui i bulldozer israeliani hanno distrutto una serie di edifici, compreso un recinto per le pecore, ma che non si può documentare a causa del divieto di muoversi.

Aggiunge che nella zona attorno a Nablus è continuata anche la violenza dei coloni. Il 17 marzo un gruppo di coloni ha attaccato una casa palestinese nel villaggio di Burin; secondo le persone che hanno seguito l’incidente, invece di bloccare i coloni i soldati israeliani hanno sparato proiettili ricoperti di gomma, bombe assordanti e lacrimogeni contro i palestinesi. Tre giorni dopo, il 20 marzo, a sud di Jenin i coloni hanno gravemente ferito il contadino Ali Musafa Zouabi.

Allo stesso modo l’associazione israeliana per i diritti umani Yesh Din ha riferito di violenti attacchi dei coloni che la scorsa settimana hanno ferito gravemente contadini e pastori palestinesi. I coloni sono arrivati da Halamish, Homesh (una ex-colonia che è stata demolita, ma in cui gli israeliani sono rimasti illegalmente), e Kochav Ha Shahar. Nessuno dei coloni è stato arrestato.

Muhareb afferma che i soldati delle IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.] non hanno l’autorità di arrestare i cittadini israeliani in Cisgiordania. Al contrario, la scorsa settimana l’esercito ha arrestato parecchi palestinesi nella città vecchia di Jenin, a Qalqiliya e nei pressi di Nablus.

In un comunicato l’ufficio del portavoce delle IDF ha detto che le IDF “continuano l ‘attività operativa, che include l’interruzione di sospette attività terroristiche in base alle necessità operative e alle valutazioni aggiornate della situazione. Durante gli arresti i militari, così come i detenuti, sono protetti secondo le necessità operative.”

Non si può passare sopra diritti fondamentali”

In base alle nuove regole riguardanti la pandemia entrate in vigore il 15 marzo, questi prigionieri devono essere tenuti in quarantena per 14 giorni prima di poter essere interrogati. Il ministero israeliano della Sicurezza Pubblica ora può vietare le visite dei familiari per arrestati e detenuti e limitare i colloqui dei prigionieri con un avvocato solo a conversazioni telefoniche, afferma Sahar Francis, direttrice dell’ONG palestinese Addameer – Associazione per l’Appoggio e i Diritti Umani dei Detenuti.

L’esercito israeliano sta ancora arrestando persone pur sapendo che non le può interrogare, per cui le mette in isolamento per 14 giorni. È una violazione dei diritti fondamentali dei detenuti,” afferma.

Da due settimane o più hanno completamente chiuso tutte le prigioni e le strutture per la detenzione. (I prigionieri) non hanno contatti con i loro familiari e gli avvocati possono parlare con loro solo quando è prevista un’udienza in tribunale sul loro caso. Ci sono 5.000 prigionieri totalmente isolati dal mondo esterno.”

La portavoce del servizio carcerario israeliano ha fatto notare che le nuove regole sono state applicate in tutte le prigioni israeliane, indipendentemente dalle ragioni per cui i prigionieri vi sono reclusi.

Mantenerli in salute, tenere lontano il coronavirus, ora questo è il nostro unico obiettivo,” afferma. “Si spera che in breve tempo, quando ciò sarà finito, le cose torneranno come prima. Mantenerli in salute è nel nostro interesse più di qualunque altra cosa.”

La portavoce sostiene che le prigioni hanno fornito informazioni a tutti i detenuti in varie lingue, compreso l’arabo, ed hanno disinfettato le loro strutture. Stanno anche seguendo le direttive del ministero della Sanità di incrementare i turni di lavoro del personale carcerario fino a 96 ore, in modo che possano ridurre gli spostamenti dentro e fuori le prigioni.

Finora non abbiamo alcun prigioniero con il coronavirus, e speriamo che così continui ad essere fino alla fine della crisi,” afferma. “Non sappiamo se sia possibile, ma stiamo facendo del nostro meglio.”

Eppure, dice Francis di Addameer, ci sono preoccupazioni per la salute dei prigionieri palestinesi a causa delle loro condizioni di sovraffollamento. I prigionieri hanno anche raccontato che non gli è stato fornito alcun materiale sanitario speciale e che non è stata presa nessun’altra precauzione da parte delle autorità carcerarie.

Il 26 marzo Addameer, insieme ad Adalah – il Centro Giuridico per i Diritti delle Minoranze in Israele – e l’avvocato Abeer Baker hanno chiesto a nome del detenuto Kafri Mansour alla Corte Suprema israeliana di annullare le direttive d’emergenza nelle prigioni.

Pur riconoscendo la necessità di proteggere la salute dei reclusi, il ricorso sostiene che il governo israeliano non ha l’autorità giuridica di imporre il divieto alle visite di avvocati e familiari, che “violano in modo pesante e sproporzionato i diritti dei prigionieri”, in particolare dei minorenni. I ricorrenti accusano anche il fatto che le restrizioni impediscono anche ai prigionieri di riferire di qualunque violazione dei diritti nella prigione.

