Guerra Israele-Palestina: questa umiliazione ha profondamente scosso la psiche degli israeliani

Tariq Dana

10 ottobre 2023 – Middle East Eye

Per gli israeliani l’esercito è un motivo di orgoglio nazionale, una forza inespugnabile che garantisce la sostenibilità del progetto sionista del colonialismo di insediamento. Non più.

La recente operazione militare contro Israele lanciata da Hamas da Gaza rappresenta un potenziale punto di svolta nel conflitto e potrebbe sostanzialmente riconfigurare le annose dinamiche di potere fra la resistenza palestinese e Israele.

Descritta da un funzionario israeliano come una “data che per la sua infamia perdurerà in Israele”, l’operazione, soprannominata in codice Alluvione Al-Aqsa è riverberata profondamente in Israele e ha sollevato timori fra i suoi alleati sia nella regione che a livello internazionale.

Il 7 ottobre i gruppi della resistenza palestinese a Gaza hanno iniziato una complessa operazione militare con lancio di razzi contro Israele, un massiccio attacco via terra che ha sfondato le barriere difensive israeliane intorno a Gaza.

I combattenti palestinesi sono riusciti a impadronirsi di colonie israeliane e siti militari confinanti con Gaza.

Secondo Hamas, l’operazione ha causato centinaia di morti e migliaia di feriti fra gli israeliani e oltre 100 ostaggi portati a Gaza. Il numero finale delle vittime israeliane potrebbe essere più elevato di quello riferito fino ad ora. 

Se non si sono ancora avvertite tutte le implicazioni, le dimensioni e il coordinamento dell’attacco suggeriscono una capacità operativa audace e avanzata della resistenza palestinese.

L’impatto psicologico sullo status quo, e la sua distruzione, è stato profondo. Israele, la sua aura di supremazia militare scossa, sta vivendo la sua peggiore sconfitta strategica di fronte alla resistenza palestinese dalla sua creazione 75 anni fa.

Umiliazione

L’operazione non ha solo ribaltato le norme stabilite che governano il conflitto di carattere coloniale, ma anche evidenziato la futilità dell’approccio che da tempo Israele ha verso i palestinesi nel mutevole contesto regionale.

Il quadro offerto dai media su questo evento, uno “shock per gli israeliani”, è rivelatore per parecchi motivi.

In primis evidenzia le crescenti capacità della resistenza palestinese di umiliare l’esercito israeliano fortemente sostenuto dagli USA. Questo livello di innovazione tattica fra i gruppi della resistenza palestinese suggerisce un cambio di paradigma.

Storicamente gli scontri fra le fazioni palestinesi e le forze israeliane hanno seguito uno schema ciclico: azioni di rappresaglia e il ritorno a uno status quo fragile, ma in qualche modo prevedibile.

Ma questa operazione è sfuggita a queste norme. Ha mostrato un livello senza precedenti di coordinamento e di pianificazione strategica, tecniche avanzate di guerra elettronica, operazioni psicologiche e tattiche di guerriglia che hanno annullato efficacemente la superiorità tecnologica e la sproporzionata potenza di fuoco di Israele.

La causa immediata di questo crollo va oltre i soli fallimenti di intelligence e sicurezza, perché questi fallimenti derivano dalle tattiche innovative impiegate dai gruppi di resistenza palestinesi.

Esse sono riuscite ad attraversare la “recinzione che uccide automaticamente” a più livelli, disattivando il suo sistema “Vedi-Spara”, una complessa rete di mitragliatrici automatiche e cecchini robot progettati per rafforzare l’area vietata.

I combattenti palestinesi hanno rapidamente smontato, eluso e neutralizzato questa costosa infrastruttura di sicurezza israeliana tanto magnificata, rendendola inefficace e permettendo ai combattenti palestinesi un accesso illimitato nei territori palestinesi sotto il controllo israeliano.

Quindi la dottrina della deterrenza israeliana è completamente crollata.

Reazione a catena

In secondo luogo la destabilizzazione psicologica seguita a questa operazione potrebbe, in molti modi, essere impattante quanto il danno fisico.

Per gli israeliani l’esercito è un motivo di orgoglio nazionale, una forza inespugnabile che garantisce la sostenibilità del progetto sionista del colonialismo di insediamento. Questa patina di invincibilità si è seriamente incrinata, sollevando domande che potrebbero avere conseguenze a lungo termine per la psiche nazionale israeliana e persino per il suo senso di identità.

L’impatto psicologico di questo evento sulla fiducia di Israele nella sua superiorità militare potrebbe potenzialmente penetrare attraverso molti aspetti della sua società. In una cultura dove il militarismo e il servizio militare obbligatorio sono profondamente intrecciati con la vita quotidiana, uno scossone di queste proporzioni potrebbe portare a una profonda crisi di fiducia tra gli israeliani.

Potrebbe avere effetti sul livello di arruolamento, sulla fiducia pubblica nella leadership politica e militare e persino sull’economia israeliana, dato che questa si fonda in modo significativo sulle esportazioni delle sue tecnologie militari e di sicurezza.

La reazione a catena di questo colpo al morale degli israeliani potrebbe essere di vasta scala, andando a colpire il tessuto complessivo della società israeliana.

Terzo, e forse il punto più importante, l’operazione serve come potente testimonianza della perdurante rilevanza e resilienza della causa palestinese sia nelle politiche regionali che in quelle internazionali, nonostante i sistematici sforzi di relegarle ai margini. 

Alcune autocrazie arabe che avevano normalizzato le relazioni con Israele si erano schierate strategicamente avevano liquidato la lotta palestinese come una questione datata e non più centrale nella politica regionale. 

Tuttavia questa audace operazione prova che la determinazione della resistenza palestinese resta cruciale, influenzando non solo le politiche regionali ma anche con ripercussioni su scala internazionale.

La lotta palestinese è spesso stata vista come la cartina al tornasole di posizioni politiche e morali nella regione, influenzando collaborazioni, alleanze e persino politiche interne di Paesi ben oltre le sue immediate vicinanze. 

La ricerca palestinese di giustizia e autodeterminazione continuerà ad avere un enorme impatto sugli affari mediorientali. La ricaduta di questa operazione potrebbe costringere attori regionali e globali a riconsiderare le politiche che hanno minimizzato le aspirazioni palestinesi.

Mentre alcuni hanno sottovalutato la centralità della causa palestinese tra le mutevoli questioni geopolitiche, gli eventi in corso hanno dimostrato che la lotta anticolonialista mantiene ancora un peso significativo nella formazione delle realtà regionali.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Tariq Dana è professore associato per i conflitti e gli studi umanitari dell’Istituto di Studi post-universitari di Doha. È anche consulente politico di Al-Shabaka, la Rete Politica Palestinese.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La relatrice Speciale delle Nazioni Unite sulla Palestina: Israele ha trasformato tutta la Palestina in “una prigione a cielo aperto” per ulteriori piani di annessione

Jeff Wright

16 luglio 2023 – Mondoweiss

Il rapporto di giugno di Francesca Albanese al Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU afferma che Israele usa mezzi fisici, burocratici, militari e di sorveglianza per “de-palestinizzare” il territorio occupato, minacciando “l’esistenza dei palestinesi come popolo”.

Nel suo rapporto di giugno al Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU Francesca Albanese, Relatrice Speciale delle Nazioni Unite sulla Palestina, descrive in dettaglio come, attraverso “un sistema di controllo composto da livelli multipli e interconnessi di confinamento“, Israele “ha trasformato la vita dei palestinesi in un continuum carcerario” – equivalente, come scrive, a una prigione a cielo aperto costantemente sorvegliata.

Il suo rapporto documenta i tanti mezzi fisici, burocratici, militari e di sorveglianza che consentono il “sequestro arbitrario di terra e lo sfollamento forzato dei palestinesi” da parte di Israele: caratteristiche, scrive, del colonialismo di insediamento.

Lunedì, nel corso della presentazione del rapporto al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, Albanese ha dichiarato: Questi reati sembrano far parte di un piano per de-palestinizzare il territorio. Minacciano l’esistenza dei palestinesi come popolo, come compagine nazionale coesa”.

Esperta di diritto internazionale, Albanese consente al lettore una visione dettagliata dello specifico attraverso una descrizione delle leggi internazionali riguardanti il diritto umanitario e il diritto penale, che nel loro insieme mostrano chiaramente l’illegalità delle azioni di Israele relative ai palestinesi in Cisgiordania (compresa Gerusalemme Est) e a Gaza.

È fondamentale, ha detto ai membri del Consiglio per i Diritti Umani, che la comunità internazionale riconosca l’illegalità dell’occupazione israeliana che conduce naturalmente all’apartheid. Questa non può essere rettificata. Non può essere resa più umana semplicemente affrontando alcune delle sue conseguenze più gravi. E’ necessario porvi fine, per ripristinare lo stato di diritto e la giustizia”.

Israele ha sempre negato che il diritto internazionale si applichi alle sue azioni nel territorio occupato, sostenendo che il territorio è conteso, non occupato. Il rifiuto da parte di Israele dell’applicabilità del diritto internazionale, riferisce la Relatrice Speciale, ha portato a violazioni dei principi fondamentali che regolano le situazioni di occupazione, tra cui l’impossibilità di acquisire una sovranità, i doveri di amministrare il territorio occupato a beneficio della popolazione protetta, e [il principio di] provvisorietà.”

In una conferenza stampa che ha fatto seguito alla pubblicazione della relazione di 21 pagine Albanese ha affermato di aver scritto il suo rapporto sul tema della privazione arbitraria della libertà “a causa della estrema gravità della situazione sul terreno“.

Il suo rapporto aggiorna la documentazione delle Nazioni Unite sulle politiche e pratiche israeliane familiari a molti: detenzione arbitraria e arresto senza mandato; incursioni notturne con arresto di minori; il sistema legale su due livelli in Cisgiordania, uno per i cittadini israeliani che vivono in insediamenti illegali, sotto la giurisdizione di tribunali civili, l’altro creato per i palestinesi, sotto l’amministrazione e il sistema giudiziario delle forze di occupazione; il blocco illegale della Striscia di Gaza; un sistema di autorizzazioni arbitrario privo di trasparenza; 270 colonie e basi militari che circondano città, paesi e villaggi palestinesi, impedendone l’espansione; il Muro, posti di blocco, blocchi stradali e strade divise con criteri di segregazione; e la parcellizzazione dei palestinesi in aree separate con leggi diverse che regolano quasi ogni aspetto della loro vita. “L’architettura di confinamento a più livelli”, la chiama nel suo rapporto.

Uno dei contributi significativi del rapporto della Relatrice Speciale è la sua descrizione della sorveglianza digitale da parte di Israele. L’interferenza con il diritto alla privacy, come l’uso di tecnologie di sorveglianza, è regolamentata dal diritto internazionale e deve essere utilizzata solo quando strettamente necessario.

Albanese scrive:

Al contrario, la sorveglianza digitale rafforza in modo pervasivo il controllo delle forze israeliane sullo spazio e sulla vita della popolazione occupata. I palestinesi sono costantemente monitorati attraverso telecamere a circuito chiuso e altri dispositivi ai posti di blocco, negli spazi pubblici, in occasione di eventi e proteste collettive. I loro spazi privati sono spesso invasi a loro insaputa, attraverso il monitoraggio su piattaforme online come Facebook di chiamate e conversazioni online considerate “minacciose” e il tracciamento della posizione e connessione dei telefoni cellulari per stabilire reti e potenziali associazioni, o persino attraverso le loro cartelle cliniche.

“L’occupazione”, riferisce Albanese, “ha favorito da parte di Israele lo sviluppo di potenti tecnologie di sorveglianza, tra cui riconoscimento facciale, droni e monitoraggio dei social media”. Descrive l’uso di sistemi israeliani – come Blue Wolf, Red Wolf e Wolf Pack – che contribuiscono al database israeliano di immagini, informazioni personali e valutazione di sicurezza dei palestinesi della Cisgiordania, compresi quelli che vivono in quartieri di Gerusalemme come Silwan e Sheikh Jarrah. Hanno “creato una ‘sorveglianza trasformata in gioco‘”, scrive Albanese, “in base alla quale le unità militari israeliane fotografano i palestinesi senza consenso impegnandosi persino in inquietanti competizioni“.

“La sorveglianza digitale serve in definitiva a facilitare la colonizzazione”, scrive.

Incaricata nel suo mandato di documentare la situazione dei diritti umani nei territori palestinesi, Albanese elenca anche le violazioni del diritto internazionale da parte delle autorità palestinesi che contribuiscono a rafforzare la morsa del regime imposto dall’occupazione”.

“Gli arresti e le detenzioni arbitrarie effettuati dall’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania e dalle autorità de facto nella Striscia di Gaza hanno contribuito a soffocare i diritti e le libertà dei palestinesi”, scrive. “Le organizzazioni per i diritti umani hanno documentato pratiche abusive, insulti, segregazione in celle di isolamento e percosse spesso per estorcere confessioni, punire e intimidire gli attivisti”, riferisce.

Albanese descrive come il coordinamento sulla sicurezza tra l’Autorità Nazionale Palestinese e Israele “ha aperto la strada a un collegamento diretto tra gli apparati di detenzione palestinesi e israeliani”. Le vittime palestinesi, scrive, sono affidate a una “politica della porta girevole”, un ciclo in cui “i palestinesi vengono prima arrestati, interrogati, detenuti e spesso sottoposti a maltrattamenti da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese e poi, una volta rilasciati, dalle forze di occupazione, o vice versa.”

Mentre la Legge Fondamentale palestinese, emendata nel 2003, dovrebbe proteggere i diritti e le libertà fondamentali, Albanese scrive che altre leggi palestinesi ancora assegnano delle ampie interpretazioni ad alcuni reati [e] possono includere insulti o calunnie nei confronti di un pubblico ufficiale o di un’autorità superiore, diffamazione a mezzo stampa, o provocazione di un ‘conflitto settario’”.

I palestinesi sospettati di collaborare con Israele affrontano un trattamento ancora più severo”, scrive, e nella Striscia di Gaza possono essere puniti con la pena di morte”.

La relatrice speciale sottolinea anche come l’Autorità Nazionale Palestinese abbia fatto propria la repressione israeliana degli studenti nei campus palestinesi, “detenendo studenti e altri per opinioni politiche dissenzienti, comprese quelle condivise sui social media”.

Tra le conclusioni del suo rapporto:

    • Sotto l’occupazione israeliana generazioni di palestinesi hanno subito una diffusa e sistematica privazione arbitraria della libertà, spesso per i più elementari atti della vita…”.

    • Col privare i palestinesi delle protezioni garantite dal diritto internazionale l’occupazione li riduce a una popolazione ‘de-civilizzata’, spogliata del loro status di persone protette e dei diritti fondamentali. Trattare i palestinesi come una minaccia collettiva da recludere sottrae loro la protezione in quanto “civili” ai sensi del diritto internazionale, li priva delle loro libertà fondamentali e li espropria del loro libero arbitrio e possibilità di restare uniti, autogovernarsi e progredire sul piano politico… “

    • Col passare dalla sicurezza del potere occupantealla sicurezza delloccupazione stessaIsraele ha camuffato la sicurezzasotto la forma di controllo permanente del territorio che occupa e cerca di annettere…. Ciò ha radicato la segregazione, la sottomissione, la frammentazione e, in ultima analisi, l’espropriazione delle terre palestinesi e lo sfollamento forzato dei palestinesi”.

    • “… Sulla base della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale, in particolare la legge sulla responsabilità dello Stato, gli Stati terzi hanno il dovere di non favorire o legittimare l’apartheid coloniale di Israele…”

Albanese cita diversi modi per raggiungere la prima delle due raccomandazioni del suo rapporto: che “il sistema israeliano rivolto a privare arbitrariamente i palestinesi della loro libertà nel territorio palestinese occupato… sia abolito tout court”. La seconda raccomandazione invita il Procuratore della Corte Penale Internazionale ad esaminare, nell’ambito dell’indagine sulla Situazione in Palestina, la possibile perpetrazione dei crimini internazionali da lei descritti.

Alla richiesta di Mondoweiss di un parere sul rapporto della Relatrice Speciale Jonathan Kuttab, esperto di diritto internazionale e attivista per i diritti umani, ha affermato: A differenza di altri commentatori, la signora Albanese applica il diritto internazionale con immediatezza e specificità e non consente che le sue osservazioni vengano travisate da altri attraverso il silenzio o l’esplicita accettazione delle continue violazioni del diritto internazionale da parte di Israele. Altri agiscono come se tale silenzio persistente e prolungato avesse in qualche modo normalizzato o legittimato ciò che costituisce chiaramente un comportamento illegale e un insieme di flagranti violazioni delle norme imposte dal diritto internazionale in relazione al comportamento di una “potenza occupante” nei confronti di una “popolazione civile protetta”.

Essendole stato rifiutato l’ingresso nel territorio occupato da Israele, la Relatrice Speciale ha condotto il suo studio di sei mesi a distanza, con visite in Giordania, incontri e sopralluoghi virtuali, analisi di fonti primarie e pubbliche e [esame di] rapporti di organizzazioni della società civile palestinese.

Al momento della stesura di questo articolo, non abbiamo ancora visto una risposta dallo Stato di Israele. Ma le critiche sono attese a meno che, come successo per la riunione del Consiglio dei Diritti Umani di lunedì, Israele semplicemente ignori il rapporto.

In un articolo pubblicato all’inizio di questo mese Avi Shlaim, professore emerito di relazioni internazionali all’Università di Oxford, ha difeso Albanese dopo le accuse contro di lei di antisemitismo in risposta al suo rapporto di settembre. Schlaim ha scritto che l’approccio di Israele nei confronti delle Nazioni Unite, spesso caratterizzato da disprezzo, si trasforma in “derisione [che] lascia il posto a un’inesorabile denigrazione” di coloro che indagano sulle pratiche di Israele e cercano di indurlo a risponderne”.

“Albanese è un’ esperta internazionale straordinariamente competente e coscienziosa”, scrive Schlaim. Non merita altro che credito per il coraggio e l’impegno che ha dimostrato nell’adempimento del suo mandato presso le Nazioni Unite. Può persino esibire come simbolo d’onore la maggior parte degli attacchi contro di lei da parti sioniste.

