Shuki Sadeh e Shomrim
14 dicembre 2024 – Haaretz
Perché il movimento degli insediamenti coloniali israeliani sta procedendo sempre più rapidamente nella distruzione dei propri avamposti e fattorie? È un fenomeno complesso determinato da pressioni demografiche, promesse non mantenute, controversie interne e prezzi immobiliari in aumento. Un’indagine di Shomrim esamina le dinamiche alla base del processo.
“Stai sfruttando il tuo potere per farmi del male. Per fare del male a tuo fratello. Hai la legge dalla tua parte e il potere di cacciarmi, quindi dai, cacciami. Ti dico che non cederò. Resterò davanti al tuo bulldozer fino alla fine”.
Si potrebbe pensare che a pronunciare queste parole sia un membro della “gioventù della collina”, i giovani coloni estremisti, religiosi e sionisti che operano in Cisgiordania, poco prima di essere espulso con la forza da un soldato o da un agente di polizia delle Forze di difesa israeliane da una terra occupata illegalmente. In realtà, sono state dette di recente a Yaron Rosenthal, il capo del Consiglio regionale di Gush Etzion, un pilastro del movimento locale degli insediamenti coloniali, dal proprietario dell’avamposto della fattoria El-Hai dopo aver fatto irruzione nel suo ufficio. Ufficialmente, il motivo della disputa è l’avviso inviato dal consiglio regionale che affermava che stava per emettere un ordine di demolizione per l’avamposto, in quanto costruito su suolo pubblico. Tuttavia i coloni che vivono nell’avamposto sono convinti che la vera ragione dell’intervento sia un piano del consiglio regionale per destinare il terreno in questione alla realizzazione di un nuovo quartiere della colonia di Kfar Eldad.
Kfar Eldad, situata a est di Gush Etzion, ha visto negli ultimi anni un boom immobiliare. A gennaio, ad esempio, un appartamento di quattro stanze con un cortile di 150 mq è stato venduto per 2,7 milioni di shekel (circa 720.000 euro). Kfar Eldad non è riconosciuta come una comunità indipendente e fa formalmente parte del vicino insediamento di Nokdim, all’interno del quale, tuttavia, opera come una comunità semi-autonoma.
Una visita all’avamposto illustra la logica alla base dell’argomentazione avanzata da Shem-Tov Luski, la persona responsabile dei commenti rabbiosi rivolti a Yaron Rosenthal citati sopra. Dall’altro lato della strada che conduce all’avamposto è stata recentemente eretta una recinzione che delimita l’area di un progetto di edilizia residenziale pianificato e promosso dalla società di costruzioni Harey Zahav, di proprietà di Ze’ev Epstein. In questa fase non esiste ancora un piano regolatore ufficiale per trasformare l’area in una zona residenziale, ma i progetti possono sempre essere modificati e in ogni caso nella zona c’è molto terreno disponibile.
La fattoria El-Hai è stata fondata nel 2001 dalla defunta madre di Luski, Batya Luski El-Hai, dopo essere emigrata in Israele dal Regno Unito. Sul sito ci sono quattro edifici, ulivi, stalle, un laboratorio, un recinto per il bestiame e un vivaio di piante. Batya Luski è morta nel 2022. I suoi figli, Shem-Tov e Lurya, hanno lasciato la fattoria diversi mesi dopo e la proprietà è attualmente gestita da Yonatan Applebaum, un attivista proveniente dalla fattoria Har Hebron e amico di famiglia. Ognuna delle tre famiglie che vivono nel sito paga un affitto mensile tra 1.500 e 2.000 shekel (circa 400-550 euro). Un’udienza riguardante l’ordine di demolizione è prevista per questo mese presso gli uffici del consiglio regionale.
“Per tutti questi anni non siamo stati nella legalità. Come tutti gli avamposti coloniali in Giudea e Samaria (per definizione) non potevamo essere legali, ma ecco che all’improvviso loro (il consiglio regionale) vogliono costruire e promuovere un progetto e ci dicono, ‘State violando la proprietà privata’, ‘Non siete legali’ e ‘Le vostre case non sono a norma'”, dice Appelbaum, aggiungendo che alla fine dell’anno scorso l’avamposto ha aperto un centro mente-corpo che ospita workshop terapeutici, alcuni dei quali sono frequentati da bambini e persone che soffrono di PTSD [disordine da stress postraumatico, ndt.].
