Una balbettante risposta ad un rifugiato palestinese

Gideon Levy

4 febbraio 2018,Haaretz

Una pesante ombra morale ha oscurato la fondazione di Israele ed i palestinesi hanno il diritto ad una riparazione per l’ingiustizia.

AMMAN – A me è sembrato che l’uomo tremasse quando ha chiesto di parlare. Sembrava agitato. Voleva solo chiedere: “Come vi sentite vivendo in Israele, sulla nostra terra e nelle nostre case?” Una kefiah sulle spalle (il solo nella stanza ad indossarla), è il proprietario di un’agenzia giordana di pubbliche relazioni, un uomo anziano con i capelli brizzolati. Gli organizzatori avevano esitato ad invitarlo. È conosciuto come l’estremista del gruppo. Io ero felice che fosse venuto. Dice che non aveva mai incontrato un israeliano nella sua vita. Sua moglie non c’era; non aveva trovato il coraggio di venire.

La sera di martedì scorso l’ampia sala dell’appartamento nel quartiere occidentale Al Rabieh di Amman era gremito di rifugiati palestinesi – quelli nati sull’altro lato del fiume Giordano. Si incontrano una volta a settimana, ogni volta in una casa diversa, anziani cittadini borghesi invecchiati comodamente nel loro esilio. Alcuni sono stati espulsi o sono fuggiti dal loro Paese da bambini nel 1948; altri lo hanno dovuto fare nel 1967. Da allora si sono fatti una loro vita; sono gente che si è costruita una vita da benestanti. Alcuni di loro leggono Haaretz in inglese. Per la maggior parte hanno dato un taglio al passato e sono andati avanti.

Ma nessuno ha dimenticato e forse nessuno ha neppure perdonato. In Israele non hanno mai capito la forza di questi sentimenti e quanto siano profondi. Si possono accusare i palestinesi di crogiolarsi nel passato, si può sostenere che hanno avuto un ruolo nel decidere del proprio destino – ma non si possono ignorare i loro sentimenti.

Non sono possibili paragoni storici: è difficile paragonare l’espulsione di nativi centinaia di anni orsono all’espulsione di un popolo che ricorda ancora la propria casa in cui ora vivono degli stranieri. Gli ebrei d’Europa e dei Paesi arabi hanno ottenuto una nuova patria ed alcuni di loro hanno ricevuto addirittura un risarcimento. Non vale nemmeno la pena di discutere il maldestro confronto con una manciata di coloni evacuati.

La domanda è sorta nella sala del defunto “artista nazionale” palestinese Ismail Shammout e della sua vedova, l’artista Tamam al-Akhal, risuonando tra i muri coperti di quadri. Per un attimo la cruciale domanda resta là, messa a nudo: Com’ è vivere sulla terra rubata ad altri?

Un penoso silenzio è caduto nella stanza. Alcuni si sono sentiti a disagio. Non è bello mettere così in imbarazzo i propri ospiti.

Non so se ci sia una risposta. Bisogna riconoscerlo. Per la destra israeliana, i nazionalisti e i razzisti, per quelli che credono che questa terra appartenga agli ebrei perché Abramo è passato di qui ed ha acquistato una grotta o perché dio lo ha promesso, non è un problema rispondere. Si può anche sostenere che gli ebrei hanno sempre sognato questa terra, ma il fatto è che non si sono mai preoccupati di stanziarsi qui in massa. Si potrebbe dire – giustamente – che gli ebrei non avevano dove fuggire durante l’Olocausto. Ma queste non sono risposte per l’artista Akhal, nella cui casa d’infanzia a Jaffa vive un’artista israeliana, una donna che molti anni dopo l’ ha cacciata via e non le ha neanche permesso di vedere la casa.

Chi ha posto la domanda l’ ha ribadita: “Voglio capire come vi sentite vivendo in Israele.” Io ho risposto che mi sento molto in colpa verso il suo popolo, e provo anche vergogna. Non solo per il 1948, ma soprattutto per quanto accaduto da allora, che è stato una diretta continuazione della linea ideologica dell’espulsione del 1948 e che non è mai cessata.

Poi gli ho parlato di mio padre, che è stato gettato tra le onde in una barca illegale di migranti e di mia madre, che è venuta in Israele attraverso ‘Youth Aliyah’ [organizzazione sionista che ha salvato migliaia di bambini ebrei durante il nazismo portandoli in Palestina, ndtr.]. Non avevano altro luogo in cui fuggire se non questo Paese, che all’epoca non era il loro. Ed io non ho dove andare, perché questo Paese è oggi anche il mio Paese. “Ma voi tutte le mattine nuotate in una piscina su una terra che non vi appartiene”, ha insistito l’uomo. Io sono stato zitto.

Quale dovrebbe essere la risposta? Per loro questa è la loro terra che gli è stata tolta con la forza. Non si può negarlo. Una pesante ombra morale ha oscurato la fondazione dello Stato, anche se ciò era inevitabile e persino giustificato. Dobbiamo imparare a convivere con questo. E soprattutto dobbiamo trarre l’unica conclusione che ne emerge con forza: i palestinesi hanno il diritto ad una riparazione per l’ingiustizia, attraverso l’inizio di un nuovo capitolo, costruito interamente sull’uguaglianza in questa terra.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Graffiti improntati all’odio sono comparsi nel villaggio in Cisgiordania della ragazzina palestinese: ‘Pena di morte per Ahed Tamimi’

Yotam Berger

2 febbraio 2018 Haaretz

Tamimi è stata incarcerata fin dal momento in cui è stata ripresa mentre schiaffeggiava due soldati israeliani nel suo villaggio lo scorso dicembre.

Fonti locali hanno riferito che giovedì notte sono stati scritti dei graffiti in ebraico all’entrata del villaggio di Nabi Saleh in Cisgiordania. Tra gli altri slogan, uno di essi diceva: “Nella Terra di Israele non c’è posto per la famiglia Tamimi.” Altri dicevano: “Saluti dall’unità di rappresaglia delle Forze di Difesa israeliane” e “Pena di morte per Ahed Tamimi.”

Tamimi, che è in carcere fino al termine dei procedimenti legali contro di lei, iniziati dopo che è stata ripresa mentre schiaffeggiava due soldati dell’esercito israeliano nel suo villaggio a dicembre, vive a Nabi Saleh con la sua famiglia. Il dipartimento di polizia di Giudea e Samaria (nomi storici della Cisgiordania, ndtr.) ha aperto un’inchiesta dopo aver ricevuto notizia dell’incidente.

Il padre di Tamimi, Bassem, venerdì mattina ha detto a Haaretz che “questa è un’ulteriore testimonianza che la società israeliana ha perso la ragione. Non ne siamo sorpresi. Per gente che ammazza i bambini, scrivere simili slogan non è eccessivo. Questa è la stessa gente che ha bruciato viva la famiglia Dawabsheh. Ovviamente si tratta di una nuova minaccia contro di noi. Chiaramente, chi invoca la pena di morte per Ahed Tamimi si considera giudice e giustiziere.”

“Noi non abbiamo sporto denuncia alla polizia, dal momento che non la riconosciamo”, ha aggiunto Bassem. “Hanno anche scritto che cacceranno la famiglia da Nabi Saleh, e noi diciamo – nessun problema, mandateci via. Noi possiamo tornare a Haifa e Jaffa e in tutti i luoghi da cui ci avete cacciati.”

Il villaggio di Nabi Saleh, con una popolazione di alcune centinaia di persone, si trova accanto alla colonia di Halamish. All’entrata c’è un checkpoint non presidiato e telecamere di sorveglianza. Gli abitanti hanno detto che gli slogan sono stati scritti a partire dall’ingresso verso il centro del villaggio, fino a poca distanza dalla casa della famiglia, che è in un vicolo.

L’arresto di Tamimi il mese scorso è stato prorogato fino al termine dei procedimenti legali contro di lei, come anche la detenzione di sua madre Nariman. Il giudice militare, Maggiore Haim Baliti, ha respinto le obiezioni della difesa contro la proroga, scrivendo che “l’entità delle sue azioni e della sua iniziativa, il livello di violenza contro militari che svolgevano il loro lavoro per fermare i disordini pubblici nel villaggio, tutto questo indica un livello di rischio che non lascia alternative al prolungamento della detenzione.”

Tamimi è accusata di aver aggredito un soldato in circostanze aggravate, di aver minacciato un soldato, di aver impedito le attività di un soldato, di istigazione e di lancio di oggetti contro una persona o una proprietà. Oltre all’incidente documentato in cui ha preso a pugni un soldato, è stata anche accusata di diversi episodi di lanci di pietre. Secondo l’accusa, Tamimi ha aggredito un maggiore ed un sergente maggiore vicino alla sua casa. Sua madre ha filmato l’aggressione e l’ha postata su Facebook. L’accusa sostiene che Tamimi ha spinto i soldati e li ha minacciati dicendo che li avrebbe presi a pugni se non se ne fossero andati, prendendoli a calci e colpendoli in faccia.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Politica, bugie e registrazioni audio

Omar Karmi

20 gennaio 2018, Electronic Intifada

Le ripercussioni del caotico lavoro di demolizione della soluzione dei due Stati da parte del presidente USA Donald Trump continuano.

Vi è invischiata una regione già in preda a caos e confusione. Vecchie certezze sono state sradicate e tradizionali alleati ed alleanze, alle quali il processo di pace forniva una copertura di comodo per non fare niente, sono stati sconvolti.