Il ricorso descrive anche come una conversazione tra l’avvocato Abeer Baker e un prigioniero sia stata trasmessa da altoparlanti in presenza delle guardie della prigione e di altri detenuti, violando la riservatezza tra avvocato e cliente.

Le sfide che questo stato d’emergenza pone alle autorità israeliane non possono consentire loro di passare sopra fondamentali diritti umani,” afferma l’avvocato di Adalah Aiah Haj Odeh. “Le leggi internazionali impongono che Israele debba riconoscere il diritto dei prigionieri e dei detenuti alle visite con i familiari, a consultarsi con gli avvocati e a rivolgersi ai tribunali.”

Arrestano come al solito i minorenni, come se non ci fosse il virus”

Nel contempo nel villaggio di Issawiya, a Gerusalemme est, gli abitanti affermano di aver sperato che l’attenzione sulla pandemia riducesse le incursioni e i pattugliamenti della polizia israeliana messi in atto in modo aggressivo nei loro quartieri dalla scorsa estate.

Invece, sostengono, tali azioni sono continuate. Blocchi stradali della polizia stanno ancora provocando lunghi ingorghi del traffico; scontri con i giovani comportano l’uso di lacrimogeni, granate assordanti e proiettili ricoperti di gomma, e vengono effettuati arresti nella totale inosservanza delle norme del governo sul coronavirus, mettendo in pericolo gli abitanti palestinesi.

Pensavamo che il coronavirus avrebbe contribuito a fermare le cose, ma non è cambiato niente,” dice Muhammad Abu Hummus, un attivista politico di Issawiya. “Al solito, arrestano minorenni come se non ci fosse nessun virus. Ogni giorno (la polizia) va in giro senza mascherine e senza guanti. Altrove forse aiutano la gente, ma a Issawiya portano solo lacrimogeni e balagan (disordine o confusione).”

Il portavoce della polizia Micky Rosenfeld sostiene che la presenza della polizia nel villaggio fa parte del normale pattugliamento in tutti i quartieri di Gerusalemme intrapreso specificamente nel contesto dell’epidemia di coronavirus, inteso a garantire che gli abitanti rimangano in casa.

Non vengono effettuate incursioni, solo normali attività di polizia,” dice. “Se gli abitanti vogliono protestare e fare ritorsioni contro la polizia israeliana è un loro problema. La polizia sta pattugliando tutti i quartieri e mettendo in atto le nuove norme per tenere per quanto possibile le persone al sicuro in casa, per il loro stesso bene e la loro salute.”

Tuttavia in un rapporto del 19 marzo l’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ha chiesto perché la polizia abbia scelto questo momento per incrementare quella che descrive come una punizione collettiva degli abitanti del villaggio, nonostante “una crisi senza precedenti che richiede…misure estreme di isolamento sociale.”

La presenza della polizia nel villaggio provoca scontri, dice B’Tselem, che sono già abbastanza problematici durante periodi normali, ma ancor più durante la pandemia, quando riunirsi in gruppo può diffondere il virus.

La violenza della polizia contro i palestinesi a (Issawiya), ormai una caratteristica nella vita del quartiere, è illegale e non può essere giustificata neppure come usuale routine dell’occupazione,” dice B’Tselem nel suo rapporto. “La condotta della polizia danneggia la sicurezza pubblica (compresa la salute dei poliziotti) e viola le linee guida sanitarie sull’isolamento sociale.”

B’Tselem aggiunge: “Il fatto che le autorità israeliane siano indifferenti alla vita degli abitanti (di Issawiya), compresi bambini ed adolescenti, non è affatto una novità. Eppure continuare e persino accentuare simile comportamento durante una pandemia è una manifestazione particolarmente vergognosa di questa politica.”

Un altro attivista del villaggio, che ha chiesto di rimanere anonimo per la sua sicurezza personale, ha detto a +972 di aver dovuto portare urgentemente la scorsa settimana sua figlia di sette mesi all’ambulatorio medico del villaggio dopo che la polizia durante uno scontro con giovani palestinesi ha utilizzato lacrimogeni che sono penetrati in casa sua.

La situazione è terribile,” afferma. “Ovviamente ho paura. Perché mettermi in una situazione per cui devo portare mia figlia all’ambulatorio in tempi di coronavirus?”

Judith Sudilovsky è una giornalista indipendente che da 25 anni si occupa di Israele e dei Territori Palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Celebrare la Giornata della Terra nella Palestina del blocco

Yara Hawari

30 marzo 2020 Al Jazeera

Israele sta approfittando della crisi COVID-19 per impadronirsi di più terra palestinese, ma i palestinesi resisteranno

Quarantaquattro anni fa ad oggi, la polizia israeliana uccise sei cittadini palestinesi israeliani mentre protestavano contro l’espropriazione da parte del governo israeliano di migliaia di acri di terra palestinese in Galilea. Da allora, il 30 marzo è riconosciuto come La Giornata della Terra ed è una data importante nel calendario politico palestinese.