“La cosa assurda è che la fattoria può essere integrata, come spazio pubblico, in qualsiasi futuro progetto di costruzione. I nostri workshop sono frequentati dalla gente quasi ogni giorno, quindi ho chiesto: ‘Perché state distruggendo questa cosa meravigliosa per un progetto pubblico quando un progetto pubblico esiste già?’ Rosenthal mi ha detto che è un funzionario statale e che opera in conformità con la legge. Altri funzionari mi hanno lasciato intendere che sono disposti a trasferirci in un sito diverso, circa un miglio a nord. Anche lì la fattoria non sarà legale, ma è quello che vogliono. Vogliono che per i prossimi 20 anni io sia il loro soldato semplice”, cioè in sostanza sacrificabile.
Igal Komisarov, il presidente della società cooperativa Kfar Eldad, sostiene di aver iniziato a cercare di far rimuovere la fattoria solo dopo la morte di Batya Luski, e questo perché era stata costruita su suolo pubblico, e non ha nulla a che fare con eventuali piani di costruzione futuri. “Kfar Eldad in passato aveva accettato che Batya Luski potesse vivere su quella terra”, conferma. “La ricordiamo e onoriamo la sua memoria, merita molto rispetto, ma non abbiamo mai detto che la terra le apparteneva. È un’area che deve essere aperta e accessibile al pubblico. Gli unici impegnati in una strategia immobiliare sono i proprietari della fattoria, affittando strutture alle famiglie e tenendo workshop”.
Lurya Luski vede le cose in modo molto diverso. Afferma che i funzionari di Kfar Eldad, che volevano allontanare sua madre dalla proprietà, hanno iniziato a infastidirla circa due o tre anni prima che morisse: “Ci ha raccontato dei problemi che stavano creando e di come fosse costretta ad affrontarli da sola. Pochi mesi prima della sua morte si sono presentati alle 3 del mattino con un trattore e hanno iniziato a buttare giù le recinzioni. Sono venuti da noi poco più di un mese dopo la sua morte e ci hanno detto che dovevamo andarcene”.
Da pionieri ad agenti immobiliari
La lotta per il destino della fattoria El-Hai è solo un esempio di un fenomeno diffuso per cui i coloni vengono cacciati dagli avamposti e dalle fattorie in Cisgiordania dalla stessa organizzazione a capo dell’insediamento coloniale. Questo può sembrare un fenomeno piuttosto strano, forse persino bizzarro, dato che apparentemente va contro l’ideologia dichiarata del movimento delle colonie, ma un esame più approfondito dei dettagli rivela un quadro complesso, che comprende schemi di pianificazione, promesse non mantenute, prezzi immobiliari in continua ascesa e un desiderio da parte di tutti i soggetti coinvolti di massimizzare i profitti.
Per comprendere appieno le radici di questo fenomeno è necessario tornare indietro e osservare come si sono espansi gli insediamenti coloniali israeliani in Cisgiordania. Il metodo più antico prevedeva di posizionare case mobili a circa un miglio da una colonia esistente. Se il terreno era di proprietà statale, il sito sarebbe stato “legalizzato” come nuovo quartiere dell’insediamento adiacente, anche senza alcuna contiguità geografica tra i due. È un approccio utilizzato per la creazione della maggior parte degli avamposti coloniali in Cisgiordania dalla fine degli anni ’90.
Un altro metodo, che è diventato sempre più consueto negli ultimi anni, è quello di realizzare un insediamento agricolo. Queste fattorie consentono ai coloni di prendere il controllo di grandi aree con un piccolo numero di abitanti. La maggior parte di queste si trova nell’Area C della Cisgiordania, che ne costituisce circa il 60% e che è sotto il pieno controllo di sicurezza e amministrativo israeliano. Installare una fattoria consente ai coloni di prendere il controllo di aree con varie definizioni urbanistiche, da terreni di proprietà statale a terreni di proprietà privata e terreni il cui status legale è oggetto di controversia. Nel momento in cui la fattoria riceve l’approvazione legale, questo è il segnale per la creazione di una nuova fattoria ancora più lontana, che a sua volta diventerà un insediamento coloniale o un quartiere di un insediamento vicino, se ce n’è uno.
