Gli ulivi che raccontano la storia dell’espropriazione palestinese

Meron Rapoport

28 aprile 2020 – +972mag

I palestinesi di Saffuriya furono espulsi con la forza nel 1948 e gli fu vietato il ritorno; abbandonarono i loro antichi ulivi di cui oggi si prendono cura gli ebrei israeliani.

La scorsa settimana, il mio collega Edo Konrad ha pubblicato un articolo in cui rivelava come, in onore del Giorno del Ricordo [dei caduti nel conflitto con arabi e palestinesi, ndtr.] di Israele, il Ministero della Difesa avesse deciso di consegnare alle famiglie israeliane in lutto bottiglie di olio d’oliva prodotte in una colonia della Cisgiordania occupata.

L’olio d’oliva è prodotto da Meshek Achiya, un’azienda situata nel cuore dei territori occupati a circa 45 chilometri a nord di Gerusalemme, fondata nel 1997 nell’avamposto di Achiya. Come ha spiegato a Konrad Dror Etkes, esperto per le attività di insediamento, Meshek Achiya era uno dei sei avamposti costituiti a ovest dell’insediamento di Shiloh al fine di conquistare terre palestinesi di proprietà privata.

Dopo la pubblicazione dell’articolo, un certo numero di famiglie in lutto ha lanciato una petizione chiedendo al Ministero della Difesa di riprendersi il suo dono.

Durante il fine settimana, Haaretz Magazine [inserto settimanale dell’omonimo quotidiano israeliano di centro-sinistra, ndtr.] ha pubblicato un articolo sugli israeliani che coltivano ulivi secolari in Galilea, nel nord di Israele. L’articolo si concentra sulla famiglia Noy-Meir, che coltiva “centinaia di alberi secolari”, molti dei quali hanno tra i 200 e gli 800 anni, su terreni adiacenti a Moshav Tzippori nella bassa Galilea. L’olio d’oliva prodotto dall’azienda di Noy-Meir, Rish Lakish, veniva molto elogiato da Ronit Vered, autore dell’articolo e critico gastronomico di Haaretz.

Ma come mai alberi così antichi sono di proprietà della famiglia Noy-Meir, che si stabilì a Tzippori solo 20 anni fa? Nell’articolo non viene fornito alcun contesto storico per spiegare l’esistenza di questi alberi, che, scrive Vered, “sono sparsi su una vasta area e si trovano su terreni difficili per la coltivazione e la raccolta”.

Non è necessario essere un esperto di alberi per trovare una risposta: Moshav Tzippori si trova sulla terra appartenente al villaggio palestinese distrutto e spopolato di Saffuriya.

Secondo Palestine Remembered, un sito web dedicato alla conservazione della memoria degli oltre 400 villaggi palestinesi distrutti durante la Nakba, nel 1948 Saffuriya era una comunità relativamente grande con oltre 5.000 residenti. Secondo il libro di Walid Khalidi Ciò che rimane, l’area intorno al villaggio “aveva molti terreni fertili e risorse idriche di superficie e sotterranee”, e le olive costituivano il “principale prodotto agricolo” del villaggio.

Saffuriya fu conquistata dalle forze israeliane il 15 luglio 1948. Secondo gli abitanti del villaggio, solo un piccolo numero di persone rimase nel villaggio dopo che fu bombardato dagli aerei israeliani, e pochissimi furono in grado di tornare e recuperare le loro proprietà.

Nel suo libro L’origine del problema dei rifugiati palestinesi, che ha svelato archivi statali israeliani precedentemente nascosti (a cui fa riferimento Khalidi), lo storico israeliano Benny Morris scrive che coloro che rimasero a Saffuriya furono espulsi nel 1948, ma che “a centinaia tornarono di nascosto indietro” nei mesi seguenti.

Le autorità israeliane, scrisse Morris, temevano che se i palestinesi di ritorno fossero stati autorizzati a rimanere, il villaggio sarebbe “presto tornato alla sua popolazione prebellica”. All’epoca, i vicini insediamenti ebraici avevano già “messo gli occhi sulle terre di Saffuriya”.

Secondo Morris, un alto funzionario israeliano nel novembre del 1948 dichiarò: “Accanto a Nazareth c’è un villaggio … le cui terre lontane sono necessarie per i nostri insediamenti. Forse gli si può dare un altro posto. ” Poco dopo, “nel gennaio del 1949 gli abitanti furono caricati su camion e nuovamente espulsi verso le comunità arabe di ‘Illut, al-Rayna e Kafr Kanna”.

In breve, le “centinaia di ulivi secolari” non sono cresciute dal nulla. I residenti palestinesi di Saffuriya li hanno piantati e coltivati per secoli. Gli alberi gli sono stati rubati con la forza. Lo Stato dà in affitto quegli alberi dopo aver rivendicato la terra del villaggio come propria. Su parte di quella terra è stata piantata una nuova foresta dal Fondo Nazionale Ebraico [ente sovranazionale dell’Organizzazione Sionista Mondiale e proprietario di circa il 15% della terra di Israele, ndtr.].

A suo merito, la famiglia Noy-Meir si è coinvolta negli aiuti ai raccoglitori di olive palestinesi in Cisgiordania e ha lavorato a fianco dei palestinesi le cui famiglie sono state sradicate da Saffuriya. Tuttavia, ignorare la storia del villaggio, come ha fatto l’articolo di Haaretz, non è meno grave che ignorare il furto della terra in Cisgiordania, su cui Meshek Achiya produce il suo olio d’oliva.

Taha Muhammad Ali, il famoso poeta palestinese, è nato ed è stato espulso da Saffuriya. La famiglia di Mohammad Barakeh, il politico che dirige l’Alto Comitato di Controllo per i Cittadini Arabi di Israele, è stata cacciata via dal villaggio. Saffuriya può anche essere sparito, ma il suo ricordo vive.