Quest’anno i palestinesi celebreranno la Giornata della Terra a casa, nel pieno della pandemia di COVID-19 che ha messo gran parte delle popolazioni del mondo in isolamento e coprifuoco. Essere confinati in casa e in villaggi e città non è un’esperienza nuova per i palestinesi, forse è per questo che in così tanti gestiscono la cosa senza problemi.

In effetti, i palestinesi in Cisgiordania sono confinati in quel che rimane di bantustan collegati tra loro solo da strade controllate dal regime israeliano, mentre i loro fratelli e sorelle a Gaza vivono in una prigione a cielo aperto ritenuta “invivibile” dalle Nazioni Unite. La maggior parte dei palestinesi che vivono al di là della “Linea verde” hanno la cittadinanza israeliana ma vivono in ghetti urbani e rurali.

Inoltre i palestinesi sono separati dai loro fratelli e sorelle arabi, poiché a molti di loro è impedito di viaggiare nel mondo arabo sia perché i loro documenti non consentono di farlo (nel caso di palestinesi con cittadinanza israeliana) sia perché sono soggetti a divieti di viaggio.

Come parte della risposta al COVID-19, il regime israeliano ha imposto ulteriori misure che limitano i movimenti ai palestinesi. La città di Betlemme è stata messa in sicurezza, e i varchi verso Gaza e la Cisgiordania sono stati chiusi. Ai lavoratori palestinesi che lavorano in Israele è anche stato detto di restare per un periodo di tempo indefinito in sistemazioni scadenti e poco igieniche o di rinunciare al lavoro e rimanere in Cisgiordania.

L’Autorità Nazionale Palestinese ha imposto un coprifuoco e istituito checkpoint tra villaggi e città per limitare il movimento delle persone. Le aziende sono state chiuse, ad eccezione di supermercati e farmacie.

Nel frattempo, Israele continua le sue pratiche di rimozione dei palestinesi dalla loro terra, sfruttando persino l’isolamento dovuto alla pandemia per farlo. A Gerusalemme, dove c’è uno sforzo concertato per ebraicizzare i quartieri e ridurre il numero di abitanti palestinesi, le demolizioni di case palestinesi continuano nonostante l’epidemia. Per giustificare la loro demolizione, il regime israeliano afferma che quegli edifici sono illegali, ma ai palestinesi vengono costantemente negati i permessi di costruzione.

Le demolizioni sono usate anche come metodo di punizione collettiva per le famiglie dei prigionieri politici palestinesi, in particolare in Cisgiordania. Nel mezzo dell’attuale pandemia, questa continua e crudele pratica rende assurdi gli appelli delle autorità israeliane a “rimanere a casa”.

Allo stesso modo, la costruzione di insediamenti illegali in Cisgiordania non si è fermata e si teme che in queste circostanze l’annessione de jure di molte aree sarà anche più veloce, specialmente visto che Benjamin Netanyahu è di nuovo nella posizione di guidare il prossimo governo.

Già la scorsa settimana ci sono stati tre episodi in cui gli insediamenti israeliani illegali hanno raso al suolo il territorio palestinese e c’è stato un aumento generale degli attacchi contro le proprietà palestinesi.

All’inizio di questo mese, i palestinesi del villaggio di Beita vicino a Nablus hanno organizzato un sit-in per cercare di proteggere la loro terra dai furti dei coloni. Le forze di sicurezza israeliane sono arrivate al gran completo per difendere i coloni e nel corso degli eventi hanno sparato alla testa il quindicenne Mohammed Hammayel, uccidendolo all’istante.

Molti abitanti della Palestina storica sono preoccupati che Israele userà l’epidemia COVID-19 come scusa per mantenere le nuove misure restrittive anche quando la pandemia sarà finita e anche che impedirà ai palestinesi di opporsi al furto di terra. In un momento in cui il mondo si concentra esclusivamente sulla pandemia e il regime israeliano ha il pieno sostegno dell’amministrazione americana per fare ciò che vuole, un aggressivo espansionismo israeliano sembra inevitabile.

Eppure, nel corso dei decenni, i palestinesi hanno mostrato una forza, un coraggio e un sumud (determinazione) incredibili di fronte a grandi avversità. Se l’espansionismo di insediamento dei coloni israeliani non si ferma, non cessa nemmeno la perseveranza palestinese. Come scrisse il poeta palestinese Tawfiq Ziyad:

A Lidda, a Ramla, in Galilea,

resteremo

come un muro sul vostro petto,

e nelle vostre gole

come un frammento di vetro,

una spina di cactus,

e nei vostri occhi

una tempesta di sabbia.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Yara Hawari è borsista esperta di politica palestinese per Al-Shabaka, rete politica palestinese.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




L’epidemia di coronavirus al tempo dell’apartheid

Osama Tanous

24 Marzo 2020 – Al Jazeera

Mentre il mondo invoca solidarietà, i palestinesi non se ne aspettano alcuna dai loro occupanti

Mentre il numero di infezioni e decessi per COVID-19 si moltiplica di giorno in giorno, ci sono sempre più appelli in tutto il mondo affinché le persone dimostrino solidarietà e e si prendano cura gli uni degli altri. Ma per il governo israeliano non esiste solidarietà.