“I tre pilastri principali dell’ebraismo sono verità, giustizia e pace”, scrive Schlaim. Albanese incarna questi valori in misura straordinariamente alta. E ci saranno molti ebrei in tutto il mondo, turbati dal tradimento da parte di Israele di questi fondamentali valori ebraici, soprattutto dopo la formazione del governo di coalizione violentemente anti-palestinese, di estrema destra, xenofobo, omofobo e apertamente razzista guidato da Benjamin Netanyahu, che dovrebbero ringraziarla per aver sostenuto questi valori in un momento critico della storia di Israele”.

I sostenitori di una pace giusta dovrebbero stampare il rapporto della Relatrice Speciale, aggiungere una breve nota personale e spedire copie evidenziate ai loro rappresentanti politici eletti e ai media locali.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La Gran Bretagna e la Nakba: storia di un tradimento

Avi Shlaim

10 maggio 2023 – Middle East Eye

Un ininterrotto filo conduttore di doppiezza, menzogne e inganni lega la politica estera britannica da Balfour alla Nakba fino a nostri giorni.

La Gran Bretagna creò le condizioni che resero possibile la Nakba palestinese.

Nel 1948 i palestinesi sperimentarono una catastrofe collettiva di dimensioni enormi: circa 530 villaggi vennero distrutti, più di 62.000 case furono demolite, circa 13.000 palestinesi uccisi e 750.000, due terzi della popolazione araba del Paese, furono cacciati dalle proprie case e divennero rifugiati.

Questo fu il momento culminante della pulizia etnica sionista della Palestina.

Nella sua essenza il sionismo è sempre stato un movimento colonialista di insediamento. Il suo fine ultimo era la costruzione di uno Stato ebraico indipendente in Palestina sulla maggior quantità possibile di terra e con quanti meno arabi possibile all’interno dei suoi confini. I portavoce sionisti insistettero costantemente di non avere cattive intenzioni nei confronti degli abitanti arabi del Paese, di volerlo sviluppare a beneficio delle due comunità.

Ma si trattava in buona misura di retorica, kalam fadi in arabo, discorsi vuoti.

Il movimento sionista era spinto dalla logica del colonialismo di insediamento, una modalità di dominazione caratterizzata da quello che lo storico Patrick Wolfe ha denominato “una logica di eliminazione”. I regimi coloniali di insediamento intendono annientare la popolazione nativa, o quantomeno evitarne l’autonomia politica. L’eliminazione della popolazione autoctona è una precondizione per l’espropriazione della terra e delle sue risorse naturali.

Il movimento sionista era assolutamente spietato. Non prevedeva di collaborare con la popolazione araba nativa per il bene comune. Al contrario, intendeva sostituirla. L’unico modo in cui il progetto sionista avrebbe potuto essere realizzato e conservato era l’espulsione di un gran numero di arabi dalle loro case e l’appropriazione della loro terra.

Nel gergo sionista tali sgomberi ed espulsioni vennero ingannevolmente definiti e occultati con un termine meno brutale: “trasferimenti”.

Il cammino verso la statualità

Il colonialismo d’insediamento sionista era intrinsecamente legato alla Gran Bretagna, il principale potere coloniale europeo dell’epoca. Senza l’appoggio della Gran Bretagna il movimento sionista non avrebbe potuto raggiungere il livello di successo che ebbe nella sua impresa di costruire uno Stato.

La Gran Bretagna consentì al suo giovane alleato di lanciarsi nella sistematica appropriazione del Paese. Tuttavia il cammino verso la statualità era tutt’altro che agevole. Dalla sua nascita alla fine del XIX° secolo il movimento sionista incontrò un grande ostacolo sul suo cammino: la terra dei suoi sogni era già abitata da un altro popolo. La Gran Bretagna consentì ai sionisti di superare questo ostacolo.

Il 2 novembre 1917 la Gran Bretagna emanò la nota Dichiarazione Balfour. Prese il nome dal ministro degli Esteri Arthur Balfour e prometteva l’appoggio britannico alla creazione di un “focolare nazionale per il popolo ebraico in Palestina”.

Lo scopo della dichiarazione era il ricorso all’aiuto dell’ebraismo mondiale nell’impegno bellico contro la Germania e l’Impero Ottomano. Venne aggiunto un ammonimento, in base al quale “non sarà fatto nulla che possa danneggiare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina”. Mentre la promessa venne pienamente rispettata, l’ammonimento venne lasciato cadere e dimenticato.

Nel 1917 la zona in precedenza chiamata Palestina era ancora sotto il dominio ottomano. Gli arabi rappresentavano il 90% della popolazione del Paese, mentre gli ebrei erano il 10% e possedevano solo il 2% della terra. La Dichiarazione Balfour era un classico documento coloniale perché accordava diritti nazionali a una piccola minoranza, ma semplici “diritti civili e religiosi” alla maggioranza.

Aggiungendo danno alla beffa, faceva rifermento agli arabi, la grande maggioranza della popolazione, come “comunità non-ebraiche della Palestina”. La resistenza araba al potere britannico fu inevitabile fin dall’inizio.

C’è un detto arabo secondo cui qualcosa che inizia storto tale rimane. In questo caso, in ogni modo, è difficile vedere come l’amministrazione britannica della Palestina avrebbe potuto essere raddrizzata senza incorrere nell’ira dei suoi beneficiari sionisti.

L’11 agosto 1919 Balfour scrisse in un memorandum spesso citato: “Il sionismo, che sia giusto o sbagliato, buono o cattivo, è radicato in tradizioni secolari, in necessità attuali, in speranze future, di importanza molto maggiore dei desideri e pregiudizi dei 700.000 arabi che ora vivono in quella antica terra.”

In altre parole, gli arabi non venivano presi in considerazione, mentre i loro diritti, compreso il diritto naturale all’autodeterminazione nazionale, erano liquidati come nient’altro che “desideri e pregiudizi”.

Nello stesso memorandum Balfour affermò anche che “per quanto riguarda la Palestina, le potenze non hanno fatto alcuna constatazione che non sia evidentemente sbagliata, e nessuna dichiarazione politica che, almeno alla lettera, non abbiano sempre inteso violare.” Non ci potrebbe essere un’ammissione più decisa della duplicità britannica.

Sacra fiducia nella civiltà”

Nel luglio 1922 la Lega delle Nazioni diede alla Gran Bretagna il mandato sulla Palestina. Il compito del potere mandatario era preparare la popolazione locale all’auto-governo e lasciare il potere quando fosse stata in grado di governarsi da sola.

Nella Convenzione della Lega i mandati erano descritti come “una sacra fiducia nella civiltà”. I loro scopi dichiarati erano lo sviluppo del territorio a beneficio della sua popolazione nativa e la trasformazione delle ex-province arabe dello sconfitto Impero Ottomano in moderni Stati-Nazione. In realtà erano poco più di una copertura del neo-colonialismo.

Forti pressioni sioniste indussero la Gran Bretagna a insistere per l’incorporazione della Dichiarazione Balfour nel mandato per la Palestina. Spesso è stato detto che ciò trasformò una vaga promessa britannica in un obbligo legale vincolante. Non è così per due importanti ragioni.

Primo, il mandato contraddiceva l’articolo 22 della Convenzione che richiedeva che la popolazione dell’area coinvolta venisse consultata riguardo alla scelta del potere mandatario. Balfour si rifiutò di consultare gli arabi perché sapeva troppo bene che, se avesse potuto dire la loro, avrebbero veementemente rifiutato il potere britannico.

Secondo, la Gran Bretagna non avrebbe potuto assumere il mandato perché nel 1922 non aveva sovranità sulla Palestina. La potenza sovrana fino al 1924 era la Turchia, erede dell’Impero Ottomano. Questo argomento è stato energicamente proposto dal giurista statunitense John Quigley in un articolo non pubblicato intitolato “Il fallimento britannico nell’attribuire valore giuridico alla Dichiarazione Balfour.” Nel sommario egli riassume il ragionamento nel modo seguente:

Il documento che la Gran Bretagna redasse per governare la Palestina (mandato sulla Palestina) chiedeva la creazione del focolare nazionale ebraico citato nella Dichiarazione Balfour. Tuttavia il governo della Gran Bretagna sulla Palestina, presumibilmente soggetto allo schema mandatario della Lega delle Nazioni, non ebbe mai basi legali. Secondo la sua Convenzione, la Lega delle Nazioni non aveva il potere di attribuire valore giuridico al Mandato sulla Palestina o di dare alla Gran Bretagna il diritto di governarla.

La Gran Bretagna non riuscì a ottenere la sovranità, che era un prerequisito per governare la Palestina o per detenere il mandato. La Gran Bretagna diede spiegazioni diverse in momenti diversi nel tentativo di dimostrare di detenere la sovranità. Le Nazioni Unite non misero in discussione la posizione giuridica della Gran Bretagna in Palestina, ma accettarono la legittimità del mandato sulla Palestina come base per la divisione del Paese. Fino ad oggi il problema dei diritti territoriali nella Palestina storica rimane irrisolto.”

Secondo Quigley la Gran Bretagna non andò mai oltre lo status di occupante belligerante. Nel suo libro del 2022 Britain and its Mandate Over Palestine: Legal Chicanery on a World Stage [La Gran Bretagna e il suo mandato sulla Palestina: inganno giuridico sulla scena mondiale] sviluppa questo argomento con una grande quantità di prove schiaccianti. Inganno non è una parola troppo forte per descrivere il modo in cui la Gran Bretagna manipolò la Lega delle Nazioni per ottenere il potere sulla Palestina o in cui abusò di questo potere per trasformare la Palestina da uno Stato a maggioranza araba a uno a maggioranza ebraica.

L’obbligo di proteggere i diritti degli arabi

L’importanza di includere l’impegno per un focolare nazionale ebraico non può essere sottovalutato. È ciò che differenziò fondamentalmente il mandato sulla Palestina dagli altri mandati per le province mediorientali dell’Impero Ottomano.

Il mandato britannico per l’Iraq, quello francese per Siria e Libano riguardavano tutti la preparazione della popolazione locale all’autogoverno. Il mandato sulla Palestina riguardava il fatto di consentire a stranieri, ebrei da ogni parte del mondo, ma soprattutto dall’Europa, di unirsi ai loro correligionari in Palestina e trasformare il Paese in un’entità nazionale controllata da ebrei.

Il mandato includeva un obbligo esplicito di proteggere i diritti civili e religiosi degli arabi, le “comunità non ebraiche in Palestina”. La Gran Bretagna non protesse affatto questi diritti. Il primo alto commissario britannico per la Palestina, sir Herbert Samuel, era sia ebreo che fervente sionista.

Durante il suo incarico la Gran Bretagna introdusse una serie di ordinanze che consentirono un’illimitata immigrazione ebraica in Palestina e l’acquisizione da parte degli ebrei di terre coltivate per generazioni da palestinesi.

Gli arabi chiesero delle restrizioni all’immigrazione e all’acquisizione di terre da parte degli ebrei. Chiesero anche un’assemblea nazionale democraticamente eletta che sarebbe stata un riflesso della situazione demografica. La Gran Bretagna resistette a tutte queste richieste e impedì l’introduzione di istituzioni democratiche. Le linee guida fondamentali della politica mandataria erano di non concedere elezioni finché gli ebrei non fossero diventati maggioranza.

Nel 1936 scoppiò una rivolta araba contro il dominio britannico sulla Palestina. Fu una rivolta nazionalista che durò fino al 1939. Per reprimerla venne schierato l’esercito britannico, che agì con la massima brutalità e spesso in violazione delle leggi di guerra. I suoi metodi includevano tortura, uso di scudi umani, detenzioni senza processo, draconiane norme d’emergenza, esecuzioni sommarie, punizioni collettive, demolizioni di case, villaggi dati alle fiamme e bombardamenti aerei.

Buona parte di questa violenza non venne diretta solo contro i ribelli, ma contro contadini sospettati di aiutarli e di essere loro complici. La repressione dell’insurrezione da parte dei britannici indebolì gravemente la società palestinese: circa 5.000 palestinesi vennero uccisi, 15.000 feriti e 5.500 incarcerati.

Il tradimento finale dei britannici

L’eminente storico palestinese Rashid Khalidi ha sostenuto, a mio parere in modo convincente, che la Palestina non venne persa alla fine degli anni ’40, come si crede comunemente, ma alla fine degli anni ’30. La principale ragione che fornisce dal suo punto di vista è il danno devastante che la Gran Bretagna inflisse alla società palestinese e alle sue forze paramilitari durante la rivolta araba. Questo argomento viene proposto nel capitolo di Khalidi in un libro co-curato da Eugene Rogan e da me: The War for Palestine: Rewriting the History of 1948 [La guerra per la Palestina: riscrivere la storia del 1948].  

Il tradimento finale dei britannici nei confronti dei palestinesi avvenne mentre la lotta per la Palestina entrava nella sua fase cruciale in seguito alla fine della Seconda Guerra Mondiale. All’epoca la Gran Bretagna si scontrò con i suoi protetti, i sionisti, e gli estremisti tra loro condussero una campagna di terrore destinata a cacciare le forze inglesi dal Paese. L’episodio più noto di questa violenta campagna fu l’attentato nel luglio 1946 contro l’hotel King David a Gerusalemme, che ospitava gli uffici amministrativi britannici, da parte dell’Irgun, l’Organizzazione Militare Nazionale.

In seguito a questo e altri attacchi il governo britannico sotto attacco decise di rimettere unilateralmente il mandato. Il 29 novembre 1947 le Nazioni Unite approvarono una risoluzione per la partizione della Palestina mandataria in due Stati, uno ebraico e l’altro arabo.

Gli ebrei accettarono la partizione e gli arabi la rifiutarono. Di conseguenza la Gran Bretagna rifiutò di realizzare il piano di partizione dell’ONU in quanto esso non godeva del supporto di entrambe le parti.

Tuttavia c’era un’altra ragione: l’ostilità nei confronti della causa nazionale palestinese. Il movimento nazionalista palestinese era guidato da Hajj Amin al-Husseini, il gran muftì di Gerusalemme, che era in dissenso con i britannici e aveva lasciato il Paese durante la rivolta araba.

Agli occhi degli inglesi uno Stato palestinese era sinonimo di uno Stato del muftì. L’ostilità verso i dirigenti palestinesi e uno Stato palestinese fu pertanto una costante e un fattore caratterizzante nella politica estera britannica dal 1947 al 1949.

Il mandato terminò alla mezzanotte del 14 maggio 1948. L’uscita britannica dalle difficoltà fu incoraggiare un suo sottoposto, re Abdullah di Giordania, a invadere la Palestina allo spirare del mandato, e di conquistare la Cisgiordania, che l’ONU aveva destinato allo Stato arabo. Nel frattempo l’astuto re aveva raggiunto un tacito accordo con l’Agenzia Ebraica per dividere la Palestina tra loro a spese dei palestinesi.

Il tacito accordo era che gli ebrei avrebbero fondato uno Stato ebraico nella loro parte di Palestina, mentre Abdullah avrebbe conquistato il controllo sulla parte araba, e che avrebbero fatto la pace dopo che si fossero calmate le acque.

Falsa neutralità

Durante la guerra civile scoppiata in Palestina nel periodo precedente al 14 maggio, la Gran Bretagna rimase defilata, abdicando alla sua responsabilità di mantenere la legge e l’ordine. La sua falsa neutralità aiutò inevitabilmente la parte sionista, più forte. Durante gli ultimi mesi del mandato, le forze paramilitari sioniste passarono all’offensiva e intensificarono la pulizia etnica del Paese.

La prima grande ondata di rifugiati palestinesi avvenne sotto gli occhi dei britannici. La Gran Bretagna di fatto abbandonò i nativi palestinesi alla mercé dei colonialisti d’insediamento sionisti. In breve la Gran Bretagna creò attivamente le condizioni della fine del suo stesso egocentrismo imperialista, in cui potesse svolgersi la catastrofe palestinese, la “Nakba”. Un filo mai spezzato di doppiezza, menzogne, inganni e imbrogli unisce la politica estera britannica dall’inizio del suo mandato fino alla Nakba.

Il modo in cui il mandato finì fu la peggiore vergogna dell’intera esperienza britannica come principale potenza al governo della Palestina. Dimostrò quanto poco importasse alla Gran Bretagna del popolo che avrebbe dovuto proteggere e preparare all’autogoverno.

Quando la situazione si fece difficile il potere mandatario semplicemente se la diede a gambe. Non ci fu nessun passaggio ordinato del potere a un’entità locale. La “sacra fiducia nella civiltà” venne definitivamente, irreversibilmente e imperdonabilmente brutalizzata e tradita.

Il sogno di lord Balfour diventò un incubo per i palestinesi. Nella coscienza collettiva dei palestinesi la Nakba non è un evento isolato, ma un processo storico continuo. Oggi oltre 5,9 milioni di rifugiati sono registrati dall’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi.

Hanan Ashrawi ha coniato il termine “Nakba continua” per denotare la persistente esperienza palestinese di violenza e spoliazione per mano del colonialismo d’insediamento sionista. In un discorso alla conferenza dell’ONU del 2001 si riferì al popolo palestinese come “una nazione in cattività tenuta in ostaggio da una continua Nakba in quanto la più articolata e pervasiva espressione dell’apartheid, del razzismo e della vittimizzazione persistenti.”

Contraddizioni nella politica britannica

È triste dover aggiungere che nessun governo britannico ha mai chiesto scusa per la parte giocata dalla Gran Bretagna nella castrazione della Palestina storica. Gli ultimi cinque primi ministri conservatori, a cominciare da David Cameron, sono stati tutti accaniti sostenitori di Israele.

Nel 2017, nel centenario della Dichiarazione Balfour, l’allora prima ministra Theresa May affermò che fu “una delle lettere più importanti della storia. Dimostra il ruolo fondamentale della Gran Bretagna nella creazione di una patria per il popolo ebraico. Ed è un anniversario che celebreremo con orgoglio.” Non menzionò affatto le vittime palestinesi di questa importante lettera.

