Sempre più israeliani accettano la legittimità della resistenza palestinese

Dr Adnan Abu Amer

20 settembre 2022 – Middle East Monitor

Mentre gli atti di resistenza nella Cisgiordania occupata si intensificano, l’esercito occupante israeliano continua la mobilitazione contro “attacchi terroristici” palestinesi. Tuttavia adesso ci sono voci in Israele che rifiutano una simile definizione: dicono che si sta conducendo una guerriglia. La differenza è chiara, ma non è ancora così ovvia per molti in Israele.

La guerriglia che i palestinesi conducono contro i soldati israeliani nei territori occupati gode di un certo grado di legittimazione nell’ambito della ricerca, della letteratura e del diritto internazionale”, hanno affermato molti opinionisti, articoli e dichiarazioni di politici, accademici ed esperti giuridici. “La guerriglia richiede maggior coraggio, perché in questo caso i palestinesi prendono le armi contro soldati israeliani addestrati e perché lottare contro soldati armati risiedendo nei territori occupati è la chiara definizione di guerriglia.”

Sharon Luzon è lettore alla Hebrew Open University, specializzato in questioni militari e di sicurezza, relazioni internazionali e scienze politiche. La sua spiegazione della resistenza palestinese è che: “Finché l’esercito israeliano rimane in Cisgiordania, che ha controllato per 55 anni, la terra è occupata e questi soldati mantengono l’occupazione. I palestinesi li combattono, perciò sono dei combattenti; questa è la loro definizione, oltre al termine ‘combattenti per la libertà’. Anche i coloni che risiedono nei Territori Palestinesi Occupati sono lì per scopi militari, cosa che fa di loro obbiettivi legittimi per i militanti palestinesi, specialmente quando (i coloni) sono adulti armati.”

Nonostante la mobilitazione dell’estrema destra in Israele e nonostante che i politici diano maggior potere all’esercito di occupazione per reprimere i palestinesi in risposta ai recenti attacchi di guerriglia, ci sono però alcune voci israeliane che sono fuori dal coro e rifiutano l’oppressione. Rifiutano di definire attacchi terroristici le azioni di resistenza condotte da militanti palestinesi contro i soldati occupanti e i coloni illegali.

Per esempio, il parlamentare Ofer Cassif non esita ad affermare che “i palestinesi che sparano ai soldati israeliani non sono terroristi, ma guerriglieri, simili ai rivoluzionari che combatterono l’occupazione nazista in Europa durante la seconda guerra mondiale.”

Questo suggerisce che gli israeliani e i loro sostenitori che definiscono “terroristi” i militanti palestinesi cercano di demonizzarli e disumanizzarli allo scopo di alimentare il conflitto. Il cosiddetto “terrorismo” palestinese ci spinge a ripensare a ciò che fecero i “terroristi ebrei” quando ammazzarono i soldati britannici e misero una bomba al mercato arabo di Haifa nel 1938; e quando fecero saltare in aria l’hotel David a Gerusalemme ed uccisero 90 dipendenti britannici e arabi del luogo, per la maggior parte civili, nel 1946; e compirono molte altre orrende azioni. Quello era terrorismo nel vero senso della parola.

E’ vero che israeliani come Luzon e Cassif si oppongono alla violenza, sostengono la lotta nonviolenta contro l’occupazione e non vogliono che nessuno venga ucciso. Al tempo stesso però ritengono che “ogni uomo armato ha il diritto di provocare danni ad una forza militare occupante, in base alle definizioni internazionalmente riconosciute e a quelle delle Nazioni Unite. Queste definizioni affermano che il popolo occupato ha il diritto di usare armi contro l’occupazione, perciò non può essere definito terrorista, in quanto il vero terrorismo è l’occupazione stessa.”

E’ difficile parlare del sorgere di una coscienza collettiva israeliana riguardo alla legittimità della resistenza palestinese. Tuttavia questa tendenza è in crescita da quando un personaggio come il drammaturgo e conduttore televisivo israeliano Yaron London disse, al culmine dell’Intifada di Al Aqsa (2000-2005) e delle azioni di guerriglia che la connotarono, che “le azioni ostili condotte dai palestinesi contro gli israeliani vanno considerate parte della guerra nazionale di liberazione, non terrorismo.”

Inoltre il professore di chimica all’università ebraica nella Gerusalemme occupata, Amiram Goldblum, ha accusato i coloni israeliani di essere terroristi. Il progetto coloniale israeliano, ha detto, è all’origine dell’industria terroristica e questo vero terrorismo iniziò 55 anni fa, nel 1967, quando ebbe inizio il progetto coloniale. Esso ha trasformato ogni abitazione costruita da Israele nei territori palestinesi occupati in una minaccia all’esistenza del popolo di Palestina. Il terrorismo non è solo sparare o usare armi, ma consiste anche nella presenza di coloni che vivono nelle case costruite sulla terra palestinese.”

Goldblum ha aggiunto che “Israele pratica terrorismo di Stato contro i palestinesi e chiunque non protesti contro il terrorismo dello Stato israeliano è complice in un modo o nell’altro.” Nel frattempo, ogni sforzo che possa fermare il terrorismo di Stato è utile ed apprezzabile. Ha sottolineato che alcuni settori della destra israeliana sono considerati neo-nazisti, definendo “ragazzi di Hitler” i membri del movimento di destra “Im Tirtzu”.

Mentre le agenzie di sicurezza, l’esercito e l’amministrazione civile di Israele continuano a controllare le vite dei palestinesi su tutte le terre occupate, gli insediamenti coloniali mirano a controllare la terra tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano senza la presenza dei suoi originari abitanti. Cercano di sfumare i confini tra queste aree e l’occupazione stessa.

Lo schema di controllo sui palestinesi non è un fatto collaterale, ma il nucleo principale del lavoro instancabile di Israele”, ha detto Menachem Klein, lettore all’università Bar Ilan e consulente della delegazione israeliana nei negoziati con l’OLP. “Israele ha sviluppato propri meccanismi per controllare i palestinesi. E’ arrivato al punto di produrre dispositivi di identificazione biometrica, computer avanzati che scansionano testi sui social media e sui telefoni cellulari e processano grandi quantità di dati, oltre allo spionaggio mediante applicazioni come Pegasus. Tutto è finalizzato a controllare i palestinesi.”

Le sue parole comportano una chiara e inequivocabile ammissione che la descrizione delle autorità israeliane dei guerriglieri palestinesi come “terroristi e sabotatori” non convince tutti gli israeliani; che vi è un numero crescente di coloro che sono convinti che la Cisgiordania sia una terra occupata; e che prendere di mira i soldati israeliani in quei luoghi sia un atto di legittima resistenza, conforme al diritto internazionale. Questi israeliani possono mostrare esteriormente di accettare la narrazione dell’esercito, ma nel profondo sono perfettamente coscienti che i palestinesi sono dei combattenti per la libertà in una lotta contro i soldati di un’occupazione illegale e reietta.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




La sovranità illegale sulla terra palestinese

Mella Jongebloed

27 agosto 2022 – Mondoweiss

La violenza dei coloni a Hebron svela il vero volto coloniale del progetto sionista, e il mondo non può continuare a guardare mentre esso va avanti.

Passa un gruppo di undici giovani coloni, di età compresa tra i quindici e i diciotto anni. Li accompagnano due soldati a piedi e li affianca un veicolo militare. Lungo il ciglio della strada ci sono degli avamposti dove i soldati tengono sempre le armi pronte. I coloni ci dicono in ebraico qualcosa che non capiamo, i loro volti mostrano un’arroganza che non si addice alla loro età. Lungo la strada, a pochi metri, vediamo uno di loro sputare addosso a un palestinese che siede sulle scale davanti a casa sua. Nel passargli davanti pensiamo che quell’uomo sia muto. Borbotta parole incomprensibili, indica con le braccia i coloni, apparentemente sconvolto ma incapace di dire cosa sia successo.

È il giugno del 2022. Ho preso una pausa dai miei studi e sto trascorrendo tre mesi a Hebron, dall’inizio di maggio all’inizio di agosto. Sono solidale con la causa palestinese da quando ho appreso dell’occupazione nell’ambito dei miei studi sul Medio Oriente. Ma per diventare credibile nella difesa di questa causa ho voluto vivere la situazione in prima persona.

E l’ho sperimentata.

Dai piccoli gesti di violenza, come sputare addosso a un palestinese, danneggiare le finestre delle case palestinesi e far chiudere i battenti agli esercizi commerciali, fino a quasi uccidere un uomo disarmato nella sua terra, la vita a Hebron è piena di violenza da parte dei coloni. Fino ad oggi in Cisgiordania, sebbene la presenza di coloni sia illegale, i progetti di colonizzazione sono cresciuti e si sono intensificati. A Hebron circa 800 coloni ebrei vivono nel cuore della Città Vecchia. Al di fuori della città vecchia, negli insediamenti chiamati Kiryat Arba e Giv’at Ha-Avot, risiedono altri 8.000 coloni.

I palestinesi sono impotenti contro i coloni che, contrariamente a loro, possono portare i mitra a tracolla e sono costantemente scortati da un numero sproporzionato di soldati. I coloni agiscono come i sovrani illegali del territorio palestinese, rendendo la vita dei palestinesi insopportabile anche nella piccola porzione di Palestina su cui sono stati lasciati sopravvivere. Dato che Israele cerca di impedire ai turisti di recarsi in Cisgiordania intimidendoli è mio dovere testimoniare ciò che ho visto.

Nuovi vicini

Il 28 luglio dei coloni hanno occupato una casa palestinese all’inizio di via Shuhada. Questa strada era il principale centro di vita di Hebron, fino a quando non fu in gran parte chiusa ai palestinesi dopo il massacro del 1994 nella moschea di Ibrahimi, quando Baruch Goldstein, un medico estremista sionista, uccise 29 palestinesi in preghiera. La sua tomba è ancora visitata e venerata dai coloni.

La casa occupata dai coloni è una delle più belle della strada. Le pietre gialle sembrano aver preso il colore dal sole e dalla casa si può vedere la Moschea Ibrahimi e il resto della Città Vecchia.

Il primo giorno centinaia di coloni sono saliti lungo le scale di metallo appena installate che conducono alla casa di proprietà palestinese. Vengono costantemente sorvegliati da una ventina o una trentina di soldati, posizionati sul tetto, sui balconi e intorno alla casa. Quando sul tetto un gruppo di giovanissimi coloni tira fuori la prima bandiera israeliana, i vicini palestinesi osservano intimiditi.