Appena sono state rilevate le prime infezioni da coronavirus, le autorità israeliane hanno dimostrato di non avere alcuna intenzione di alleggerire l’apartheid e far sì che i palestinesi siano in grado di affrontare l’epidemia in condizioni più umane.

La repressione è continuata, con le forze di occupazione israeliane che hanno usato l’epidemia come scusa per aumentare la presenza della polizia, che continua a fare irruzioni in alcune comunità come il quartiere Issawiya a Gerusalemme est, a demolire case come nel villaggio di Kafr Qasim, e a distruggere i raccolti delle comunità beduine nel deserto del Naqab.

Nonostante quattro prigionieri palestinesi risultino positivi al COVID-19, il governo israeliano ha finora rifiutato di accogliere gli appelli e liberare i 5.000 palestinesi (inclusi 180 minori) che attualmente detiene nelle carceri. Non c’è segno nemmeno che possa essere prima o poi revocato il blocco della Striscia di Gaza, che ha decimato i servizi pubblici.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sta anche cercando di escludere il partito Lista Unita, per lo più palestinese, dalla formazione del governo di unità nazionale di contrasto all’epidemia, definendo i suoi membri “sostenitori del terrore”.

E intanto le autorità israeliane si sono affrettate a descrivere i palestinesi come portatori del virus, minaccia per la salute pubblica.

All’inizio di marzo, quando il Ministero della Sanità palestinese ha annunciato la conferma dei primi sette casi di coronavirus (causa della malattia COVID-19) nel territorio palestinese occupato, il Ministro della Difesa israeliano Naftali Bennett ha rapidamente chiuso la città di Betlemme, dove si registravano tutti i casi.

Ovviamente la preoccupazione non era per la salute e la sicurezza dei palestinesi in città, ma piuttosto la paura che infettassero gli israeliani. Il vicino insediamento di Efrat – dove erano state confermate altre infezioni, ovviamente – non era stato al momento bloccato.

Poco dopo, il Ministero della Sanità ha rilasciato una dichiarazione in cui consigliava agli israeliani di non entrare nei territori palestinesi occupati.

La scorsa settimana, Netanyahu ha chiesto alla “popolazione di lingua araba” di seguire le istruzioni del Ministero della Sanità, sostenendo che esiste un problema di disobbedienza fra i palestinesi. Nessuna preoccupazione è stata espressa in merito ad alcuni membri della popolazione ebraica di Israele, che si è recisamente rifiutata di chiudere scuole e attività religiose.

Questo atteggiamento nei confronti dei palestinesi non è certo nuovo. Gli scritti dei primi coloni sionisti europei sono pieni di pregiudizi razzisti sull’igiene e sulle condizioni di vita degli arabi; la minaccia di malattie provenienti dalla popolazione palestinese è stata una iniziale giustificazione dell’apartheid.

Oltre alla secolare repressione e discriminazione, durante l’epidemia di COVID-19 i palestinesi dovranno affrontare un’altra conseguenza dell’occupazione e dell’apartheid: un sistema sanitario distrutto.

Le origini del malfunzionamento risalgono all’era del mandato, quando gli inglesi scoraggiarono la nascita di un settore sanitario gestito dai palestinesi. La popolazione palestinese (principalmente nelle zone urbane) era servita dai numerosi ospedali istituiti dai colonialisti britannici Nel frattempo, i coloni ebrei furono autorizzati a istituire un proprio sistema sanitario, finanziato generosamente dall’estero e gestito autonomamente rispetto al mandato.

Durante la Seconda Guerra Mondiale alcuni missionari se ne andarono e chiusero le loro cliniche e, dopo il 1948, gli inglesi si ritirarono, lasciando dietro di sé un’infrastruttura sanitaria mal funzionante. Nel 1949, l’Egitto annetteva Gaza e l’anno successivo la Giordania fece lo stesso con la Cisgiordania. Nel corso dei successivi 17 anni, Il Cairo e Amman hanno provveduto alla popolazione palestinese che viveva sotto il loro dominio, ma in realtà non hanno mai istituito un sistema sanitario efficiente.

L’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e il Lavoro per i Rifugiati Palestinesi in Medio Oriente, ha dovuto aumentare i propri servizi, fornendo assistenza sanitaria di base, mentre i palestinesi hanno iniziato a costruire una rete di strutture sanitarie filantropiche.

Dopo la guerra del 1967 e l’occupazione israeliana della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, Israele in quanto potenza occupante è divenuto legalmente responsabile dell’assistenza sanitaria dei palestinesi, ma non sorprende che non abbia fatto nulla per incoraggiare lo sviluppo di un forte settore sanitario. Per chiarire: nel 1975, il budget stanziato per l’assistenza sanitaria in Cisgiordania era inferiore a quello annuale di un ospedale israeliano.