Nel suo libro del 2014 The Churchill Factor [Il Fattore Churchill] Boris Johnson descrive la Dichiarazione Balfour come “bizzarra”, “un documento tragicamente incoerente” e “una squisita opera indicibile del ministero degli Esteri”. Ma nel 2015 in un viaggio in Israele come sindaco di Londra Johnson celebrò la Dichiarazione Balfour come “un’ottima cosa”.

Nell’ottobre 2017, nel suo ruolo di ministro degli Esteri, Johnson avviò una discussione sulla Dichiarazione Balfour alla Camera dei Comuni. Ribadì l’orgoglio britannico per la parte giocata nella creazione di uno Stato ebraico in Palestina. Nonostante una larga maggioranza per il riconoscimento della Palestina come Stato, si rifiutò di farlo, affermando che non era il momento.

Ciò evidenziò una fondamentale contraddizione al cuore della politica britannica: sostenere la soluzione a due Stati ma riconoscerne solo uno.

Toccò a chi sostituì Johnson, Liz Truss, dimostrare la profonda indifferenza dei politici conservatori inglesi nei confronti della sensibilità palestinese e fino a che punto essi sarebbero arrivati per ingraziarsi Israele e i suoi sostenitori acritici in quel Paese. Durante la sua campagna per l’elezione a leader del partito Conservatore, ventilò l’idea di spostare l’ambasciata britannica da Tel Aviv a Gerusalemme.

Fortunatamente durante i suoi 49 giorni come prima ministra Truss non riuscì a dare seguito a questa idea idiota.

L’attuale politica estera britannica non si è scusata per la Nakba ed è spudoratamente filosionista. Il 21 marzo 2023 un documento programmatico stilato dal governo è stato intitolato “Percorso per le relazioni bilaterali tra Regno Unito e Israele fino al 2030”. Questo documento tratta di commercio e cooperazione in una vasta gamma di settori.

Ma include anche l’impegno britannico a opporsi al deferimento del conflitto israelo-palestinese alla Corte Internazionale di Giustizia, al movimento globale, di base e non violento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) per porre fine all’occupazione israeliana e a lavorare per ridurre la supervisione all’ONU su Israele.

In breve, il documento programmatico concede a Israele l’intera gamma di immunità per le sue azioni illegali e i suoi veri e propri crimini contro il popolo palestinese. Come tale, è un fedele riflesso della parzialità filosionista della politica estera britannica nel corso degli ultimi 100 anni.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Avi Shlaim è professore emerito di Relazioni Internazionali all’università di Oxford e autore di “The Iron Wall: Israel and the Arab World” [Il muro di ferro: Israele e il mondo arabo, Il Ponte editore] (2014) e di “Israel and Palestine: Reappraisals, Revisiones, Refutations” [Israele e Palestina: ripensamenti, revisioni, refutazioni] (2009).

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il fardello che i progressisti occidentali impongono solo ai palestinesi

Joseph Massad

9 novembre 2022 – The Electronic Intifada

Fin dall’inizio della colonizzazione sionista ebraica del loro Paese negli anni ’80 dell’800, i palestinesi hanno affrontato la richiesta che si facessero carico di un doppio fardello: lottare contro il colonialismo razzista sionista dovendo nel contempo difendere i loro colonizzatori contro il razzismo antisemita dei cristiani europei.

Nessun altro popolo colonizzato è stato obbligato a farsi carico di un tale duplice fardello. Neppure alle popolazioni native africane della Liberia venne chiesto di difendere i loro colonizzatori afro-americani razzisti, che li disprezzavano, dal razzismo europeo e statunitense contro i neri che prendeva di mira i colonialisti neri. Né venne mai chiesto ai sudafricani neri di difendere i loro oppressori afrikaner [coloni calvinisti olandesi, tedeschi e francesi, ndt.] contro i britannici che li opprimevano, rinchiudendoli persino in campi di concentramento.

E nessuno ha mai chiesto che la popolazione indigena difendesse i suoi colonizzatori bianchi contro le persecuzioni religiose di cui erano vittime in Europa, che secondo loro li avevano obbligati a colonizzare il Nord America.

Quando queste diverse popolazioni colonizzate attaccarono l’oppressione dei loro colonizzatori, i loro crimini suprematisti e lo sfruttamento, nessuno sembrava preoccupato che tali critiche sarebbero state utilizzate dai precedenti oppressori dei coloni contro di essi, o che il colonizzato non avesse diritto di condannare i propri oppressori.

Al contrario, la richiesta generale imposta da molti europei cristiani ed ebrei e da molti ebrei europei colonialisti ai palestinesi è che essi avrebbero dovuto cedere volontariamente la propria patria agli ebrei europei e manifestare simpatia per la sofferenza causata agli ebrei europei dall’antisemitismo europeo.

In mancanza di ciò, gli europei cristiani e gli ebrei europei colonizzatori sostengono che la lotta anticoloniale dei palestinesi contro la colonizzazione ebraica è “antisemita”, intendendo con ciò che i palestinesi non si oppongono al principio della colonizzazione della loro patria, ma piuttosto che si oppongono solo al diritto degli ebrei, ma non di altri popoli, a colonizzarla.

Secondo questo ragionamento, se fossero stati cristiani, musulmani o induisti a colonizzare la Palestina i palestinesi avrebbero ceduto volontariamente la loro patria, ma rifiutano di fare altrettanto nel caso degli ebrei semplicemente perché sono antisemiti.

Simpatia condizionata

Negli ultimi 50 anni progressisti occidentali cristiani ed ebrei che simpatizzano con i palestinesi come vittime dell’oppressione israeliana, ma non come resistenti anticolonialisti, insistono sul fatto che ogni critica palestinese a Israele debba essere accuratamente calibrata per il timore che venga percepita dagli europei come antisemitismo.

Tuttavia durante lo stesso periodo gli israeliani e chi li appoggia in Occidente hanno scatenato una massiccia campagna sostenendo che ogni critica al sionismo e a Israele è “antisemita”, culminata nella recente adozione da parte di Paesi europei e degli USA della definizione di antisemitismo ideata dall’International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto], con sede in Europa.

Queste accuse sono centrate su una serie di argomentazioni sospette che molti sostenitori occidentali dei palestinesi-come-vittime-ma non-come-resistenti vogliono impedire ai palestinesi di fare.

I sionisti e i progressisti occidentali sostengono che, se i palestinesi attaccano il diritto degli ebrei a colonizzare le loro terre, ciò sarebbe antisemita perché, negando agli ebrei europei il diritto di essere colonialisti, i palestinesi negherebbero il loro presunto “diritto” all’autodeterminazione. O peggio, che i palestinesi negherebbero il legame razziale che i protestanti europei evocarono fin dal XVI secolo, cioè che gli ebrei europei sarebbero fantasiosamente in qualche modo i discendenti degli antichi ebrei della Palestina (una leggenda che a volte sostengono anche gli ebrei europei) e non europei convertitisi in seguito all’ebraismo!

In base a questa logica, i sionisti sostengono che i palestinesi di fatto sono i colonizzatori della Palestina, mentre i colonialisti ebrei europei sarebbero i veri nativi della Palestina che starebbero tornando alla patria dei loro presunti antenati.

All’inizio del XIX secolo molti europei filoellenici si consideravano i discendenti degli antichi greci e vedevano i greci nativi come “slavi cristianizzati” che erano migrati a sud verso l’antica Grecia e più simili ai turchi.

Ma, dato che alla fine nessun progetto di colonialismo d’insediamento venne concepito per la Grecia, la questione venne lasciata cadere a favore dell’“indipendenza” greca dagli ottomani e dell’appropriazione della Grecia come parte dell’Europa invece che del Mediterraneo orientale.

I sionisti non sono mai stati dei pensatori originali, in quanto la maggior parte delle loro argomentazioni è derivata da altri colonialisti europei. Furono i francesi, e poi gli italiani, che sostennero che la loro colonizzazione del Nord Africa non era nientemeno che il ritorno alle antiche terre dell’impero romano e che i nativi arabi erano i veri colonialisti!

In effetti illustri razzisti occidentali come Albert Camus sostennero che gli arabi algerini erano colonialisti stranieri affermando che “i francesi d’Algeria erano anche nativi, nel vero senso della parola.”

L’antisemitismo europeo proiettato sui palestinesi

Dunque, per timore di essere accusati di antisemitismo, i palestinesi dovrebbero accettare l’invenzione sionista secondo cui gli ebrei europei sarebbero la popolazione indigena della Palestina e che loro sono i veri colonialisti? Quando i palestinesi affermano che i media dell’Occidente e degli USA sono sempre stati filoisraeliani e razzisti contro i palestinesi, i loro sostenitori occidentali temono che ciò venga percepito come antisemita perché gli antisemiti europei e statunitensi storicamente accusano gli ebrei europei di controllare i mezzi di comunicazione occidentali.

Tuttavia l’affermazione dei palestinesi non è diversa da quella degli algerini, cioè che i mezzi di comunicazione occidentali appoggiarono sempre il colonialismo francese in Algeria, o da quella dei nativi americani, secondo cui essi appoggiano i diritti dei colonizzatori bianchi negli Stati Uniti.

Che i media occidentali, che sono i mezzi di comunicazione dei colonizzatori e dei colonialisti, appoggino il colonialismo testimonia pregiudizi strutturali, a volte persino pregiudizi complottisti, contro le popolazioni native. Ciò non significa che gli ebrei controllino i media occidentali come sostengono gli antisemiti, ma che lo fanno i colonialisti europei, cristiani ed ebrei, e i sostenitori del colonialismo.

Quindi i palestinesi non dovrebbero attaccare i pregiudizi endemici filoisraeliani e antipalestinesi dei media occidentali per timore di venire “scambiati” per antisemiti dai progressisti?

Storicamente i palestinesi hanno anche identificato il grande potere finanziario e politico mobilitato dal sionismo fin dagli anni ’80 dell’800 per realizzare il progetto di colonizzazione della Palestina, a cominciare dai Rothschild che finanziarono le prime colonie di ebrei europei in Palestina.

Di nuovo, quando i palestinesi parlano dei ricchi ebrei europei e americani, uomini d’affari e banchieri, che appoggiano il sionismo e Israele, concepiscono progetti per espellere i palestinesi e promettono di finanziare la loro espulsione, come propose nel 1934 il ricco ebreo americano sionista Edward A. Norman, o di rubare le loro terre, i progressisti cristiani ed ebrei occidentali sussultano perché queste argomentazioni ricordano le fandonie antisemite dei cristiani europei secondo cui tutti gli ebrei sono ricchi e controllano tutto il sistema finanziario dell’Occidente.

Ma il fatto che i ricchi ebrei filosionisti appoggino Israele e finanzino i colonizzatori non è diverso dagli investimenti di imprese e Stati europei cristiani che hanno finanziato la colonizzazione di Algeria, Sudafrica, Kenya, Nuova Zelanda e persino Israele.

Smascherare i ricchi ebrei europei e statunitensi che finanziano il sionismo corrisponde al loro fondamentale ruolo e influenza coloniali nel distruggere la società palestinese e nell’oppressione dei palestinesi.

Ciò non implica, come gli antisemiti vorrebbero farci credere, che tutti gli ebrei siano banchieri che controllano le vite degli europei cristiani, o che tutti gli ebrei siano ricchi, cosa che non sono – anche se e quando, secondo molti, fin dalla Seconda Guerra Mondiale la maggioranza degli ebrei europei e statunitensi ha appoggiato e continua a sostenere la colonizzazione ebraica in Palestina, proprio come la maggioranza dei cristiani francesi o dei britannici appoggiarono la colonizzazione in Africa.

Quindi, per timore di essere scambiati per antisemiti, i palestinesi dovrebbero tacere riguardo all’influenza dei sionisti europei e statunitensi che contribuiscono alla loro oppressione?

Incontro coloniale

Non essendo europei, fin dagli anni ’80 dell’800 i palestinesi hanno incontrato gli ebrei per lo più come coloni armati, intenzionati a rubare la loro terra e a espellerli dal loro Paese.

Mentre è vero che alcuni dirigenti politici palestinesi cercarono di utilizzare la retorica antisemita europea contro i colonizzatori ebrei europei per difendersi contro la colonizzazione sionista, la maggioranza dei leader palestinesi spesso ha fatto l’esatto contrario e ha concordato con parecchie affermazioni sioniste, colonialiste e razziste, come fecero, oltre un secolo fa, lo scrittore e intellettuale Yusuf al-Khalidi, Yasser Arafat nel 2002 e Mahmoud Abbas continua a fare oggi.

Al-Khalidi, vissuto a Vienna a cavallo tra ‘800 e ‘900, contestò la scelta della Palestina come luogo per un futuro Stato per gli ebrei europei, in quanto era la patria dei nativi arabo-palestinesi.

Egli rispose alle affermazioni di Theodor Herzl, fondatore del movimento sionista, a cui nel 1899 inviò una lettera di questo tenore: “In base a quale diritto dunque gli ebrei la rivendicano per sé?”

Stranamente, accettando le rivendicazioni razziali e antisemite dei sionisti secondo cui gli ebrei europei erano i discendenti biologici diretti degli antichi ebrei, al-Khalidi, molto probabilmente a causa dell’educazione colonialista europea che gli era stata impartita, affermò che “il sionismo, teoricamente, è un’idea completamente naturale e giusta come soluzione della questione ebraica,” e di conseguenza “chi può opporsi ai diritti degli ebrei sulla Palestina? Buon dio, storicamente è davvero il vostro Paese.”

Tuttavia, nell’interesse della pace, al-Khalidi propose che il movimento sionista cercasse altri “Paesi disabitati in cui milioni di poveri ebrei forse potrebbero essere felici e avere una vita sicura come popolo.”

Ciò forse sarebbe la soluzione migliore, più razionale per la questione ebraica,” affermò.

Ma, nel nome di dio, lasciate in pace la Palestina.”

Dopo al-Khalidi molti altri palestinesi continuarono a cadere in queste false argomentazioni sioniste.

I frutti del razzismo antipalestinese

L’ironia risiede nel fatto che i critici progressisti occidentali dei palestinesi e quanti sostengono i palestinesi-come-vittime raramente chiedono conto ai sionisti e ai filosionisti dei loro interminabili accessi di razzismo contro i palestinesi e gli altri arabi e dell’utilizzo del tradizionale razzismo antiarabo europeo e statunitense che ha portato all’uccisione di milioni di arabi dall’Algeria alla Libia da parte degli europei durante le lotte anticoloniali, e dal 1991 in Iraq da parte degli americani.

Per esempio, nel suo lavoro pubblicato il giornalista ebreo americano Jeffrey Goldberg rivela di essere stato un colono in Israele, di essere entrato nell’esercito israeliano e di averci prestato servizio come guardia carceraria di palestinesi imprigionati per essersi opposti alla colonizzazione ebraica (è stato anche sostenitore dell’invasione statunitense in Iraq).

Eppure, nonostante le sue deplorevoli opinioni sui palestinesi e sugli iracheni, per non parlare del suo ruolo diretto in azioni di persecuzione come guardia carceraria, Goldberg è celebrato, rispettato e gli vengono dati lavori editoriali nelle più prestigiose riviste progressiste degli USA, oltre che premi giornalistici.

Al contrario, se si scopre che, nella sua immatura e male informata gioventù, una giornalista palestinese [si riferisce alla vicenda di Shatha Hammad, licenziata dal sito di notizie Middle East Eye, ndt.], non nel suo lavoro pubblicato, ma su Facebook, ha manifestato abominevoli opinioni a favore dell’antisemitismo europeo, opinioni che ha palesemente equivocato come parte della legittima espressione di rabbia contro i suoi oppressori, viene licenziata dal suo lavoro persino da un mezzo di informazione filopalestinese.

Oltretutto, per la soddisfazione dei progressisti occidentali, le è stato revocato un premio giornalistico benché l’errore di gioventù non sia stato ripetuto durante la sua carriera giornalistica.

Invece l’ex-guardia carceraria israeliana continua con i suoi discorsi giornalistici antiarabi e antipalestinesi e con i suoi continui attacchi contro quei palestinesi che difendono il proprio popolo dal colonialismo come antisemiti.

Un altro importante giornalista ebreo americano, Ben Shapiro, ha invocato l’espulsione di massa dei palestinesi e appoggiato l’uccisione di civili palestinesi e afghani.

Una volta Shapiro ha dichiarato che “gli israeliani amano costruire”, mentre “gli arabi amano sparare merda e vivere in mezzo a fogne a cielo aperto.”

Eppure questi e altri commenti razzisti non impediscono al New York Times di celebrare Shapiro come “gladiatore provocatorio” e “pugile professionista”, notando nel contempo che egli è stato bersaglio di antisemitismo.

Ovviamente giornalisti americani ed europei cristiani bianchi come John F. Burns del New York Times, che appoggiano e informano entusiasticamente sulle invasioni USA all’estero, sono stati e continuano a essere esaltati.

Vengono puniti anche giornalisti ebrei

Nel contempo giornalisti ebrei che criticano Israele vengono licenziati da mezzi di comunicazione progressisti dell’Occidente, com’è successo a Emily Wilder, che nel 2021 è stata cacciata dall’Associated Press [agenzia di stampa USA, ndt.], e più di recente Katie Halper, licenziata da The Hill [giornale statunitense di politica e di tendenza liberal, ndt.].

Nel caso di Wilder, secondo quanto riferito dai media, il suo “attivismo nel college è stato il vero problema” che ha portato al suo licenziamento. Si confronti questo caso con l’esaltazione da parte dei principali media occidentali del racconto della guardia carceraria israeliana del suo incontro con i palestinesi nelle prigioni israeliane come motivo di promozione, non di ostracismo o licenziamento!

Quello che i progressisti europei e americani vogliono è che i palestinesi rimangano in silenzio riguardo ai meccanismi internazionali che appoggiano e difendono la colonia di insediamento ebraica; che i palestinesi si oppongano solamente all’oppressione a cui sono sottoposti dai loro colonizzatori ebrei, ma non al diritto di questi ultimi a colonizzarli; che i palestinesi difendano i loro colonizzatori ebrei contro gli antisemiti europei; che i palestinesi si schierino in solidarietà con i colonizzatori-come-vittime mentre vengono repressi sotto gli stivali militari dei colonizzatori.