Il 14 gennaio persino Mahmoud Abbas, il leader dell’Autorità Nazionale Palestinese, finora così fiducioso in un processo della cui creazione e salvaguardia è stato determinante, è stato spinto a dichiarare che “oggi è il giorno in cui gli accordi di Oslo sono finiti.”

In un rabbioso discorso di due ore e mezza da Ramallah, egli ha annunciato poche conseguenze concrete e gli uomini del suo apparato inviati in seguito a spiegarle sono stati altrettanto vaghi (cosa mai può significare “congelare il riconoscimento di Israele”?).

Tuttavia la frustrazione era reale, e la sua descrizione dello stato delle cose – benché ovvia e in ritardo – esatta.

L’ANP è in effetti un’”autorità senza potere”; a Israele è sicuramente consentita – con la complicità dell’ANP, avrebbe dovuto aggiungere, ma non l’ha fatto – un’“occupazione senza nessun costo”; l’ambasciatore USA in Israele David Friedman è, in effetti, “un colono che si oppone al termine ‘occupazione’” e indubbiamente “un essere umano prepotente.”

Abbas ha avuto anche parole dure per i governi arabi, sostenendo che, se non offriranno ai palestinesi un “aiuto concreto”, possono “andare tutti all’inferno.”

Un problema si muove in Arabia

Non è un segreto che i Paesi arabi, soprattutto, ma non solo, quelli detti “moderati” che includono l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, l’Egitto e la Giordania – che sono definiti tali dai circoli occidentali, soprattutto per la loro posizione verso Israele – sono stati per lo più tutto fumo e niente arrosto quando si tratta di Palestina.

Tuttavia essi hanno anche e pubblicamente da tempo tenuto (per lo più) drastiche linee rosse: a parte i Paesi confinanti come Giordania ed Egitto, non ci saranno relazioni diplomatiche complete con Israele finché la “questione” palestinese non sarà risolta. E le ricette per questa soluzione devono includere una (vagamente definita) “soluzione giusta” del problema dei rifugiati, così come (precisata più chiaramente) la costituzione di uno Stato e l’indipendenza per i palestinesi su tutta la Cisgiordania e la Striscia di Gaza con capitale a Gerusalemme est.

Quest’ultima non è mai stata vista come una questione solamente palestinese, ma come più generalmente araba e musulmana. Di conseguenza, la risposta ufficiale alla dichiarazione di Trump a dicembre che Gerusalemme è la capitale di Israele è stata unanime e priva di ambiguità.

Il 13 dicembre l’Organizzazione della Cooperazione Islamica, composta da 57 membri, che include i Paesi arabi e musulmani del mondo, ha inequivocabilmente respinto come illegale la posizione del presidente americano su Gerusalemme e ha dichiarato capitale della Palestina Gerusalemme est.

Poi il 6 gennaio la Lega Araba ha annunciato che gli Stati arabi avrebbero intrapreso un’iniziativa diplomatica alle Nazioni Unite per chiedere il riconoscimento internazionale dello Stato palestinese entro i confini del 1967, con Gerusalemme est come sua capitale.

Fin qui, come molte altre volte. Stavolta, tuttavia, per almeno alcuni di questi Paesi, pare che questa non sia solo vuota retorica: è una totale menzogna.

Il nuovo ordine del mondo (arabo)

Prendete l’Egitto. Mentre l’incontro d’emergenza dell’OIC [Organizzazione della Cooperazione Islamica, ndt.] a Istanbul ha visto la partecipazione di alcuni importanti capi di Stato della regione, compreso il presidente turco che l’ospitava, Recep Tayyip Erdogan, così come del re di Giordania Abdullah e del presidente iraniano Hassan Rouhani, erano significative anche le assenze. Non erano presenti né il re dell’Arabia Saudita Salman (o il suo principe ereditario Mohammad bin Salman) né il presidente egiziano Abdulfattah al-Sisi.

Infatti, anche se il Cairo ha condannato la nuova posizione USA su Gerusalemme, un ufficiale dell’intelligence egiziana sarebbe stato registrato in audio mentre cercava di persuadere importanti personaggi della televisione egiziana a convincere i loro telespettatori ad accettarla, sostenendo in pratica che Ramallah è un posto altrettanto valido di Gerusalemme per stabilirvi la capitale.

Il Cairo ha negato l’informazione, il procuratore di Stato egiziano ha annunciato un’inchiesta sull’articolo del New York Times che ha fatto la denuncia e le personalità della televisione di cui sopra hanno da allora ritrattato alcuni dei commenti fatti in precedenza.

Ma il Times ha confermato le proprie informazioni e, nell’attuale clima politico, non suonano per niente false. E non ci dovrebbe essere alcun dubbio che quello che alcuni governi arabi stanno sostenendo in merito al destino di Gerusalemme evidenzi fino a che punto i dirigenti e governi arabi siano diventati vulnerabili alle pressioni esterne.

La debolezza degli Stati arabi corrisponde in generale ad una caratteristica in tutta la regione: scarsa capacità di governo come risultato di sistemi statali autocratici e clientelari che resistono alle idee che vengono da fuori ma dipendono dai finanziamenti e dalla protezione esteri o economie basate su una sola risorsa. Ne conseguono logicamente corruzione, nepotismo, servilismo e stagnazione, con – per parafrasare – il settarismo, l’ultima risorsa delle canaglie.

Gli ultimi anni di rivoluzioni, controrivoluzioni, guerre civili, guerre e invasioni nelle regioni arabe hanno anche visto la questione palestinese scivolare in fondo alla lista delle priorità e perdere il suo ruolo come sfogo sicuro per la rabbia popolare. E poi c’è l’Arabia Saudita.

Rivoluzione a Ryadh

L’assunzione di una posizione di rilievo del principe ereditario Mohammad bin Salman, spesso indicato come MBS, ha sconvolto la tradizionale politica regionale e scosso le antiche alleanze e certezze. Decisa a quanto pare a rivolgersi a viso aperto verso uno scontro con l’Iran, la posizione di Riad su altre questioni regionali è improvvisamente diventata imprevedibile.

Yemen, Libano, Siria ed Egitto hanno risentito a vari livelli dei freddi venti del cambiamento in quanto il nuovo potere a Riad sonda il terreno e persegue quelli che ha identificato come gli interessi sauditi, giusti o sbagliati, con energia incontenibile e in modi senza precedenti per l’Arabia Saudita. Sono presunte informazioni saudite sulla prospettiva finale dell’amministrazione Trump per un accordo di pace – qualcosa meno di uno Stato per i palestinesi, non basato sulle frontiere del 1967 e senza Gerusalemme – che questa settimana hanno spinto davvero Abbas a perdere il controllo e gli hanno fatto venire un colpo apoplettico.

Oltretutto fonti vicine ad Abbas hanno fatto sapere che, durante una recente visita, MBS ha fatto pressione sul leader dell’ANP perché accetti il piano di Trump, indicando che Riad ora attribuisce molta più importanza al potenziale aiuto di Israele contro l’Iran rispetto ad ogni pressione per i diritti dei palestinesi.

Per quanto audaci, simili pressioni, su Abbas e su altri, probabilmente falliranno, così come finora sono fallite le recenti avventure saudite in politica estera in altre parti della regione.

In parte, un simile clamoroso scostamento è un cambiamento decisamente troppo rapido da assorbire per i pigri sistemi dello Stato arabo, soprattutto di fronte alla disapprovazione profonda e generalizzata dell’opinione pubblica. E in parte, mentre ciò potrebbe funzionare solo nei Paesi del Golfo, isolati dal denaro, né Egitto né Giordania sono probabilmente in grado di collaborare, anche se i loro dirigenti lo volessero.

Quello che i soldi non possono comprare

Al momento l’Egitto è semplicemente troppo instabile per assorbire troppi sconvolgimenti del sistema. Ancora scosso dalla rivoluzione del 2011 e dalla controrivoluzione del 2013, il Cairo se la deve vedere anche con la contagiosa guerra civile nella vicina Libia, con tensioni in Sudan, con una disputa con l’Etiopia per una diga sul Nilo che potrebbe avere effetti drammatici in Egitto e con una sempre più sanguinosa rivolta nel Sinai.

Al-Sisi potrebbe voler tentare di adeguarsi alla pressione di USA e Arabia Saudita. Le umilianti registrazioni del capitano Ashraf al-Kholi che implora i suoi interlocutori di spiegare la differenza tra Gerusalemme e Ramallah suggeriscono che il Cairo ci ha provato. Semplicemente non può.

L’ultima cosa di cui Al-Sisi ha bisogno, con tutto il resto, è di essere accusato di abbandonare Gerusalemme e i palestinesi. E solo mercoledì il presidente egiziano si è sentito obbligato a ribadire la politica egiziana di lunga data a favore dei due Stati, che rivendica Gerusalemme est come capitale palestinese.

La Giordania ha a lungo dovuto conciliare gli interessi palestinesi e giordani – o sponda ovest ed est del Giordano – e lo ha fatto in gran parte con successo. Ma la destinazione favorita da ogni rifugiato nella regione è satura, impoverita e non disposta a patteggiare la propria custodia di Al-Aqsa [la Spianata delle Moschee a Gerusalemme, ndt.] e dei luoghi sacri cristiani di Gerusalemme per avere la responsabilità di più di due milioni di palestinesi scontenti e riottosi in aree non contigue della Cisgiordania, come prospettato da qualcuno nell’amministrazione Trump.