Molti dei coloni sono portati ad affrontare questa avventura pionieristica dal sogno o dall’aspirazione romantica di vivere in un posto con un carattere rurale e agricolo. Altri lo fanno in base alla promessa che la loro futura casa avrà un grande appezzamento di terra annesso. Ecco perché molti di loro non riescono a capire come, in alcuni casi, il processo finisca con la costruzione di case mentre in altri finisca con ordini di demolizione. In molte occasioni, la decisione dipende dall’identità delle persone che si trasferiscono nell’avamposto, dalla loro ideologia e, cosa più importante, da quanto sono vicine all’insediamento coloniale. Quindi si è creata una situazione per cui i consigli regionali in Cisgiordania, che per anni sono stati l’opposizione di destra agli sforzi dello Stato di reprimere gli avamposti coloniali illegali, ora supportano la rimozione di questi avamposti, in particolare se ciò comporta un vantaggio finanziario, e stanno attivamente avviando azioni per farlo.
In passato il movimento per gli insediamenti coloniali si è concentrato sulla costruzione di case unifamiliari. Tuttavia negli ultimi anni la tendenza si è spostata a favore dei condomini. La ragione principale di ciò è la “crescita naturale”, ovvero la necessità e la domanda di appartamenti, che danno rendimenti molto più elevati per i costruttori. Le persone che realizzano fattorie, che si sono trasferite sulla terra in seguito a promesse o nella speranza di avere una casa unifamiliare, si trovano improvvisamente di fronte a una nuova politica: in alcuni luoghi le fattorie sono effettivamente autorizzate, ma in altri vengono demolite a vantaggio della costruzione di alloggi ad alta densità. Un esame più attento rivela che in alcuni di questi casi le persone allontanate dalla terra non sono considerate come originarie del contesto ideologico tradizionalmente accettato in relazione alla colonizzazione, o sono percepite come se abbracciassero uno stile di vita non convenzionale.
A Kiryat Arba [una delle prime colonie e nota per il suo estremismo, ndt.], ad esempio, sembra che ci si dimostri molto compiacenti verso i membri dell’avamposto di Givat Gal, i cui abitanti includono un folto gruppo del movimento Nahala, che è rispettato per i suoi sforzi per ricolonizzare la Striscia di Gaza. Diversi anni fa gli abitanti dell’avamposto si opposero a un piano per demolirlo e costruire al suo posto alloggi ad alta densità, ed Eliyahu Liebman, all’epoca a capo del consiglio di Kiryat Arba, fece marcia indietro. Ora le parti sono di nuovo impegnate a dialogare.
“C’è una certa logica dietro la tensione tra i coloni e i consigli regionali”, afferma un membro del Consiglio regionale di Kiryat Arba che ha chiesto di rimanere anonimo. “Da un lato, non si vuole danneggiare le persone che si sono trasferite sulla terra. Abbiamo nei loro confronti un debito di gratitudine. Dall’altro, un leader del consiglio vuole quante più unità abitative possibili. La questione è se autorizzeranno le case unifamiliari della gente di Givat Gal. Sono dell’opinione che dovrebbe essere loro consentito di fare ciò che vogliono. Ma il dialogo non è finito”.
“È sicuramente un fenomeno reale”, afferma un ex funzionario dell’Amministrazione civile. “All’interno della dirigenza dell’insediamento queste persone sono note come agenti immobiliari, in contrapposizione agli ideologi. Il fenomeno è particolarmente diffuso nei luoghi in cui la terra è più costosa. Alla fine le autorità locali si rivolgono all’Amministrazione Civile [ente militare israeliano che gestisce i territori occupati, ndt.] e chiedono loro di allontanare i coloni”.