Nel contempo praticamente nessuna collaborazione attiva con gli israeliani nella loro oppressione dei palestinesi, per non parlare delle abituali manifestazioni di razzismo contro i palestinesi da parte di israeliani e filoisraeliani, merita alcuna censura quando espressa da israeliani o dai loro sostenitori in Occidente.

Quando la maggioranza della classe politica e intellettuale palestinese presta ascolto ai progressisti occidentali perché difendano gli ebrei dall’antisemitismo, come ha fatto l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina onorando le vittime ebree dell’Olocausto fin dagli anni ’70, né Israele né i suoi sostenitori si dicono soddisfatti.

Il loro obiettivo non è insegnare ai palestinesi la storia degli ebrei europei come vittime di oppressione, ma piuttosto insegnargli perché gli ebrei europei come oppressori hanno avuto e hanno il diritto di colonizzarli e portagli via la patria.

Joseph Massad è docente di politica e storia intellettuale araba contemporanea alla Columbia University a New York. Il suo libro più recente è Islam in Liberalism [L’Islam nel liberalismo] (University of Chicago Press, 2015).

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Una commissione delle Nazioni Unite dichiara che indagherà sulle accuse di “apartheid” contro Israele

Luke Tress

28 ottobre 2022 – The Times of Israel

Il rappresentante di Israele afferma che i membri della commissione “detestano” lo Stato ebraico.

I componenti della commissione d’inchiesta definiscono il termine “un paradigma appropriato“, respingono le accuse di antisemitismo come una “manovra diversiva” e le preoccupazioni sulla sicurezza come una “finzione” e sostengono che Gerusalemme potrebbe essere colpevole di crimini di guerra

NAZIONI UNITE – Giovedì la Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sulle violazioni dei diritti da parte di Israele e dei palestinesi ha dichiarato che indagherà sulle accuse di apartheid contro Israele, confermando i timori di Gerusalemme [Tel Aviv, capitale di Israele per il diritto internazionale, ndt.] che la controversa indagine conduca ad etichettarla con il termine infamante.

L’indagine delle Nazioni Unite in corso è stata avviata dal Consiglio per i diritti umani dopo gli 11 giorni di battaglia lo scorso anno tra Israele e i terroristi di Gaza, allo scopo di indagare le violazioni dei diritti in Israele, in Cisgiordania e a Gaza, ma si è concentrata quasi esclusivamente su Israele.

La Commissione ha pubblicato il suo secondo rapporto la scorsa settimana, chiedendo al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di porre fine all'”occupazione permanente” da parte di Israele e esortando gli Stati membri delle Nazioni Unite a perseguire i responsabili israeliani.

Giovedì, durante un briefing alle Nazioni Unite a New York, i tre membri della commissione hanno dichiarato che i prossimi rapporti riguarderanno le indagini sull’apartheid da parte di Israele. Hanno affermato che finora la ricerca si è concentrata sulle “cause profonde” del conflitto, da loro imputato alla presenza di Israele in Cisgiordania.

Navi Pillay, un’ex responsabile delle Nazioni Unite per i diritti umani che presiede la commissione, ha definito l’apartheid “una manifestazione dell’occupazione”.

“Ci stiamo concentrando sulla causa principale, rappresentata dall’occupazione, mentre l’apartheid fa parte dei suoi effetti”, dice Pillay. Ci arriveremo. Questo è il vantaggio del nostro mandato a tempo indefinito, ci consente una vasta libertà di indagine”.

Il membro della Commissione Miloon Kothari ha affermato inoltre che la natura a tempo indefinito dell’indagine permette di approfondire l’accusa di apartheid.

“Ci arriveremo perché abbiamo a disposizione molti anni e molti aspetti da approfondire”, dice.

“Pensiamo che sia necessario un approccio globale, quindi dobbiamo esaminare le questioni del colonialismo d’insediamento”, aggiunge Kothari. “L’apartheid è in sé un paradigma molto appropriato, quindi avremo un approccio leggermente diverso, ma ci arriveremo sicuramente”.

Israele ha rifiutato di collaborare con la commissione e non le ha concesso l’ingresso in Israele o nelle aree sotto controllo palestinese in Cisgiordania e Gaza. Ha respinto il rapporto della scorsa settimana, definendo la commissione non credibile né legittima. Giovedì, l’ambasciatore di Israele presso le Nazioni Unite ha affermato che i membri della commissione sono stati scelti in quanto “detestano” Israele.

I resoconti dell’inizio di quest’anno affermavano che il ministero degli Esteri stesse pianificando una campagna per sventare le accuse di apartheid da parte della commissione. Secondo quanto riferito, un cablogramma trapelato ha rivelato che i funzionari israeliani erano preoccupati per il danno che il primo rapporto della commissione avrebbe potuto causare se avesse fatto riferimento ad Israele come uno “Stato di apartheid”.

Il primo ministro Yair Lapid, che all’inizio dell‘anno ricopriva il ruolo di ministro degli Esteri, ha avvertito che quest’anno Israele avrebbe dovuto affrontare intense campagne rivolte ad etichettarlo come uno Stato di apartheid.

Nel corso degli ultimi due anni il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, Human Rights Watch, Amnesty International e altre [organizzazioni per i diritti umani] hanno accusato Israele di apartheid, prendendo in prestito il termine dal sistema sudafricano di discriminazione su base razziale.

Israele ha negato categoricamente le accuse di apartheid, affermando che la sua minoranza araba gode di pieni diritti civili, mentre la maggior parte dei palestinesi, che vivono al di fuori del territorio sovrano di Israele, sono soggetti al governo dell’Autorità Nazionale Palestinese sulla base degli accordi di Oslo.

Ha inoltre reagito con irritazione al termine “occupazione”, usato per descrivere le sue attività in Cisgiordania e a Gaza. Considera Gaza, dalla quale ha ritirato soldati e coloni nel 2005, come un’entità ostile governata dal gruppo terroristico islamico Hamas, e ritiene la Cisgiordania un territorio conteso soggetto a negoziati di pace interrotti da quasi dieci anni. I palestinesi rivendicano come futuro Stato indipendente la Cisgiordania, Gerusalemme Est e Gaza, territori conquistati da Israele nella guerra del 1967.

Giovedì la commissione ha presentato all’Assemblea generale delle Nazioni Unite il suo ultimo rapporto.

Il rapporto di 28 pagine accusa Israele di violare il diritto internazionale rendendo permanente il suo controllo sulla Cisgiordania e annettendo a Gerusalemme e in Cisgiordania territori rivendicati dai palestinesi e terra siriana sulle alture del Golan. Accusa inoltre Israele di politiche discriminatorie nei confronti dei cittadini arabi, di furto di risorse naturali e di violenza di genere contro le donne palestinesi.

Non menziona affatto Hamas, razzi o terrorismo, sebbene la commissione abbia ripetutamente precisato che presunti crimini palestinesi rientrano nell’ambito dell’indagine.

In passato i tre componenti della commissione sono stati aspramente critici nei confronti di Israele e Israele ha affermato che l’indagine è viziata da pregiudizi e antisemitismo.

Lapid ha definito il rapporto antisemita, “di parte, falso, istigatore e palesemente sbilanciato”.

Giovedì Pillay ha negato le accuse di aver definito in passato Israele uno Stato di apartheid. Il gruppo di monitoraggio di UN Watch [ONG internazionale la cui missione dichiarata è “monitorare le prestazioni delle Nazioni Unite sulla base della propria Carta”, ndt.] ha affermato di aver documentato più casi in cui fino al 2020 ella avrebbe accusato Israele di apartheid.

La Pillay ha anche affrontato critiche per la sua difesa di Kothari, che ha suscitato un putiferio all’inizio di quest’anno, quando ha affermato che i social media sarebbero “controllati in gran parte dalla lobby ebraica”, invocando tropi antisemiti sul potere ebraico. Ha anche chiesto perché Israele facesse parte delle Nazioni Unite.

Giovedì l’inviato israeliano alle Nazioni Unite, Gilad Erdan, ha condannato il rapporto insieme ai genitori di Ido Avigal, un bambino ucciso da Hamas durante il conflitto del 2021.

“[I commissari] sono stati scelti proprio in quanto detestano lo Stato ebraico”, ha detto Erdan.

I membri della commissione hanno affermato che le critiche di Israele non “smentiscono i risultati” del rapporto.

Anche gli Stati Uniti hanno ripetutamente condannato la commissione. Mercoledì durante un incontro con il presidente israeliano Isaac Herzog il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha denunciato l’indagine come di parte.

L’indagine “segue uno schema di vecchia data prendendo di mira Israele e non fa nulla per realizzare i presupposti per una pace”, ha affermato la Casa Bianca.

Giovedì Pillay ha respinto le accuse di antisemitismo, definendo le affermazioni “offensive” e “una manovra diversiva”.

Non siamo tutti e tre degli antisemiti. Consentitemi di chiarirlo e poi, come se non bastasse, hanno affermato che anche la relazione sarebbe antisemita. Non c’è una parola in questo rapporto che possa essere interpretata come antisemita”, ha detto. “Questa [accusa] viene sempre sollevata come diversivo.”

Siamo fortemente impegnati per la giustizia, lo stato di diritto e i diritti umani e non dovremmo essere costretti a subire tali insulti. Sono totalmente falsi, tutte falsità e bugie”, afferma.

Dice che Israele potrebbe essere colpevole di crimini internazionali, inclusi crimini di guerra, per il trasferimento di civili nei “territori occupati”, riferendosi agli insediamenti coloniali in Cisgiordania, dove vivono quasi 500.000 israeliani.

Kothari ha definito i coloni un “corpo paramilitare”.

“Possono fare quello che diavolo vogliono, possono fare irruzione nelle case, possono distruggere gli ulivi”, ha detto.

Pillay ha respinto, definendole “una finzione” dietro cui il Paese cerca di “nascondersi”, le preoccupazioni sulla sicurezza citate da Israele come giustificazione per il mantenimento di una presenza in Cisgiordania.

“Alcune delle politiche israeliane in Cisgiordania hanno solo lo scopo di giustificare in modo apparente problemi di sicurezza”, ha affermato.

La commissione ha chiesto a Israele di ritirarsi immediatamente dalla Cisgiordania, senza fare nessuna richiesta ai palestinesi.

Kothari respinge l’idea di un ritiro israeliano come parte di colloqui di pace verso una soluzione a due Stati, un processo sostenuto da gran parte della comunità internazionale.

“Come possiamo parlare di pace o negoziati senza che prima vengano prese delle misure da parte israeliana?” afferma Kotari.

Mentre la maggior parte degli israeliani sostiene una soluzione a due Stati, Israele ritiene che un ritiro unilaterale dalla Cisgiordania senza garanzie di sicurezza creerebbe uno Stato terroristico alle sue porte, indicando come esempio Gaza, dove ha condotto guerre ripetute per ostacolare gli attacchi missilistici di Hamas contro i civili. Israele giustifica anche il suo blocco sulla Striscia di Gaza, mantenuto insieme all’Egitto, come misura di sicurezza necessaria per fermare il terrorismo.

Il primo rapporto, pubblicato a maggio, faceva una breve menzione degli attacchi missilistici e del terrorismo palestinese, ma condannava la “persistente discriminazione contro i palestinesi” da parte di Israele come causa della violenza tra le due parti.

Giovedì la commissione ha affermato che “condanna qualsiasi forma di violenza”.

Il commissario Chris Sidoti ha detto che i rapporti futuri avranno “una copertura più completa” e che i dati su Israele sono limitati perché Israele non ha consentito l’ingresso ai commissari.

“Se ci sarà dato il permesso di entrare in Israele faremo queste domande ai funzionari competenti”, afferma Kothari. “Dateci la vostra versione delle cose perché vogliamo riportare i fatti con equità“.

I commissari non hanno accesso neppure a Gaza o in Cisgiordania.

La commissione è stata istituita l’anno scorso durante una sessione speciale del Consiglio per i diritti umani nel maggio 2021 a seguito dei combattimenti tra Israele e terroristi palestinesi nella Striscia di Gaza. L’UNHRC ha incaricato l’organismo di condurre un’indagine su “tutte le presunte violazioni del diritto umanitario internazionale e tutte le presunte violazioni e abusi delle leggi internazionali sui diritti umani” in Israele, Gerusalemme est, Cisgiordania e Gaza.

La commissione è stata la prima ad ottenere dall’organismo per i diritti umani delle Nazioni Unite un mandato a tempo indefinito – piuttosto che avere il compito di indagare su un crimine specifico – e i critici affermano che delle indagini così prolungate mostrino la presenza di pregiudizi anti-israeliani all’interno del consiglio dei 47 Stati membri. I fautori sostengono la commissione come una modalità per tenere gli occhi aperti sulle ingiustizie affrontate dai palestinesi durante decenni di dominio israeliano.

Sembrano accettare un’occupazione senza fine, ma si lamentano di questa commissione. Il mandato a tempo indeterminato ci consente di affrontare in profondità alcuni di questi problemi”, sostiene Pillay.

La commissione ha anche dichiarato di non aver avviato l’indagine – l’hanno fatto gli Stati membri – e ha detto di ritenere che le Nazioni Unite dovrebbero istituire più indagini a tempo indefinito.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Apartheid in Palestina. Origini e prospettive della questione palestinese,

Gabriel Traetta. Apartheid in Palestina.Origini e prospettive della questione palestinese DeriveApprodi, Roma 2022

Recensione di Amedeo Rossi

25 settembre2022

Il libro rappresenta una denuncia della situazione che nel corso dei decenni è andata progressivamente deteriorandosi in Medio Oriente. Nelle due autorevoli prefazioni Luisa Morgantini e Wasim Dahmash evidenziano uno dei pregi di questo libro: “Chiamare le cose con il proprio nome”, come afferma Dahmash, cioè “colonialismo d’insediamento, apartheid, occupazione militare”, come enumera Morgantini. Inoltre, aggiungono, la peculiarità di questo libro è il riferimento puntuale al contesto internazionale. L’autore ne tratta con cognizione di causa, avendo collaborato con l’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite specificamente dedicata ai profughi palestinesi. E il fulcro di questo lavoro è proprio la contraddizione tra dichiarazioni di principio, denunce e risoluzioni ONU e la sostanziale inanità, quando non connivenza e sostegno, della comunità internazionale nei confronti di Israele a rappresentare.

La tragedia di cui i palestinesi sono vittime è maturata soprattutto a partire dal Mandato britannico e dalla dichiarazione Balfour, che impegnava l’impero a favorire la costituzione di un “focolare ebraico” in Palestina. Fin da allora alla popolazione autoctona è stato riservato un ruolo marginale, ignorandone il diritto all’autodeterminazione e liquidandola come “popolazione non ebraica” da tutelare solo dal punto di vista religioso e sociale. È singolare che i sostenitori di Israele citino questa dichiarazione come una delle fonti di legittimazione di Israele, nonostante si tratti di un documento di chiaro stampo colonialista. E d’altra parte il colonialismo di insediamento è una delle caratteristiche che definiscono l’impresa sionista.

Il secondo momento cruciale su cui si sofferma Traetta è rappresentato dalla risoluzione 181 dell’ONU che nel 1947 stabilì la spartizione della Palestina tra uno Stato ebraico e un altro arabo, ignorando la situazione demografica sul terreno e le legittime aspirazioni del popolo palestinese. Si tratta, scrive l’autore, “dell’unico caso nella storia delle Nazioni Unite e del diritto internazionale in cui è stato conferito a un movimento politico-coloniale il diritto di fondare uno Stato e per di più a evidente discapito del popolo indigeno.” Ciò fu possibile grazie alla maggiore capacità del gruppo dirigente sionista rispetto alla controparte araba di muoversi nel contesto internazionale e trovare quindi legittimazione alle proprie pretese non solo in Occidente, ma anche nel blocco socialista. Infatti, pur nell’imminenza della Guerra fredda, la risoluzione 181 venne votata sia dagli Stati Uniti che dal blocco socialista in via di formazione. Da allora lo Stato ebraico ha continuato a violare impunemente le disposizioni delle Nazioni Unite, a cominciare proprio dalla stessa risoluzione 181. I territori occupati andavano ben oltre quelli destinati al cosiddetto Stato ebraico, ma vennero annessi senza conseguenze. La capitale venne spostata da Tel Aviv a Gerusalemme ovest, che era invece destinata ad essere un territorio gestito dalla comunità internazionale. Infine, Israele si rifiutò di consentire il ritorno delle centinaia di migliaia di profughi palestinesi, nonostante nell’atto di adesione all’ONU accettasse di riaccoglierli.

Dal problema dei profughi nacque nel dicembre 1949 la United Nation Relief and Works Agency for Palestinian Refugees in the Near East (l’UNRWA), incaricata di fornire una serie di servizi ai profughi palestinesi. Logicamente a questa agenzia Traetta dedica particolare attenzione, in quanto essa sintetizza tutte le contraddizioni e le incongruenze della comunità internazionale rispetto al conflitto israelo-palestinese. Egli evidenzia che l’UNRWA non ha un mandato specifico: “Non esiste infatti una dichiarazione esplicativa del termine unica ed esaustiva, ma vari documenti e risoluzioni ONU contengono elementi che, se correlati, forniscono la descrizione dell’istituto del mandato.” Il risultato è che “le risoluzioni sulle quali poggiano i mandati utilizzano prevalentemente […] una terminologia che lascia spazio all’arbitrio e non prevede l’esecutività della richiesta.”

Questa voluta ambiguità si manifestò anche nel 1967, quando circa altri 350.000 palestinesi vennero cacciati dalla Cisgiordania e da Gaza. L’ulteriore pressione sull’UNRWA ne accrebbe il ruolo dal punto di vista quantitativo, ma Israele scaricò sui finanziatori internazionali dell’agenzia il costo della sua espansione territoriale.

Nel 2000 l’UNRWA aveva 30.000 dipendenti, al 95% palestinesi (rappresentando quindi una fonte di lavoro imprescindibile per i rifugiati) e forniva ai suoi beneficiari servizi nei campi della salute, dell’istruzione, della formazione, dei servizi sociali, ecc. Tuttavia queste attività sono soggette alla disponibilità di fondi, a loro volta subordinati alle erogazioni da parte dei Paesi donatori, che per ragioni di politica internazionale possono decidere di ridurre o negare gli stanziamenti. È quanto ha fatto l’amministrazione Trump, che ha contribuito alla campagna di discredito e il boicottaggio promosso da Israele per eliminare alla radice la questione dei profughi palestinesi.