Nel 1994 è stata creata l’Autorità Nazionale Palestinese, che ha assunto la responsabilità dei servizi. Inutile dire che l’eterna occupazione e il fatto che il bilancio dell’Autorità dipenda da donatori stranieri e dai capricci del governo israeliano, nonché dalla corruzione dei funzionari dell’ANP, non ha permesso al settore sanitario palestinese di migliorare.

Come risultato, se doveste entrare oggi in un ospedale palestinese in Cisgiordania, rimarreste colpiti dal sovraffollamento dei pazienti, dalla carenza di materiali, dalle attrezzature inadeguate e da infrastrutture e condizioni igieniche scadenti. I medici che ci lavorano hanno ripetutamente protestato contro le misere condizioni di lavoro nei loro ospedali, recentemente nel febbraio di quest’anno, ma senza esito.

Con solo 1,23 posti letto ogni 1.000 persone, 2.550 medici che ci lavorano, meno di 20 specialisti in terapia intensiva e meno di 120 ventilatori in tutti gli ospedali pubblici, la Cisgiordania occupata si trova di fronte al disastro della sanità pubblica se le autorità non contengono la diffusione di COVID-19.

La situazione in Cisgiordania può sembrare desolante, ma quella nella Striscia di Gaza è semplicemente catastrofica. Le Nazioni Unite hanno annunciato che la Striscia sarebbe stata invivibile nel 2020. Siamo nel 2020 e gli abitanti della Striscia di Gaza – oltre alle disumane condizioni di vita – stanno ora affrontando anche l’epidemia di COVID-19, dopo che il 21 marzo sono stati confermati i primi casi.

Il blocco di Gaza imposto da Israele, Egitto e ANP ha portato il sistema sanitario sull’orlo del collasso, aggravato da ripetuti attacchi che hanno distrutto le strutture sanitarie e dal lento processo di ricostruzione che ha fatto seguito alle ripetute offensive militari su larga scala dell’esercito israeliano.

La popolazione di Gaza sta già affrontando condizioni terribili: la disoccupazione è al 44 % (61 % per i giovani); l’80 % della popolazione dipende da una qualche forma di assistenza straniera; il 97 % dell’acqua non è potabile; e il 10 % dei bambini ha un arresto nella crescita dovuto alla malnutrizione.

Le prestazioni sanitarie sono in costante calo. Secondo la ONG Assistenza Sanitaria per i Palestinesi, dal 2000 “c’è stato un calo del numero di letti ospedalieri (da 1,8 a 1,58), di medici (da 1,68 a 1,42) e infermieri (da 2,09 a 1,98) ogni 1.000 persone, con conseguente sovraffollamento e riduzione della qualità dei servizi”. Il divieto di Israele all’importazione di tecnologia per il possibile “duplice uso” ha limitato l’acquisto di attrezzature quali scanner a raggi X e radioscopi sanitari.

Le continue interruzioni di corrente minacciano la vita di migliaia di pazienti affidati alle attrezzature mediche, compresi i bambini nelle incubatrici. Gli ospedali mancano di circa il 40% delle medicine essenziali, e ci sono quantità insufficienti di materiale sanitario di base come siringhe e garze. La decisione nel 2018 dell’amministrazione Trump di interrompere i finanziamenti statunitensi all’UNRWA ha diminuito le capacità dell’ente di fornire assistenza sanitaria e permettere ai medici di eseguire interventi chirurgici complessi a Gaza.

I limiti del sistema sanitario di Gaza sono stati messi a dura prova nel 2018 durante la Grande Marcia del Ritorno, quando i soldati israeliani hanno sparato in modo indiscriminato sui palestinesi disarmati che protestavano vicino alla recinzione che separa la Striscia dal territorio israeliano. In quei giorni gli ospedali sono stati sopraffatti da feriti e morti e per mesi hanno lottato per fornire cure adeguate alle migliaia di persone ferite da proiettili veri, molte delle quali sono rimaste disabili a vita.

La Striscia di Gaza è una delle aree più densamente popolate del mondo, e soffre anche di gravi problemi alle infrastrutture idriche e igieniche. È chiaro che fermare la diffusione di COVID-19 sarà quasi impossibile. È anche chiaro che la popolazione, già logorata dalla malnutrizione, da un alto tasso di disabilità (a causa di tutti gli attacchi israeliani) e dal disagio psicologico dovuto alla guerra e alle difficoltà sarà molto più vulnerabile al virus: molti moriranno e il sistema sanitario probabilmente crollerà.

Quindi, ora che la Cisgiordania e Gaza affrontano potenziali catastrofi sanitarie nel mezzo di un’epidemia di COVID-19, la domanda è: che cosa farà Israele? Darà accesso al suo sistema sanitario ai palestinesi?

Un recente video diventato virale sui social media palestinesi può darci la risposta. Si vede un bracciante palestinese lottare per non soffocare sul ciglio di una strada ad un checkpoint israeliano vicino al villaggio di Beit Sira. Il suo datore di lavoro israeliano aveva allertato la polizia israeliana dopo averlo visto gravemente malato e sospettando che avesse il virus. É stato preso e scaricato al checkpoint.