Ma’ale Rehavam
Un altro avamposto coloniale situato nelle vicinanze di Nokdim offre un ottimo esempio del fenomeno. Ma’ale Rehavam è un insieme eclettico di strutture e case mobili sparse su diverse colline e collegate da strade sterrate dissestate. Tra 20 e 25 famiglie vivono nell’avamposto, ma c’è un alto turnover di abitanti. Secondo i dati pubblicati da Haaretz, nel 2023 l’Amministrazione Civile ha demolito 34 delle 385 strutture illegali identificate nelle colonie della Cisgiordania, la maggior parte delle quali a Ma’ale Rehavam.
Secondo un abitante di lunga data dell’avamposto, che ha anche chiesto di non essere identificato, i coloni di Ma’ale Rehavam godevano del sostegno del Consiglio regionale di Gush Etzion, della Divisione per gli insediamenti dell’Organizzazione sionista mondiale, del movimento Amana e persino del Primo Ministro Ariel Sharon. Tuttavia negli ultimi 10 anni è scoppiata una disputa feroce tra le autorità e Kfar Eldad, da una parte, e i coloni dell’avamposto dall’altra. Al centro della loro disputa c’è un piano promosso dal consiglio per costruire 400 unità abitative in strutture ad alta densità. I coloni, da parte loro, chiedono la legalizzazione dei primissimi edifici costruiti sul sito, tutti con molto terreno e in un contesto pastorale.
Nell’ambito della disputa a Ma’ale Rehavam sono state tagliate, tra le altre cose, l’acqua e l’energia elettrica. Per quanto riguarda gli abitanti di Kfar Eldad, che controllano i servizi, i vicini dovevano semplicemente loro dei soldi. Lasciati senza scelta, nel corso dell’ultimo decennio gli abitanti dell’avamposto hanno fatto affidamento su pannelli solari e acqua portata con cisterne dai villaggi palestinesi vicini, finché diversi mesi fa non sono stati ricollegati alla rete idrica. “Il cambiamento dell’approccio nei nostri confronti è iniziato nel 2008″, afferma un abitante. “Una strada appena asfaltata ha ridotto il tempo di percorrenza per Gerusalemme da 50 a 20 minuti e ha fatto salire i prezzi degli appartamenti di centinaia di punti percentuali. Siamo venuti qui per proteggere la terra. Non c’è motivo, dopo tutti questi anni, per cui non debbano autorizzare le nostre case come hanno fatto in altri avamposti, ma ci stanno trattando come ‘agenti immobiliari’. Tuttavia, spero che riusciremo a raggiungere un compromesso. Le case che già esistono qui possono essere integrate in un futuro quartiere.”
Zayit Raanan
Anche il blocco di insediamenti di Talmonim, che si trova nel Consiglio regionale di Mateh Binyamin, è diventato un’area molto ricercata, dove nel corso degli anni i prezzi delle case sono aumentati costantemente. A luglio, ad esempio, un appartamento di quattro stanze in un condominio nell’insediamento di Talmon è stato venduto per 2,1 milioni di shekel [560.000 euro, ndt.]. I coloni israeliani si sono trasferiti per la prima volta nel vicino avamposto di Zayit Raanan nei primi anni 2000, con il supporto del movimento Amana [organizzazione di coloni, ndt.] e del consiglio regionale. Secondo una brochure di Amana del 2002, ad esempio, a chiunque si trasferisse nell’avamposto veniva promesso un terreno agricolo come parte della sua proprietà. Oggi la maggior parte delle case sono destinate alla demolizione, sulla base dei piani che prevedono la costruzione un nuovo quartiere per la colonia di Talmon.