Già accerchiati da 21 posti di blocco militari da ogni lato, con telecamere montate su ogni muro e con a fianco una casa di proprietà di coloni, crescerà la presenza di coloni e soldati violenti e, insieme, le violazioni dei diritti umani che sono parte integrante della vita quotidiana. Un palestinese che abita di fronte alla casa dice che ha già difficoltà a dormire. I coloni spesso bevono molto e maltrattano i vicini palestinesi. Ci lanciano pietre e ci maledicono, dice.

Souvenir in frantumi

Um Mahmoud, che vive con il marito e i figli accanto ai coloni, subisce tali molestie almeno ogni settimana. Solo due giorni fa alle 22:00 i coloni hanno lanciato pietre e bottiglie di birra contro la loro casa.

Durante le feste ebraiche i soprusi sono più gravi che mai. “L’anno scorso hanno lanciato uova, verdure marce e frutta, e hanno mandato in pezzi un sacco di cose”, spiega. “L’albero di limoni, le piante, le finestre, tutto è stato danneggiato e hanno lanciato pietre contro la nostra auto di famiglia”.

“I soldati, quando arrivano, spesso non fanno nulla o arrestano uno di noi”, spiega Um Mahmoud. Suo figlio Said, di 18 anni, è rimasto in prigione un mese e mezzo, e suo figlio Wadia, di 17 anni, una settimana. “Riesci a immaginare quali effetti hanno queste cose su un adolescente?” Sospira.

Nelle vecchie strade di Hebron la violenza dei coloni aleggia sopra la vostra testa. Sassi, sedie rotte, bottiglie vuote e quant’altro sono sparsi sulle reti tese sopra le strade a protezione degli abitanti. Un negoziante mi dice che i coloni gettano continuamente acqua sporca dalle loro finestre danneggiando i prodotti dei commercianti. Uno di loro, Bader Tamimi, ha un negozio proprio di fronte a un insediamento coloniale ebraico. I soldati controllano da una torre di guardia il suo negozio che viene regolarmente attaccato dai coloni. Il 9 agosto hanno iniziato a lanciare pietre contro il negozio, i commercianti e i clienti.

Il lancio di pietre era più intenso del solito. Siamo andati a cercare i soldati perché li fermassero, ma dopo essere usciti dalla loro postazione hanno iniziato a spararci addosso lacrimogeni e granate stordenti”.

Tour dei coloni

Questa non era la prima volta. Durante i settimanali “tour dei coloni” gruppi nutriti di coloni scortati da soldati visitavano la città vecchia di Hebron e il più delle volte molestavano i palestinesi lungo strada. Il negozio di Bader è stato spesso preso di mira a sassate. Mi mostra i lacrimogeni scagliati contro il suo negozio.

“Sia i coloni che i soldati vogliono renderci impossibile lavorare qui, o anche solo condurre le nostre vite”, dice.

Incastrati tra i coloni

La famiglia al-Ja’bari abita esattamente tra gli insediamenti coloniali di Kiryat Arba da una parte e Giv’at Ha-Avot dall’altra. Un sentiero che collega gli insediamenti attraversa proprio il loro terreno. Nel 2006 i coloni hanno posizionato sulla terra di al-Ja’bari una grande tenda con la funzione di sinagoga. Nonostante una sentenza del tribunale israeliano del 2015 secondo cui la tenda avrebbe dovuto essere rimossa, l’esercito ha permesso ai coloni di continuare a usarla. Ogni sabato accorrono a decine, mentre nelle festività ebraiche il numero sale a centinaia. Le Nazioni Unite hanno documentato molteplici attacchi alla famiglia da parte dei coloni: dagli spari al lancio di pietre, all’irruzione dentro casa, fino al vandalismo. I coloni hanno anche rubato bestiame e raccolti. Secondo la famiglia, a causa delle aggressioni da parte dei coloni ogni loro componente ha dovuto in una qualche circostanza essere ricoverato in ospedale. Ultimo il 64enne Abdul Karem al-Ja’bari.

Tubo di ferro

Nel corso di un tour politico da lui guidato l’attivista e difensore dei diritti umani Badia Dwaik ci ha informato di una aggressione avvenuta contro gli al-Ja’bari il giorno prima, il 17 giugno. Dwaik ha deciso di non portarci in quella zona di Hebron per motivi di sicurezza. Circa una settimana dopo sono andata con Badia a visitare Abdul Karem al-Ja’bari, chiamato anche Abu Anan. Aveva testa e braccio bendati. Più calmo di quanto ci si potesse aspettare, ci ha raccontato cosa era successo.

Ogni anno Abu Anan raccoglie le sue olive, e così stava facendo anche quest’anno. Alcuni soldati hanno attraversato il suo terreno, seguiti da un gruppo di coloni. Uno dei coloni camminava da solo. Secondo Abu Anan il suo aggressore era il figlio del direttore del consiglio dell’insediamento coloniale di Kiryat Arba e faceva parte di un gruppo di coloni che lo avevano minacciato una settimana prima. Erano andati via dopo che Abu Anan ha chiamato la polizia. Questa volta il colono si è fermato sul luogo in cui lui stava raccogliendo le sue olive. E’ rimasto lì per un po’ e sembrava studiare la situazione. Poi si è allontanato, continuando a camminare fino a raggiungere la propria casa nell’insediamento coloniale.

Inginocchiato e con gli occhi rivolti a terra, Abu Anan ha proseguito la raccolta e non ha notato il gruppo di coloni che si avvicinava alle sue spalle. Uno dei coloni lo ha colpito alla nuca. Il telefono di Abu Anan era caduto a terra, quindi ha raccolto il telefono, si è alzato e si è voltato, guardando negli occhi il suo aggressore. Questi indossava una maschera, ma i suoi vestiti erano riconoscibili; era lo stesso uomo. Il colono aveva nelle mani un tubo di ferro, la cui estremità era affilata come un coltello. Ha colpito Abu Hanan sulla testa. Al.Ja’bari a causa dell’adrenalina non sentiva ancora la profonda ferita nella sua testa. Si è accorto che dietro al colono ce n’erano all’incirca altri dodici con in mano dei bastoni.

Sangue e spray al peperoncino

L’aggressore di Abu Anan aveva nell’altra mano uno spray al peperoncino e ha iniziato a spruzzarglielo in faccia, ma Abu Anan è riuscito a farglielo cadere di mano con il telefono. Poi il colono lo ha colpito di nuovo in testa con maggiore violenza. Ha poi raccolto una pietra di circa cinque chili e l’ha lanciata contro Abu Anan, che ha alzato la mano per difendersi e si è ritrovato con un braccio rotto.

Nel frattempo gli occhi di Abu Anan iniziavano a bruciare. Erano stati raggiunti dallo spray al peperoncino e il sangue che usciva della ferita alla testa fluiva fino agli occhi. Mentre Abu Anan cercava di scappare il colono lo ha colpito alla testa un’ultima volta, per poi scappare con un gruppo di altri coloni che avevano assistito alla scena nei pressi dell’ingresso dell’insediamento coloniale. Con una mano fratturata e il sangue che sgorgava dalle tre profonde ferite alla testa, al-Ja’bari ha iniziato a correre in strada fino alle porte di Kiryat Arba. Ha gridato aiuto in ebraico ai soldati.

Abu Anan è morto”

I soldati israeliani hanno chiamato un’ambulanza, ma quando è arrivata l’ambulanza israeliana è comparso sul luogo uno dei più famigerati coloni di Kiryat Arba, Ofer Hanna. Secondo Abu Anan, questi ha impedito a chiunque, compreso il personale dell’ambulanza, di prestare aiuto. Ofer ha iniziato ad inventare una storia, dicendo che al-Ja’bari era stato aggredito perché era entrato nella tenda, situata sul suo terreno, che funge da sinagoga. Nel frattempo è arrivata un’altra ambulanza israeliana, oltre a otto soldati e alla guardia di sicurezza dell’insediamento. Dalle 9 alle 10 del mattino non è stato prestato ad al-Ja’bari nessun primo soccorso. Gli operatori dell’ambulanza erano evidentemente spaventati da Ofer e rimanevano semplicemente a guardare. Terrorizzata per suo marito, il cui sangue dall’estremità della mano scorreva giù per tutto il corpo, la moglie di al-Ja’bari ha chiamato la Mezzaluna Rossa Palestinese. Alla fine è arrivata un’ambulanza palestinese e ha trasportato al-Ja’bari in ospedale.

Nel frattempo, sotto gli occhi dei figli di al-Ja’bari, i coloni avevano tirato fuori un grande altoparlante davanti alla stazione di polizia dell’insediamento, situato a una cinquantina di metri dalla casa di al-Ja’bari. Cantavano “Abu Anan è morto”.

Impunità dei coloni

I medici hanno detto ad al-Ja’bari che non potevano credere che fosse ancora vivo. Sono stati necessari trenta punti di sutura alla testa. Il suo braccio è stato interamente ingessato. I medici gli hanno prescritto cinquanta giorni di riposo.

Ma non è morto. Quando la notizia ha raggiunto i coloni un gruppo di una ventina di persone ha iniziato ad attaccare la casa di al-Ja’bari, come si può vedere dalle riprese delle telecamere di sicurezza dell’abitazione. Le pietre sono finite sul tetto e hanno colpito il muro. Un colono ha cercato di distruggere l’auto di uno dei figli di Abu Anan. Quando la moglie di Abu Anan, Samira al-Ja’bari, ha chiamato la polizia, i coloni sono scappati.

Domenica l’amministrazione civile israeliana ha chiamato al-Ja’bari e gli ha proposto di sporgere denuncia alla stazione di polizia. Il governatore militare ha detto che i responsabili dovevano essere puniti. La polizia israeliana ha radunato in una stanza i coloni presumibilmente coinvolti, in quanto tutti inquadrati dalle telecamere posizionate dagli israeliani a ogni angolo di strada. Al-Ja’bari ha indicato con precisione chi aveva fatto cosa. Tra i presenti c’erano tre figli di Itamar Ben-Gvir, avvocato e membro della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.]. L’ufficiale di polizia ha detto ad Abu Hanan: sono sicuro che stai dicendo la verità. Questi coloni dovrebbero andare in prigione. Il giorno successivo, dopo aver trascorso una notte in carcere, tutti i coloni sono stati rilasciati senza accusa.