Nella seconda parte del libro Traetta parla delle radici colonialiste dello Stato di Israele e delle sue innumerevoli violazioni delle leggi internazionali, della Convenzione di Ginevra e delle risoluzioni ONU. Ricorda che dal 2008 Israele nega impunemente al relatore speciale ONU l’accesso sia al suo territorio che a quelli occupati. Non c’è quindi da stupirsi che oltre il 50% delle risoluzioni di denuncia per violazioni dei diritti umani, sia da parte del Consiglio ONU per i diritti umani che dell’Assemblea generale riguardino Israele.

Una serie di pratiche e di politiche discriminatorie in atto già dalla fondazione dello Stato nel 1948 hanno dato vita a sistema di apartheid istituzionalizzato sia nei territori occupati che sul territorio israeliano. Lo hanno affermato nel 2021 rapporti dell’ONU, di ong internazionali come Amnesty International e Human Rights Watch e israeliane come B’Tselem, ma i palestinesi lo denunciano da decenni. Ancora più grave è la situazione a Gaza, sottoposta dal 2007 a un assedio asfissiante che sta distruggendo l’economia, l’ambiente e la vita stessa di 2 milioni di persone. I periodici attacchi israeliani hanno provocato migliaia di vittime e preso di mira le infrastrutture fondamentali per la sopravvivenza della popolazione, compresi i servizi dell’UNRWA. Nel 2019, durante la Grande Marcia del Ritorno, i cecchini israeliani hanno fatto strage dei manifestanti. A questo proposito Traetta cita il rapporto del relatore speciale ONU, secondo il quale, nonostante la comunità internazionale sia pienamente consapevole di quanto sta avvenendo in Palestina, essa si dimostra “riluttante ad agire in merito a tali prove schiaccianti e a utilizzare gli abbondanti strumenti politici e legali a sua disposizione per porre fine all’ingiustizia.”

Proprio tra il 2018 e il 2020, afferma l’autore, ci sono stati tre cambiamenti epocali che hanno riconosciuto come legittime le violazioni operate da Israele: lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, la legge sullo Stato-Nazione ebraico e infine l’Accordo del secolo proposto dall’amministrazione Trump, che ha escluso la partecipazione dei palestinesi persino dalla definizione dei suddetti “accordi”. Questi avvenimenti non solo rafforzano il progetto sionista, ma fanno a pezzi le leggi internazionali e ogni norma che pretenda di regolare i rapporti tra gli Stati e i popoli. Come afferma in chiusura Traetta, “la questione palestinese ricorda al mondo intero, ogni giorno, quanto l’ordinamento internazionale contemporaneo sia una farsa: nel nome del diritto internazionale, i cinque membri permanenti possono utilizzare secondo le proprie esigenze nazionali il potere vastissimo conferito loro dal Consiglio di sicurezza ma al tempo stesso, tramite il diritto di veto, sono immuni dalla possibilità di esserne oggetto.”

Come dimostra questo libro, la questione palestinese non riguarda solo un’area relativamente marginale del mondo, ma i diritti di tutti, e non è un problema di carattere umanitario, ma è eminentemente politico.




Opinione: il primo ministro israeliano non cerca un cambiamento. Vuole solo maggiore copertura per l’apartheid e la colonizzazione.

Noura Erakat

26 agosto 2021 – Washington Post

Questa settimana il primo ministro israeliano Naftali Bennett ha fatto una serie di incontri a Washington, incontrandosi con funzionari dell’amministrazione Biden (un colloquio alla Casa Bianca è stato rinviato a causa degli attacchi all’aeroporto di Kabul). Entrambe le parti sperano di ristabilire i rapporti tra gli USA e Israele dopo quattro anni in cui l’ex-presidente Trump ha sfacciatamente promosso gli interessi espansionistici di Israele senza la parvenza progressista delle passate amministrazioni USA. La sinergia tra Trump e il primo ministro Benjamin Netanyahu ha evidenziato la natura farsesca del processo di pace e rafforzato una crescente divisione di parte tra i democratici e i repubblicani riguardo a Israele.

Tuttavia, nonostante il loro massimo impegno per nascondere la realtà – la colonizzazione israeliana di insediamento sulla terra palestinese e il regime di apartheid imposto per consolidare queste appropriazioni di territorio e rafforzare la supremazia ebraica – nessuna operazione di pubbliche relazioni o manipolazione della realtà può cambiare quanto avviene sul terreno o le tendenze che stanno allontanando gli americani da Israele a favore del sostegno alla libertà dei palestinesi.

In politica niente è cambiato. Nei suoi primi otto mesi in carica Biden ha approvato la maggior parte delle iniziative più discutibili di Trump, compresi lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, l’opposizione all’inchiesta della Corte Penale Internazionale sulle azioni di Israele e l’adozione dell’estremamente problematica definizione di antisemitismo che confonde le critiche contro Israele con il fanatismo antiebraico.

Biden si è categoricamente opposto a qualunque condizionamento dell’aiuto militare a Israele in base alle violazioni dei diritti umani e ha ordinato ai suoi funzionari di lottare contro il movimento di base per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) a favore dei diritti dei palestinesi, che si ispira ai movimenti per i Diritti Civili [negli USA, ndtr.] e contro l’apartheid in Sudafrica. In maggio, durante il bombardamento israeliano di Gaza che ha ucciso più di 250 palestinesi, tra cui 12 famiglie cancellate dall’anagrafe, Biden ha resistito a ripetute richieste all’interno del suo stesso partito per sollecitare pubblicamente Israele a interrompere le violenze.

Da parte sua Bennett è ansioso di presentarsi al principale sponsor di Israele e al mondo. Vuole distinguersi da Netanyahu, sotto il quale e al cui fianco ha lavorato per molti anni, nel tentativo di compiacere i sionisti progressisti USA, che sono alla disperata ricerca di una foglia di fico per sostenere la loro negazione riguardo all’esistenza dell’apartheid israeliano.

Tuttavia Bennett è, se possibile, persino più estremista di Netanyahu. Bennett è stato a capo del Consiglio Yesha, la principale organizzazione che rappresenta i coloni, e si è opposto senza riserve a uno Stato palestinese. In base all’accordo che tiene insieme la sua coalizione, il nuovo governo “incentiverà in modo significativo la costruzione a Gerusalemme,” comprese le colonie a Gerusalemme est, e, secondo informazioni, ha promesso ai capi dei coloni che non ci sarà un blocco delle colonie neppure nel resto della Cisgiordania.

Cosa forse ancor più allarmante, Bennett ha iniziato a cambiare lo status quo nel venerato complesso della moschea del nobile santuario, noto agli ebrei come Monte del Tempio, per consentire agli ebrei di pregarvi. Dall’occupazione di Gerusalemme est nel 1967 Israele ha vietato agli ebrei di pregare sul Nobile Santuario perché molte autorità religiose ebraiche vi si sono opposte per ragioni teologiche e per evitare di provocare tensioni con i musulmani. Ora con Bennett ciò sta cambiando, con conseguenze potenzialmente disastrose non solo per la regione.

Come parte di questo piano per presentare una nuova immagine, Bennett sta cercando di “ridimensionare il conflitto” rendendo più tollerabili le condizioni dei palestinesi con la prosecuzione della dominazione israeliana, proprio come la visione di Trump per una “pace economica”. Questo approccio riguarderà anche l’esaltazione come modelli per la pace degli Accordi di Abramo, il riconoscimento reciproco tra Israele e regimi autoritari sostenuti dagli USA. Bennett probabilmente appoggerà un incremento degli aiuti USA all’Autorità Nazionale Palestinese, che è parte dell’apparato di sicurezza israeliano: proprio di recente essa ha arrestato decine di difensori dei diritti umani palestinesi nel tentativo di reprimere il dissenso.

Biden è altrettanto ansioso di accogliere Bennett e una versione modificata delle politiche di contenimento di Trump. Egli rappresenta la vecchia guardia del Partito Democratico, che ha perso i contatti con gli elettori democratici e con l’opinione pubblica degli USA in generale. I sondaggi mostrano sistematicamente che gli americani di tutto lo spettro politico vogliono che gli USA siano più corretti e imparziali quando si tratta di Israele e dei palestinesi.

Questo spostamento dell’opinione pubblica statunitense è stato chiaramente evidente lo scorso maggio, quando gli americani hanno occupato le reti sociali e sono scesi in piazza in numero senza precedenti per chiedere la fine dell’attacco israeliano contro Gaza e un cambiamento della politica USA nella regione. Con un altro segno dei tempi, la popolare marca di gelati Ben & Jerry ha annunciato che smetterà di vendere gelati nelle colonie israeliane, una decisione che ha sostenuto benché le più alte cariche del governo israeliano abbiano vilmente accusato l’azienda di antisemitismo.

In ogni caso, quando Biden e Bennett si incontreranno alla Casa Bianca, i palestinesi figureranno al massimo come ombre. Ciò è particolarmente insultante alla luce del continuo movimento di protesta dell’Intifada Unita e una testimonianza del fatto che un cambiamento necessario non avverrà dall’alto verso il basso. Nel prossimo futuro probabilmente Israele sarà il suo stesso peggior nemico, in quanto insiste a sostenere che il suo regime di suprematismo razziale è una forma corretta di liberazione nazionale, e probabilmente gli Stati Uniti saranno l’ultima tessera a cadere come fu nel caso della lotta contro l’apartheid in Sud Africa.

Noura Erekat è avvocatessa per i diritti umani e docente associata dell’università Rutgers [prestigiosa università statunitense, ndtr.]. È autrice di “Justice for Some: Law and the Question of Palestine” [Giustizia per qualcuno: la legge e la questione della Palestina].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israelizzare la politica americana, palestinizzare il popolo americano

Jeff Halper

19 giugno 2020 – Mondoweiss

Israele non ha influenzato le forze dell’ordine USA addestrandole ad essere più violente, ma piuttosto è stato un modello per la creazione dello Stato securitario americano.

Recentemente si è dedicata molta attenzione all’“addestramento” che la polizia americana ha ricevuto da Israele. È esteso e pervasivo. Tuttavia il punto non è che Israele abbia reso la polizia USA più violenta. Già oltre un secolo fa, prima ancora che venisse creato lo Stato di Israele, era violenta e repressiva. Non è neanche che Israele abbia contribuito alla militarizzazione della polizia USA. Lo fa, ovviamente, ma in risposta ai cambiamenti fondamentali sulla scena politica ed economica americana.

L’“israelizzazione” della polizia americana è iniziata in seguito all’11 settembre, ma tre sviluppi fondamentali negli USA spiegano il perché. Primo, dall’11 settembre gli effetti depressivi del neoliberismo, a iniziare dalla presidenza Reagan, ma che già avevano determinato gravissime disparità sociali e salariali negli anni di Bush e Clinton. Hanno iniziato a invocare “legge ed ordine”, guerre interne (alla droga, alla delinquenza, agli “estremisti di sinistra”) con la necessità di controllare e pacificare un precariato, una classe sottoccupata e sottopagata in costante aumento, i “lavoratori poveri” [working poor] e i molto poveri in buona parte razzializzati [cioè definiti e discriminati su base razziale, ndtr.]. I poliziotti sono gli scagnozzi del capitalismo.

In secondo luogo, dall’11 settembre gli USA hanno perso l’Unione Sovietica e il comunismo come minaccia esterna/interna che potesse essere sfruttata per giustificare politiche repressive e antidemocratiche in patria. Dato che la minaccia “terroristica” era diventata una questione poco importante ai tempi di Clinton, essa non era strettamente legata al livello nazionale. Questo legame, la terza causa dell’“israelizzazione” della polizia, è iniziato con l’11 settembre.

Il Patriot Act [legge antiterrorismo che ha rafforzato i sistemi di sicurezza e repressivi, ndtr.], che fino ad oggi limita i diritti civili e il giusto processo in America, è stato emanato meno di due mesi dopo. Esso era chiaramente già pronto nel cassetto in attesa dell’occasione buona. E di nuovo, il mantenimento dell’ordine pubblico diventa il veicolo per un complessivo nuovo compito paramilitare: la “sicurezza nazionale”.

Questo è lo scenario. Non è stato una creazione di Israele. Ma Israele è uno Stato securitario fin dalla sua fondazione nel 1948 – ed avrebbe persino messo le sue radici come società altamente militarizzata fin dall’inizio del Ventesimo secolo. È stato durante gli ultimi 125 anni di colonialismo d’insediamento che si è sviluppato lo Stato securitario israeliano. La continua guerra di Israele contro il popolo/nemico palestinese all’interno ed all’estero, con tutta l’intrinseca insicurezza e la preoccupazione securitaria che ne consegue, lo ha posto esattamente dove l’America post 11 settembre voleva trovarsi. Israele ha fornito agli USA – e in particolare alla polizia ed alle agenzie della sicurezza degli Stati Uniti – politiche, insegnamenti, strutture paramilitari ed armamenti già pronti di cui [gli USA] erano privi ma di cui avevano bisogno per costruire uno Stato securitario americano. Israele ha fornito il modello e l’armamentario.

Ma qual è stato il problema? Perché gli USA non avrebbero potuto semplicemente mettere in atto le politiche, creare la struttura e produrre le armi favorevoli a uno Stato securitario, soprattutto ora che ha la giustificazione per la “sicurezza nazionale”? La risposta è analoga al concetto di “color-blindness” [secondo il quale i cittadini non devono essere giudicati in base al colore della pelle, ndtr.]. In “The New Jim Crow” [La Nuova Jim Crow, in riferimento alle norme segregazioniste e razziste degli Stati del Sud prima della fine formale della segregazione razziale, ndtr.] Michelle Alexander descrive il dilemma di imporre politiche di repressione razziale in un momento in cui (gli anni ’60 e ’70) manifestazioni esplicite di razzismo non erano più accettabili. Documenta come la guerra contro la droga abbia accolto il programma razzista ma sotto l’etichetta della lotta alle droghe, contro cui pochi avrebbero potuto obiettare. Gli USA hanno avuto lo stesso problema nella transizione allo Stato securitario. Come avrebbero potuto subordinare le libertà civili a favore della repressione poliziesca conservando al contempo la loro immagine in quanto democrazia?

In particolare il problema che gli USA dovevano affrontare nel rafforzare la loro polizia perché si dedicasse alla sicurezza nazionale era il muro rappresentato dal Posse Comitatus Act [legge che pone dei limiti all’uso della forza militare all’interno del territorio USA, ndtr.] del 1878. Come leggi e norme simili in altri Stati europei, il Posse Act separa rigidamente l’applicazione della legge all’interno (sicurezza interna) dall’impiego dell’esercito (sicurezza esterna). È più o meno così:

Ciò non significa che l’esercito non possa essere utilizzato all’interno [del Paese]. La Guardia Nazionale gioca occasionalmente questo ruolo. Ma perché venga chiamato ad intervenire l’esercito vero e proprio, come ha cercato di fare Trump a Washington, doveva essere invocato un poco chiaro Insurrection Act [Legge contro l’insurrezione] e il Pentagono si è rifiutato [di farlo].

Quindi, benché le imprese USA abbiano la possibilità di produrre armi da guerra, il “muro” ha posto loro dei limiti nello sviluppo di armamenti di tipo militare per la polizia. Ciò apre un ampio mercato per Israele, non solo per l’armamento bellico per le forze dell’ordine su misura per il cliente, ma anche per il mercato civile. L’Israeli Weapons Industry [Industria Israeliana degli Armamenti] (IWI) ha aperto un fabbrica a Middletown, Pennsylania, in cui produce, per esempio, un mitra Uzi delle dimensioni di una pistola per la polizia. Questa fabbrica produce un’ampia gamma di armi da guerra per le forze dell’ordine, compresi modelli di fucili automatici Galil e Tavor e un fucile tattico [cioè per le forze di polizia, ndtr.] chiamato Zion-15. Israele è anche il leader mondiale per i droni, che produce al 60% per il mercato estero. I droni sono diventati fondamentali per i dipartimenti di polizia negli USA, ma anche in questo caso il “muro” rappresenta un intralcio: i droni sono in genere utilizzati per la sorveglianza, ma quelli armati sono ancora vietati alla polizia USA.

Una seconda fonte della militarizzazione israeliana della polizia USA viene dalla stessa esperienza israeliana. Il sionismo, come il “destino manifesto” degli USA, è un movimento di colonialismo d’insediamento. Poiché ogni popolo colonizzato resiste alla propria espulsione ed eliminazione, la comunità dei colonizzatori vive in una condizione di continua insicurezza, di permanente emergenza, in cui ogni aspetto della vita è militarizzato.

Buona parte della violenza nella cultura americana deriva dalle campagne di genocidio contro i nativi americani (Andrew Jackson [noto per la sua spietatezza nei confronti dei nativi americani, ndtr.] è il presidente preferito da Trump), e molti film western ruotano attorno a sceriffi e capi della polizia, mostrando proprio come polizia e colonizzazione violenta siano strettamente legati. Tuttavia dagli anni ’80 del XIX secolo il regime colonialista americano aveva complessivamente pacificato i nativi americani. Ciò gli rese possibile trasformarsi in un regime più civile: la promulgazione del Posse Act del 1878 servì a “rendere civile” la polizia. Ciò in Israele non è mai avvenuto. I palestinesi continuano ad essere una potente fonte di resistenza alla colonizzazione e quindi Israele è l’unico Paese dell’Occidente a non separare le forze dell’ordine civili dall’esercito. Al contrario, criminalizzando la resistenza palestinese come “terrorismo”, Israele associa il mantenimento dell’ordine pubblico all’esercito. Quindi in Israele la polizia non è separata dall’esercito ma è legata a un insieme di unità paramilitari che svolgono le due funzioni, come illustrato qui:

Questo è il tipo di ristrutturazione delle forze di polizia degli USA che Israele promuove. La polizia israeliana, lungi dall’essere solo un ente civile incaricato di mantenere la legge e l’ordine, è un’organizzazione paramilitare che risponde al ministero della Sicurezza Interna, integrata nei più complessivi organismi militari e per la sicurezza in base al regime di “emergenza permanente”. Israele vede come “nemico” la maggioranza della popolazione del Paese, i cittadini palestinesi di Israele e i non cittadini dei Territori Occupati, oltre ad altri segmenti della società israeliana, dai richiedenti asilo africani ai progressisti e alle persone di sinistra “filo-arabe”. La principale linea di condotta della polizia israeliana non è quindi principalmente di carattere civile – proteggere la società come un tutto unico – ma riguarda contro-insurrezione e controterrorismo.