In un ricorso amministrativo attualmente in discussione presso la Corte distrettuale di Gerusalemme gli abitanti di Zayit Raanan sostengono di essere discriminati rispetto agli altri quartieri di Talmon: Nerya, Haresha, Kerem Reim e Horesh Yaron: “Il piano regolatore elaborato per Haresha si basa interamente su costruzioni illegali, tra cui strutture permanenti, case mobili e un sistema stradale. Non è chiaro perché gli stessi criteri non siano stati adottati per Zayit Raanan”, afferma la petizione. Altri argomenti riguardano il loro trattamento rispetto agli abitanti di Nerya. A differenza dei coloni di Zayit Raanan, che si sono trasferiti lì da vari luoghi in Israele, Nerya è popolata da circa 400 famiglie, tutte appartenenti alla corrente principale del movimento religioso-sionista, tra cui molti ex studenti della yeshiva [scuola religiosa, ndt.] Mercaz Harav. Qui, sostengono, sta il problema:
“Da una prospettiva politica, e per considerazioni elettorali, è nell’interesse del capo del consiglio che ci sia una comunità [di elettori] grande e non una piccola”, afferma un abitante dell’avamposto. “Qualche anno fa il consiglio ha deciso, sotto la pressione di Nerya, che era necessario cacciarci dal sito e, al nostro posto, promuovere un piano valido per un’edilizia residenziale urbana ad elevata densità. E poi per la prima volta il consiglio ha chiesto ordini di demolizione delle strutture. Di solito, gli abitanti degli avamposti devono trovare tutti i modi possibili per nascondersi dall’Amministrazione Civile; in questo caso, dobbiamo nasconderci dal consiglio regionale [delle colonie, ndt.]. Le persone che sono venute a Zayit Raanan sapevano che c’era un “giovane insediamento” in Giudea e Samaria e che l’obiettivo era sempre quello di autorizzare gli avamposti piuttosto che demolirli. Qui vogliono demolire. Le stesse persone che ci hanno incoraggiato a trasferirci qui come pionieri hanno iniziato a trattarci in modo diverso nel momento in cui hanno visto il potenziale immobiliare”.
Oltre a tutto questo c’è anche una feroce disputa personale, che include cause per diffamazione, accuse di furto di rotoli della Torah, boicottaggi da parte di bambini nelle scuole locali e lamentele sul trattamento preferenziale che alcuni abitanti di Zayit Raanan otterrebbero dagli abitanti di Nerya. In un’udienza tenutasi a febbraio 2021 presso l’Unità di pianificazione centrale dell’Amministrazione Civile, Matanya Aharonovich, un colono di Zayit Raanan, ha chiesto: “Che senso ha che qui ci siano così tante case destinate alla demolizione e per puro caso cinque siano state rimosse dall’elenco? Possiamo dirvi che tutti coloro che vivono in quelle cinque case sono affiliati alla tendenza Hardali che è fedele a Nerya”, riferendosi ai coloni ultra-ortodossi nello stile di vita ma sionisti nell’ideologia. “La caratteristica di Zayit Raanan è di essere più tollerante: laici, religiosi, immigrati, nativi, ultra-ortodossi. Nerya ha trovato una soluzione, che è distruggere tutto questo: delle persone che vivono qui ci si prenderà cura; le persone che vivono lì possono andare all’inferno.”
Tapuah Ma’arav
In una parte significativa di questo tipo di controversie tra gli abitanti degli avamposti coloniali e l’istituzione a capo della colonia i primi puntano il dito accusatore contro il movimento Amana, a cui fa capo la responsabilità dell’arrivo di molti dei coloni pionieri trasferitisi in Cisgiordania all’inizio del processo. Amana è definita una società cooperativa e, in quanto tale, non è tenuta alla trasparenza di fronte all’opinione pubblica. È controllata in pratica dal Consiglio Yesha degli insediamenti e dai consigli regionali più grandi in Cisgiordania. In passato ha ricevuto ampie aree di terra dallo Stato senza alcun costo, tramite la Federazione Sionista Mondiale. Ma, come ha rivelato Shomrim [associazione di ebrei ultraortodossi che svolge attività simili ai City Angels, ndt.] l’anno scorso, è anche pesantemente coinvolta nelle vendite di terreni a prezzi maggiorati in insediamenti coloniali ricercati e usa i suoi profitti per finanziare le sue operazioni altrove.
Oltre a garantire assistenza all’inizio del viaggio, Amana fornisce anche agli avamposti coloniali un supporto politico nei corridoi del potere. Tuttavia questo può avere un prezzo. Quando arriverà il momento, Amana avrà il potere politico di chiedere loro di lasciare l’avamposto. Nel caso delle fattorie coloniali che sono state realizzate negli ultimi anni i potenziali abitanti hanno firmato un documento in cui dichiarano chiaramente di essere consapevoli di questa possibilità. Tuttavia nei 20 anni che hanno preceduto questo periodo il rapporto tra le parti è stato molto meno chiaro.