Decenni di dominio coloniale, occupazione militare e ripetuti assalti letali hanno insegnato ai palestinesi a non aspettarsi alcuna “solidarietà” dal governo israeliano dell’apartheid. In questo, come nelle crisi precedenti, riusciranno a superarla con la loro proverbiale sumud (perseveranza).

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Osama Tanous è un pediatra di Haifa [in Israele, ndtr.] e sta conseguendo un master in Sanità Pubblica

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




L’isolamento della Cisgiordania non è iniziato con la pandemia del coronavirus

Lior Amihai 

11 marzo 2020 – +972 magazine

I principi che hanno guidato i governi israeliani durante 52 anni di occupazione sembrano caratterizzare la risposta al coronavirus nei territori occupati.

Lo scorso giovedì, con in pieno svolgimento sia il coronavirus che la crisi politica israeliana, il ministro della Difesa ad interim Naftali Bennett ha annunciato una chiusura militare totale di Betlemme, dopo che è stato confermato che un certo numero di abitanti della città ha contratto il COVID-19. Tre giorni dopo il ministero della Sanità ha annunciato che a chiunque sia stato a Betlemme, Beit Jala e Beit Sahour viene richiesto di mettersi in quarantena volontaria per due settimane.

Gli abitanti di quelle comunità non possono più entrare in Israele, benché molti di loro vi lavorino. Tra quanti ora si trovano in quarantena dopo essere stati nella zona di Betlemme ci sono alcuni dei miei colleghi dell’organizzazione per i diritti umani Yesh Din [“C’è la legge”, ong israeliana che intende difendere i diritti dei palestinesi nei territori occupati, ndtr.].

Domenica Bennett ha annunciato che, come parte della lotta contro il coronavirus, stava prendendo in considerazione la totale chiusura militare di tutte le città palestinesi in Cisgiordania. Tuttavia lunedì, in seguito a un incontro con vari ministri, generali ed altri rappresentanti del governo, Bennett ha fatto retromarcia rispetto alla sua dichiarazione ed ha deciso di non bloccare i territori dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Ordini simili di blocco e quarantena non sono stati imposti ai quartieri ebraici della zona di Betlemme come Gilo, che si trova nei pressi di Beit Jala, o Har Homa, vicino a Betlemme. Oltretutto gli abitanti di Ashkelon, Gerusalemme, Ariel e Petah Tikvah, tutte città con casi confermati di COVID-19, non sono stati sottoposti ad estesa chiusura militare né a quarantena (salvo che per quanti sono attualmente malati).

Nella colonia di Einav, nella Cisgiordania settentrionale, quattro persone sono risultate positive al coronavirus e altri 100 abitanti sono in quarantena. Si tratta di circa il 12% dei coloni, eppure, nel momento in cui scrivo, l’insediamento non è ancora stato chiuso.

Ciò che difficile da fare per gli israeliani sembra essere facile per milioni di palestinesi che vivono sotto il flagello dell’occupazione israeliana.

Nel contempo a quanto pare il ministero della Salute non ha tenuto conto del fatto che la Tomba di Rachele, un luogo di pellegrinaggio ebraico molto frequentato, si trova al centro di Betlemme. I visitatori del luogo per ora non sono sottoposti all’obbligo di auto-quarantena di due settimane per chiunque sia stato nella zona di Betlemme. La tomba, che, nonostante la sua posizione, è sul lato israeliano del muro di separazione, è protetta da un’entrata molto sorvegliata ed è vietata ai palestinesi. Lunedì notte in quel luogo si è tenuta una preghiera di massa per bloccare il coronavirus.

E martedì a coloni israeliani nella Hebron occupata è stato consentito di realizzare i loro festeggiamenti annuali di Purim in coordinamento con l’esercito israeliano. La decisione di consentire che questo evento avvenisse nel centro di Hebron è un’ulteriore dimostrazione dell’enorme differenza dei rapporti del governo israeliano con le due popolazioni che vivono nello stesso territorio.

I passi che il governo israeliano ha intrapreso per prevenire la diffusione del coronavirus non sono esagerati. Al contrario sembra che le misure prese finora siano riuscite ad impedire un’esplosione di casi nelle ultime settimane.

Ma bisognerebbe ricordare che lo Stato di Israele, l’esercito che controlla i territori [palestinesi] occupati e noi come società abbiamo la responsabilità, imposta dalle leggi internazionali e dagli obblighi etici, di proteggere l’incolumità, la sicurezza e la salute di tutte le persone sotto il controllo israeliano – comprese quelle che vivono sotto occupazione israeliana.

L’emergenza totale provocata dal coronavirus ha proposto un test allo Stato di Israele. I palestinesi non dovrebbero essere percepiti come una popolazione che può essere isolata dagli israeliani con chiusure, assedi, leggi differenziate e strade per evitarli. I rischi per la loro salute e qualità di vita ricadono principalmente su di noi, in quanto potere che ne è responsabile.