A questo riguardo la polizia israeliana è all’avanguardia. Il suo sito ufficiate definisce il suo ruolo come “prevenzione di atti di terrorismo, smantellamento di ordigni esplosivi e impiego contro azioni terroristiche”, solo questi si allontanano da questioni tradizionalmente relative alla polizia come il mantenimento della legge e dell’ordine, la lotta contro il crimine e il controllo del traffico. Il controterrorismo è la “mentalità”, con una notevole sovrapposizione tra “mantenimento dell’ordine ad alta intensità” e “guerra a bassa intensità” che sono uno “spazio di intervento” securocratico. L’ex-direttore dello Shin Bet e all’epoca ministro della Sicurezza interna, Avi Dicher, parlando davanti a 10.000 agenti di polizia che partecipavano all’ [incontro dell’] Associazione Internazionale dei Capi della Polizia a Boston, ha utilizzato il termine “crimiterrorismo” per sottolineare “l’intimo rapporto tra la lotta contro la criminalità e contro il terrorismo”. “Crimine e terrorismo sono due facce della stessa medaglia,” ha affermato.

La mitica reputazione di Israele come principale potenza antiterrorista al mondo gli conferisce un grande potere al Congresso, al Pentagono, nei circoli della sicurezza nazionale e nella polizia. La polizia paramilitare israeliana rientra bene nelle tendenze paramilitari già presenti nei dipartimenti di polizia americani. Già a metà degli anni ’60 Filadelfia e Los Angeles organizzarono squadre SWAT – SWAT significava originariamente “Special Weapons Attack Team” [Squadra di Attacco con Armi Speciali], non proprio un concetto civile. Ciò diede inizio a quella che Radley Balko chiama “la nascita del poliziotto guerriero”. Oggi l’80% delle forze di polizia hanno squadre SWAT.

Diamo una breve occhiata a come le forze di polizia americane applicano i principi del manuale di antiterrorismo di Israele al controterrorismo nelle città americane. Accogliendo il concetto israeliano secondo cui l’intelligence è la chiave per la prevenzione e l’interdizione, all’inizio degli anni 2000 il NYPD [New York City Police Department, il più grande dipartimento di polizia urbano degli Stati Uniti, ndtr.] ha formato l’”Unità Demografica” che invia agenti in borghese, noti come “rastrelli”, per mappare il “terreno umano” dei quartieri delle minoranze prese di mira – “modellati”, secondo una fonte del NYPD, “su come le autorità israeliane operano in Cisgiordania.” Gli informatori, noti come “pulci delle moschee”, hanno monitorato sermoni e attività delle moschee. Un’“unità di interdizione del terrorismo” ha fatto indagini sui loro dirigenti, e un’altra squadra, l’Unità per i Servizi Speciali, conduce un lavoro sotto copertura – in qualche caso illegale – fuori da New York.

Nel 2012 il NYPD ha persino aperto un ufficio in Israele, situato nel quartier generale della polizia del distretto di Sharon a Kfar Saba, per “cooperare quotidianamente con la polizia israeliana”. “Se un attentatore suicida si fa esplodere a Gerusalemme, il NYPD accorre sul posto,” ha affermato Michael Dzikansky, un poliziotto del NYPD che presta servizio in Israele. “Sono stato lì per fare la domanda di New York: ‘Perché qui? C’era qualcosa di unico in quello che ha fatto l’attentatore suicida? C’era stato un qualche preavviso? Una falla nella sicurezza?’ In seguito Dzilansky è stato co-autore di un libro, Terrorist Suicide Bombings: Attack Interdiction, Mitigation, and Response [Attentati terroristici suicidi: blocco dell’attacco, riduzione del danno e risposta], un altro esempio di come le prassi securitarie israeliane entrino nelle forze dell’ordine negli Stati Uniti.

Cathy Lanier, capo della polizia di Washington, che una volta ha affermato che “nessun’altra esperienza della mia vita ha avuto tanto impatto sul modo di fare il mio lavoro quanto andare in Israele,” ha autorizzato posti di controllo nel quartiere difficile di Trinidad, nel nordest della capitale, per monitorare e controllare la violenza di strada e l’illegale traffico di droga.

Ovviamente “guerra” è stato a lungo un concetto politico americano, soprattutto per quanto riguarda le relazioni razziali. L’ordine pubblico americano diventò apertamente militarizzato quando Reagan dichiarò la “guerra alla droga”, che, a sua volta, venne accentuata ulteriormente fino a una vera e propria guerra da Bush [padre]. All’inizio degli anni ’90 egli inaugurò un programma che consentiva che ulteriori equipaggiamenti, armi e veicoli tattici militari venissero trasferiti alle forze dell’ordine per essere utilizzati nella “repressione della droga”. L’amministrazione Clinton militarizzò ulteriormente l’attività della polizia con l’approvazione del Violent Crime Control and Law Enforcement Act [Legge per il Controllo della Criminalità Violenta e Ordine Pubblico] del 1994 (redatto da Joe Biden). Secondo Alexander ciò pose le basi giuridiche per il sistema di caste su base razziale degli Stati Uniti, in quanto ebbe come risultato l’incarcerazione di massa e la privazione dei diritti civili di milioni di persone di colore. Nel 1997 l’amministrazione Clinton istituì il programma 1033, che estese il trasferimento di equipaggiamento militare alla polizia. Oggi la polizia ad Oxford, Alabama, ha un cellulare blindato e a Lebanon, Tennessee, ha un carro armato.

Ora in seguito all’11 settembre si aggiunge a tutto ciò la vera e propria “guerra contro il terrorismo” e in pratica ogni americano è sottoposto a un controllo dell’ordine pubblico e a una privazione dei diritti di tipo militare, soprattutto attraverso il Patriot Act, un’aggressione alle libertà civili che sottopone gli USA a uno stato di emergenza permanente. Esso concede alle autorità il potere di un giusto processo abbreviato– e ciò più di ogni altra cosa se non altro descrive il comportamento della polizia americana oggi. (Il Patriot Act è stato confermato dal Congresso sotto ogni amministrazione). Il modo militarizzato in cui sono stati smantellati i campi di Occupy [movimento internazionale contro il potere finanziario iniziato negli Usa nel 2011, ndtr.]. ha evidenziato che i giovani bianchi di classe media scontenti del neoliberismo possono essere repressi altrettanto facilmente della comunità nera.

In conseguenza di tutto ciò la polizia, che a lungo ha mal sopportato il “muro” che frenava la sua propensione alla violenza e alla repressione – che, di fatto, è stata in primo luogo l’intenzione originaria per la creazione della polizia – ora ha una giustificazione giuridica e ideologica per intaccarlo. Quindi il massimo “contributo di Israele alla polizia USA è il concetto di Stato securitario, il suo stesso modello di democrazia militarizzata. Lo Stato securitario spacciato da Israele è in realtà un sofisticato Stato di polizia la cui popolazione è facilmente manipolabile da un’ossessione per la “sicurezza”. È uno Stato guidato da una logica di guerra permanente, in cui la richiesta di “sicurezza” ha la meglio su ogni difesa della democrazia. La seguente figura mostra la logica circolare dell’evoluzione dello Stato securitario. 

In generale, il lavoro della polizia, con nomi diversi, è garantire l’ordine pubblico dell’endemica insicurezza del capitalismo predatorio. Guerra contro la droga, guerra contro il crimine, guerra globale contro il terrorismo, “guerre securitarie”, “guerre contro il popolo”, “guerre per le risorse,” repressione delle rivolte, campagne per la legge e l’ordine e altri eufemismi. Ciò che unisce comunità di colore povere e discriminate su base razziale, lavoratori in generale, precari della classe media e giovani che cercano solo di entrare nel mondo del lavoro è che l’economia neoliberista non ha posto per loro oltre il lavoro a tempo determinato, e che tutti voi, se minacciate il sistema che vi sta distruggendo, dovrete affrontare la polizia – gli scagnozzi del capitalismo. Questo è il vero atteggiamento della tolleranza zero circolare trasferito alla polizia dallo Stato securitario. Ciò corrisponde perfettamente nel corso della storia al ruolo della polizia, da cui proviene la sua cultura violenta. Se gli USA possono essere spronati lungo il loro percorso per diventare uno Stato securitario (non difficile da vendere), allora Israele non solo si guadagnerà un enorme mercato per le tecnologie repressive, ma un sicuro alleato nella sua lotta contro la resistenza palestinese. Addestramento della polizia e hasbara [propaganda in ebraico] sono intimamente legati.

E quindi ecco l’addestramento della polizia americana da parte di Israele. All’inizio del 2002, poco dopo l’11 settembre, iniziò una sfilza di programmi di addestramento. L’American Jewish Institute for National Security Affairs [Istituto Ebraico Americano per le Questioni di Sicurezza Pubblica] (JINSA), un’organizzazione che sostiene che non c’è differenza tra gli interessi della sicurezza nazionale di USA e di Israele, inaugurò il suo Law Enforcement Exchange Program [Programma di Scambi sull’Ordine Pubblico] (LEEP). Esso collabora con la polizia nazionale israeliana, il ministero della Sicurezza Interna israeliano e l’agenzia della sicurezza israeliana (Shin Bet), ed è appoggiato dall’Associazione Internazionale dei Capi della Polizia, dall’Associazione degli Sceriffi delle Principali Contee, dall’Associazione dei Capi delle Principali Città e dal Forum di Ricerca Esecutiva della Polizia per portare in Israele capi della polizia, sceriffi, importanti quadri delle forze dell’ordine, direttori della sicurezza nazionale a livello statale, commissari di polizia statali e dirigenti delle forze dell’ordine federali per la “formazione”. Finora oltre 9.500 funzionari delle forze dell’ordine hanno partecipato a dodici conferenze. “Le competenze raccolte dall’osservazione e dall’ addestramento durante il viaggio dell’LEEP,” ha proclamato il colonnello Joseph R. (Rick) Fuentes, sovrintendente della polizia dello Stato del New Jersey, sul sito del JINSA “hanno suggerito importanti cambiamenti della struttura organizzativa della polizia statale del New Jersey ed hanno portato alla creazione della sezione per la sicurezza nazionale.”

L’ Anti-Defamation League [organizzazione della lobby filoisraeliana negli USA, ndtr.] (ADL) ospita due volte all’anno una Scuola Avanzata di Addestramento a Washington. La sua “scuola” ha addestrato più di 1.000 professionisti dell’ordine pubblico USA, che rappresentavano 245 organismi federali, statali e locali. L’ADL gestisce anche un seminario nazionale di contro-terrorismo (NCTS) in Israele, portando funzionari di pubblica sicurezza da tutti gli USA in Israele per una settimana di intenso addestramento sull’antiterrorismo, mettendoli in rapporto con la polizia nazionale israeliana, l’IDF [esercito israeliano, ndtr.], l’intelligence e i servizi di sicurezza di Israele.

E ricordate l’IWI, il produttore dell’israeliana Uzi? Gestisce un’accademia di polizia a Pauldon, Arizona, aperta al pubblico come alla polizia. E poi c’è il Georgia International Law Enforcement Exchange [Scambio Internazionale delle Forze dell’Ordine della Georgia] (GILEE), situato in un cubo nero nell’edificio dello Stato della Georgia ad Atlanta, un altro importante centro israeliano di addestramento della polizia.

Quindi la questione non è l’uso della “violenza” nell’addestramento della polizia israeliana e statunitense. Paradossalmente la violenza interpersonale così caratteristica della polizia americana in situazioni di conflitto è assente in Israele. Raramente la polizia israeliana ammanetta persone o tira fuori le armi, la prima reazione dei poliziotti americani. La “violenza” nel controllo dell’ordine pubblico in Israele è più controllata, come lo è in combattimento. È meno un tipo di violenza da macho, e penso che sia una lezione fondamentale che Israele cerca di impartire alla polizia americana: colpisci ancora più in fretta di come fai. Giacché Israele non deve rispettare tutte le futili formalità di leggere ai sospettati i loro diritti o di interagire con loro, come abbiamo visto nell’uccisione di Rayshard Brooks ad Atlanta la scorsa settimana. Dato che i diritti civili continuano a condizionare la sicurezza nazionale negli USA, ciò può essere ancora più possibile. Ma al contempo la polizia israeliana non passa così improvvisamente dall’arrestare a sparare. Preferisce reagire solo con il controllo della situazione.

Ma quando c’è la necessità di sparare, la polizia israeliana passa rapidamente alla modalità militare. Un funzionario di polizia americano racconta quello che ha appreso durante il suo periodo in Israele con un’unità speciale di polizia “Yaman”, simile a una squadra SWAT:

Quando si tratta di sparare la principale differenza tra l’addestramento israeliano e quello americano è la nostra filosofia sulla distanza ravvicinata o il combattimento urbano. La maggior differenza tra quello che fanno gli israeliani e quello a cui siamo addestrati a fare noi americani è che loro spesso consiglierebbero di andare quasi a capofitto verso una postazione del nemico sparando all’impazzata. Ciò in genere dura una manciata di secondi, quindi ricaricare rapidamente ha un’importanza notevole nel successo dell’azione. Nell’addestramento avremmo avanzato di 40 o 50 metri alla volta in un contesto urbano, sparando nel contempo all’impazzata. Negli USA l’attacco è più controllato. Ci hanno insegnato di sparare eventualmente raffiche in colpi di tre secondi e poi cercare un posto per metterci al riparo. Non è così che fa il sistema di sicurezza israeliano, e sebbene possa essere troppo audace in qualunque circostanza, nel giusto contesto non posso pensare a un modo più efficace per conquistare terreno.”

Tutto ciò rientra in quello che chiamo Palestina Globale. Non penso che Israele stia sviluppando tutto il suo armamento sofisticato, le tecnologie di repressione, le tattiche di controllo della popolazione e il suo contesto di Stato securitario solo per il controllo dei palestinesi. Loro sono le cavie, i Territori Occupati solo un laboratorio. Questa parte del complesso militare-industriale israeliano è orientata all’esportazione, e la vostra polizia la sta comprando. Steven Graham conclude: “É in corso l’integrazione tra i complessi securitari – industriali e quelli militari-industriali di Israele e Stati Uniti. Ancor più di questo: i complessi securitari-militari-industriali delle due Nazioni sono diventati indissolubilmente connessi, al punto che ora sarebbe ragionevole considerarli come un’unica entità diversificata e transnazionale.” Perciò mettete insieme i pezzi. Come la polizia USA si è “israelizzata”, voi, il popolo americano, vi siete “palestinizzati”.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Decenni di perdite: lettere di un secolo fa evidenziano le radici della resistenza palestinese

Jihad Abu Raya

22 maggio 2020 – Middle East Eye

Lettere di lamentele scritte da palestinesi nel 1890 e nel 1913 rivelano l’impatto del colonialismo sionista di insediamento

L’avvio del progetto sionista e la fondazione dei primi insediamenti in Palestina alla fine del XIX secolo diede inizio a una sistematica e deliberata campagna per espellere e cacciare i palestinesi dalla loro terra.

La resistenza palestinese a questi tentativi era a volte disorganizzata e limitata da ristrettezze economiche, ma gli scritti sionisti in merito non hanno trasmesso la vera immagine di quanto avvenne.

Tuttavia due lettere inviate da palestinesi nel 1890 e nel 1913 al Gran Visir [equivalente di un primo ministro, ndtr.] dell’impero ottomano a Istanbul gettano luce su questa situazione.

Contadini beduini e palestinesi che vivevano nelle zone rurali furono le prime comunità colpite dalla costruzione dell’insediamento sionista nel XIX secolo. Vessazioni ed aggressioni da parte dei coloni aumentarono, nel tentativo di espellere le famiglie palestinesi che avevano vissuto sulla propria terra da centinaia di anni.

Nonostante il loro modo di vita molto semplice, queste comunità palestinesi capirono rapidamente i pericoli del colonialismo di insediamento. Non è quindi sorprendente che il movimento per resistere all’occupazione sionista si sia inizialmente manifestato all’interno delle comunità di contadini e beduini, la cui sopravvivenza dipendeva proprio dalla terra.

Dalla fine del XIX secolo fino alla creazione di Israele nel 1948 vennero documentati molti scontri tra quelle comunità e i coloni sionisti.

I primi arrivi dei coloni furono improvvisi e scioccanti per gli abitanti palestinesi. Non potevano comprendere le affermazioni dei coloni secondo cui essi erano i proprietari della terra e che gli abitanti se ne dovessero andare dalle proprie case con i loro prodotti agricoli ancora da raccogliere. Essi erano i reali e concreti proprietari della terra in quanto l’avevano dissodata, coltivata e abitata per centinaia di anni.

All’inizio del colonialismo britannico in Palestina, nel 1917, c’erano circa 47 colonie sioniste, concentrate a nord e al centro del Paese, costruite su circa 55.000 dunam [5.500 ettari, ndtr.] di terra confiscata.

Venduta a stranieri”

Nella sua lettera, inviata nel 1890, il clan palestinese al-Sataria, che viveva a Khirbet Darwan, si lamentava presso il Gran Visir dell’ingiustizia, dei maltrattamenti e delle aggressioni seguiti alla fondazione sulla loro terra dell’insediamento di Rehovot.

Recentemente il supremo Stato ottomano ha venduto la terra di Khirbeh a persone ricche del posto. I vostri fedeli servitori non hanno manifestato nessuna obiezione in merito, perché i nuovi proprietari della terra erano consapevoli che noi coltiviamo il podere e ci siamo occupati di esso da tempo immemorabile. Non hanno cercato né di intralciarci né di espellerci dai luoghi in cui abitiamo o dai nostri terreni agricoli,” affermava la lettera.