Restare a guardare

Oltre il 90% dei casi di violenza dei coloni rimane impunito, come riporta l’organizzazione israeliana per i diritti umani Yesh Din. Che stiano lanciando pietre contro negozi e case palestinesi, sputando e imprecando contro i palestinesi, prendendo illegalmente il controllo di case di proprietà palestinese o tentando di uccidere un anziano palestinese, i coloni sono protetti dai soldati e raramente puniti per i loro crimini. Con questo i soldati israeliani a Hebron stanno inviando un messaggio al mondo intero: noi stiamo a guardare mentre i padroni illegali della Cisgiordania fanno quello che vogliono.

Gli stranieri tendono a confortarsi al pensiero che questi coloni debbano essere i più estremisti, e non tutti gli israeliani siano come loro. Ma il numero crescente di israeliani che si trasferiscono in insediamenti illegali in Cisgiordania e i ricchi benefici che ricevono dal loro governo suggeriscono che questi coloni non appartengano al versante più estremista dello spettro [politico] israeliano, ma facciano piuttosto parte della famigerata prima linea del piano con cui Israele intende estendere il suo progetto coloniale.

Una sporca impresa coloniale

Naturalmente la colonizzazione della Cisgiordania è un’estensione della precedente occupazione delle terre colonizzate nel 1948, ora conosciuta come “Israele propriamente detto” e ampiamente accettata come status quo. Ma chi ricorda ancora gli oltre 400 villaggi e città palestinesi che vi furono cancellati, e chi ricorda ancora i 750.000 palestinesi che furono cacciati dalle loro case durante la Nakba del 1948? Vedere la situazione in Cisgiordania chiarisce come il 78% della Palestina storica, rappresentato dai territori colonizzati nel 1948, non sia mai stato abbastanza.

Tutti coloro che ancora sostengono la soluzione dei due Stati chiudono un occhio sul fatto che Israele non ha mai mostrato alcun rispetto per la sovranità dei palestinesi. Come dimostrano la violenza dei coloni e l’accanita protezione nei loro confronti da parte dei soldati, la pulizia etnica dei palestinesi continua ogni giorno e l’obiettivo finale del progetto sionista è cacciarli tutti dalla Palestina storica, anche da quel poco di terra che resta loro.

Non sorprende che Israele cerchi di impedire ai turisti di andare in Cisgiordania; qui il marciume e l’abiezione del progetto sionista sono messi a nudo, sotto gli occhi di tutti gli spettatori. L’ho visto e continuerò a raccontare queste storie finché il mondo non somiglierà più ai soldati che stanno a guardare.

Mella Jongebloed

Mella Jongebloed è una giornalista e blogger, studiosa di Studi Medio Orientali e Filosofia.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Murales giganti attirano l’attenzione sugli sgomberi di palestinesi a Gerusalemme est

Associated Press

27 agosto 2022, Haaretz

Un gruppo di artisti ha riempito una zona palestinese di Gerusalemme est con dipinti di grandi occhi sbarrati. I murales ricordano che tutti gli occhi sono puntati sul quartiere di Silwan, un’area cruciale in cui i palestinesi affermano che le forze e i coloni israeliani stanno lavorando per cacciarli dalle loro case.

Gli occhi dei murales sono così grandi che ti fanno sentire che ti stanno guardando ovunque tu vada nel quartiere. Molti sono dipinti sui muri di case palestinesi diroccate accanto a simboli nazionali.

“Gli occhi sbarrati dicono alle persone che noi li vediamo e anche loro dovrebbero vedere noi”, afferma Jawad Siyam, direttore del Madaa-Silwan Creative Center.

“Vogliamo dire che siamo qui: amiamo la nostra terra e la nostra casa”.

Dal 2015, il centro ha collaborato con artisti statunitensi per creare i murales e mantenerli. In totale, hanno realizzato circa 650 metri di graffiti e dipinti.

Il progetto artistico “I Witness Silwan” (‘sono testimone di Siwan’) ritrae gli occhi di leader e personalità palestinesi e internazionali. Presenta anche simboli come il cardellino e il papavero, che i palestinesi definiscono il loro fiore nazionale.

Gli organizzatori affermano che il progetto artistico mira ad attirare l’attenzione sulle deportazioni che i palestinesi devono affrontare in questo quartiere vicino alla Città Vecchia di Gerusalemme.

Israele ha occupato Gerusalemme est nella guerra in Medio Oriente del 1967 e ha annesso la città santa come sua capitale indivisibile. I palestinesi rivendicano la parte orientale come capitale del loro futuro Stato. I colloqui di pace tra le due parti si sono interrotti anni fa.

Il progetto Silwan afferma di mirare a contrastare i gruppi di coloni israeliani che lavorano per rafforzare la presenza ebraica nelle aree prevalentemente arabe o palestinesi della contesa città santa.

Gli abitanti palestinesi di Gerusalemme est devono affrontare arresti, incursioni nelle case, demolizioni e minacce di sfratto da parte di Israele. L’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem afferma che Israele ” sta esercitando enormi poteri” nel determinare la vita dei palestinesi dell’area “senza alcuna responsabilità per le sue azioni”

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Come Ibrahim al-Nabulsi è diventato il “Leone di Nablus”

Mariam Barghouti

15 agosto 2022 Mondoweiss

Ibrahim Al-Nabulsi ha dimostrato che è possibile riaccendere lo spirito di resistenza di una nuova generazione. Ecco perché Israele lo ha ucciso.

Huda, o Um Eyad, madre di Ibrahim al-Nabulsi, combattente della resistenza ucciso a 18 anni, siede accanto alla sua unica figlia e unica sorella di Ibrahim, Shahd al-Nabulsi, 23 anni.

L’abito blu scuro di Shahd contrasta con il suo pulito velo viola. C’è una macchia sotto le sue mani, sul lato sinistro dell’abito. Leggermente più scura del resto del vestito, sembra fuori luogo. Um Eyad cattura il mio sguardo. «È il sangue di Ibrahim, questa macchia», dice. Proprio il giorno prima, il 9 agosto, Um Eyad ha perso il suo terzogenito, Ibrahim, che non avrebbe più compiuto i 19 anni in ottobre.

Nel pomeriggio, il cimitero Gharbiyyeh di Khallet al-Amoud a Nablus si è appesantito di tre corpi. Ibrahim al-Nabulsi, Hussein Taha e Islam Subuh vi riposano in pace. I tre sono stati uccisi il 9 agosto nella città vecchia di Nablus, nella Cisgiordania settentrionale occupata, in un’operazione militare israeliana in coordinamento con l’intelligence israeliana.

Um Eyad è ora facilmente riconoscibile – i social media palestinesi sono stati inondati dalla sua immagine che fendeva la folla di migliaia per lo più uomini che assistitevano al funerale dei martiri, portando il cadavere del “Leone di Nablus“.

Era un quadro diverso dalle immagini comuni di uomini che trasportano i morti. Non lo faceva perché era il corpo di una nuova icona palestinese – era suo figlio.

Il 10 agosto, all’interno della piccola sala di comunità nel quartiere Khallet Al-Amoud della Città Vecchia di Nablus, le donne sedevano in abiti neri a contrasto con le luminose sciarpe bianche sulle teste. Le spalle coperte da kuffiyeh palestinesi bianche e nere rendevano più facile a coloro che porgevano le condoglianze distinguerle dal resto della folla di donne in lutto.

Il più giovane dei martiri, Hussein Taha, aveva solo 16 anni quando fu ucciso. Sua madre e sua sorella sedevano accanto a Um Eyad, in lacrime e sorrisi stentati nel riconoscere gli ospiti che si radunavano. Anche il maggiore dei martiri, Islam Subuh, 32 anni, è stato ucciso nella battaglia, un evento che segna ora una nuova era della resistenza armata palestinese.

La stanza era piena di madri, mogli e sorelle di martiri palestinesi uccisi dal regime coloniale. Sulla scena continuavano ad arrivare autobus con le famiglie dei martiri di Jenin e altre zone della Cisgiordania. Le giovani donne della piccola città di Khallet al-Amoud si muovevano rapidamente per servire caffè – una tradizione del lutto in Palestina – e acqua per la sete delle persone in lutto col caldo.

“Gli avevo comprato un cappellino”, ha detto a Mondoweiss Shahd, 23 anni, il giorno dopo l’assassinio di suo fratello Ibrahim nel municipio a poche centinaia di metri dalla casa di famiglia. Trattenendo le lacrime, Shahd si dispera di non aver potuto darglielo. Fa un respiro e sussurra una preghiera, “al-hamdulilah [lode a Dio]”, un’espressione di umiltà e gratitudine per il proprio destino, comunemente ripetuta sia nei momenti di difficoltà che di gioia.

“Era così amato nella comunità”, ha detto a Mondoweiss Haifa, la zia di al-Nabulsi, 41 anni. “Era anche così ribelle e tenace. È cresciuto in queste strade, non sono strade facili in cui crescere, specialmente nei primi anni di infanzia”.

Ibrahim è nato nel 2003, nel pieno della Seconda Intifada, quando la città natale di Nablus era costantemente sotto assedio da parte dell’esercito israeliano.

Dalla sua nascita, ogni anno sempre più bambini palestinesi come lui venivano uccisi e arrestati dall’esercito israeliano. Proprio l’anno scorso, il 2021, è stato documentato come il più letale per i bambini palestinesi dal 2014, per via degli attacchi israeliani da parte di coloni e militari.

Incastrato tra le antiche mura

Nella Città Vecchia, ogni angolo reca le tracce di una battaglia che i palestinesi hanno combattuto contro i coloni o l’esercito israeliano. E se no le vecchie mura sono segnate da pietre più recenti, di ristrutturazioni seguite alle parziali distruzioni della città durante le invasioni.

La città vecchia di Nablus è piena di manifesti di palestinesi uccisi, da combattenti della resistenza a bambini trattenuti ai posti di blocco. Poster appena stampati con foto di al-Nabulsi e dei suoi compagni caduti decorano le pareti. Alcuni striscioni sembrano più vecchi dello stesso al-Nabulsi, ma in agosto il quartiere di Faqous nella Città Vecchia si è riempito della storia del “Leone di Nablus” palestinese.

“Fammi una foto, fammi una foto”, dice uno dei bambini, chiamandomi mentre mi dirigo verso il quartiere di Al-Faqous, alla ricerca delle tracce dell’assalto israeliano del 9 agosto.