Infatti Amman ha già messo in chiaro il proprio malcontento, e si dice che avrebbe cacciato tre principi per essere stati troppo vicini a Riad.

I soldi non possono comprarti l’amore, ma ti possono comprare un sacco di dispiaceri. E il dispiacere è ciò che attende Abbas, Abdullah e al-Sisi se dovessero stare al gioco del piano di Trump, che è un buco nell’acqua.

Probabilmente MBS lo capirà presto. Ma a quel punto il gioco sarà completamente cambiato.

Omar Karmi è un ex corrispondente da Gerusalemme e da Washington, DC, per il giornale The National [“Il Nazionale”, giornale degli Emirati Arabi Uniti, ndt.].

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




La “soluzione dei due Stati” ha sempre e solo voluto dire un grande Israele che governa su un bantustan palestinese. Lasciamola perdere

Jeff Halper

18 gennaio 2018, Haaretz

Quando gli ebrei della sinistra “estrema” conducono una battaglia per uno Stato unico, sostenendo il solo orizzonte politico che non sia l’apartheid, gli ebrei USA ci attaccano – perché lottiamo per gli stessi valori democratici che essi apprezzano così tanto a casa loro

Nel suo editoriale su Haaretz (“Ciò che una ‘soluzione dello Stato unico’ significa realmente: l’apartheid sancito da Israele o un’eterna, sanguinosa guerra civile”) Eric Yoffie chiede: “Non ci sono là israeliani sensati – di sinistra, di destra e soprattutto di centro – che comprendano i pericoli (di una soluzione dello Stato unico)?”

Questa domanda potrebbe essere posta esattamente al contrario: cos’altro deve succedere prima che gli israeliani, di sinistra, di destra e di centro, finalmente capiscano che il loro governo ha già deliberatamente, sistematicamente e concretamente eliminato la soluzione dei due Stati?

Yoffie propone una falsa simmetria: una sinistra e una destra “estremiste” che sostengono entrambe, nei fatti o esplicitamente, un unico Stato bi-nazionale, mentre un presunto futuro governo israeliano incarnerebbe ancora una volta un’“orgogliosa, liberale e democratica patria ebraica”, che viva in pace accanto ai suoi vicini palestinesi in una soluzione dei due Stati.

Questa è un’opinione, a dir poco, distorta. Di fatto ogni governo israeliano dal 1967 non è mai stato all’altezza di quegli orgogliosi valori liberali, perseguendo un Israele allargato che dominasse su un bantustan palestinese monco, anche se lo hanno fatto spacciandolo per una “soluzione dei due Stati”.

A poche settimane dall’inizio dell’occupazione nel 1967, il piano Allon (sotto il governo del primo ministro laburista Levi Eshkol) aveva già proposto che Israele annettesse il territorio circondando ed isolando i centri abitati palestinesi.

Questo piano ha guidato la politica di colonizzazione israeliana negli ultimi 50 anni ed è oggi un fatto compiuto irreversibile. Quando il “processo di pace” di Oslo iniziò, c’erano 200.000 coloni (e, sì, io includo Gerusalemme est, che è occupata, indipendentemente da quello che sostengono Israele e l’amministrazione Trump).

Nel 2000, alla fine di Oslo, c’erano 400.000 coloni in popolosi “blocchi di colonie” che hanno frammentato il territorio palestinese in circa 70 piccole enclave delle Aree A e B, oltre alla prigione che è Gaza. Oggi la popolazione di coloni si avvicina agli 800.000.

Se la soluzione dei due Stati è finita, ciò è dovuto ai successivi israeliani “sensati” al governo, in particolare Golda Meir e Ehud Barak [entrambi laburisti, ndt.], così come quelli del Likud [partito di destra, ndt.], di Kadima [partito di centro, ndt.] e della destra religiosa, e della sinistra sionista, della destra “estremista” e del sempre disponibile centro che li ha portati al governo.

Netanyahu e la destra religiosa hanno proclamato ai quattro venti la fine della soluzione dei due Stati, mentre entrambi i partiti della sinistra sionista, il Laburista ed il Meretz, hanno di fatto abbandonato la lotta per la pace, dichiarandosi partiti “socialdemocratici” preoccupati principalmente di questioni interne israeliane. I dirigenti laburisti, in particolare, per parecchi anni sono stati esplicitamente d’accordo con il Likud che “i tempi non sono maturi per una soluzione dei due Stati”.

Se un qualche settore della società israeliana ha mai sostenuto sinceramente la soluzione dei due Stati è stata la sinistra “estremista” – alla sinistra del Meretz – che ha lottato instancabilmente per questo al di fuori di qualunque governo (e, siamo onesti, anche l’Autorità Nazionale Palestinese sotto Arafat e Abbas l’ha appoggiata, persino quando i governi israeliani la stavano logorando).

Chi, se non la sinistra extraparlamentare, ha costantemente manifestato contro la costruzione di colonie, un’impresa perseguita con altrettanto vigore dai laburisti come dal Likud?

Quando, nel 1999, l’allora primo ministro Ehud Barak dichiarò, dopo il fallimento dei negoziati di Camp David, che “non c’erano controparti (palestinesi) per la pace,” l’opinione pubblica ebrea israeliana, compresi il Meretz, Peace Now [organizzazione pacifista, ndt.] e il resto della “sinistra sionista”, abbandonarono la ricerca di una pace giusta – ma non la sinistra “estremista”, che ha continuato ad impegnarsi persino quando la soluzione dei due Stati è scomparsa dalla nostra vista.

Ma Yoffie si sbaglia anche quando descrive quello che lui chiama la posizione per lo Stato unico della “sinistra estrema”. I gruppi di sinistra che riconoscono la fine della soluzione dei due Stati non si sono spostati verso un’alternativa dello Stato unico – almeno non ancora. Jewish Voice for Peace [gruppo di ebrei americani contrario all’occupazione ed alla colonizzazione della Cisgiordania, ndt.], che Yoffie demonizza perché appoggia il BDS, non sostiene attivamente una simile soluzione. Ed il resto della sinistra “estremista” sta ancora dibattendo su dove andare.

Benché molti di noi sostengano ancora la soluzione dei due Stati come una soluzione percorribile, se non giusta, ciò non può significare apartheid. Se l’“estrema” sinistra si è in effetti spostata su una posizione dello Stato unico è semplicemente perché abbiamo avuto il coraggio di riconoscere la realtà politica e i “fatti sul terreno”: la soluzione dei due Stati è morta quando l’impresa di colonizzazione ha raggiunto una massa critica, quando la frammentazione del territorio palestinese ha reso impossibile uno Stato palestinese sostenibile e sovrano.

Siamo rimasti con una sola via d’uscita. Dobbiamo trasformare lo Stato unico dell’ apartheid, che Israele ha creato, in uno Stato democratico di uguali diritti per tutti i suoi cittadini. Una democrazia – che non dovrebbe essere un concetto assolutamente estraneo a un americano come Yoffie, o agli israeliani che sostengono che il loro Paese è l’unica democrazia del Medio Oriente.

La sinistra “estremista” deve ora condurre una lotta per un unico Stato democratico binazionale in Israele/Palestina, non perché lo vogliamo, ma perché sono stati i sionisti “sensati” di Yoffie che ci hanno lasciato questa come unica opzione possibile rispetto all’apartheid. È l’unico modo per evitare che gli ebrei diventino gli afrikaaner [popolazione di origine olandese che ha colonizzato il Sudafrica ed ha imposto l’apartheid alla popolazione nativa, ndt.] , o peggio, del Medio Oriente.

Vogliamo una via d’uscita dal vicolo cieco del sionismo politico, e un ritorno al sionismo culturale di Ben-Yehuda, Henrietta Szold, Ahad Ha-am, Judah Magnes e Martin Buber, che immaginavano un popolo ebraico che vivesse insieme ai propri vicini palestinesi.

Questa è una sfida che libererà realmente entrambi i popoli, un progetto positivo di una nuova generazione di sionisti culturali. Abbiamo bisogno di uno Stato che offra uguali diritti a tutti i propri cittadini – un’unica cittadinanza, un unico voto, un unico parlamento – ma che garantisca il diritto costituzionale sia degli ebrei israeliani che degli arabi palestinesi alla propria identità, alla propria narrazione e alle proprie istituzioni.

Non c’è motivo di credere che ciò porterebbe ad una “guerra civile senza fine e sanguinosa”, come sostiene Yoffie. Gli ebrei israeliani avrebbero il diritto di vivere ovunque, comprese le colonie; i rifugiati palestinesi potrebbero tornare a casa; si svilupperebbe una società civile comune; economicamente il Paese fiorirebbe, sostenuto da due ricche e colte diaspore parallele, ebraica e palestinese.

Questa è la sfida che l’“estrema” sinistra deve cercare di realizzare. Che piaccia o meno, questo è tutto ciò che ci hanno lasciato i sionisti “sensati” sbandierati da Yoffie, insieme con la destra “estrema” che ci governa.

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Jeff Halper è il capo del Israeli Committee Against House Demolitions   [ICAHD, Comitato Israeliano contro la Demolizione delle Case, ndt.].

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 2 – 15 gennaio 2018

Nei Territori palestinesi occupati (oPt) [Cisgiordania e Striscia di Gaza], in quattro diversi episodi, le forze israeliane hanno ucciso quattro civili palestinesi, tre dei quali minori.