Tuttavia in questo caso la fattoria è stata venduta a stranieri che sono venuti con molti soldi e risorse economiche… Hanno iniziato ad espellerci dai luoghi in cui abitiamo e ad impedirci di arare la terra.”

Contro molte delle nuove colonie vennero presentate al Gran Visir lamentele, che dimostrano che i palestinesi, nonostante le loro ridotte possibilità e le consistenti risorse economiche e il sostegno ufficiale di cui godevano gli stranieri, non si arresero allo status quo.

Tali lettere erano una attestazione da parte degli abitanti palestinesi che avrebbero resistito all’ingiustizia che avevano davanti agli occhi – parte di una resistenza organizzata contro i tentativi di cacciarli dalle loro terre e di depredarli dei loro diritti. La lettera dei palestinesi del clan Sataria rivela la loro consapevolezza del proprio diritto di rimanere sulla loro terra; lo Stato che trasferisce la proprietà a ricchi stranieri potrebbe concedere al proprietario i diritti su alcuni raccolti, ma non il diritto di espellere coloro che vivono lì.

Lettura critica

La lettera non fa riferimento ai metodi utilizzati dai coloni per espellere e cacciare gli abitanti palestinesi, né menziona i piani per ostacolare la sopravvivenza della nuova colonia e impedire quindi la propria espulsione. Ma una lettura attenta e critica dei documenti scritti dai coloni di Rehovot e delle vicine colonie getta una luce su questo punto.

Molte fonti ebraiche che documentano la fondazione di queste colonie affermano che la zona era spopolata e in abbandono, e che i nuovi coloni portarono la salvezza e un’opportunità di crescita. Ciò corrispondeva allo slogan sionista di una “terra senza popolo per un popolo senza terra.”

La lettera del clan Sataria smentisce categoricamente questa affermazione, mettendo in evidenza gli abitanti che avevano a lungo vissuto là e coltivato la terra.

Altre fonti ebraiche suggeriscono che gli arabi in quella zona fossero aggressori violenti, che saccheggiavano e rubavano la proprietà dei coloni e non rispettavano i diritti dei coloni sulla loro terra. Mentre il clan Sataria considerava un diritto legittimo continuare a raccogliere i prodotti nelle proprie terre, i nuovi coloni lo ritenevano un saccheggio e un furto.

Disordini singolari”

Decenni dopo, nel 1913, un’altra lettera al Gran Visir venne firmata da decine di mukhtar [capo villaggio, ndtr.] e da autorità giuridiche dei villaggi nei pressi delle colonie ebraiche, compresi quelli di Zarnuqa, al-Qubayba, Yibna, al-Maghar ed altri, senza la partecipazione di rappresentanti delle città vicine.

Gli abitanti dei villaggi si lamentavano del comportamento dei nuovi coloni, citando “le loro aggressioni contro i nostri villaggi, le uccisioni, i furti e gli stupri”. La lettera nota che, in mezzo a questi attacchi, “siamo stati gravemente sconvolti e subiamo disordini singolari finché, dio non voglia, la necessità ci obblighi ad emigrare dalla nostra patria, nonostante il nostro amore e affetto per essa.”

La lettera afferma: “Qualunque contadino passi sulla strada è rapinato e picchiato e gli prendono i vestiti e i soldi. Chiunque osi sfidarli viene ucciso, e sparano proiettili veri a chi passa sulla pubblica via.”

Firmata dai rappresentanti di vari villaggi e cittadine, la lettera evidenzia la sensazione di pericolo collettivo provata dai cittadini palestinesi dell’epoca, decenni prima della Nakba [la catastrofe, cioè la cacciata dei palestinesi a partire dal 1947-48, ndtr.]. I firmatari non dicono come rispondevano ai soprusi da parte dei nuovi coloni, ma documenti nell’archivio di Rehovot affermano che gli abitanti del villaggio di Zarnuqa uccisero uno dei coloni.

Nelle aree palestinesi adiacenti alle colonie sioniste contadini e beduini guidarono la lotta contro il colonialismo, una lotta che continua fino a nostri giorni.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Jihad Abu Raya è un avvocato ed attivista palestinese che vive nel nord di Israele. È uno dei fondatori del movimento Falestaniyat.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il difficile rapporto del sionismo con l’antisemitismo

Alice Rothchild

19 novembre 2019 – Mondoweiss

Sono cresciuta con un profondo amore per Israele, il piccolo grintoso Paese della redenzione, risorto dalle ceneri, che ama i kibbutz, che non avrebbe potuto fare cose sbagliate, che lotta per la sopravvivenza in un mare di arabi che lo odiano e di odiatori di ebrei. Ho imparato che gli ebrei sono un popolo dedito alla preghiera e allo studio della Torah e che questa identità ci ha permesso di sopravvivere durante secoli di antisemitismo in Europa. Se non ero in grado di dedicarmi alla religiosità del mio nonno pio, con i filatteri [lacci di cuoio che vengono arrotolati alle braccia durante la preghiera, ndtr.] e tutto il resto, capivo che come popolo noi eravamo profondamente impegnati a risanare il mondo e a lavorare per la giustizia sociale, un impegno altrettanto virtuoso e intrinsecamente ebraico. Dopotutto noi eravamo buoni per natura, o, come spiegava mia madre, gli ebrei hanno la responsabilità di essere stati scelti per svolgere un ruolo inequivocabilmente positivo in questo mondo.

Con il passare degli anni, questa mitologia si è schiantata contro la dura realtà. Una delle contraddizioni più difficili che ora mi trovo ad affrontare è comprendere il perverso rapporto tra sionismo e antisemitismo. Mi era stata venduta la storiella che il sionismo politico si era sviluppato come risposta all’antisemitismo e come un moderno movimento di liberazione nell’arretrato Medio Oriente. Ma nel 1897, quando è nato il sionismo moderno, esso adottò il cliché dell’ebreo della diaspora come un pallido, flaccido, giovane studente di una scuola religiosa, un parassita, un eterno straniero, uno sfigato. Che il sionismo abbia accolto l’idea che questo rammollito individuo malaticcio (colpevolizzato lui stesso per l’antisemitismo) dovesse essere arianizzato nell’ebreo contadino/guerriero abbronzato e muscoloso che coltiva il terreno in Galilea, è un risultato agghiacciante. L’evoluzione degli ebrei da popolo che viveva secondo la Torah e i suoi precetti in una razza biologica con caratteristiche distintive (l’ebreo del denaro, del ghetto, l’ebreo di carnagione scura e con il naso adunco) riflette le peggiori menzogne di antisemiti, fascisti europei e suprematisti bianchi.

Questa storia è complicata dal fatto che gli ebrei europei erano relegati a svolgere un numero limitato e disprezzato di professioni e dal risentimento sociale nei confronti di una classe di usurai e venditori ambulanti/commercianti “parassitari”e “improduttivi”. Mentre il capitalismo moderno si sviluppava, persino i sionisti socialisti temevano che ci fosse una sorta di anomalia economica nel popolo ebraico che portava all’antisemitismo e che avrebbe potuto essere curata solo dal lavoro della terra in Palestina.

Non dovrebbe quindi sorprendere che il fondatore del sionismo moderno, Theodore Herzl, abbia visto gli antisemiti come “amici e alleati” del suo movimento”. Sionisti e antisemiti condividevano lo stesso obiettivo: gli uni volevano che tutti gli ebrei emigrassero in Palestina per fondarvi uno Stato-Nazione ebraico etnicamente puro, gli altri volevano liberarsi di tutti i loro connazionali ebrei. L’emigrazione era in effetti una magnifica soluzione all’eterna questione ebraica. Come ha scritto il professor Joseph Massad [docente palestinese alla Columbia University, ndtr.]:

Nel suo pamphlet fondativo (Herzl) avrebbe dichiarato che ‘i governi di tutti i Paesi colpiti dall’antisemitismo saranno profondamente interessati nell’aiutarci ad ottenere (la) sovranità che vogliamo’, e quindi che ‘non solo i poveri ebrei’ avrebbero contribuito a un fondo per l’emigrazione degli ebrei europei, ‘ma anche i cristiani che vogliono liberarsi di loro’.”

Questa solidarietà politica relativa alla classe, al fatto di essere bianchi, era una forma di odio per se stessi, facendo proprio il razzismo istituzionalizzato dell’epoca? Si trattava di un matrimonio di convenienza, ripugnante ma necessario, o di una strategia a lungo termine?

Scavando più a fondo, non fui così sorpresa nell’apprendere che Herzl, assimilato e laico, scelse di non far circoncidere suo figlio, che inizialmente prese in considerazione l’idea che una conversione di massa al cattolicesimo sarebbe stata una buona soluzione per la questione ebraica e che festeggiava il Natale con niente di meno che un albero di Natale. Si dice che abbia affermato: “Nella mia mente si è fatta strada un’eccellente idea: attirare antisemiti radicali e farli diventare distruttori della ricchezza ebraica.” L’attivista israeliano per la pace Uri Avnery ha descritto gli scritti di Herzl come caratterizzati “a tratti da un forte odore di antisemitismo.”

Leon Rosselson, un cantautore inglese e autore di libri per l’infanzia, ha scritto in un saggio su Medium [sito web di sinistra che pubblica articoli di politica e cultura, ndtr.]:

Nel suo libro ‘Lo Stato ebraico’, pubblicato nel 1896, egli (Herzl) spiega perché: ‘La questione ebraica esiste ovunque viva un numero significativo di ebrei. Dove (l’antisemitismo) non esisteva, vi è stato portato dagli ebrei nel corso delle loro migrazioni. Ovviamente noi ci spostiamo nei posti in cui non siamo perseguitati e lì la nostra presenza provoca persecuzioni… Gli sfortunati ebrei stanno portando ora i semi dell’antisemitismo in Inghilterra, li hanno già portati in America.’

In un capitolo successivo sostiene che la causa immediata dell’antisemitismo è ‘la nostra eccessiva produzione di intelletti mediocri, che non possono trovare uno sbocco verso il basso o verso l’alto – cioè, nessuno sbocco sano in nessuna direzione. Quando scendiamo, diventiamo un proletariato rivoluzionario, gli impiegati subalterni di ogni partito rivoluzionario; al contempo, quando andiamo in alto si eleva pure il nostro terribile potere economico.’”

Quando Herzl prese in considerazione la lingua del nuovo Stato, scrisse dello yiddish [un misto di tedesco, lingue slave ed ebraico, con molte varianti locali, parlato dagli ebrei dell’Europa centro-orientale, ndtr.]: “Dobbiamo smettere si utilizzare quei miserabili dialetti stentati, quei linguaggi del ghetto che ancora utilizziamo, perché quelle erano le lingue clandestine dei prigionieri.” Aveva lo stesso disprezzo nei confronti della religione ebraica: “Dovremmo tenere i nostri rabbini all’interno dei loro templi …Non devono interferire nell’amministrazione dello Stato…”, e immaginò uno Stato senza feste ebraiche o simboli ebraici. C’è sicuramente un forte sentimento di odio per se stessi in queste affermazioni.

Un’altra schiacciante prova è la considerazione del 1912 di Chaim Weizman, in seguito presidente dell’Organizzazione Sionista Mondiale e primo presidente di Israele: “Ogni Paese può assorbire solo un numero ridotto di ebrei se non vuole avere problemi di stomaco. La Germania ha già troppi ebrei.”

O la dichiarazione nel 1922 di Ben-Gurion, il padre fondatore e primo premier di Israele: “Non siamo studenti di una scuola religiosa che discutono le delicate questioni su come migliorare se stessi. Siamo conquistatori della terra di fronte a un muro di ferro e noi dobbiamo sfondarlo.” Egli notò che gli ebrei della diaspora “non hanno radici. Sono cosmopoliti senza radici – non ci può essere niente di peggio.” Ben-Gurion era un noto elitista e razzista. Descrisse gli ebrei della diaspora come “polvere umana, le cui particelle cercano di aggrapparsi le une alle altre,” e chiamò i mizrahim (ebrei dei Paesi arabi e/o musulmani), arretrati e primitivi, con caratteristiche orientaliste che avrebbero minacciato il nascente Stato di Israele. Descrivendo gli immigrati yemeniti scrisse:

(La cultura yemenita) è arretrata di duemila anni, forse persino di più, rispetto a noi. Manca dei più fondamentali e principali concetti della civilizzazione (distinta dalla cultura). Il loro atteggiamento verso le donne e i bambini è primitivo. La loro condizione fisica è misera. Per migliaia di anni hanno vissuto in una delle terre più arretrate e impoverite, sotto il dominio ancora più arretrato di un qualunque regime feudale e teocratico. Il passaggio da là a Israele è stato una profonda rivoluzione umana, non superficiale, una rivoluzione politica. Tutti i loro valori umani devono essere cambiati da cima a fondo.”

Vladimir (Ze’ev) Jabotinsky, il fondatore del sionismo revisionista, precursore dell’odierno partito Likud, fu persino più sincero riguardo alla propria appartenenza reazionaria. Appoggiò il nocciolo del colonialismo di insediamento e militaristico del sionismo, parlò apertamente della necessità di combattere contro la popolazione indigena palestinese e chiese agli ebrei di mobilitarsi per “guerra, rivolta e sacrificio.”

Nel 1923 scrisse la Bibbia del revisionismo, un articolo, “Il muro di ferro (noi e gli arabi)”:

Ogni popolazione nativa al mondo resiste contro il colonialismo finché ha anche la minima speranza di riuscire a liberarsi del pericolo di essere colonizzata. Questo è ciò che gli arabi in Palestina stanno facendo, e quello che continueranno a fare finché rimarrà una sola scintilla di speranza di riuscire ad impedire la trasformazione della ‘Palestina’ in ‘Terra di Israele’… La colonizzazione sionista deve terminare oppure andare avanti senza riguardi nei confronti della popolazione nativa. Ciò significa che può proseguire e svilupparsi solo sotto la protezione di un potere che sia indipendente dalla popolazione nativa –dietro un muro di ferro, che la popolazione nativa non possa oltrepassare.”

Allo stesso tempo il suo antisemitismo era profondo:

Il nostro punto di partenza è prendere il tipico yid [ebreo in senso spregiativo, ndtr.] di oggi e immaginare il suo esatto opposto… Poiché lo yid è brutto, sporco, manca di dignità, noi dobbiamo dotare l’immagine idealizzata dell’ebreo di una beltà virile. Lo yid è calpestato e si spaventa facilmente, e di conseguenza l’ebreo deve essere orgoglioso e indipendente. Lo yid è disprezzato da tutti e quindi l’ebreo deve affascinare tutti. Lo yid ha accettato di essere sottomesso e quindi l’ebreo deve imparare a comandare. Lo yid vuole celare la propria identità agli estranei e quindi l’ebreo deve guardare il mondo diritto negli occhi e dichiarare: ‘Sono ebreo!’”.

Jabotinsky si innamorò dell’ideologia di Benito Mussolini che lo lodò come un “fascista ebreo” e fu contento non solo di lavorare con i nazisti, ma anche di sposarne l’ideologia totalitaria. Fondò la Nuova Organizzazione Sionista e il suo rappresentante in Palestina pubblicò il suo Yomen shel Fascisti (Diario di un fascista) sul suo giornale. Von Weisl, direttore finanziario dell’OSM, disse a un giornale che “egli (Jabotinsky) era personalmente un sostenitore del fascismo e si rallegrò per la vittoria dell’Italia fascista in Abissinia come un trionfo delle razze bianche contro i neri.” Mussolini consentì al movimento giovanile del sionismo revisionista di destra, il Betar, di avere uno squadrone nella sua accademia navale.

Quando Mussolini decise di unire le proprie forze con Hitler, espulse gli ebrei dal partito [fascista, ndtr.]. I revisionisti risposero:

Per anni abbiamo messo in guardia gli ebrei dall’insultare il regime fascista in Italia. Siamo franchi prima di accusare altri delle recenti leggi antiebraiche in Italia: perché non accusiamo prima i nostri stessi gruppi radicali di essere responsabili di quello che sta accadendo?”

Secondo Lenni Brenner, autore di “Il sionismo nell’epoca dei dittatori”, nel marzo 1933 Jabotinsky invocò un boicottaggio contro i nazisti e di conseguenza i revisionisti assassinarono il sionista laburista che aveva negoziato l’accordo “Ha’Avara” [vedi più sotto, ndtr.]. Ma i rapporti tra i revisionisti e i nazisti rimasero intricati.

Nel 1939, una settimana prima che Hitler invadesse la Polonia, Jabotinsky insistette che “non c’è la benché minima possibilità di una guerra.” Progettò di invadere la Palestina, facendo approdare una nave piena di militanti del “Betar” su una spiaggia di Tel Aviv mentre l’Irgun occupava la sede del governo a Gerusalemme e all’estero veniva proclamato un governo ebreo provvisorio. Dopo la sua cattura o morte, avrebbe operato come un governo in esilio.

L’Irgun, l’organizzazione paramilitare sionista attiva nella Palestina mandataria, venne ispirata e guidata da Jabotinsky fino alla sua morte nel 1940. Dopo la guerra, venne trovato il seguente documento nell’ambasciata tedesca in Turchia: “Proposta dell’Organizzazione Militare Nazionale (Irgun Zvai Leumi) riguardante la soluzione della questione ebraica in Europa e la partecipazione dell’OMN nella guerra dalla parte della Germania”. Vi si legge:

La Fondazione dello storico Stato ebraico su basi nazionaliste e totalitarie e vincolato da un trattato con il Reich tedesco sarebbe nell’interesse di una consolidata e rafforzata futura posizione di potere tedesca in Medio Oriente.

A partire da queste considerazioni, l’OMN in Palestina, in base alla condizione summenzionata che le aspirazioni nazionali del movimento per la libertà israelita vengano riconosciute da parte del Reich tedesco, offre di partecipare attivamente alla guerra dalla parte della Germania.”