Il bambino, con il suo cane Luka, posa con gli amici. Mentre il fotografo scatta la foto, noto una collana sul collo del ragazzo, con la foto di un altro ragazzo. La collana somiglia ad altre che avevo visto prima sul collo delle donne nella sala del lutto, immagini di familiari uccisi o imprigionati.

Gli ho chiesto chi era nella foto. «Un mio amico », dice con un sorriso timido.

Subito ho pensato che fosse suo padre, suo fratello o suo zio, perché nella cultura palestinese queste collane non servono semplicemente per commemorazione o esibizione, ma sono autentiche testimonianze della perdita di una persona cara per mano dell’occupazione. Non mi ero resa conto che la foto fosse di un altro ragazzo.

L’amico del ragazzo era Ghaith Yamin, il sedicenne ucciso a Nablus con un colpo di arma da fuoco alla testa mentre si trovava sul tetto di casa sua, vicino alla Tomba di Giacobbe, quando lo scorso 24 maggio l’esercito israeliano ha fatto irruzione nella città.

In qualche modo ho capito l’ostilità di cui parlava Haifa solo poche ore prima ricordando l’infanzia di al-Nabulsi. La continua violenza a cui hanno assistito bambini, giovani e adulti palestinesi di ogni ceto e in modi così diversi si sentiva più cocente mentre il ragazzo cercava di confortare Luka, che si era messa ad abbaiare.

La luna sorta e alta in cielo, la moschea Khudari nella Città Vecchia fa eco alla chiamata alla preghiera maghrebina, “Allahu Akbar [Dio è grande]”. Un mantra islamico che significa umiltà; i vicoli risuonano ricordando che solo Dio è grande e il resto è solo umanità. La luce dorata che baluginava pochi istanti prima è scomparsa e la porta crivellata di proiettili dove sono stati uccisi al-Nabulsi e Subuh diventa invisibile.

Un gruppo di uomini nelle vicinanze segue la mia intrusione. Eppure, se un turista fosse passato vicino non si sarebbe reso conto del delitto perpetrato lì solo due sere prima.

Il cucciolo testardo

Secondo chi l’ha conosciuto, prima di diventare un combattente della resistenza al-Nabulsi era un tipico adolescente, leale e aggressivo allo stesso tempo. Le storie che sua zia raccontava mi hanno ricordato molti uomini, un tempo ragazzi, che ho incontrato nelle città della Palestina. Al-Nabulsi è ricordato da bambino come un “Nimrood”, termine preso a prestito dalla storia biblica di Nimrod per indicare lo spirito di un ribelle che rifiuta di sottomettersi all’autorità.

I vicoli di Al-Faqous e le macerie lasciate dall’esercito israeliano all’interno dell’edificio in cui fu assassinato al-Nabulsi richiamano alla memoria le violente invasioni dell’esercito israeliano nel 2002 a Nablus e Jenin.

All’epoca, la Città Vecchia era obiettivo di una spietata campagna militare di bombardamenti e scontri di strada, che danneggiavano non solo i rifugi, i mezzi di sussistenza e le persone palestinesi, ma distruggevano anche reperti storici in una città fra le più antiche al mondo. È stato anche il momento in cui le autorità e i ministri israeliani hanno impostato la famigerata politica del “fuoco aperto”.

Quasi esattamente due decenni dopo la scena sembra familiare ai residenti. Il sangue di al-Nabulsi, o forse Subuh, è schizzato sui muri all’interno della casa demolita, segnando il luogo della loro ultima resistenza. Se non avessimo avuto le torce sarebbe stato difficile capacitarci dell’entità del crimine. In un angolo di quella che sembra essere stata usata come cucina c’era un unico sacchetto di pane pita e una padella. Tra i detriti anneriti c’era il marrone e giallo brillante di una tavoletta di cioccolato Aero, mai aperta.

La dichiarazione di due decenni fa, quando nei primi anni 2000 il governo israeliano stava decidendo di lanciare un attacco, sembra ancora attuale: “Israele agirà per sconfiggere l’infrastruttura del terrore palestinese in tutte le sue sezioni e componenti; a tal fine, sarà intrapresa una vasta azione fino a quando questo obiettivo non sarà raggiunto”. In quegli anni, intere città erano sottoposte al coprifuoco, e le persone potevano uscire di casa solo per fare la spesa ogni tre o quattro giorni ad un’ora stabilita.

La pandemia mondiale di COVID-19 ha forse dato al mondo un piccolo assaggio di cosa significhi essere costretti a rimanere chiusi in casa per lunghi periodi di tempo, anche se senza la costante minaccia di bombe e morte che incombe su di te da ogni parte. Nell’infanzia di al-Nabulsi, questa non solo era la norma, era anche imposta dai carri armati e dalle truppe paramilitari israeliane che hanno in seguito ammesso di aver commesso crimini di guerra.

Ancora ai nostri giorni i ministri israeliani giustificano quei crimini esaltandone la capacità di scoraggiare l’attività di resistenza. Eppure, più di due decenni dopo, la falsità delle affermazioni di Israele è evidente nella persistenza della resistenza palestinese. Ciò sottolinea che la strategia militare di Israele non solo si è rivelata inefficace, ma fa anche un uso ambiguo della voce “sicurezza nazionale” per nascondere le politiche criminali di pulizia etnica

Ibrahim al-Nabulsi, nato anche lui al culmine della Seconda Intifada palestinese, divenne rapidamente una leggenda nelle strade palestinesi e tra la sua generazione. La resistenza palestinese si è scontrata con carri armati, missili e distruzioni di massa. Circa un mese prima di nascere, al-Nabulsi ancora nel grembo materno, i militari israeliani demolirono un edificio di 7 piani come punizione collettiva usando l’artiglieria pesante sulle case dei civili. Solo tre anni prima, un’immagine di Faris Odeh, il bambino che affrontava un carro armato militare israeliano a Gaza, si diffuse in tutto il mondo, impersonando la battaglia tra il proverbiale David palestinese che affronta un imponente Golia israeliano.

I primi anni dell’infanzia di al-Nabulsi hanno coinciso con i crimini militari israeliani nei campi profughi di Jenin e Nablus tra il 2001 e il 2004. Nonostante la conferma e l’ampia documentazione, i comandanti e i soldati israeliani non sono ancora stati incriminati.

A quel tempo, anche la Cisgiordania stava esplodendo grazie ai combattenti della resistenza armata palestinese. Nel marzo 2002 il regime israeliano lanciò l’Operazione Scudo di Difesa, che ha una sorprendente somiglianza con l’attuale campagna lanciata esattamente 20 anni dopo nel marzo di quest’anno, Operazione Break the Wave. Che comprende l’operazione Breaking Dawn, l’attacco di tre giorni alla Striscia di Gaza in cui sono stati uccisi decine di civili, compresi molti bambini.

Un dispaccio ufficiale dell’esercito israeliano ha definito i “risultati” dell’operazione Scudo di Difesa in termini di arresto di “molti terroristi ricercati” e sequestro di “quantità enormi di armi” da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Questo ha segnato il momento in cui la strategia israeliana di sradicare sistematicamente i rifugi della resistenza palestinese ha portato all’emarginazione di gruppi armati come la Brigata dei martiri di Al-Aqsa (l’ala militare di Fatah) all’interno del panorama politico della Cisgiordania. Secondo quanto riferito, Al-Nabulsi era diventato un membro proprio di quella brigata, che, nonostante la campagna di repressione israeliana e la collusione dell’Autorità Nazionale Palestinese nel disarmo, è riuscita a sopravvivere e riorganizzarsi, stabilendo una presenza crescente anche se tenue in luoghi come Jenin e la Città Vecchia di Nablus.

Le parole della madre di al-Nabulsi, Um Eyad, mi risuonano ancora nelle orecchie quando diceva: “Non voglio concedergli nemmeno le mie lacrime. Ibrahim è un martire, al-hamdulilah». Queste parole non sembravano consolare davvero il suo dolore, ma almeno consentivano di collocarlo in una speranza di cambiamento.

Dopo essere scoppiata a gridare in ospedale quando il dottore ha annunciato scusandosi “istash-had [è stato martirizzato]”, Um Eyad ha in seguito detto a una folla di persone in lutto: “Si sbagliano se pensano di aver ucciso Ibrahim. Tutti sono Ibrahim”.

Considerando quelle parole ho pensato alla forza di questa donna, a come ha messo da parte il proprio dolore per dimostrare a tutti il vero significato del sacrificio di Ibrahim. Poi ho detto fra me e me una preghiera: che nessuna madre sia messa nella posizione di trovare in qualche modo la forza di portare come simbolo il nome del figlio ucciso.

Dopo aver raccontato diverse storie di famiglie di martiri e aver assistito al dolore di mia madre quando suo nipote fu ucciso nella Seconda Intifada, ho appreso necessariamente un diverso tipo di dolore. Non è semplicemente la perdita di un figlio, un fratello, un marito, una figlia, una sorella o una moglie: è la brutalità della perdita per mano di un regime criminale. Una volta una madre lo descrisse come qualcosa di simile a un costante bruciore nel petto.

Mai nascosto, Al-Nabulsi era connesso alla sua realtà

“È stato come un film dell’orrore, continuo a ricordare i giorni dell’invasione”, ha detto a Mondoweiss accanto al luogo dell’assassinio S., una vicina. “Era così gentile.”

Ha ricordato quando negli ultimi mesi lo vedeva camminare per la Città Vecchia, sfuggendo a diversi tentativi di omicidio israeliani.

“Continuo a non crederci”, dice Shahd, sorella di al-Nabulsi, mentre la sua piccola Mariam si slancia col magro corpo sulle scale di cemento sotto il vestito blu scuro della madre.

Nel mese prima della sua uccisione la Città Vecchia ha visto al-Nabulsi più della sua stessa famiglia. “Mi dispiace, non verrò con te sul luogo [dell’assassinio]”, mi ha detto il ricercatore palestinese residente nella Città Vecchia di Nablus Bassel Kittaneh, da un tetto di fronte alla moschea più vicina al luogo dove al-Nabulsi è stato ucciso. Ha spiegato scusandosi: “Non sono ancora pronto”.