Tre delle uccisioni (due minori di 15 e 17 anni e un uomo di 25) sono avvenute in tre distinti episodi di proteste e scontri, il 3, 11 e 15 gennaio, nel villaggio di Deir Nidham (Ramallah), vicino alla recinzione perimetrale, ad est del Campo profughi di Al Bureij (Gaza) e nel villaggio di Jayyus (Qalqiliya); proteste seguenti al riconoscimento, da parte dell’amministrazione statunitense, di Gerusalemme quale capitale d’Israele. Un altro ragazzo di 17 anni è stato ucciso con arma da fuoco l’11 gennaio, in Iraq Burin (Nablus), durante scontri con lancio di pietre contro le forze israeliane.

Il 9 gennaio, sulla Strada 60, vicino all’incrocio di Sarra-Jit (Nablus), un colono israeliano di 35 anni è stato ucciso da palestinesi che hanno sparato da un’auto in corsa. A seguito dell’attacco, le forze israeliane hanno imposto restrizioni di accesso alla città di Nablus ed ai villaggi circostanti. Le operazioni di ricerca sono state intensificate, causando l’interruzione degli ingressi e delle uscite dalla città di Nablus.

Nei Territori palestinesi occupati, durante molteplici scontri, le forze israeliane hanno ferito complessivamente, 269 palestinesi, tra cui 83 minori. 67 di tali ferimenti si sono avuti nella Striscia di Gaza, in scontri verificatisi durante proteste vicino alla recinzione perimetrale. I rimanenti (202) sono stati registrati in Cisgiordania; la maggioranza durante proteste vicino al checkpoint di Huwwara (Nablus); a seguire, le città di Al Bireh (Ramallah), Abu Dis e Al ‘Eizariya (Gerusalemme). Altri 28 feriti sono stati registrati durante operazioni di ricerca-arresto, la maggior parte nel Campo profughi di Ad Duheisha (Betlemme). 61 dei feriti sono stati colpiti con armi da fuoco, 62 da proiettili di gomma, 137 hanno inalato gas lacrimogeno, con necessità di trattamento medico, o sono stati colpiti direttamente da bombolette lacrimogene.

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno condotto 176 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 261 palestinesi, tra cui almeno 22 minori. Dieci di queste operazioni hanno provocato scontri con i residenti. Nella Striscia di Gaza, nei pressi di Khan Younis e Beit Hanoun, in due occasioni le forze israeliane hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

In Gaza, in almeno 13 casi, le forze israeliane, al fine di imporre le restrizioni di accesso, hanno aperto il fuoco verso agricoltori e pescatori presenti in zone limitrofe alla recinzione perimetrale ed in zone di pesca lungo la costa. Cinque pescatori sono stati feriti, altri otto, tra cui due minori, sono stati arrestati e tre barche sono state confiscate. È stato riferito che, in almeno quattro occasioni, membri di un gruppo armato di Gaza hanno sparato razzi verso Israele, tre dei quali atterrati nel sud di Israele: non sono stati segnalati feriti. In risposta, le autorità israeliane hanno portato quattro attacchi aerei e lanciato missili contro siti di addestramento militare ed aree aperte: segnalati danni, ma non feriti.

Secondo agricoltori palestinesi di Gaza, in quattro diverse occasioni, il 7 e il 9 gennaio, aerei israeliani hanno irrorato erbicidi su terreni agricoli situati lungo la recinzione perimetrale con Israele.

Il 13 gennaio, nei pressi della Striscia meridionale di Gaza, le forze navali egiziane hanno aperto il fuoco verso una barca da pesca, uccidendo un pescatore palestinese di 33 anni; non sono chiare le circostanze dell’episodio.

In Area C e in Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito e/o sequestrato tre strutture, sfollando due palestinesi e colpendo le proprietà di altri 16. Due delle strutture prese di mira (una abitativa ed una agricola) erano a Beit Hanina e Silwan (Gerusalemme Est); la terza (una struttura agricola) nella parte del villaggio di Al Khadr (Betlemme) che si trova in Area C. Sempre in Area C, le autorità israeliane hanno emesso sei ordini di arresto lavori contro tredici strutture nel villaggio di Duma e nella comunità di Khirbet al Marajim (Nablus); tra queste, due strutture abitative in uso e dodici rifugi per animali.

In 14 diversi episodi di cui sono stati protagonisti coloni israeliani, cinque palestinesi sono rimasti feriti, 115 alberi e sette veicoli di proprietà palestinese sono stati vandalizzati. Secondo quanto riferito, sette di questi episodi sono stati perpetrati da coloni dell’insediamento di Yitzhar contro abitanti dei villaggi di Madama, Burin, Yatma, Urif e Al Lubban ash Sharqiya (tutti a Nablus): 100 alberi danneggiati, un uomo aggredito fisicamente e quattro veicoli palestinesi danneggiati da lancio di pietre. Su terreni appartenenti a palestinesi di Deir al Hatab (Nablus), altri 15 alberi sono stati vandalizzati, a quanto riferito, da coloni dell’insediamento di Elon Moreh. Dopo l’attacco in cui è stato ucciso un colono israeliano [vedi sopra], coloni hanno attaccato abitazioni nei villaggi di Sarra, Huwwara (Nablus), Far’ata (Qalqiliya) e in Al Lubban ash Sharqiya (Nablus); sono stati segnalati danni alle abitazioni. In quest’ultima località, 42 palestinesi sono rimasti feriti negli scontri che hanno coinvolto forze israeliane. Nella città di Nablus, in seguito all’ingresso di coloni israeliani nel sito della Tomba di Giuseppe, altri cinque palestinesi sono rimasti feriti durante scontri con forze israeliane.

Secondo resoconti di media israeliani, ci sono stati almeno cinque casi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli israeliani, con conseguente danno a cinque veicoli privati: nei pressi di Betlemme, Gerusalemme e Ramallah. Inoltre, a Gerusalemme Est, nell’area di Shu’fat, sono stati segnalati danni alla metropolitana leggera.

In seguito alla scoperta di un tunnel (successivamente distrutto), le autorità israeliane hanno chiuso per due giorni (il 14 e il 15 gennaio) Kerem Shalom, l’unico valico per il transito delle merci di Gaza.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah sotto controllo egiziano, è stato chiuso in entrambe le direzioni. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 23.000 persone, compresi i casi umanitari, sono registrate e in attesa di attraversare Rafah.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Nella notte di mercoledì 17 gennaio 2018, le forze israeliane hanno effettuato un’operazione di ricerca-arresto in una casa situata tra il villaggio di Birqin (Jenin) e il Campo profughi di Jenin. Secondo fonti giornalistiche, nel corso dell’operazione sarebbe stato ucciso un palestinese coinvolto, a quanto riferito, nell’uccisione del colono israeliano avvenuta il 9 gennaio (vedi sopra). Durante l’operazione sono rimasti feriti altri tre palestinesi e due membri delle forze israeliane; tre abitazioni sono state demolite.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Abbas dichiara morti gli accordi di Oslo: “Il piano di pace di Trump è uno schiaffo e noi glielo restituiremo.”

Jack Khoury

15 gennaio 2018, Haaretz

Abbas: “Israele ha ucciso gli accordi di Oslo. Futuri negoziati avranno luogo nel contesto della comunità internazionale” Il vice capo di Fatah: “Congelare il riconoscimento di Israele è un’opzione”

Domenica il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha detto che Israele ha ucciso gli accordi di Oslo e durante una drammatica riunione a Ramallah ha definito il piano di pace per il Medio Oriente del presidente USA Donald Trump “uno schiaffo in faccia”, aggiungendo che “glielo restituiremo”.

Abbas ha aggiunto che “oggi è il giorno in cui sono finiti gli accordi di Oslo. Israele li ha uccisi. Siamo un’autorità senza potere, e un’occupazione senza alcun costo. Trump minaccia di tagliare i finanziamenti all’Autorità [Nazionale Palestinese] perché i negoziati sono falliti. Ma quando mai le trattative sono iniziate?!”

Ha aggiunto che “ogni futuro negoziato avrà luogo solo nel contesto della comunità internazionale, da parte di una commissione internazionale creata nell’ambito di una conferenza internazionale. Permettetemi di essere chiaro: non accetteremo la leadership dell’America in un processo politico che riguardi i negoziati.

L’ambasciatore USA in Israele David Friedman è un colono che si oppone alla fine dell’occupazione. È un essere umano aggressivo e non accetterò di incontrarmi con lui da nessuna parte. Hanno chiesto che mi incontrassi con lui e mi sono rifiutato, non a Gerusalemme, non ad Amman, non a Washington. Anche l’ambasciatrice USA all’ONU, Nikki Haley, minaccia di colpire le persone che nuocciono ad Israele con il tacco della sua scarpa, e noi risponderemo nello stesso modo.”

Il consiglio centrale palestinese si è riunito nel contesto dell’annuncio del presidente USA Donald Trump il 6 dicembre, in cui ha dichiarato che Gerusalemme è la capitale di Israele, e del contrasto senza precedenti che ciò ha provocato tra l’Autorità Nazionale Palestinese e Washington. Abbas ha detto: “Il ministro degli Esteri della Lega Araba ha accusato i palestinesi di non protestare abbastanza contro la decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele.”