Mentre gli ebrei, sia all’interno che fuori dalla Germania, comprendevano i gravissimi pericoli posti dall’ascesa dei nazisti al potere, alcuni sionisti videro ciò come un’opportunità di promuovere il proprio obiettivo di colonizzare la Palestina. Nonostante un boicottaggio internazionale contro la Germania nazista, nel 1933 i sionisti laburisti firmarono l’accordo di trasferimento “Ha’avara”, che in ultima analisi diede come risultato il salvataggio di 20.000 ebrei. La Germania nazista accettò di compensare questi ebrei tedeschi che se ne andarono in Palestina dopo aver liquidato le loro proprietà esportando nel Paese prodotti tedeschi dello stesso valore. Gli emigranti poi ricevettero parte dei proventi della vendita di questi prodotti. Ciò portò alla fine del boicottaggio della Germania e a un notevole aiuto finanziario per la sua economia che era ancora impantanata nelle riparazioni in seguito alla Prima Guerra Mondiale ed alla Grande Depressione. Come ha scritto Leon Rosselson:

Tra il 1933 e il 1939 il 60% di tutto il capitale investito nella Palestina ebraica proveniva dal denaro degli ebrei tedeschi attraverso l’accordo di trasferimento. Quindi durante gli anni ’30 il nazismo fu una manna per il sionismo.

Nel 1935 la Federazione Sionista Tedesca fu l’unica forza politica che appoggiò le leggi naziste di Norimberga nel Paese e fu l’unico partito a cui venne ancora concesso di pubblicare il proprio quotidiano, il “Rundschau” [La Rassegna], fin dopo la “Notte dei Cristalli” [in cui vennero aggrediti negozi, sedi di associazioni, sinagoghe e molti ebrei vennero feriti o uccisi, ndtr.] nel 1938.”

Le leggi di Norimberga tolsero la cittadinanza agli ebrei tedeschi e proibirono loro di sposarsi o avere rapporti sessuali con chiunque avesse sangue “tedesco o connesso”. La legge emarginò gli ebrei e li privò di buona parte dei loro diritti politici. Un ebreo venne definito come chiunque avesse tre o quattro nonni ebrei, indipendentemente dall’autoidentificazione di quella persona.

Nel 1933 la Federazione Sionista Tedesca, la “Zionistische Vereinigung fur Deutschland”, scrisse un appello ai nazisti:

Ci sia consentito di presentare la nostra opinione, che, secondo noi, rende possibile una soluzione in linea con i principi del nuovo Stato Tedesco di Risveglio Nazionale… perché anche noi siamo contrari ai matrimoni misti e siamo per il mantenimento della purezza del gruppo ebraico…Per questi scopi concreti il sionismo spera di essere in grado di conquistarsi la collaborazione persino di un governo fondamentalmente ostile agli ebrei… La propaganda per il boicottaggio, come viene attualmente portata avanti contro la Germania in molti modi, è essenzialmente non sionista, perché il sionismo non vuole combattere, ma convincere e costruire.”

Un’altra prova relativa ai rapporti dei nazisti con gli ebrei e ai loro piani di deportazione (prima della loro decisione del 1942 di procedere con lo sterminio totale) venne scritta dal capo delle SS, Reinhard Heydrich. Nel 1935 egli pubblicò una dichiarazione su una rivista delle SS. Francis Nicosia lo ha citato nel suo libro “The Third Reich and the Palestine Question” [Il Terzo Reich e la questione palestinese]:

Il nazional-socialismo non ha intenzione di attaccare il popolo ebraico in nessun modo. Al contrario, il riconoscimento dell’ebraismo come comunità razziale fondata sul sangue e non sulla religione, porta il governo tedesco a garantire la separazione razziale di questa comunità senza alcuna limitazione. Il governo si trova totalmente d’accordo con il grande movimento spirituale all’interno dello stesso ebraismo, il cosiddetto sionismo, con il suo riconoscimento della solidarietà dell’ebraismo in tutto il mondo e con il rifiuto di qualunque idea di assimilazione. Su queste basi la Germania intraprende misure che in futuro giocheranno sicuramente un ruolo significativo per la gestione del problema ebraico in tutto il mondo.” 

Cosa interessante, nel 1937 Adolf Eichmann, insieme al suo supervisore del servizio di intelligence del partito nazista, viaggiò nella Palestina mandataria travestito da giornalista tedesco per studiare la fattibilità della deportazione degli ebrei tedeschi nella regione e le funzioni delle organizzazioni sioniste all’interno della Palestina. Eichmann si incontrò segretamente anche con Feivel Polkes, un rappresentante dell’Haganah [principale gruppo paramilitare sionista affiliato alla fazione socialista, ndtr.] (che divenne l’esercito israeliano) per discutere il suo progetto. È importante ricordare che ad Eichmann interessava deportare gli ebrei nel modo più efficiente possibile, non appoggiare lo sviluppo di un forte Stato ebraico che potesse minacciare la fortuna economica della Germania nazista.

Nella sua recensione sul New York Times di “In Memory’s Kitchen: A Legacy From the Women of Terezin” [Nella cucina della memoria: un lascito delle donne di Terezin] Lore Dickstein cita il ricordo di una sopravvissuta a Terezin che incontrò Eichmann: “Anny Stern fu una delle fortunate. Nel 1939, dopo mesi di problemi con la burocrazia nazista, con l’esercito occupante tedesco alle calcagna, scappò dalla Cecoslovacchia con il figlioletto ed emigrò in Palestina. Al tempo della partenza di Anny, la politica nazista incoraggiava l’emigrazione. ‘Sei una sionista?’ le chiese Adolph Eichmann, lo specialista hitleriano di questioni ebraiche. ‘Jawohl [Sì in tedesco, ndtr.],’ rispose lei. ‘Bene’ egli disse, ‘anch’io sono un sionista. Voglio che ogni ebreo se ne vada in Palestina.’”

Informando sul processo Eichmann nel 1963 da Gerusalemme, Hannah Arendt scrisse che Eichmann si vantò del suo apprezzamento per il sionismo:

I primi contatti personali di Eichmann con funzionari ebrei, tutti ben noti sionisti di lunga data, sono stati totalmente soddisfacenti. La ragione per cui venne così affascinato dalla ‘questione ebraica’, ha spiegato, era il suo stesso ‘idealismo’: questi ebrei, a differenza degli assimilazionisti, che aveva sempre disprezzato, e degli ebrei ortodossi, che lo annoiavano, erano ‘idealisti’, come lui.”

Dopo la fondazione dello Stato di Israele nel 1948, Albert Einstein scrisse una lettera al New York Times riguardo alla visita negli USA di Menachem Begin, leader dell’“Irgun”, capo del partito della destra nazionalista “Herut” (che si trasformò nel Likud) e in seguito sesto premier israeliano:

Tra i più inquietanti fenomeni del nostro tempo c’è l’emergere nello Stato di Israele creato recentemente del “partito della Libertà” (Tnuat HaHerut), un partito politico affine ai partiti nazisti e fascisti nella sua organizzazione, nei metodi, nella filosofia politica e nel richiamo sociale … Ha predicato un insieme di ultranazionalismo, misticismo religioso e superiorità razziale… è imperativo che la verità sul signor Begin e sul suo movimento sia resa nota in questo Paese.”

Amy Kaplan, nel suo importante libro del 2018 “Il nostro Israele americano”, ha notato che dopo la fine della guerra persino i non ebrei pensavano che i bambini di razza ebraica dell’Europa orientale fossero stati magicamente trasformati, anglicizzati, dall’esperienza di essere nati in Palestina. Bartley Crum era un cattolico progressista, avvocato per i diritti civili nato a San Francisco che faceva parte della Commissione Anglo-Americana incaricata di decidere il futuro di persone sfollate che languivano nei campi di raccolta dopo la guerra. Kaplan ha notato:

Crum scoprì una prova di questa trasformazione degli ebrei dell’Europa orientale in uno ‘strano fenomeno’ che rendeva i loro figli cresciuti in Palestina non solo più forti per il fatto di aver lavorato la terra, ma anche più bianchi e più occidentali dei loro genitori: ‘Molti dei bambini ebrei che ho visto erano biondi e con gli occhi azzurri, una mutazione di massa che, mi è stato detto, dev’essere ancora adeguatamente spiegata. È ancora più significativa perché la maggioranza degli ebrei di Palestina è originaria dell’Europa orientale, tradizionalmente con capelli e occhi scuri. Si potrebbe quasi affermare che in Palestina sia stato creato un nuovo popolo ebraico: in stragrande maggioranza una spanna più alto dei padri, persone robuste, più un ritorno ai contadini e pescatori dei giorni di Cristo che prodotto dei figli e delle figlie delle città dell’Europa centro-orientale.” [p. 31].

Un altro membro della Commissione Anglo-Americana, James McDonald, visitò una sinagoga a Gerusalemme e:

“…egli venne “ancora una volta colpito dalla varietà di volti dei ragazzi. ‘Se non avessi saputo dove mi trovavo, o non avessi sentito parole in ebraico, avrei giurato che la maggior parte di loro fosse irlandese, scandinava o scozzese, o comunque della normale mescolanza del Middle West americano. Solo qui e là c’era un volto anche lontanamente somigliante al ‘tipo ebreo’.’ Concluse che i giovani ebrei di Israele non avevano un ‘tipo razziale’ particolare.’” [p.32].

Nel 1951 Kenneth Bilby, giornalista, notò, osservando i bambini di un kibbutz:

Erano persino ben fatti, robusti, i capelli schiariti dal sole. Avrei sfidato un qualunque antropologo a mescolare questi bambini con una folla di giovani britannici, americani, tedeschi e scandinavi e poi separare gli ebrei.’ Li vedeva come diventati diversi ‘dai loro cugini semiti del mondo arabo’. Agli occhi di questi visitatori, mentre gli ebrei europei diventavano più bianchi e più civilizzati, gli arabi tra i quali si erano insediati apparivano più scuri e più primitivi.” [32].

In Israele c’è sempre stata una gerarchia razziale fondata sulla supremazia bianca ed etnocentrica. Gli ashkenaziti [lett. tedeschi, ebrei di origine europea, ndtr.] hanno discriminato i mizrahi [orientali, originari dei Paesi arabi o musulmani, ndtr.] e gli ebrei di colore, e i palestinesi hanno affrontato l’intolleranza più estrema, seguiti solo di recente dai richiedenti asilo africani.

Anche dei leader religiosi reazionari hanno sposato atteggiamenti razzisti. Un primo esempio di ciò è il rabbino Ovadia Yosef, il leader spirituale del partito Shas [partito religioso degli ebrei ultraortodossi mizrahi, ndtr.], che ha equiparato gli arabi a “serpenti” ed ha chiesto il loro “annientamento”. Questo tipo di atteggiamenti è stato prevalente nei movimenti di colonizzazione più di destra come “Gush Emunim”, Tehiya, Unione Nazionale e Mafdal, che rappresentano un messianismo ebraico mischiato a odio e disprezzo per i nativi palestinesi.

Quindi, perché è importante esplorare questa storia complicata e scomoda? Sosterrei che, in primo luogo, in questa epoca in cui l’epiteto di antisemita è scagliato abbastanza a casaccio contro chiunque abbia atteggiamenti critici verso Israele, dobbiamo essere onesti sulle basi fondative del sionismo e sui suoi rapporti con il vero antisemitismo. Risulta che i primi sionisti, sia della sinistra socialista che della destra fascista, avevano atteggiamenti che erano chiaramente antisemiti. Questo può essere stato cinico e amorale, ma penso che vada ben oltre un matrimonio di convenienza.

Se capiamo le radici della dirigenza israeliana possiamo comprendere meglio gli atteggiamenti e le politiche dei successivi governi israeliani che ci hanno portato fino all’attuale regime. Mentre l’Irgun rimase minoritario e non prese il controllo fino al 1977 con Menachem Begin, seguito da Yitzhak Shamir, esso era una forza potente nella Palestina prima del 1948 [anno della nascita di Israele, ndtr.], assassinando dirigenti inglesi e negoziatori internazionali come il conte Bernadotte [inviato svedese dell’ONU per mediare il conflitto tra sionisti ed arabi, ndtr.] e infliggendo attacchi terroristici ai nativi palestinesi, come nel caso del massacro di Deir Yassin.

Anche l’Haganah e il Palmach [le due principali milizie sioniste, della fazione socialista, ndtr.] (che in seguito diventarono il fulcro dell’esercito israeliano) erano gruppi paramilitari attivi nella Palestina prima del 1948. Penso alla famosa citazione di Moshe Dayan che si unì all’Haganah all’età di 14 anni e divenne un celebre leader militare e politico:

Siamo una generazione di coloni e senza l’elmetto di ferro e la canna del fucile non saremmo stati in grado né di piantare un albero né di costruire una casa… Non si abbia paura di vedere l’odio che ha accompagnato e consumato le vite di centinaia di migliaia di arabi che ci circondano, aspettando il momento in cui le loro mani riusciranno a raggiungere il nostro sangue.” (dal libro di Ronen Bergman “Rise and Kill First” [Alzati e uccidi per primo], pp. 128-129).

Questa è la voce combattiva dell’ebreo nuovo, l’ebreo rinato nella lotta per colonizzare e creare Israele dalla Palestina. Non è una voce interessata al negoziato, alla tolleranza, alla democrazia o al rispetto della narrazione o origine altrui. La storia politica ha creato le norme sociali e culturali che vediamo oggi. Gli Usa stanno affrontando una discussione nazionale sulle contraddizioni tra la nostra mitologia, il sogno americano di giustizia, uguaglianza e libertà per tutti, e il fatto che i nostri eroi nazionali erano proprietari di schiavi e in realtà avevano progetti solo per i proprietari terrieri bianchi. Le loro esperienze di vita e i loro atteggiamenti furono alla base delle norme culturali che hanno caratterizzato gli aspetti più vergognosi della storia degli USA: distruggere i popoli nativi, schiavizzare africani, essere proprietari dei loro figli, Jim Crow [leggi non scritte del Sud segregazionista, ndtr.], emarginare, fare discriminazioni nelle opportunità per trovare lavoro con la legge sui veterani di guerra, leggi contro i matrimoni misti, nazionalismo bianco, il costante fanatismo e il razzismo istituzionali che sono ancora un grave ostacolo nel XXI secolo. Questo tipo di discorso onesto e penoso è fondamentale se vogliamo far prendere una direzione più positiva alla nostra cosiddetta democrazia. Suggerirei che gli israeliani dovrebbero discutere dell’origine della loro Nazione, e per lo più non lo fanno. Ciò non lascia ben sperare.

Il ceppo della politica di Jabotinsky, repressivo, antidemocratico e in certo modo profondamente odiatore di se stesso ed escludente, è una forma di maschilismo nazionalista tossico. È anche un’ideologia fondante del moderno sionismo, un misto di mentalità da bunker, islamofobia e darwinismo sociale. Questo tipo di politica fornisce un contesto storico al razzismo degli ebrei ashkenaziti nei confronti degli ebrei di colore, dei mizrahi, dei palestinesi e dei richiedenti asilo africani. Questo tipo di politica rende possibili un’occupazione aggressiva e de-umanizzante e un movimento di colonizzazione, in cui la volontà di uccidere, ferire e incarcerare palestinesi e i loro figli è vista come indispensabile, senza rimorsi, per la sopravvivenza, in cui aggredire “l’altro” come se fosse uno scarafaggio e subumano è tollerato e applaudito dai dirigenti politici, in cui bombardare periodicamente e strangolare due milioni di gazawi, creare una impossibile catastrofe umanitaria è solo parte di “falciare il prato” . 

Quest’ultima espressione si riferisce alla cinica strategia militare israeliana vista nelle ultime tre guerre contro Gaza e nella Seconda Guerra del Libano, che comporta ripetute operazioni su larga scala, ma limitate, così come attacchi più ridotti intesi a schiacciare l’avversario, demolendo la dirigenza e le infrastrutture e costruendo deterrenza. Questa guerra di logoramento non ha un chiaro punto finale, è in sé una politica estera caratterizzata dall’uso di una forza estrema per indebolire Hamas ed Hezbollah, con un rischio minimo per i soldati israeliani, ma senza l’eliminazione totale del nemico, necessaria per controllare attori ancora più estremisti nella regione.

Proprio come ora so che l’espulsione e l’occupazione che iniziarono nel 1967 e continuano fino ai giorni nostri sono la continuazione di un processo che iniziò molto prima del 1948 – la Nakba, o catastrofe, è in corso -, le politiche fascistoidi del governo israeliano sono radicate nella storia della creazione dello Stato. Allo stesso modo l’abbraccio tra gli israeliani e i cristiano-sionisti (i cui progetti per gli ebrei sono la conversione o una morte atroce) dopo il 1967 rispecchia i rapporti amichevoli che i sionisti hanno avuto con i dirigenti antisemiti in Germania e in Italia. E in modo simile lo stretto legame di Israele con i cristiano-sionisti e con regimi oppressivi, dal Sudafrica bianco all’Arabia Saudita, così come la passione di Israele per il nostro presidente-padrone e antisemita, è parte dello stesso vecchio modello di unire le forze con governi razzisti e autoritari.

Come si è detto spesso, se non conosciamo la nostra storia siamo destinati e condannati a ripeterla.

Alice Rothchild è dottoressa, scrittrice e regista che dal 1997 ha concentrato il proprio interesse sui diritti umani e sulla giustizia sociale nel conflitto israelo/palestinese. Ha fatto la ginecologa per circa 40 anni. Fino alla pensione ha lavorato come assistente universitaria in ostetricia e ginecologia nella facoltà di medicina di Harvard. Scrive e tiene conferenze ad ampio raggio ed è l’autrice di “Broken Promises, Broken Dreams: Stories of Jewish and Palestinian Trauma and Resilience” [Promesse non mantenute, sogni infranti: storie di traumi e restitenza di ebrei e palestinesi], “On the Brink: Israel and Palestine on the Eve of the 2014 Gaza Invasion” [Sull’orlo: Israele e Palestina al tempo dell’invasione di Gaza nel 2014], e di “Condition Critical: Life and Death in Israel/Palestine” [Una condizione critica: vita e morte in Israele/Palestina]. Ha diretto un documentario, “Voices Across the Divide” [Voci al di là delle divisioni] ed è attiva in “Jewish Voice for Peace” [Voce ebraica per la pace, gruppo USA di ebrei antisionisti, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)