Giorni dopo l’uccisione di al-Nabulsi, Taha e Subuh, i quartieri della Città Vecchia erano ancora pieni di vita. Nonostante la terribile perdita, c’è stata una rinnovata fiamma di sfida che il suo personaggio ha acceso – una dimostrazione di rispetto per come un giovane quale al-Nabulsi sia stato in grado di compattare la forza di uno degli apparati di sicurezza più potenti del mondo, i Servizi di sicurezza generali (Shin Bet) e l’esercito israeliano, per chiedere il suo assassinio.

Secondo testimoni e residenti della Città Vecchia di Nablus e delle città vicine, al-Nabulsi non si è mai nascosto. Quando lo si vedeva camminare non era necessariamente con orgoglio, ma con una postura che faceva pensare a uno che si assumesse delle responsabilità. Chiunque in Palestina sfogliando TikTok troverà i post di residenti di Nablus che hanno filmato Nabulsi mentre camminava per la Città Vecchia, chiamandolo per nome e scattandosi selfie con lui che sorrideva quasi imbarazzato. Era quasi come se lo stessero salutando, sapendo che prima o poi sarebbe stato martirizzato.

“Era sincero e gentile nei suoi rapporti”, mi ha detto Kittaneh.

Eppure, nonostante la forza e la sfida dimostrate da al-Nabulsi negli scontri, è discutibile che al-Nabulsi costituisse la minaccia che i media e i portavoce militari israeliani hanno fatto credere. Ma ciò che Nabulsi rappresentava – la minaccia di riaccendere lo spirito di resistenza armata in Cisgiordania – era qualcosa che Israele non era disposto a lasciar accadere. In effetti, l’esercito israeliano ha preso di mira i palestinesi sospettati di resistenza armata e li ha assassinati extragiudizialmente come parte dell’operazione ‘Breaking the Wave’.

Funzionari delle Nazioni Unite e organizzazioni per i diritti umani hanno costantemente segnalato la recente intensificazione da parte dell’esercito israeliano delle campagne contro i palestinesi, ricorrendo persino alla pratica illegale della detenzione amministrativa di avvocati per i diritti umani e usando forza letale contro manifestanti palestinesi disarmati.

Il tutto è parte di una strategia di “controllo dell’escalation”, un approccio coercitivo per controllare l’intensificarsi della resistenza in modo da porre l’altra parte in una posizione di svantaggio riducendo la sua capacità di reazione. Anche l’intelligence israeliana e le unità militari hanno dato il via libera e rilanciato la strategia di sparare per uccidere in tutta la Cisgiordania. Ciò è avvenuto mesi prima dell’attacco a Gaza nella prima settimana dell’agosto di quest’anno.

Eppure, nell’assordante sete di annessione e apartheid di Israele, Ibrahim Al-Nabulsi, non ancora 19enne, ha detto addio alla Città Vecchia di Nablus combattendo, armato solo di un fucile.

Secondo i testimoni, Israele ha usato missili a spalla ad alta tecnologia per bombardare il suo rifugio, con fori dei proiettili dappertutto sulla porta di metallo. Un filmato che si dice sia di al-Nabulsi mostra un giovane che spara goffamente con una pistola durante una precedente invasione militare. Senza un addestramento militare formale e con armi obsolete, al-Nabulsi non ha mai avuto una vera possibilità.

Il miracolo è stato che, nonostante l’attacco spietato, in qualche modo al-Nabulsi è uscito vivo dalla devastazione. La morte è stata dichiarata in ospedale circa un’ora dopo.

Il ruggito del leone per la liberazione

L’ascesa di una nuova generazione palestinese di resistenza armata sembra aver creato l’effetto contrario a ciò che l’esercito e il controspionaggio israeliani speravano in termini di “deterrenza”.

“Perfino durante l’ultima ondata di ripresa della resistenza abbiamo visto anche la nascita di nuova vita a Nablus”, ha spiegato Kittaneh a Mondoweiss. “La Città Vecchia sta riacquistando rilievo e il suo antico senso di importanza.”

Kittaneh ha scontato 15 anni con l’accusa di affiliazione alle Brigate Palestinesi Izz el-Din al-Qassam, l’ala militare di Hamas. Fu arrestato lo stesso anno in cui nacque al-Nabulsi. Con la città di Nablus che si stende all’orizzonte alle sue spalle, Kittaneh riflette sulla sua giovinezza. “Ogni generazione reagirà in modo diverso, ma ogni generazione reagirà”, dice a Mondoweiss.

Per garantire il controllo dell’escalation, Israele ha deciso di creare un effetto collettivo di shock e terrore nei palestinesi. Ciò include gli omicidi extragiudiziali di palestinesi come le decine di persone uccise nella prima metà di quest’anno, o l’incarcerazione di bambini di appena 12 anni.

Questa tattica, come ha spiegato la pluripremiata giornalista Naomi Klein, garantisce di infliggere danni emotivi, mentali o fisici in modo progressivo nel tempo, per paralizzare lentamente una popolazione fino all’inerzia. “Lo shock svanisce, ma non quando te lo aspetti, come nel momento preciso della liberazione. . . le esperienze di shock convivono con l’eredità della paura per anni “, ha spiegato Klein in un’intervista.

Le agenzie e i resoconti hanno definito il giovane combattente “comandante supremo” e “militante esperto”, ma al-Nabulsi ha vissuto un’altra vita, quella con i suoi amici e la sua famiglia. “Quando gli chiedevamo perché andasse avanti, rispondeva: ‘Sto facendo rivivere lo spirito di resistenza di un’intera generazione'”, ha detto Shahd a Mondoweiss. Sembra che la resistenza continui ad alimentarsi col riconoscere che non esiste un’infanzia palestinese.

“Quello di cui Israele non ha tenuto conto è che, quando la gente della Città Vecchia ha visto l’esercito israeliano entrare e fare irruzione a Nablus in pieno giorno per arrestare i giovani o assassinarli in quel modo orrendo…” Kittaneh si interrompe mentre dice così, fermandosi un attimo prima di continuare. “La cosa non ha spaventato di più le persone. Al contrario, ha spinto ancora di più i palestinesi verso lo scontro”.

È sempre più evidente che la profondità della sfida di al-Nabulsi e di Subuh deriva dal riconoscimento del fatto che gli è stata rubata l’infanzia, il suo stesso diritto di essere. Mi ricorda le immagini dei bambini che, per quanto piccoli e magri, in qualche modo raccoglievano la forza di affrontare i soldati, rifiutandosi di essere terrorizzati da loro.

Una ninna nanna per la famiglia

Una bambina dorme in grembo alla madre nonostante il caldo di metà pomeriggio a Nablus. Entrano ed escono donne sconosciute che si sporgono sul suo piccolo corpo per rendere omaggio alle tre famiglie che hanno perso i loro figli, uno di soli 16 anni.

“Hayat”, mi dice una donna anziana, indicando la piccola che dorme tra le sue braccia durante il funerale. È la nipote di al-Nabulsi.

«Il suo nome significa vita», dice la donna.

Se al-Nabulsi è celebrato come il “Leone di Nablus”, era anche conosciuto come lo zio giovane e ribelle, critico di tutto ciò che gli era stato detto, impegnato per la sua libertà e la libertà di tutti coloro che lo circondavano, inclusa Hayat .

Pochi giorni dopo la sua morte, la famiglia di Ibrahim si è riunita una sera nella casa di Nablus. La zia di Ibrahim ha continuato a disperarsi per l’assenza del nipote dalle loro vite. “Quando ci sediamo a tavola e la sedia di Ibrahim è vuota sentiamo la sua mancanza”, dice tristemente. “E quando in qualche modo viviamo un momento di gioia, cominciamo tutti a dire ‘se solo Ibrahim fosse con noi.'”

Mariam Barghouti è corrispondente senior dalla Palestina per Mondoweiss.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Testimoni sostengono che il sedicenne palestinese è stato ucciso dal fuoco dei coloni israeliani

Mariam Barghouti  

1 agosto 2022 – Mondoweiss

Testimoni oculari dicono che Amjad Abu Alia è stato ucciso dal fuoco proveniente dal luogo in cui si trovavano dei coloni israeliani ripresi mentre sparavano e tiravano pietre contro i palestinesi nella zona.

Sabato 30 luglio la città di al-Mughayyir ha reso l’estremo omaggio a uno dei suoi figli, Amjad Nashaat Abu Alia, ucciso il giorno precedente, venerdì 29 luglio. 

Abu Aliaa aveva solo sedici anni quando è stato ucciso mentre cercava di sfuggire a coloni e soldati israeliani che stavano sparando proiettili veri e tirando pietre contro manifestanti palestinesi disarmati nel paesino del distretto di Ramallah, nella Cisgiordania occupata. 

Abu Alia stava partecipando a una protesta con abitanti della cittadina e attivisti che provenivano da fuori nel tentativo di contenere l’escalation, nel corso delle ultime settimane, di attacchi da parte dei coloni contro il loro villaggio.

I manifestanti disarmati che sventolavano bandiere palestinesi e gridavano slogan contro l’espansione degli insediamenti sono stati accolti da coloni israeliani provenienti dal vicino avamposto illegale di Adei-Ad. L’esercito israeliano ha anche lanciato lacrimogeni e sparato pallottole di gomma contro i dimostranti. 

Il colono armato insieme al soldato si confronta con un palestinese nel giorno dell’uccisione del ragazzo sedicenne. Foto :Hadi Sabarna

Secondo i testimoni oculari anche parecchi coloni israeliani armati hanno attaccato manifestanti e giornalisti e tirato pietre contro di loro mentre i soldati stavano a guardare senza intervenire. 

La violenza dei coloni insieme a quella dell’esercito ha aggravato lo scontro e i giovani palestinesi del villaggio hanno risposto lanciando pietre. Le riprese video dei giornalisti presenti mostrano i soldati israeliani che sparano proiettili veri contro i dimostranti mentre i coloni tirano pietre verso i palestinesi.

Testimoni oculari e giornalisti hanno detto a Mondoweiss che anche vari coloni armati hanno sparato proiettili veri verso i palestinesi. Resta da confermare se la pallottola che ha ucciso Abu Alia provenisse dai soldati israeliani o dai coloni. 

Dopo essere stato colpito al petto da proiettili veri, Abu Alia è stato portato in ospedale dove poco dopo ne è stata dichiarata la morte. Almeno due altri palestinesi sono stati feriti con proiettili veri: uno, colpito alla coscia, è in condizioni critiche. Tre altri sono stati colpiti da pallottole di acciaio ricoperte di gomma.