Noi siamo un popolo che si è messo a fare proteste non-violente in seguito al riconoscimento di Trump (di Gerusalemme come capitale di Israele), e il risultato è stato 20 morti, più di 5.000 feriti e oltre 1000 arresti, e loro hanno la faccia tosta di dire che il popolo palestinese non è sceso nelle strade,” ha continuato, aggiungendo che “l’ho detto al ministro, che se egli vuole davvero aiutare il popolo palestinese ci appoggi e ci dia concretamente una mano. Sennò potete andare tutti quanti all’inferno.”

Poi Abbas si è rivolto al Regno Unito, affermando che “continuiamo a chiedere delle scuse dalla Gran Bretagna per la dichiarazione Balfour [in cui nel 1917 la GB si impegnava a favorire la costituzione di un “focolare ebraico” in Palestina, ndt.], e continueremo a chiedere che riconosca lo Stato palestinese.” Ha osservato che “la frase di Herzl ‘una terra senza popolo per un popolo senza terra’ era un’invenzione. Venne qui e vide un popolo, e per questa ragione parlò della necessità di sbarazzarsi dei palestinesi.”

Abbas ha parlato per circa due ore e mezza di come gli ebrei sono stati portati in Israele. Ha sottolineato che Inghilterra e Stati Uniti hanno partecipato al processo di trasferimento degli ebrei in Palestina dopo l’Olocausto, cercando di risolvere il problema di avere gli ebrei senza patirne le conseguenze.

Abbas ha continuato: “A Camp David hanno tentato un’operazione insensata. Hanno detto agli americani che eravamo pronti a rinunciare al diritto al ritorno, al 13% della Cisgiordania e a fornire agli ebrei uno spazio per pregare nella moschea di Al-Aqsa.

La nostra posizione è uno Stato palestinese all’interno dei confini del ’67 con capitale a Gerusalemme est e la messa in pratica delle decisioni della comunità internazionale, così come una soluzione giusta per i rifugiati.

Siamo a favore della lotta nazionale, che è più efficace perché non c’è nessun altro su cui possiamo contare.

Gli americani ci hanno chiesto di non entrare a far parte di 22 organizzazioni, compresa la Corte Penale Internazionale. Gli abbiamo detto che non l’avremmo fatto finché non avessero chiuso gli uffici dell’OLP [Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che riunisce i principali gruppi palestinesi ed è dominata da Fatah, ndt.], non avessero spostato la loro ambasciata a Gerusalemme ed avessero congelato l’edificazione negli insediamenti. Non hanno accettato, e di conseguenza non siamo vincolati da nessun accordo. Aderiremo a quelle organizzazioni.

Abbiamo accettato 86 decisioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU per i palestinesi, e nessuna di esse è stata messa in pratica. Ad altre 46 gli americani hanno posto il veto.

Israele ha importato impressionanti quantità di droga per distruggere la nostra generazione più giovane. Dobbiamo stare attenti, e per questa ragione abbiamo creato un’autorità per combattere le droghe e stiamo investendo molto nello sport, soprattutto nel calcio. Abbiamo già denunciato Israele alla FIFA.

Pubblicheremo una lista nera di 150 imprese che lavorano con le colonie e renderemo pubblici all’Interpol i nomi di decine di persone sospettate di corruzione.

I prigionieri e i membri delle loro famiglie sono nostri figli e continueremo a fornire loro un sussidio.

Le famiglie dei palestinesi uccisi hanno il diritto di rivolgersi alla Corte Penale Internazionale e di chiedere giustizia dalla comunità internazionale.

Non intendiamo accettare che gli USA tentino di farci delle imposizioni e non vogliamo accettarli come mediatori.

Non saremo un’autorità senza potere e un’occupazione senza costi. Difenderemo le nostre conquiste nella comunità internazionale e a livello locale, e continueremo a combattere il terrorismo, e a lottare con la non-violenza. Parteciperemo a tutti i processi politici guidati dalla comunità internazionale per la fine dell’occupazione.”

Il capo di “Iniziativa Nazionale Palestinese” [gruppo politico palestinese che sostiene la lotta non violenta contro l’occupazione, ndt.], il dottor Mustafa Barghouti, dopo il discorso di Abbas ha detto ad Haaretz: “Il discorso ha sollevato la questione. È chiaro che gli USA hanno esaurito il loro ruolo come unici sostenitori del processo di pace e i palestinesi hanno sottolineato che non accetteranno più nessuna imposizione di parti terze. Lunedì stileremo le conclusioni e da parte mia chiederò che la bozza includa la posizione secondo cui noi lavoreremo per mettere in pratica una soluzione dello Stato unico con gli stessi diritti civili e nazionali per tutti.”

Hamas ha attaccato Abbas dicendo che le sue dichiarazioni non sono condivise tra i palestinesi.

L’incontro di domenica nella città cisgiordana di Ramallah – sede del governo dell’Autorità Nazionale Palestinese – si è tenuto con i rappresentanti della maggior parte delle fazioni palestinesi, ma due importanti organizzazioni, Hamas e Jihad Islamica, hanno annunciato che non vi avrebbero partecipato, benché fossero state invitate.

Il portavoce di Hamas Fauzi Barhum ha criticato la decisione di convocare l’incontro a Ramallah, affermando che si sarebbe dovuto tenere in un altro Paese, per garantire la partecipazione dei principali rappresentanti di tutte le fazioni.

Haaretz è venuto a sapere che nelle discussioni che si sono tenute durante il fine settimana, sia nel Comitato Centrale di Fatah che nel Comitato Esecutivo dell’OLP, sono state prese in considerazione una serie di proposte, tra cui l’idea di annullare gli accordi di Oslo e il coordinamento per la sicurezza, sulla base del fatto che Israele ha violato tutti gli accordi per cui i palestinesi non sono più obbligati a continuare a rispettare i patti.

Altri membri di Fatah e dell’OLP hanno appoggiato l’opzione di continuare con i tentativi a livello internazionale, soprattutto attraverso le Nazioni Unite, l’Unione Europea, la Cina e la Russia, per portare avanti il riconoscimento internazionale dello Stato palestinese all’interno dei confini del 1967.

Secondo funzionari di Fatah la prossima mossa palestinese sarà la messa in pratica della loro richiesta di rendere il conflitto una questione internazionale e di chiedere che l’ONU istituisca un gruppo per risolverla. I funzionari hanno detto che gli Stati Uniti potrebbero essere membri di questo gruppo, ma non gli unici mediatori del processo politico.

Il vice capo di Fatah Mahmoud Al-Aloul ha detto che molti palestinesi hanno grandi aspettative per la decisione del consiglio centrale. “Dobbiamo rispondere a queste aspettative, perché oggi siamo arrivati ad un punto di svolta della questione nazionale palestinese.” Al-Aloul ha aggiunto che queste decisioni sono difficili e non porteranno ad abbandonare gli amici di Fatah.

Al-Aloul ha detto ad Haaretz che il consiglio centrale di Fatah ha preso le sue decisioni in modo indipendente e che c’è una lista di suggerimenti che devono essere presi in considerazione, compreso il congelamento del riconoscimento di Israele.

Le decisioni prese dal consiglio sono state trasmesse al comitato esecutivo dell’OLP per essere messe in pratica.

Haaretz ha saputo anche che durante gli ultimi giorni Paesi europei ed arabi come l’Arabia Saudita hanno fatto pressioni sull’ANP, e su Abbas in particolare, perché non prendessero iniziative radicali e per consentire un’azione a livello internazionale e diplomatico.

Un altro suggerimento chiederebbe al Consiglio di Sicurezza dell’ONU di riconoscere lo Stato palestinese all’interno dei confini del ’67, così come la definizione delle terre dell’ANP come un Paese sotto occupazione. Un’ulteriore indicazione è stata di rivolgersi alla Corte Internazionale di Giustizia per iniziare un procedimento legale contro Israele.

Il consiglio centrale palestinese è un ente consultivo che si riunisce quando è impossibile convocare una seduta del Consiglio Nazionale Palestinese (l’organo legislativo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina), e si prevede che fornisca al comitato esecutivo dell’OLP, che è l’organo esecutivo palestinese di maggior importanza, raccomandazioni relative alle politiche.

Un importante membro del comitato esecutivo dell’OLP ha detto ad Haaretz che, nonostante l’atmosfera drammatica che i collaboratori di Abbas hanno cercato di creare, non ci si aspettano cambiamenti radicali.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 19 dicembre 2017 – 1 gennaio 2018

Nei Territori palestinesi occupati (TPO), durante il periodo di riferimento del presente bollettino, l’ondata di proteste e scontri è continuata, seppur con intensità ridotta; era iniziata il 6 dicembre, dopo il riconoscimento di Gerusalemme quale capitale di Israele da parte degli Stati Uniti.

Dall’inizio delle proteste, complessivamente, 14 palestinesi sono stati uccisi e 4.549 sono stati feriti dalle forze israeliane. Le persone ferite durante tale periodo rappresentano circa il 56% del totale dei feriti nel 2017.