Uno degli avamposti coloniali i cui abitanti esprimono più rabbia verso Amana è quello di Tapuah Ma’arav, che è stato fondato nei primi anni 2000. Nel 2015 l’organizzazione [israeliana] per i diritti umani Yesh Din ha presentato una petizione all’Alta Corte di Giustizia per conto degli abitanti del vicino villaggio palestinese di Yasouf, opponendosi all’edificazione in quel luogo. Tuttavia paradossalmente i procedimenti legali hanno portato all’autorizzazione retroattiva del terreno, consentendo al progetto di procedere. Nel corso della realizzazione è stata costruita una strada per Tapuah Ma’arav, aprendo la via a un nuovo quartiere residenziale a spese dell’avamposto coloniale. Otto famiglie si sono opposte al piano e alla fine del 2020 hanno presentato una petizione amministrativa. Hanno sostenuto, tra le altre cose, che quando si sono stabiliti per la prima volta sul terreno era stato promesso loro che lo sviluppo futuro avrebbe preservato il suo carattere rurale e agricolo.
“Le stesse Amana e Binyanei Bar Amana (la sussidiaria di Amana che realizza i suoi progetti), che attualmente stanno promuovendo i loro progetti a spese dei residenti e nel frattempo abbattono le case, hanno investito nel corso degli anni in questa colonia rilevanti capitali“, afferma la petizione. “La posizione di Amana secondo cui gli abitanti devono essere evacuati per costruirvi strutture e per impegnarsi alla ripartizione degli utili dimostra che gli abitanti sono stati di fatto sfruttati da Amana per salvaguardare il terreno e ora vengono cacciati via”. Un anno dopo, alla fine del 2021, la petizione è stata ritirata dopo che è stato raggiunto un accordo in base al quale le argomentazioni sarebbero state presentate alle autorità di pianificazione.
L’impegno di Amana in merito al carattere della comunità, al centro delle argomentazioni degli abitanti, è stato sollevato anche durante le udienze sulla petizione amministrativa contro la demolizione dell’avamposto di Tapuah Ma’arav, presentata alle autorità di pianificazione dell’Amministrazione Civile dell’IDF. Nella loro istanza gli abitanti sostengono anche di aver ricevuto una promessa dal capo del Consiglio regionale di Samaria, Yossi Dagan, secondo cui il futuro quartiere di Tapuah Ma’arav avrebbe avuto un aspetto rurale e che a ogni famiglia che vi abitava sarebbe stato assegnato un appezzamento di terreno di dimensioni comprese tra 500 e 750 mq. Il sottocomitato sui ricorsi di Giudea e Samaria ha respinto tale argomentazione affermando che Dagan non aveva l’autorità di fare una tale promessa. Ha inoltre respinto le affermazioni secondo cui le promesse erano state fatte dallo Stato e dalla Divisione per gli insediamenti, affermando che i querelanti non avevano presentato alcuna prova a sostegno.
Hadar-Betar
A metà agosto gli abitanti dell’avamposto di Hadar-Betar hanno ricevuto una lettera di avvertimento dal comune di Betar Ilit prima dell’attuazione di un ordine di demolizione. Hadar-Betar è un luogo difficile da definire. Sebbene faccia parte di Betar Ilit, una città di ultraortodossi in continua espansione a sud-ovest di Gerusalemme, non ha strade asfaltate, le vie non hanno nomi e non esiste un centro comunitario o culturale. Le strutture sparse a caso nell’avamposto sono principalmente case mobili, alcune delle quali sono state messe lì 40 anni fa dallo Stato. Nel corso degli anni gli abitanti sono andati e venuti; alcuni hanno trovato case mobili abbandonate e le hanno ristrutturate secondo i propri gusti, mentre altri hanno preso il posto dei precedenti abitanti, a volte persino pagandoli per ottenere questo favore.