Laila Ghannam, governatrice di Ramallah, ha detto ai giornalisti: “Noi non abbiamo ancora indagato a fondo, ma i testimoni affermano che lo sparo che ha colpito il ragazzo proveniva dalla parte dei coloni, non da quella dell’esercito.”

Secondo Haaretz l’esercito israeliano ha ammesso di essere “a conoscenza della denuncia” dell’uccisione di un palestinese, ma non ha approfondito. Questa è una posizione consueta dell’esercito israeliano. Abu Alia è il diciassettesimo minore palestinese ucciso dalla violenza israeliana dall’inizio di quest’anno. 

Coloni armati di pistole e M16: ‘È stato spaventoso’

Hadi Sabarna, un fotogiornalista palestinese sulla scena nel momento in cui Abu Alia è stato ucciso, ha detto a Mondoweiss che sia i soldati israeliani che i coloni hanno sparato verso il ragazzo. 

È stato spaventoso, c’era una giovane colona vestita casual con un telefonino in una mano e una pistola nell’altra.”

la colona armata di pistola .Foto : Hadi Sabarna

C’erano anche coloni con i loro M-16 [fucili d’assalto dell’esercito USA]. Era come se l’esercito li stesse addestrando a sparare e attaccare e intervenisse solo a favore dei coloni,” continua Sabarna.  

Maher Naasan, un attivista palestinese presente durante la protesta, anche lui ferito al petto da un proiettile ricoperto di gomma, ha detto a Mondoweiss che “il ragazzo [Abu Alia] era stato preso di mira dai coloni. Non costituiva in alcun modo una minaccia alle loro vite.”

Naasan aggiunge che i coloni hanno provocato l’escalation della situazione fin dall’inizio, quando sono apparsi alla protesta armati di pistole e hanno cominciato ad attaccare i manifestanti palestinesi.  

Sabarna spiega che non è stato solo l’esercito, ma che anche uno dei coloni ha sparato contro Abu Elia nel momento in cui sparavano i soldati. 

Ricordando la scena vicino alla strada principale di al-Mughayyir, Sabarna spiega: “Amjad e altri giovani si stavano allontanando dai coloni che lanciavano sassi.”

I soldati hanno inseguito gli shabab (giovani) sparando contro di loro mentre i coloni continuavano ad attaccare stando alle loro spalle.” 

Sabarna dice che soldati e coloni continuavano a prendere di mira i giovani che a questo punto cercavano di sfuggire alla violenza armata: “Gli shabab  tiravano pietre per difendersi.” I coloni e l’esercito hanno continuato a sparare contro i palestinesi e alla fine ne hanno colpiti tre, incluso Abu Alia. 

Amjad aveva sete, ho visto che quando gli hanno sparato aveva una bottiglia d’acqua in mano,” ricorda Sabarna. “L’ha aperta, ma non è riuscito a bere, correva con la bottiglia in mano.” 

Attacchi di coloni imbaldanziti

Al-Mughayyir è una cittadina di 3.102 abitanti a 27 km a nord est di Ramallah. Per anni la comunità ha subito la continua minaccia di attacchi sempre più intensi dei coloni e le annessioni forzate con l’esercito israeliano in prima linea. 

Solo poche settimane fa, il 10 luglio, ad al-Mughayyir alcuni coloni hanno attaccato un palestinese le cui ferite hanno richiesto il ricovero in ospedale. Nel gennaio 2019 un gruppo di coloni armati ha attaccato la cittadina e ucciso il trentottenne Hamdi Naasan e inseguito e ferito oltre 30 altri abitanti.  Nonostante i tentativi dei giovani palestinesi di lanciare pietre contro i coloni come deterrente, in quell’occasione nove palestinesi sono stati gravemente feriti con proiettili veri e ricoverati in ospedale.

Tutto ciò continua a succedere. Le nostre proteste pacifiche avvengono a fronte della violenza da parte dei coloni che hanno chiuso gli ingressi al villaggio, aggredito noi e i pastori nella zona,” dice Naasan.

Nel 2011 e nel 2014 in due occasioni separate i coloni israeliani di Adei-Ad hanno dato fuoco alla moschea di al-Mughayyir, profanando un luogo di culto. L’avamposto di Adei-Ad, fondato da un gruppetto di coloni israeliani nel 1998, è illegale ai sensi di leggi internazionali e israeliane. 

Nonostante l’ordine di abbandonare gli avamposti agli inizi degli anni 2000, i coloni ci mantengono una presenza e frequentemente attaccano i palestinesi nelle zone circostanti, anche ad al-Mughayyir. C’è un progetto di inglobare Adei-Ad nella vicina colonia di Amihai, legalizzando in tal modo l’avamposto. 

Noi viviamo in mezzo a un esercito che blocca l’accesso alle nostre terre e caccia i palestinesi con il pretesto delle ‘aree militari chiuse,’ eppure, non si sa come, permette a civili e cittadini israeliani di muoversi a loro piacimento,” dice Naasan. 

Fa tutto parte del tentativo dei coloni di cacciarci via.” 

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)




Israele porta avanti una campagna di arresti nella Cisgiordania occupata

Redazione di MEMO

Lunedì 18 luglio 2022 – Middle East Monitor Le forze di occupazione israeliane hanno lanciato una massiccia campagna di arresti in un certo numero di città e villaggi in tutta la Cisgiordania occupata. Le forze sono state affrontate dagli abitanti, che hanno tentato di impedire le incursioni.

All’alba di lunedì le forze israeliane hanno effettuato incursioni in quartieri di Ramallah, Betlemme, Nablus ed Hebron e anche nel campo profughi di Jalazone. Almeno dieci palestinesi sono stati arrestati durante le ultime retate.

Domenica sera nei quartieri di Marhaba e Tira [a Ramallah] ci sono stati scontri armati tra i combattenti della resistenza e le forze di occupazione. Queste ultime effettuano frequentemente incursioni nel quartiere per proteggere i coloni illegali che li attaccano con il pretesto che ci sono siti archeologici e tombe ebree nel settore ovest di Tira.

I tre giovani abitanti del campo profughi di Jalazone che sono stati arrestati si chiamano Muhammad Abdullah Nakhleh, Musa Issa Sharakah e Salam Shehadeh Al-Tarawih. Dopo che le loro case sono state perquisite, sono stati condotti dalle forze israeliane in un luogo sconosciuto.

Sul campo si sono scontrati decine di giovani e le forze di occupazione: sono stati sparati lacrimogeni e pallottole di metallo ricoperti di gomma. Non sono stati riportati feriti.

La scorsa notte gli israeliani hanno arrestato tre palestinesi di Betlemme. Fonti locali hanno riportato che un’unità militare israeliana ha fermato un veicolo vicino al villaggio di Wadi Fukin ad ovest della citta ed ha trattenuto i suoi passeggeri prima che fossero arrestati. I loro nomi sono quelli di un ex- detenuto e dell’ex-sindaco del Comune di Aldowa, Raafat Nafeth Jawabrae Alaa Ali Al-Satagi, e Basel Abdelfattah Al-Jabri.

Nel distretto di Hebron, le forze di occupazione hanno arrestato Diaa Amro e Hamza Amro, abitanti di Dura e Omar Burqan residente in città. E’ stato arrestato anche Hamed Jasser, di Beita, a sud di Nablus.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Palestinese ucciso dopo essere stato pugnalato al cuore da un colono israeliano

Shatha Hammad

21 giugno 2022 – Middle East Eye

Ali Hassan Harb, 27 anni, è stato accoltellato al cuore vicino al villaggio palestinese di Iskaka, afferma il Ministero della Salute

Il Ministero della Salute palestinese riferisce che un palestinese è stato ucciso martedì dopo essere stato pugnalato al cuore da un colono israeliano.

Ali Hassan Harb, 27 anni, è stato dichiarato morto quando è arrivato all’ospedale Martyr Yasser Arafat di Salfit, nella Cisgiordania occupata, ha detto il Ministero della Salute.

Lo zio della vittima, Naim Harb, presente sulla scena dell’incidente quando è avvenuto, dichiara a Middle East Eye che la famiglia ha ricevuto una telefonata secondo cui un gruppo di coloni stava attaccando la terra della famiglia, che è adiacente all’insediamento israeliano di Ariel e che stavano distruggendo un capanno di legno che la famiglia vi aveva costruito.

Harb ha aggiunto che la famiglia e un certo numero di abitanti del villaggio – circa 10, tra cui Ali – si sono precipitati su quel terreno per difenderlo.

I coloni se ne sono andati quando li hanno visti avvicinarsi, ma sono tornati pochi istanti dopo accompagnati da membri della sicurezza dell’insediamento, che hanno iniziato a sparare in aria. Con loro è arrivato anche un soldato israeliano.

“Lo scontro all’inizio era leggero. Abbiamo cercato di mantenere le distanze e di non avvicinarci troppo a loro. Abbiamo cercato di controllarci”.

I coloni hanno quindi ripreso i loro attacchi, aggredendo gli uomini palestinesi prima che improvvisamente uno dei coloni si avvicinasse ad Ali e lo pugnalasse direttamente al cuore.

Naim conferma che l’esercito israeliano ha trattenuto Ali per circa mezz’ora e ha impedito alla famiglia di trasportarlo in ospedale, provocandone la morte.

Aggiunge a MEE: “Tutto ciò è successo sotto la protezione dell’esercito israeliano e degli agenti della sicurezza dell’insediamento, che hanno assistito all’assalto dei coloni e non li hanno fermati”, ha detto a MEE.

“I coloni e l’esercito sono una macchina per uccidere diretta contro noi palestinesi”.

Gli uliveti della famiglia Harb, parte dei quali sono stati confiscati, sono adiacenti al recinto dell’insediamento di Ariel. Naim ha sottolineato che la famiglia ha lavorato su quella terra per anni e ancora la gestisce come principale fonte di reddito.

Aggiunge che Ali era un tecnico elettrico che aveva terminato i suoi studi alla Al-Quds University tre anni fa. Aveva un lavoro come tecnico ma lavorava ancora nella terra di famiglia quando aveva tempo.

“Questa è una terra che abbiamo ereditato di nonno in padre. La lavoriamo e la custodiamo costantemente e la difendiamo e la nostra presenza su di essa oggi è il segno dell’appartenenza a questa terra”.