Nella Striscia di Gaza, in scontri correlati alle summenzionate proteste, tre civili palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane e 280 sono rimasti feriti; altri due civili sono morti per le ferite riportate in episodi simili accaduti durante il precedente periodo di riferimento. Gli episodi si sono svolti vicino alla recinzione perimetrale tra Gaza e Israele ed hanno comportato lanci di pietre contro le forze israeliane schierate dalla parte israeliana. Queste, a loro volta, hanno sparato contro i manifestanti con armi da fuoco, proiettili di gomma e bombolette lacrimogene. I tre morti, tutti uomini, si sono avuti in distinti episodi accaduti il 22 ed il 30 dicembre: ad est di Jabalia, nella città di Gaza e ad est di Deir al-Balah. Gli altri due, sempre uomini, sono morti per le ferite riportate l’8 e il 17 dicembre. Dei feriti registrati, almeno 27 erano minori; più di un terzo (103) sono stati colpiti con armi da fuoco; i rimanenti sono stati medicalizzati per inalazione di gas lacrimogeno o perché colpiti direttamente da bombolette lacrimogene.

1.386 palestinesi, di cui almeno 226 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane nel corso di scontri; la maggioranza (93%) nel contesto delle proteste sopra menzionate. Il numero più consistente di feriti durante proteste è stato registrato nella città di Nablus, seguita dalla città di Jericho, dalla città di Al Bireh (Ramallah) e dalla città di Abu Dis (Gerusalemme). Degli altri feriti, la maggior parte è stata registrata nel corso di operazioni di ricerca-arresto, le più vaste delle quali si sono svolte nella città di Qalqiliya e nel Campo profughi di Aqbat Jaber (Gerico). Così come era avvenuto nel precedente periodo di riferimento, la maggior parte delle lesioni (68%) sono state causate da inalazioni di gas lacrimogeni con esigenza di trattamento medico, seguite da ferite causate da proiettili di gomma (21%).

In Cisgiordania le forze israeliane hanno condotto 170 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 214 palestinesi, di cui almeno 18 minori. Più di un terzo di queste operazioni ha provocato scontri con i residenti. Altri tre palestinesi, tra cui una donna e un minore, sono stati arrestati, in tre diversi episodi mentre, secondo fonti israeliane, tentavano di aggredire con coltello forze israeliane (in due casi) e per possesso di esplosivi (un caso).

Gruppi armati palestinesi di Gaza hanno sparato numerosi razzi in direzione del sud di Israele: due di questi sono caduti in Israele ed hanno danneggiato un edificio; la maggior parte sono stati intercettati in aria da missili israeliani o sono ricaduti nella Striscia di Gaza. I lanci di razzi sono stati seguiti da attacchi aerei israeliani sulla Striscia di Gaza, con danni a numerosi siti che, secondo quanto riferito, apparterrebbero a gruppi armati palestinesi.

In almeno 22 occasioni, le forze israeliane, allo scopo di imporre le restrizioni di accesso, hanno aperto il fuoco verso agricoltori e pescatori presenti in zone limitrofe alla recinzione perimetrale ed in zone di pesca lungo la costa di Gaza: quattro pescatori sono stati arrestati, uno dei quali ferito con arma da fuoco, e una barca è stata confiscata. In cinque occasioni, le forze israeliane sono entrate a Gaza, vicino a Khan Younis e nell’area centrale, ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo nelle vicinanze della recinzione perimetrale.

In Area C e Gerusalemme Est, per la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato cinque strutture, sfollando cinque palestinesi e coinvolgendone altri 33. Tre delle strutture prese di mira, una delle quali demolita dai proprietari dopo aver ricevuto ordini di demolizione, erano in Gerusalemme Est; le altre due nelle parti locate in Area C dei villaggi di Tarqumiya (Hebron) ed Al Walaja (Betlemme).

Sempre in Area C, nel villaggio di Bani Na’im (Hebron), le autorità israeliane hanno emesso ordini di demolizione ed arresto lavori contro otto strutture finanziate da donatori; tra queste una scuola, una clinica sanitaria, una moschea e cinque strutture residenziali. Tre di queste strutture erano state finanziate dal Fondo Umanitario per i Territori occupati [Organismo delle Nazioni Unite].

Il 21 dicembre, nella Città Vecchia di Gerusalemme, la polizia israeliana ha costretto una famiglia palestinese a svuotare delle loro merci un magazzino-negozio e l’ha consegnato ad un’organizzazione di coloni israeliana che ne rivendicava la proprietà. Lo sfratto conclude lunghi procedimenti presso tribunali israeliani, dove la famiglia aveva contestato, senza successo. lo sfratto, sostenendo di essere un “inquilino protetto”. A Gerusalemme Est, sono state presentate almeno 180 istanze di sfratto contro famiglie palestinesi. La maggior parte di queste istanze, avviate da organizzazioni di coloni israeliani, si basano sia su rivendicazioni di proprietà, sia su attestazioni che gli affittuari non sono più “inquilini protetti”.

L’esercito israeliano ha bloccato un certo numero di strade, sia di accesso che interne all’area di Massafer Yatta di Hebron, ed ha emesso un ordine militare che impone ai palestinesi l’acquisizione di permessi per superare i nuovi ostacoli. Per circa 1.400 persone, residenti in 12 comunità, le nuove restrizioni hanno interrotto l’accesso ai servizi ed ai mezzi di sussistenza. Queste comunità si trovano in una zona designata da Israele “area chiusa per addestramento militare” (zona per esercitazioni a fuoco 918) e sono considerate ad alto rischio di trasferimento forzato. Nella Cisgiordania centrale, il 1° gennaio, dopo averlo bloccato per sette giorni consecutivi, l’esercito israeliano ha riaperto il checkpoint principale che controlla, da est, l’accesso a Ramallah (checkpoint DCO).

Il 29 dicembre, una ragazzina palestinese di 9 anni, malata e con bisogni speciali, è morta mentre si recava in un ospedale della città di Nablus: al checkpoint di Awarta (Nablus) i soldati israeliani le avevano negato l’accesso. Secondo la famiglia della ragazza, dopo aver discusso per circa mezz’ora con i soldati, hanno fatto una deviazione verso il checkpoint di Huwwara. A causa di scontri in corso, anche questo risultava bloccato; dopo un lungo ritardo sono riusciti comunque a superarlo. Circa 90 minuti dopo aver lasciato la loro casa nel villaggio di Awarta, sono arrivati all’ospedale dove la ragazza è stata dichiarata morta. La durata normale del viaggio tra il villaggio e l’ospedale è di 15 minuti.

Sono stati segnalati almeno otto attacchi da parte di coloni israeliani con conseguenti lesioni a palestinesi o danni a proprietà. Secondo quanto riferito, quattro di questi episodi sono stati perpetrati da coloni dell’insediamento di Yitzhar contro abitanti dei villaggi di Madama e Burin (Nablus), ed hanno comportato danni a 62 alberi, l’aggressione fisica a due uomini palestinesi e l’incursione in una scuola. In conseguenza di quest’ultimo episodio, le forze israeliane sono intervenute, scontrandosi con gli studenti e ferendone 11. Altri 22 palestinesi sono rimasti feriti nella città di Nablus, durante scontri con le forze israeliane in seguito all’ingresso di coloni israeliani nel sito della Tomba di Giuseppe. A Ya’bad (Jenin) e Beit Safafa (Gerusalemme Est), in due distinti episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie da parte di coloni israeliani, tre veicoli palestinesi e una casa hanno subito danni.

Sono stati segnalati almeno undici episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli israeliani nelle zone di Hebron, Ramallah e Gerusalemme. Secondo rapporti di media israeliani, sono stati provocati danni a cinque veicoli privati e alla metropolitana leggera nell’area di Shu’fat di Gerusalemme Est.

Il valico di Rafah sotto controllo egiziano è stato aperto un giorno, il 19 dicembre, in entrambe le direzioni, consentendo a 569 persone di lasciare Gaza e a 92 di tornarvi. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 20.000 persone, compresi casi umanitari, sono registrate e in attesa di attraversare Rafah.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 3 gennaio, in scontri scoppiati durante una manifestazione nel villaggio di Deir Nidham (Ramallah), un ragazzo palestinese di 17 anni è stato ucciso con arma da fuoco dalle forze israeliane.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

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Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Ahed Tamimi è diventata il simbolo di una nuova generazione della resistenza palestinese

Ben Ehrenreich

24 dicembre 2017,The Nation

Sarebbe molto meglio, tuttavia, se potesse essere solo una ragazzina

Pronti a resistere?

Ahed Tamimi aveva 11 anni quando l’ho incontrata [per la prima volta], era una piccola cosa bionda, con i capelli quasi più grandi di lei. La ricordo fare delle smorfie quando ogni mattina sua madre scioglieva con il pettine i nodi [nei suoi capelli] nel loro soggiorno. La seconda volta andai ad una manifestazione a Nabi Saleh, il villaggio della Cisgiordania dove vive, e Ahed e sua cugina Marah finirono per guidare il corteo. Non perché lo volessero, ma perché la polizia di frontiera israeliana si mise ad inseguire tutti quanti, a sparare e lanciare granate assordanti e lei e Marah corsero davanti alla folla. Ed è stato così da allora. L’esercito israeliano continua a fare pressione – nel villaggio, nel cortile, nella casa, sotto la pelle, nelle teste e nei tessuti e nelle ossa dei suoi familiari ed amici –e Ahed finisce per andare davanti, dove tutti possono vederla. Era là di nuovo la scorsa settimana dopo che un video di lei che prende a schiaffi un soldato israeliano è diventato virale. Posso garantire che non è lì che lei vorrebbe essere. Vorrebbe piuttosto stare con i suoi amici, sui loro telefonini, facendo quello che fanno gli adolescenti. Preferirebbe essere una ragazzina piuttosto che un’eroina.