Per Betar Ilit Hadar-Betar è stato per molti anni semplicemente il poco attraente cortile di casa, ma tutto è cambiato un decennio fa. Il comune ha smesso di fornire agli abitanti acqua ed elettricità e a un certo punto ha persino ridotto la frequenza dei servizi di smaltimento dei rifiuti. Non c’è alcun servizio di guardia operativo, nonostante uno stanziamento di 40.000 shekel [quasi 11.000 euro, ndt.] che il Ministero della Difesa invia al comune ogni mese. Ad Hadar-Betar ci sono circa 15 o 20 famiglie provenienti da diversi settori, religiosi e non, della società israeliana. Ogni famiglia è arrivata in un momento diverso e da luoghi diversi. Alcuni di loro acquistano l’acqua tramite cisterne, mentre altri prendono l’acqua dai giardini pubblici di Betar Ilit, che chiude un occhio. L’elettricità è fornita dal vicino villaggio palestinese di Wadi Fukin.
L’abitante che vive ad Hadar-Beitar da più tempo è Mordechai Melchin, padre di sei figli, che si è trasferito lì nel 1993: ”All’inizio, c’erano guardie armate, soldati riservisti”, dice Melchin. “Il sito era sotto la giurisdizione del Consiglio regionale di Gush Etzion. Tutto è cambiato negli anni ’90, quando il luogo è stato trasferito sotto la giurisdizione del comune di Betar Ilit”. Alla luce della rapida espansione della città, Betar Ilit si è avvicinata molto a Hadar-Betar e attualmente sono quasi contigue.
“Come possono affermare che siamo noi ad aver preso il controllo della terra illecitamente? [L’ex primo ministro] Yitzhak Shamir ha mandato delle persone qui. Noi eravamo qui prima di loro”, afferma Rafi Peretz, un abitante di Hadar-Beitar che, a differenza degli altri, dice di aver investito una grossa somma di denaro, tra 1 e 1,5 milioni di shekel [tra 270 a 400mila euro, ndt.] nella costruzione di una casa su un terreno per il quale altrimenti non avrebbe pagato. “A Betar Ilit alcune persone si riferiscono a noi qui come al quartiere dei bassifondi o come ai loro cani da guardia”, aggiunge Yehuda Meir, un altro abitante di Hadar-Beitar. “Dimenticano che senza di noi non ci sarebbe alcuna possibilità di costruire qui. Siamo stati noi a proteggere la terra.”
Il piano regolatore dell’area attualmente in vigore probabilmente cancellerà Hadar-Beitar dalla mappa. Il progetto fa parte di una gara d’appalto emanata nel 2020 dal Custode dei Beni Immobili in Giudea e Samaria, la controparte in Cisgiordania dell’Autorità Territoriale Israeliana, per la costruzione di 770 appartamenti e altri 4.800 mq per commercio e industria. La gara d’appalto è stata vinta dal Netanel Group, quotato in borsa, che tre anni dopo ha venduto metà del terreno a Shmuel Attias, il proprietario di una catena di supermercati ultra-ortodossa, realizzando un profitto netto di 180 milioni di shekel [48 milioni di euro circa, ndt.]. In una dichiarazione presentata alla Borsa di Tel Aviv il mese scorso il Netanel Group ha affermato di essere venuto a conoscenza della presenza di intrusi sul terreno, così ha definito gli abitanti di Hadar-Betar, e che, dopo le trattative con il Custode dei Beni Immobili, sembra che la società si assumerà la responsabilità di sfrattarli.
Gli abitanti di Hadar-Betar, inutile dirlo, vedono le cose in modo molto diverso. Sostengono che i rappresentanti del Netanel Group sanno tutto dell’avamposto e hanno persino parlato con loro. Nel frattempo si stanno preparando per una battaglia legale contro il municipio di Beitar Ilit e hanno iniziato a raccogliere prove di costruzioni illegali nella città ultra-ortodossa, il che a loro dire conferma le loro denunce di applicazione selettiva. “L’edificio in cui vivo è lì da 15 anni. Il comune di Betar Ilit sa che non è legale. Perché non l’ha demolito? Perché ha aspettato 15 anni?”, chiede Hila Barda, un’abitante dell’avamposto. “Dopotutto, sono i campioni per quanto riguarda le costruzioni illegali, in tutta la città. Ci sono interi edifici a Betar Ilit che sono costruiti illegalmente sotto altri edifici [in parcheggi sotterranei e così via]. Voglio vederli demolire tutte queste costruzioni illegali”.