Riafferma che le azioni dei coloni hanno costituito una pericolosa escalation contro i palestinesi di Iskaka: “Quello che speriamo oggi è di unirci come palestinesi contro l’occupazione israeliana e di schierarci con la resistenza e di affrontare i coloni che hanno versato il nostro sangue e rubato le vite dei nostri giovani”.

“Teppisti assetati di sangue.

Hanan Ashrawi, ex membro del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ha condannato l’omicidio, affermando su Twitter che mentre Harb è stato accoltellato, le guardie armate dell’insediamento israeliano di Ariel hanno sparato ai palestinesi che cercavano di raggiungerlo

Ashrawi ha definito i coloni che hanno accoltellato Harb “teppisti assetati di sangue”.

La violenza dei coloni in Cisgiordania ha visto un aumento “allarmante” dal 2021, secondo gli esperti delle Nazioni Unite.

Nel 2021 sono stati registrati circa 370 attacchi di coloni che hanno causato danni alla proprietà e altri 126 attacchi hanno causato vittime.

Finora quest’anno sono state documentate più di 541 ferite ai palestinesi causate dai coloni. La violenza perpetrata dai coloni include l’uso di munizioni vere, aggressioni fisiche, attacchi incendiari e lo sradicamento degli ulivi.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Israele vuole il “completo controllo ” della terra palestinese: il rapporto delle Nazioni Unite

Redazione Al Jazeera

7 giugno 2022-Al Jazeera

La commissione indipendente istituita dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite afferma che Israele deve porre fine all’occupazione e cessare di violare i diritti umani dei palestinesi.

Una commissione d’inchiesta indipendente istituita dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite dopo l’assalto israeliano del 2021 alla Striscia di Gaza assediata ha affermato che Israele deve fare di più oltre che porre fine all’occupazione della terra che i leader palestinesi vogliono per un futuro Stato.

Secondo il rapporto pubblicato martedì, in cui si sollecita l’adozione di ulteriori azioni per garantire l’uguale godimento dei diritti umani per i palestinesi, “La fine dell’occupazione da sola non sarà sufficiente”

Il rapporto produce prove di come Israele “non ha intenzione di porre fine all’occupazione”.

Israele sta perseguendo il “completo controllo” su quello che il rapporto chiama Territorio Palestinese Occupato, inclusa Gerusalemme Est, conquistata da Israele nella guerra del 1967 e successivamente annessa con una mossa mai riconosciuta dalla comunità internazionale.

Il governo israeliano, ha affermato la commissione, ha “agito per alterare la demografia attraverso il mantenimento di un contesto repressivo per i palestinesi e un contesto favorevole per i coloni israeliani”.

Citando una legge israeliana che nega la cittadinanza ai palestinesi sposati con cittadini israeliani, il rapporto accusa Israele di offrire “stato civile, diritti e protezione legale diversi” ai cittadini palestinesi di Israele.

Più di 700.000 coloni israeliani ora vivono in insediamenti e avamposti in Cisgiordania e Gerusalemme est, dove risiedono più di tre milioni di palestinesi. Gli insediamenti israeliani sono complessi residenziali fortificati per soli ebrei e sono considerati illegali dal diritto internazionale.

Le principali organizzazioni per i diritti umani, tra cui Human Rights Watch e Amnesty International, hanno equiparato le politiche israeliane contro i palestinesi all’apartheid.

Alle radici del conflitto.

L’inchiesta e il rapporto delle Nazioni Unite hanno preso avvio dall’offensiva militare israeliana di 11 giorni nel maggio 2021 durante la quale più di 260 palestinesi a Gaza sono stati uccisi e 13 persone sono morte in Israele.

Nel maggio 2021 Hamas ha lanciato razzi contro Israele dopo che le forze israeliane avevano attaccato i fedeli palestinesi nel complesso della Moschea di Al-Aqsa, il terzo luogo sacro dell’Islam, con decine di feriti e arresti. La cosa ha fatto seguito anche alla decisione del tribunale israeliano di espellere con la forza delle famiglie palestinesi da Sheikh Jarrah, un quartiere a Gerusalemme est.

L’ambito dell’inchiesta includeva indagini su presunte violazioni dei diritti umani prima e dopo l’assalto di Israele contro Gaza e cercava anche di indagare sulle “cause profonde” del conflitto.

Hamas ha accolto favorevolmente il rapporto e ha esortato a perseguire penalmente i leader israeliani per quelli che ha definito “crimini” contro il popolo palestinese.

Anche l’Autorità Nazionale Palestinese ha elogiato il rapporto e ha richiesto anche di chiamare Israele a rendere conto dei suoi atti, “in modo da mettere fine all’impunità di Israele”.

Il Ministero degli Affari Esteri israeliano ha definito il rapporto “uno spreco di denaro e fatica”, niente più che una caccia alle streghe.

Israele ha boicottato l’indagine, accusandola di parzialità e vietando agli investigatori l’ingresso in Israele e nei territori palestinesi, costringendoli a raccogliere testimonianze a Ginevra e in Giordania.

Il rapporto sarà discusso al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite con sede a Ginevra la prossima settimana. Gli Stati Uniti hanno lasciato il Consiglio nel 2018 per quello che hanno descritto come un “cronico pregiudizio” contro Israele e sono rientrati completamente solo quest’anno.

La commissione, guidata dall’ex capo delle Nazioni Unite per i diritti umani Navi Pillay, è la prima ad avere un mandato “permanente” dall’agenzia per i diritti umani delle Nazioni Unite.

I suoi sostenitori affermano che la commissione è necessaria per tenere sotto controllo le continue ingiustizie affrontate dai palestinesi durante decenni di occupazione israeliana.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Un microcosmo della lotta palestinese: la vita di una famiglia a Hebron

Louy Alsaeed

26 aprile 2022 – Al Jazeera

Gli al-Jaabari sono una delle numerose famiglie di Hebron la cui casa è schiacciata in mezzo alle colonie israeliane.

Hebron, Cisgiordania occupata – La vita quotidiana è un test di resistenza nella casa di due piani del sessantaquattrenne Abdulkareem al-Jaabari e della sua famiglia di 16 persone.

Nella città palestinese di Hebron, che si trova nel sud della Cisgiordania occupata da Israele, gli al-Jaabari sono una delle famiglie palestinesi le cui case sono strette tra le due colonie illegali di Kiryat Arba e Giv’at Ha-Avot. La famiglia afferma di essere esposta a continui attacchi ed incursioni da parte di coloni e di forze israeliane.

Hebron ospita circa 200.000 palestinesi e circa 700 coloni ebrei. Tuttavia il 20% della città è sotto il diretto controllo israeliano e i palestinesi che vi vivono o vi si trovano di passaggio, a differenza dei coloni ebrei, sono soggetti a posti di blocco e ad un divieto di transito su diverse strade principali.

Questa situazione ha spinto migliaia di palestinesi ad andarsene, cosa che le associazioni per i diritti hanno descritto come espulsione forzata di massa.

Durante la settimana della festività ebraica di Passover (la pasqua ebraica, ndtr.), che quest’anno si è svolta dal 15 al 22 aprile, sovrapponendosi al mese sacro musulmano del Ramadan, migliaia di coloni israeliani e loro sostenitori, alcuni dei quali armati, hanno partecipato protetti dall’esercito israeliano ad eventi nelle strade del centro di Hebron, compresa la Città Vecchia.

Il 18 aprile si è svolta una manifestazione di coloni vicino alla Moschea di Ibrahim (la Tomba dei Patriarchi), in cui nel 1994 un colono israelo-americano massacrò 29 palestinesi mentre pregavano.

La scorsa settimana le forze israeliane hanno chiuso per diversi giorni la Moschea di Ibrahim ai fedeli palestinesi, agevolando invece l’ingresso a migliaia di coloni israeliani. Anche le strade verso la moschea sono state chiuse e decine di negozi nella Città Vecchia sono stati costretti ad abbassare le serrande.

Abdulkareem dalla sua casa ha detto a Al Jazeera “Abbiamo paura dei sabati e delle feste ebraiche”.

In tali occasioni la tensione sul campo cresce in quanto Israele dispiega un maggior numero di soldati e di poliziotti per proteggere i coloni e i palestinesi subiscono un aumento delle restrizioni di movimento e della violenza dello Stato e dei coloni.

Israele sostiene che la presenza dell’esercito e le restrizioni nei confronti dei palestinesi sono necessarie per motivi di sicurezza e per proteggere i coloni ebrei che vivono a Hebron dagli attacchi palestinesi.

A fine febbraio un tribunale israeliano ha deliberato che l’esercito israeliano possa continuare ad usare un edificio a Hebron costruito in gran parte su terreno privato palestinese, sostenendo che una presenza ebraica in Cisgiordania fa parte della politica di sicurezza dell’esercito israeliano.

Per i palestinesi di Hebron l’effetto di tale presenza diviene particolarmente pesante durante gli eventi speciali organizzati dai coloni.

Durante queste festività la destra israeliana mobilita i propri sostenitori provenienti dalla città e da fuori”, dice ad Al Jazeera Hisham al-Sharabati, un abitante di Hebron e attivista per i diritti umani, aggiungendo che normalmente gli attacchi dei coloni aumentano in questi periodi.

Attacchi continui’

La lotta che dura da vari decenni della famiglia al-Jaabari rappresenta un microcosmo della vita dei palestinesi sotto il dominio dell’esercito israeliano a Hebron.

La loro casa è circondata da filo spinato per proteggerla contro gli attacchi alla proprietà. La famiglia ha installato diverse telecamere di sorveglianza per documentare gli attacchi.

Secondo la famiglia tutti i suoi membri ad un certo punto sono finiti in ospedale, in seguito agli attacchi dei coloni.

Mi sono abituato alla paura quotidiana durante la mia vita qui”, dice Abdulkareem. “I continui attacchi ci hanno costretti ad essere preparati al peggio in ogni momento.”

Le Nazioni Unite hanno documentato diversi attacchi da parte di coloni contro la famiglia. I coloni le hanno sparato, lanciato pietre e sono entrati nella casa danneggiandola. Ha subito anche furti del bestiame e dei raccolti.

La figlia di Abdulkareem, Ayat, e suo figlio Adi dicono di aver subito attacchi da parte dei coloni – Ayat quando le è stata lanciata una pietra in testa provocandole una commozione cerebrale e Adi quando è stato accoltellato da un colono mandandolo in ospedale.

L’occupazione israeliana e i suoi coloni stanno cercando con ogni mezzo di cacciarci dalle nostre terre e dalle nostre case”, dice Abdulkareem, conosciuto anche col soprannome di Abu Anan.