L’immagine di Ahed venne diffusa in tutto il mondo per la prima volta poco dopo che l’incontrai [per la prima volta]. In quella foto stava sollevando il suo magro braccio nudo per agitare il pugno davanti a un soldato israeliano grande due volte lei. I suoi commilitoni avevano appena arrestato suo fratello. All’improvviso divenne quello che nessun bambino dovrebbe mai essere: un simbolo.

Era allora il terzo anno delle manifestazioni a Nabi Saleh. I coloni israeliani avevano confiscato una sorgente nella valle tra il villaggio e la colonia di Halamish, e Nabi Saleh si era unito a un pugno di altri villaggi che avevano scelto il cammino della resistenza disarmata, manifestando per protestare ogni venerdì, settimana dopo settimana, contro l’occupazione. Il cugino di Ahed, Mustafa Tamimi, era già stato ucciso, colpito al volto da un candelotto lacrimogeno sparato da dietro una jeep dell’esercito israeliano. Suo zio materno, Rushdie Tamimi, sarebbe stato ucciso pochi mesi dopo. Nel novembre del 2012 un soldato israeliano gli sparò alla schiena appena sotto la collina su cui sorge la casa di Ahed . Non era affatto qualcosa di inconsueto, solo che il piccolo villaggio non si fermò. Iniziarono ad accumulare vittime, e continuarono a marciare, ogni venerdì, verso la sorgente. Non vi si sono quasi mai avvicinati. La maggior parte dei venerdì, prima di arrivare alla curva sulla strada, i soldati li fermavano con gas lacrimogeni e vari altri proiettili. L’esercito arrivava anche durante la settimana, in genere prima dell’alba, procedendo a fare arresti, perquisendo le case, seminando la paura, consegnando un messaggio diventato sempre più chiaro: le vostre vite, le vostre case, la vostra terra, persino i vostri corpi e quelli dei vostri bambini, niente vi appartiene.

La scorsa settimana i soldati sono arrivati per prendere Ahed. Mi risulta difficile comprenderlo ora, ma non avrei mai pensato che le potesse succedere. Pensavo che le sarebbe stato risparmiato, che le sarebbe stato consentito di finire la scuola e di andare all’università e senza questa interruzione sarebbe diventata la coraggiosa e brillante donna che un giorno era sicuramente destinata ad essere. Credevo che i suoi fratelli e suo cugino sarebbero tutti finiti in carcere prima o poi – la maggior parte di loro in effetti ci è finita – e che qualcuno di loro sarebbe rimasto ferito, o peggio. Ogni volta che vado a visitare Nabi Saleh e guardo i volti dei bambini cerco di non immaginare chi lo sarà, e quanto gravemente. Due venerdì fa, una settimana prima che Ahed cacciasse i soldati dal suo cortile, è stato ferito suo cugino Mohammed, uno degli amici più intimi del suo fratello minore. Un soldato gli ha sparato in faccia. La pallottola – rivestita di gomma, ma comunque una pallottola – si è conficcato nella sua testa. Una settimana dopo era ancora in coma farmacologico.

Se avete visto il video che ha portato al suo arresto, potreste esservi chiesti perché Ahed fosse così arrabbiata contro i soldati che sono entrati nel suo cortile, perché gridava loro di andarsene, perché li ha presi a sberle. Questa è la ragione. Questa e un migliaio di altre. Suo zio e suo cugino sono stati uccisi. Sua madre colpita a una gamba e con le stampelle per più di un anno. I suoi genitori e suo fratello portati via per mesi. E mai una notte di riposo senza la possibilità di doversi svegliare, come ha fatto martedì mattina presto, come ha dovuto fare per tante volte prima, con i soldati alla porta, nella sua casa, nella sua stanza, là per portare via qualcuno.

Non faccio affidamento sul sorprendente timore dell’opinione pubblica israeliana, o che un video di Ahed, senza paura, che schiaffeggia un soldato per obbligarlo ad uscire dal cortile, possa scuotere una simile faccia tosta. Ahed Tamimi non è stata arrestata per aver infranto la legge – Israele, nel suo controllo della terra che occupa, mostra uno scarso rispetto della legalità. È stata arrestata perché era su tutte le prime pagine e l’opinione pubblica e i politici stavano chiedendo che venisse punita. Hanno usato parole come “castrati” e “impotenti” per descrivere come si sentissero quando hanno visto quel soldato con il suo elmetto, il giubbotto antiproiettile e il fucile e la ragazzina con la maglietta rosa e la giacca a vento blu che lo ha messo in ridicolo. Ha fatto vergognare tutti quanti per tutta la loro forza, il loro potere, il loro benessere e la loro arroganza.

Il divario tra le due opposte fantasie che definiscono l’autorappresentazione di Israele non ha fatto che crescere negli anni: un Paese che si immagina ancora come Davide contro il Golia arabo – nobile, in inferiorità numerica e coraggioso –, mentre si compiace del suo esercito senza pari, letale e tecnologicamente sofisticato. Ahed ha mandato in frantumi queste due convinzioni. Di fronte al mondo, ha di nuovo messo in evidenza che Israele è il prevaricatore. E, guardando quel filmato, si sono resi conto che i loro fucili sono inutili, che la loro forza è una finzione. Ahed doveva essere punita per aver svelato questi segreti, per aver mostrato al mondo quanto deboli e paurosi sanno di essere. E così il ministro della Difesa del Paese con l’esercito tecnologicamente più avanzato al mondo è sceso dal suo trono per promettere di persona che non solo Ahed e i suoi genitori, ma “chiunque intorno a loro” avrebbero avuto “quello che meritano”. Il ministro dell’Educazione è stato più preciso: Ahed dovrebbe essere imprigionata a vita, ha detto, dato che il suo reato è stato così grave.

Per ora hanno arrestato Ahed, sua madre Nariman e sua cugina Nour, anche loro nel filmato. Hanno arrestato Nariman quando è andata al commissariato per vedere sua figlia e sono tornati a prendere Nour il giorno dopo. Gli uomini della propaganda hanno lavorato duro diffondendo menzogne – che Ahed non è una ragazzina o che non è palestinese, che i Tamimi non sono affatto una famiglia, o sono tutti quanti dei terroristi, che niente di tutto questo è vero, che l’occupazione non è un’occupazione e quello che pensi di vedere nel filmato è una finzione messa in scena per gli stranieri in modo da far apparire Israele come malvagio. Tutto è più facile da accettare della verità, che Ahed ha mostrato loro come sono, e come cinquant’anni di occupazione li hanno svuotati come Nazione, come li renda ogni giorno più deboli e più spaventati.

Per favore, non fate di Ahed un idolo. Gli eroi, quando sono palestinesi, finiscono per morire o dietro le sbarre. Lasciate che sia una ragazzina. Lottate per renderla libera, in modo che un giorno possa essere una donna qualunque, in una terra qualunque.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Il New York Times cerca di mettere a tacere la vicenda di Ahed Tamimi

James North

23 dicembre 2017,Mondoweiss

Oggi il New York Times ha pubblicato un articolo sul modo molto diverso in cui israeliani e palestinesi considerano l’episodio degli schiaffi che ha visto coinvolti la sedicenne Ahed Tamimi e un soldato israeliano.

Il titolo è “Atti di resistenza e di repressione in Cisgiordania che sfuggono ad una facile definizione”, ed è stato scritto da David Halbfinger.

L’articolo fa di tutto per minimizzare il caso, in cui una coraggiosa ragazza di sedici anni, il cui cugino era stato da poco colpito, si ribella alla disumanità dell’occupazione. No, il senso dell’articolo è fare in modo che i sostenitori di Israele che potrebbero aver sentito parlare della vicenda scuotano la testa sulla “doppia narrazione”, per tornare ai propri affari.

Ecco il piano di insabbiamento del Times:

1.Fare in modo che nell’edizione a stampa non compaia nessuna delle impressionanti foto divenute virali della coraggiosa resistenza di Ahed Tamimi.

2.Non dire da nessuna parte che gli israeliani sono occupanti e che gli insediamenti (le colonie) sono illegali in base alle leggi internazionali.

3. Infilarci astutamente il seguente paragrafo: “L’apparente incoraggiamento della famiglia alle rischiose sfide della ragazzina ai soldati offende alcuni palestinesi e manda in bestia molti israeliani.”

4.Citare di sfuggita il fatto che l’illegale insediamento/colonia di Halamish ha preso il controllo dell’accesso del villaggio di Nabi Salh alla sua sorgente e non fare nessun tentativo di dare conto di chi abbia ragione. Trattare invece la questione come se fosse un “da una parte… ma dall’altra…”

5. Nella prima frase, far sembrare che il soldato israeliano sia la vittima: “Una ragazzina, con una kefiah sulla giacca di jeans, urlando in arabo, colpisce ripetutamente, schiaffeggia e prende a calci un ufficiale dell’esercito israeliano pesantemente armato, che l’affronta impassibile, incassando qualche colpo, schivandone altri, ma senza mai reagire.” (Di sicuro vi concentrate sulla kefiah e sugli “urli in arabo”: perle di perfetto orientalismo).

6. Far in modo che il colono Yossi Klein Halevi [presentato nell’articolo del NYT come uno scrittore e intervistato dal giornalista, ndt.] ribadisca il concetto che l’israeliano è la vittima: “La mia prima reazione è stata che sono fiero dei soldati, ma ero anche incerto: questo potrebbe incitare altre aggressioni, anche più gravi?”