Risposte:
In risposta alle domande di Shomrim sul caso della fattoria El-Hai il Consiglio regionale di Gush Etzion ha affermato che “questa è una disputa che dura da molti anni. Il capo del Consiglio sta lavorando per mediare un compromesso tra le parti. In un momento di grande divisione tra il popolo israeliano e mentre una guerra terribile è in corso nel nord e nel sud, dobbiamo ridurre al minimo le liti interne e cercare di superare le differenze”. Sulla questione di Ma’ale Rehavam, il Consiglio ha affermato: “Stiamo lavorando molto duramente per autorizzare [le] abitazioni esistenti in loco“.
Per quanto riguarda Zayit Raanan il Consiglio regionale di Mateh Binyamin ha affermato: “Il posto fa parte delle riserve di terra di Nerya e di recente è stato approvato un piano regolatore per espandere l’insediamento, respingendo le obiezioni sollevate in ogni fase.
“Per questo motivo, il costruttore sta lavorando per promuovere la costruzione permanente sul posto in conformità con la legge, dicendo agli attuali residenti che possono rimanere e vivere nel futuro quartiere. Va notato che la maggior parte di loro attualmente vive in alloggi temporanei che appartengono all’avamposto e non agli abitanti. Un certo numero di abitanti ha presentato una petizione ai tribunali per fermare l’iter e si attende che il tribunale si pronunci sulla questione.”
Il presidente di Nerya, Liel Tzur, ha affermato: “Questo non è un caso di evacuazione di un avamposto. Il quartiere di Zayit Raanan è parte integrante della comunità di Nerya e i termini del contratto fornitoci dalla Divisione per gli Insediamenti specificano che sarà nostro per molti anni. Questa è stata anche la sentenza del Registro delle ONG e dei tribunali. Questa disputa sta vanificando tutti i nostri sforzi per migliorare la vita degli abitanti di Zayit Raanan e per trovare una soluzione per ogni famiglia. Questo non è un caso di trattamento diverso degli abitanti in base alla loro identità; piuttosto, stiamo adattando le strutture al piano. Tutto sommato, è un altro quartiere nello Stato di Israele, a soli 20 minuti da Modi’in.” (Di fatto né Nerya né il quartiere Zayit Raanan fanno parte di Israele)
Sulla questione di Tapuah Ma’arav il Consiglio Regionale di Samaria ha affermato: “C’è stata una sentenza dell’Alta Corte di Giustizia che sfortunatamente ha ordinato l’evacuazione di alcune delle case nel quartiere di Tapuah Ma’arav. Allo stesso tempo, in seguito alla decisione dell’Alta Corte, le autorità statali hanno deciso di realizzare dei progetti per legalizzare alcune delle case e impedirne la demolizione. Su richiesta dei residenti della comunità, tra cui la famiglia che ha contattato il giornalista (Shuki Sadeh), così come su richiesta degli abitanti facenti parte del comitato della comunità, il consiglio ha fatto il possibile di fronte alla difficile decisione. Durante tutto il processo, il consiglio ha chiaramente sottolineato di essere solo un mediatore e che qualsiasi accordo o piano è soggetto all’approvazione degli organi competenti dell’Autorità Territoriale Israeliana, del ministero della Difesa, dell’Amministrazione Civile e di tutte le (altre) parti interessate.
“Le affermazioni secondo cui il Consiglio avrebbe fatto promesse devono essere respinte come infondate. Tali affermazioni si basano su argomentazioni incomplete, alcune delle quali sono tendenziose, travisano i fatti e sono errate. Contrariamente alle affermazioni, Yossi Dagan non supporta e non ha mai sostenuto la demolizione degli avamposti ma, piuttosto, ha promosso e agito all’interno dei quadri giuridici a disposizione del Consiglio alla luce della decisione dell’Alta Corte, che andava contro la posizione del Consiglio”.
Né il Comune di Betar Ilit né il CEO di Amana, Ze’ev Hever, hanno risposto a un elenco di domande presentate da Shomrim.
(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)