Impadronirsi della terra

Nel 1968, poco dopo avere occupato la Cisgiordania, Israele creò Kiryat Arba – una delle prime e più estremiste colonie in Cisgiordania – a circa 80 metri di distanza dalla casa di Abdulkareem.

La colonia ora si estende su circa 5 chilometri quadrati ed è sede di un monumento dedicato a Baruch Goldstein, il colono che compì il massacro alla Moschea di Ibrahim.

Anni dopo fu costruito il vicino avamposto di Giv’at Ha-Avot, a circa 20 metri di distanza dall’altro lato della terra della famiglia al-Jaabari e la popolazione totale delle due colonie arrivò a circa 8.000 persone.

La terra di Abdulkareem, trasmessa nella famiglia per generazioni e da lui formalmente ereditata da suo padre nel 1991, divenne un sito strategico in mezzo alle due colonie.

I figli di Abdulkareem ora lavorano e i 10 chilometri quadrati di terra restano la principale fonte di reddito per la famiglia, che vive di agricoltura e allevamento.

Prima di costruirvi la casa nel 1976 la famiglia passava l’estate nei terreni prendendosi cura di decine di alberi.

Quel sereno stile di vita cambiò improvvisamente quando crebbe l’espansione dei coloni. Nel 2002 i coloni eressero una gradinata nel mezzo della terra di Abu Anan per collegare Kiryat Arba con l’avamposto di Giv’at Ha-Avot. Nel 2006 vi piazzarono un ampio tendone per usarlo come sinagoga.

Nonostante una sentenza del tribunale del 2015 che stabiliva che il tendone dovesse essere rimosso, l’esercito ha permesso ai coloni di continuare ad usarlo. Ogni sabato vi arrivavano a decine, mentre durante le festività ebraiche il numero arriva alle centinaia.

Per i coloni la presenza di ebrei a Hebron è giustificata da motivi religiosi poiché è il sito della Moschea di Ibrahim, venerata sia dai musulmani che dagli ebrei, che la chiamano Tomba dei Patriarchi.

I coloni affermano anche che una comunità ebraica era esistita ad Hebron fin dal Medioevo e che l’uccisione di 67 ebrei per mano di palestinesi nel 1929 è la principale ragione per cui furono costretti ad andarsene, prima di farvi ritorno dopo l’occupazione israeliana della Cisgiordania nel 1967.

Attacchi dei coloni

In un campionamento effettuato nel 2019 dalle Nazioni Unite su 280 famiglie palestinesi nelle zone su cui più hanno inciso le colonie a Hebron, quasi il 70% ha affermato che almeno un componente della propria famiglia ha subito violenze o attacchi di coloni a partire da ottobre 2015.

Per la famiglia al-Jaabari gli attacchi dei coloni sono stati più violenti che negli altri casi.

Hanno affermato che nel 2007 più di 300 coloni hanno fatto irruzione nella loro casa ed aggredito la famiglia.

Ho tre figli con disabilità e non sono stati risparmiati dall’attacco. I coloni hanno distrutto le loro sedie a rotelle, li hanno aggrediti ed hanno impedito alle ambulanze di soccorrerci”, ricorda Abu Anan.

In un episodio del 2008 documentato dalle Nazioni Unite un matrimonio di uno dei figli di Abdulkareem è stato attaccato da coloni che hanno lanciato pietre, uova e pomodori. Anche un altro matrimonio nel 2013 è stato attaccato dopo che i coloni avevano fatto incursione nella casa di famiglia. In entrambi i casi invitati alla cerimonia sono rimasti feriti.

Persino i nostri matrimoni sono macchiati di sangue e terribili”, dice Abdulkareem.

La famiglia afferma che le forze israeliane nella zona non solo ignorano le denunce contro i coloni, ma spesso offrono loro protezione durante gli attacchi. Esempi di tale cooperazione e addirittura attacchi congiunti di coloni ed esercito in tutta la Cisgiordania sono stati documentati da organizzazioni per i diritti.

L’esercito israeliano non ha risposto alla richiesta di rilasciare un commento sulle accuse nei suoi confronti.

Tra il 2000 e il 2008 Abdulkareem ha presentato almeno 75 denunce alla polizia e altre decine dopo di allora.

Una volta un colono mi ha sparato mentre raccoglievo le olive”, dice Abdulkareem. “Sono andato alla polizia israeliana, che si trovava a pochi metri da casa mia, per sporgere denuncia contro il colono. La polizia ha deciso di arrestare me e mio figlio per 17 giorni e ci ha comminato una multa, sostenendo che noi avevamo aggredito il colono.”

Il figlio di Abdulkareem, il 26enne Mohammad, ritiene inutile rivolgersi alle autorità israeliane.

Negli ultimi tre anni abbiamo deciso di non sporgere alcuna denuncia alla polizia israeliana ed abbiamo preferito difenderci da soli – qualunque sia il risultato”, ha detto ad Al Jazeera.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Israele: due persone uccise * e parecchie ferite in una sparatoria nel centro di Tel Aviv

Lubna Masarwa

7 aprile 2022 – Middle East Eye

La polizia di Giaffa ha affermato di avere in seguito colpito e ucciso l’aggressore, che ha identificato come un ventottenne palestinese di Jenin.

Gerusalemme – Giovedì almeno due persone * [al momento tre ndt] sono state uccise e molte altre ferite in una sparatoria nel centro di Tel Aviv, l’ultimo di una serie di attacchi in Israele nelle ultime settimane. Dieci persone, almeno quattro delle quali in condizioni critiche, sono state ferite e sono state ricoverate in ospedale.

La sparatoria ha avuto luogo in vari punti di via Dizengoff, un frequentatissimo viale pieno di ristoranti e bar.

Lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interno, ha affermato che in seguito agenti di polizia hanno trovato l’aggressore nascosto nei pressi di una moschea a Giaffa, appena a sud di Tel Aviv.

L’agenzia ha detto che l’attentatore è stato ucciso durante uno scontro a fuoco.

Lo Shin Bet ha identificato l’uomo come un ventottenne palestinese di Jenin, nella Cisgiordania occupata, che secondo quanto affermato era in Israele illegalmente.

Sabato forze israeliane hanno ucciso tre palestinesi durante una sparatoria a Jenin, che ore prima aveva commemorato i 20 anni da un brutale attacco israeliano contro il campo profughi della città, diventato emblematico dell’occupazione israeliana.

Itai Niger, che vive a Tel Aviv nei pressi del luogo dell’attacco ha detto a Middle East Eye che c’era una notevole presenza di polizia in città e che la paura era palpabile.

“Sono sorpreso e spaventato. Non riesco a capirlo. Non so come sarà la mia vita nei prossimi giorni e in futuro,” ha detto Niger.

“È terribile. Dopo quello che è successo gli abitanti di Tel Aviv avranno di fronte una nuova realtà.”

Il fotogiornalista Oren Ziv ha informato dal luogo dell’attacco di un’immediata caccia all’uomo che ha coinvolto centinaia di soldati, agenti di polizia e unità d’élite dell’esercito.

Ziv ha descritto una scena di tensione in città dato che gli abitanti erano intimoriti perché l’aggressore non era ancora stato preso.

Dopo la sparatoria le forze di sicurezza hanno bloccato le uscite di Tel Aviv per effettuare le operazioni di ricerca.

Il collaboratore di MEE Mohammed Wated ha riferito che in un primo tempo le forze di sicurezza hanno piazzato posti di blocco a Wadi Ara, una zona a 60 km da Tel Aviv abitata per lo più da cittadini palestinesi di Israele, e hanno iniziato a interrogare gli automobilisti.

Secondo il suo ufficio il primo ministro Naftali Bennett ha monitorato la situazione dal quartier generale dell’esercito israeliano, che si trova anch’esso nel centro di Tel Aviv.

Timori di un’escalation

L’attacco di giovedì giunge solo una settimana dopo che tre diversi attacchi hanno ucciso 11 israeliani, tra cui dei poliziotti.

Tre dei quattro attentatori, tutti in seguito uccisi, erano palestinesi cittadini di Israele. Il quarto era un palestinese della Cisgiordania occupata.

In seguito alle violenze l’esercito e la polizia israeliani hanno portato l’allerta al livello più alto dal maggio dello scorso anno, con migliaia di soldati e di agenti schierati in tutto Israele e lungo le barriere con la Cisgiordania e la Striscia di Gaza.

Da allora in Cisgiordania sono stati uccisi dal fuoco israeliano sei palestinesi, di cui uno colpito da un colono.

Il picco di violenze coincide con avvertimenti che la prossima settimana le tensioni potrebbero aumentare, in quanto coloni israeliani e attivisti di estrema destra hanno annunciato piani per fare irruzione nella moschea di al-Aqsa durante le festività della Pasqua ebraica per pregare all’interno del sito.

Per sei notti di seguito a Gerusalemme est occupata forze israeliane hanno attaccato i palestinesi presso la Porta di Damasco, un punto di incontro molto frequentato dai palestinesi per riunirsi e socializzare durante il mese sacro del Ramadan. Più di 30 persone, inclusi minorenni, sono state arrestate negli scontri.

Nonostante le tensioni le autorità israeliane all’inizio di questa settimana hanno affermato che alleggeriranno le restrizioni per i palestinesi della Cisgiordania che visitano la moschea di al-Aqsa in vista del primo venerdì del Ramadan che spesso attira decine di migliaia di fedeli.

L’agenzia di notizie palestinese Wafa ha informato che il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha condannato l’attacco di giovedì e ha sottolineato i pericoli di “continuare le ripetute incursioni all’interno della moschea di al-Aqsa e le azioni provocatorie di gruppi di coloni estremisti.”

Durante lo scorso Ramadan la violenza si è acuita quando Israele ha cercato di espellere famiglie palestinesi da Sheikh Jarrah, un quartiere della Gerusalemme est occupata, perché fossero sostituite da coloni israeliani.

Ciò ha suscitato proteste generalizzate nella Cisgiordania occupata e nella comunità palestinese in Israele e ha portato a una guerra di 11 giorni tra Israele e gruppi armati a Gaza. Secondo l’ONU l’operazione militare israeliana su vasta scala contro la Striscia assediata ha causato la morte di 256 palestinesi, tra cui 66 minorenni. In Israele ci sono state 13 vittime, uccise da razzi lanciati da Gaza.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)