7. Aggiungere un altro odioso paragrafo: “…la scena di una giovane donna trascinata via potrebbe aver fornito ai palestinesi l’evidente colpaccio propagandistico che gli era stato negato all’inizio dell’incidente.”

8. Mettere solo nel tredicesimo paragrafo l’informazione che ore prima dello scontro un soldato israeliano aveva sparato in faccia al cugino di Ahed Tamimi. Ignorare il nome del cugino, Mohammad, e la gravità delle ferite. No, per saperlo devi andare su Al Jazeera.

9 Citare 6 israeliani ebrei e solo 4 palestinesi. Ma soprattutto non citare nessun membro della coraggiosa famiglia Tamimi, nonostante siano stati menzionati nel fondamentale articolo di Ben Ehrenreich apparso sul “New York Times Magazine” [supplemento domenicale del NYT, ndt.] a proposito di Nabi Saleh. E nonostante il fatto che l’episodio degli schiaffi [al militare] sia avvenuto quando il soldato aveva violato la loro proprietà.

P.S. Louis Allday, un dottorando alla School of Oriental and African Studies [Scuola di Studi Orientali ed Africani, ndt.] dell’università di Londra, che sta digitalizzando documenti coloniali, aggiunge [citazioni da un tweet, ndt.]: 23 dicembre: Questo non è neppure un commento di opinione, questo è un reportage del responsabile della redazione di Gerusalemme del New York Times, David M. Halbfinger.

Lo strenuo tentativo di Halbfinger di far sì che qualcosa di molto semplice ed ovvio risulti complicato (elogiando efficacemente la “moderazione” israeliana) è un chiaro esempio di come i mezzi di comunicazione in generale parlino della Palestina, soprattutto il NYT.

(Una correzione: il post originale diceva: “La maggior parte di persone legge ancora il Times su carta.” In realtà il Times ha 2,5 milioni di abbonati alla versione digitale, contro 1 milione di abbonati alla versione cartacea).

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Colono israeliano uccide un contadino ma vengono accusati dei palestinesi

Maureen Clare Murphy

19 dicembre 2017,Electronic Intifada

Un palestinese – ma ancora nessun israeliano – deve rispondere di gravi accuse in merito a uno scontro tra coloni e abitanti di un villaggio della Cisgiordania, che lo scorso mese ha lasciato un bilancio di un contadino palestinese ucciso.

Muhammad Wadi è stato accusato di tentato omicidio da un tribunale militare israeliano.

Il quotidiano israeliano Haaretz informa che l’atto di accusa sull’incidente del 30 novembre nel villaggio di Qusra sostiene che Wadi è entrato in una grotta in cui un gruppo di bambini e un adulto si erano rifugiati ed ha lanciato grosse pietre contro di loro da distanza ravvicinata, ferendo l’adulto alla testa.

Il giornale aggiunge che altri diciannove palestinesi sono stati arrestati perché sospettati di essere coinvolti [nell’episodio].

Lo scontro mortale è avvenuto quando un gruppo di bambini sono stati portati a fare un’escursione nei pressi del villaggio palestinese come parte di una festa di bar mitzvah [rito ebraico che celebra l’ingresso a pieno titolo nella comunità dei bambini maschi di 13 anni, ndt.].

I coloni sostengono che gli abitanti di Qusra li hanno attaccati e che uno degli accompagnatori dell’escursione ha sparato con il suo fucile per difendersi, uccidendo Mahmoud Zaal Odeh, di 48 anni.

Lo sparatore è stato interrogato dalla polizia in quanto sospettato di omicidio colposo e successivamente rilasciato.

Il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman ha affermato che l’israeliano ha agito “per legittima difesa”, sostenendo che un gruppo di palestinesi ha tentato di “linciare” i bambini.

I miei ringraziamenti e il mio apprezzamento alla scorta armata che ha salvato gli escursionisti da un pericolo evidente ed immediato per le loro vite,” ha aggiunto.

Gli abitanti di Qusra, tuttavia, hanno detto ai mezzi di comunicazione che Odeh stava lavorando la propria terra quando è stato colpito.

Secondo il gruppo per i diritti umani “Adalah” a insaputa e senza il permesso della sua famiglia l’esercito israeliano ha portato il corpo di Odeh a Tel Aviv per l’autopsia, prima che venisse restituito ai suoi cari per il funerale.

Una settimana dopo, decine di coloni sono tornati a Qusra per continuare l’escursione con una massiccia scorta militare e insieme al vice ministro degli Esteri israeliano Tzipi Hotovely ed al ministro dell’Agricoltura Uri Ariel:

Circa 100 coloni arrivano fuori da Qusra per terminare il percorso del bar mitzvah che era finito in scontri con palestinesi la scorsa settimana. Ad accompagnare il ragazzino del bar mitzvah è il ministro Uri Ariel.

Alla domanda se fosse proprio il caso di portare così tanti bambini in una zona che si sta ancora tranquillizzando dopo la violenza della scorsa settimana, Ariel ha detto: “Abbiamo un forte esercito e ci sentiamo sicuri ovunque andiamo sulla nostra terra.”

E si parte. Si uniscono alla festa anche il vice ministro degli Esteri Tzipi Hotovely e Itamar Ben Gvir” [citazione di una cronaca twittata da Jacob Magid, giornalista del quotidiano indipendente israeliano “Times of Israel”, ndt.]

Con loro c’era anche Itamar Ben Gvir, un colono, militante di estrema di destra e avvocato che è considerato “un amico a cui rivolgersi” per gli israeliani che hanno commesso atti di violenza contro i palestinesi, compresi due adolescenti sospettati di essere coinvolti in un attacco incendiario che ha ucciso tre membri di una famiglia palestinese in un villaggio della Cisgiordania [a Duma, nei pressi di Nablus, in cui morì anche un bambino di 18 mesi, ndt.] nel 2015.

Sarit Michaeli, responsabile internazionale del gruppo israeliano per i diritti umani “B’Tselem”, ha definito l’escursione una “sfilata provocatoria dei coloni”.

La gita si è conclusa con una foto di gruppo e un raduno alla grotta in cui i coloni accusano i palestinesi di aver assediato il gruppo di bambini.

Violenza dei coloni

Gli abitanti di Qusra sono da molto tempo vittime di violenze, danni alle proprietà e vessazioni da parte dei coloni.

Nel settembre 2011 la moschea del villaggio è stata devastata e bruciata con gomme incendiate come atto di “price tag” [lett. “pagare il prezzo”; indica le azioni di rappresaglia dei coloni contro i palestinesi, ndt.] o vendetta dopo che la polizia ha demolito tre strutture dell’avamposto non autorizzato dei coloni “Migron”.

Quello stesso mese l’abitante di Qusra Issam Badran è stato ucciso dai soldati durante scontri che sono scoppiati dopo che i coloni sono entrati nelle terre del villaggio.

Un’inchiesta dell’esercito riguardo all’uccisione di Badran è stata chiusa senza che venisse presentato un atto d’accusa. Nel gennaio 2014 gli abitanti di Qusra hanno bloccato più di dodici coloni che avevano fatto incursione nel villaggio e avevano tentato di sradicare ulivi.

Gli abitanti di Qusra sono stati anche sottoposti a incursioni notturne nelle loro case da parte delle forze israeliane come parte delle loro “procedure di mappatura” per censire tutta la popolazione civile palestinese.

Invece un minore israeliano della vicina colonia di Itamar che aveva aggredito un attivista dei diritti umani e lo aveva minacciato con un coltello è stato condannato a svolgere un lavoro socialmente utile per l’incidente dell’ottobre 2015.

L’adolescente aveva attaccato Arik Ascherman, allora capo di Rabbis for Human Rights [gruppo di rabbini che si oppone all’occupazione dei territori palestinesi, ndt.], mentre quest’ultimo stava aiutando un contadino palestinese a raccogliere le olive.

Haaretz ha informato che la giudice che ha emesso la sentenza contro il giovane “ha scritto di aver optato per i lavori socialmente utili perché una detenzione avrebbe potuto danneggiare le possibilità per il ragazzo di essere arruolato nell’esercito israeliano, e perché era convinta che avesse buone possibilità di essere rieducato.”

L’adolescente era rappresentato in giudizio da Itamar Ben-Gvir.

Bambini palestinesi arrestati da Israele per imputazioni come aver tirato pietre ai soldati non godono di una simile indulgenza.

Un crescente numero di parlamentari statunitensi sta appoggiando una legge che imporrebbe al Segretario di Stato [il ministro degli Esteri USA, ndt.] di attestare ogni anno che nessuno dei fondi USA destinati ad Israele venga utilizzato per “finanziare la detenzione militare, gli interrogatori, gli abusi o i maltrattamenti contro i bambini palestinesi.”

La legge condanna i procedimenti giudiziari israeliani contro i minori palestinesi nei tribunali militari, mentre nello stesso territorio i coloni israeliani sono sottoposti alle leggi civili.

Nella Cisgiordania occupata Israele mette in atto un sistema giuridico a due livelli: i palestinesi sono sottoposti ai tribunali militari, in cui viene loro negato un processo minimamente equo e si trovano a dover affrontare una detenzione quasi certa, mentre i coloni israeliani sono soggetti alla giurisdizione della polizia e dei tribunali civili israeliani.

(traduzione di Amedeo Rossi)