Le decisioni di imporre una chiusura militare totale sui territori [palestinesi] occupati (escludendo le colonie), o su alcune zone dei territori, non possono essere prese quando le principali considerazioni riguardino le implicazioni per la popolazione e l’economia israeliane, per esempio la mancanza di lavoratori edili e di risorse umane. Al contrario, queste decisioni devono prima rispondere “sì” alla domanda: verrebbero prese le stesse decisioni se la popolazione coinvolta fosse ebraica?

Inoltre i palestinesi che vivono in Cisgiordania sono già sottoposti durante tutto l’anno a una chiusura militare e alla grande maggioranza di loro è vietato entrare in Israele. Di solito ci sono alcune “eccezioni”, palestinesi che hanno permessi temporanei che consentono loro di entrare in Israele per lavorare. Tuttavia negli ultimi giorni anche a quelli con permessi di ingresso è stato vietato di entrare in Israele, a causa della festa di Purim – che, come per ogni importante festa ebraica, ha portato Israele a chiudere totalmente la Cisgiordania. E quei coloni israeliani che hanno celebrato Purim a Hebron hanno usufruito delle stesse strade che sono state chiuse ai palestinesi per un quarto di secolo.

Sembra che gli stessi principi che hanno guidato i governi israeliani per 52 anni di occupazione – con il suo allontanamento, occultamento e disumanizzazione dei palestinesi – continuino a guidare il governo di Benjamin Netanyahu durante una pandemia che cambia le carte in tavola. Eppure, in contrasto con queste linee guida, è diventato ancora più chiaro che lo spazio in cui viviamo sia una ragnatela umana che non può essere separata artificialmente. Questa pandemia può essere la nostra opportunità per dimostrare che non abbiamo dimenticato come si comportano gli esseri umani.

E forse, all’ombra del coronavirus, gli abitanti di Betlemme e di altre città sottoposte a chiusura militare saranno liberati da incursioni notturne, improvvisi posti di blocco, arresti arbitrari, spedizioni militari e scontri quotidiani con il potere occupante.

Lior Amihai è direttore esecutivo di Yesh Din.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Adolescente palestinese ucciso durante un tentativo del suo villaggio di difendere una montagna dai coloni israeliani

Yumna Patel 

11 marzo 2020 – Mondoweiss

Per i palestinesi della zona nord della Cisgiordania occupata mettere a rischio la vita per difendere la propria terra fa semplicemente parte dell’esistenza.

Innumerevoli palestinesi hanno pagato il prezzo più alto per aver tentato di respingere i coloni e i soldati dalle loro città, cittadine e villaggi. Mercoledì un altro palestinese si è aggiunto a questa lista.

Mercoledì il quindicenne Mohammed Abdel Karim Hamayel, ore dopo essere stato colpito dalle forze israeliane insieme a decine di altri giovani della sua cittadina di Beita, a sud di Nablus, è deceduto in seguito alle ferite.

Hamayel è stato colpito quando decine di soldati israeliani armati hanno invaso Jabal al-Arma, o la montagna di Al-Arma, nei dintorni di Beita, ed hanno iniziato a scontrarsi violentemente contro una folla di palestinesi che stavano facendo un sit-in sulla montagna.

A quanto pare i militari avrebbero usato proiettili veri, pallottole ricoperte di gomma e lacrimogeni per reprimere i manifestanti, che per settimane hanno inscenato dei sit in su al-Arma nel tentativo collettivo di scacciare i coloni che hanno cercato di prendere il controllo della montagna.

Informazioni ufficiali del ministero della Salute indicano che durante l’attacco oltre 100 palestinesi sono rimasti feriti, tra cui due in modo grave da proiettili veri.

Altre decine, compreso il ministro dell’ANP Walid Assaf, che si occupa della resistenza popolare contro il muro e le colonie in Cisgiordania, sono stati asfissiati e curati per aver inalato gas lacrimogeno.

Settimane di scontri

L’uccisione di Hamayel e la violenta repressione dei manifestanti di mercoledì mattina sono state il culmine di settimane di proteste sulla montagna e di scontri tra persone del luogo, soldati e coloni israeliani.

Circa due settimane fa coloni del notoriamente violento insediamento di Itamar hanno pubblicato un appello sulle reti sociali per occupare la montagna, che pensano sia un antico luogo religioso ebraico, e prenderne il controllo.

Dopo essere venuti a conoscenza dei progetti dei coloni, decine di uomini e giovani di Beita sono andati sulla montagna ed hanno eretto tende di protesta per rimarcare la loro presenza come deterrente contro i coloni.

Benché il gruppo di coloni non abbia ricevuto il permesso dell’esercito israeliano di andare sulla montagna, un piccolo numero di giovani coloni ha deciso di comunque proseguire.

C’erano circa 10 coloni e un reparto di soldati che sono venuti a proteggerli e a scortarli su per la montagna,” ha detto a Mondoweiss Minwer Abu al-Abed, un attivista del posto di 56 anni.

Secondo al-Abed, i soldati hanno inutilmente cercato di scortare i coloni sulla montagna, sparando lungo il percorso proiettili veri, pallottole ricoperte di gomma e lacrimogeni.

I coloni hanno tentato una conquista violenta della nostra terra, ma ovviamente loro (i soldati) erano là solo per sparare ai palestinesi,” dice al-Abed.

Video degli scontri, diventati virali sulle reti sociali palestinesi, mostrano gruppi di giovani palestinesi lanciare pietre contro i coloni e i soldati finché questi ultimi sono stati obbligati a lasciare la zona.

Nonostante quel giorno si siano registrati più di 90 feriti, il villaggio l’ha festeggiata come una vittoria. “Abbiamo fatto sapere che ci siamo e abbiamo difeso la nostra terra contro i coloni,” afferma al-Abed, aggiungendo orgogliosamente che “neppure una colonia è stata costruita sulla terra di Beita, cosa che attribuisce alla fermezza degli abitanti.

Tuttavia i coloni hanno fatto altri due tentativi di impossessarsi della montagna, ogni volta con maggior potenza di fuoco e l’appoggio dell’esercito israeliano.

Il 2 marzo un altro fallito tentativo ha portato al ferimento di decine di palestinesi, di cui due feriti da proiettili veri.

Il terzo tentativo, mortale, è avvenuto mercoledì [11 marzo] mattina, poche ore dopo che Israele ha compiuto una massiccia retata nel villaggio, e, benché i coloni non siano riusciti ad impossessarsi della montagna, è finito con la morte di un ragazzino.

Non lasceremo mai questa terra”

Scontri tra coloni e palestinesi, come l’ultimo tentativo di impossessarsi della terra di questi ultimi, non sono rari in Cisgiordania, soprattutto a Nablus.

Colonie come Yitzhar, Itamar e Brakha sono diventati nomi familiari nei vicini villaggi palestinesi, che affrontano continui attacchi dei coloni contro la loro terra, le loro attività agricole, il loro bestiame, le loro case e le persone.

Quindi, quando i coloni hanno messo gli occhi su al-Arma, gli abitanti di Beita non sono rimasti sorpresi. “La lotta per difendere al-Arma non è nuova,” dice al-Abed a Mondoweiss, aggiungendo che i coloni hanno tentato per decenni di occupare la cima della collina, addirittura fin dagli anni ’80. “Pensano che ci sia un sito ebraico sulla montagna e che ciò dia loro diritti su di essa,” sostiene. “Ma lì ci sono rovine cananee, che dimostrano il nostro legame con questa terra.”

Secondo al-Abed nel corso degli anni centinaia di abitanti di Beita sono stati arrestati, molti per le proteste a Jabal al-Arma. Altri due, dice, sono stati resi martiri mentre cercavano di difendere la cima della montagna.

Questa montagna non ha solo un significato storico per noi, ma è importante per la vita quotidiana della gente di Beita,” afferma al-Abed, aggiungendo che gli abitanti della cittadina non solo ne coltivano la cima, ma la usano anche per attività ricreative, picnic e grigliate in famiglia. “In quanto palestinesi non lasceremo mai questa montagna. La gente di Beita non cederà mai,” sostiene.

Sono da condannare Trump e Netanyahu

Mentre le cime che circondano Nablus sono costellate da decine di colonie e avamposti israeliani, buona parte della terra rubata ai palestinesi utilizzata per costruirli si trova nell’Area C – più del 60% della Cisgiordania sotto totale controllo israeliano – rendendo più facile ai coloni occuparla. Tuttavia, in base agli accordi di Oslo, Jabal al-Arma è designata come Area B, il che pone sotto l’autorità dell’ANP questioni come edilizia e accesso alle terre da coltivare.

Per anni gli abitanti del villaggio hanno creduto che il fatto che la montagna si trovi nell’Area B l’avrebbe difesa dall’occupazione da parte dei coloni.

Ma quando il ministro della Difesa israeliano Naftali Bennett ha attizzato i tentativi di estendere il controllo israeliano sull’Area B, la sensazione di sicurezza provata dagli abitanti è svanita.

Questi recenti tentativi dei coloni di impossessarsi di Jabal al-Arma sono chiaramente legati alle politiche del governo di destra israeliano,” dice al-Abed.

E a peggiorare le cose, nota al-Abed, la pubblicazione del piano di pace USA in gennaio ha solo ulteriormente imbaldanzito il movimento dei coloni in Cisgiordania.

Chi pensi abbia dato ai coloni e a Netanyahu il permesso di andare avanti con l’annessione e con tutti i loro piani?” chiede. “Lo ha fatto Trump. Quando ha reso pubblico il piano di pace ha detto ad Israele ‘prendi quello che vuoi’. Ed ora i palestinesi ne stanno pagando il prezzo.”

Yumna Patel è corrispondente dalla Palestina per Mondoweiss.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)