Appartengo a un movimento israelo-palestinese – Due stati, una Patria – che propone che ogni israeliano palestinese ed ebreo possa vivere ovunque desideri tra il fiume [Giordano] e il mare, sia nello Stato di Israele che nello Stato di Palestina. I rifugiati che torneranno saranno cittadini della Palestina, ma potranno vivere come residenti con pieni diritti in Israele, proprio come i cittadini israeliani potranno vivere come residenti con pieni diritti in Palestina. Una federazione istituirebbe un meccanismo per facilitare il ritorno e / o offrire un risarcimento finanziario per i beni espropriati durante il conflitto.

Non abbiamo un futuro qui se chiudiamo gli occhi su ciò che è accaduto nel 1948, immaginando che il conflitto sia iniziato solo con l’occupazione del 1967. Non è così.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Nel pieno dell’epidemia da coronavirus i soldati israeliani gettano immondizia e sputano sui veicoli palestinesi in Cisgiordania

6 aprile 2020 – Palestine Chronicle

Secondo l’agenzia di stampa palestinese WAFA, mentre i palestinesi cercano di combattere la diffusione della letale pandemia da coronavirus, oggi nella città della Cisgiordania meridionale di Beit Ummar soldati israeliani hanno scaricato rifiuti contaminati ed hanno sputato sulle portiere di veicoli e sulle porte delle case.

L’attivista locale Muhammad Awad ha detto alla WAFA che un folto gruppo di soldati israeliani ha fatto irruzione in una zona di Beit Ummar – situata vicino al blocco di colonie illegali di Gush Etzion – ed ha gettato in mezzo alle case del villaggio vetri contaminati con una sostanza sconosciuta, nonché rifiuti, siringhe e guanti usati.

I soldati israeliani hanno anche sputato sulle macchine e sulle porte delle case ed insultato gli abitanti con termini razzisti, ha detto Awad, sollevando il sospetto che i soldati vogliano intenzionalmente diffondere il coronavirus tra i civili palestinesi di quella zona.

Dopo che i soldati se ne sono andati dalla città, i volontari locali del Comitato di Emergenza di Beit Ummar hanno sterilizzato le due zone e distrutto e bruciato tutto ciò che i soldati avevano gettato.

Il 31 marzo l’Euro-Med Monitor [organizzazione indipendente per la protezione dei diritti umani, ndtr.] con sede a Ginevra ha chiesto alla comunità internazionale di proteggere i palestinesi e costringere i soldati israeliani a porre fine alle incursioni nelle città e cittadine, che mettono a rischio le misure preventive messe in atto dall’Autorità Nazionale Palestinese per controllare l’epidemia da coronavirus.

Ha chiesto inoltre di indagare sul comportamento sospetto di molti soldati e coloni israeliani, che sembra essere un tentativo di diffondere il contagio, e di far sì che quanti ne sono stati responsabili rispondano dei loro atti.

Secondo il Ministero della Sanità palestinese stamattina sono stati confermati 15 nuovi casi di coronavirus in Cisgiordania, che hanno portato il totale in Palestina a 252.

(Palestine Chronicle, WAFA, reti sociali)




La battaglia dell’acqua in Palestina ( II Parte)

Francesca Merz

25 marzo 2020 Nena News

(per la leggere la prima parte clicca qui)

Fin dal 1936 era stata proposta una «Jordan Valley Authority » posta sotto controllo internazionale. In gran parte, questa idea fu ripresa per la valle del Giordano dal Piano Johnston, dal nome di un inviato del Presidente americano Eisenhower, con l’intento di creare tra il 1954-1955 un’autorità regionale, fondata su una cooperazione fra gli Stati bagnati dal Giordano, allo scopo di attribuire e gestire al meglio le risorse d’acqua. Anche in questo caso Israele non fu d’accordo, e nel 1959, per tutta risposta, approvò una legge secondo la quale rendeva le risorse idriche «una proprietà pubblica (…) sottoposta all’autorità dello Stato». Con questa legge vede di fatto la nascita un sistema che impedisce ai Palestinesi di disporre liberamente delle loro risorse idriche.

E’ il 1967, e subito dopo le invasioni di Gaza e Cisgiordania, le prime due disposizioni introdotte, riguardano proprio l’argomento acqua: la prima è la proibizione alla costruzione di qualsiasi nuova infrastruttura idrica, di perforazione e di nuovi pozzi, senza autorizzazione; la seconda è la confisca delle risorse idriche, che vengono dichiarate proprietà dello Stato, in conformità alla legislazione israeliana sull’acqua. La quantità d’acqua a disposizione degli agricoltori della Cisgiordania è congelata proprio a quel 1967: il plafond è fissato a 90-100 milioni di metri cubi all’anno, per 400 villaggi, assai diversa la quantità d’acqua messa a disposizione delle colonie ebraiche, che è aumentata del 100% nel corso degli anni Ottanta. A questo si aggiunga la perquisizione degli antichi pozzi palestinesi in ottemperanza alla famosa «legge sulla proprietà degli assenti ». Non è questa la sede poi per approfondire la quantità di limitazioni imposte da Israele in Cisgiordania, regioni sottoposte a razionamento, distretti di drenaggio, aree di sicurezza militare, come nel caso di una striscia di terra lungo il Giordano, dichiarata «zona militare », che i Palestinesi utilizzavano a scopo di irrigazione. Nella Striscia di Gaza, prima del 1967, non esisteva alcun sistema di permessi e l’utilizzazione dell’acqua dipendeva dal diritto consuetudinario. In seguito, attraverso le ordinanze militari n° 450 e 451 del 1971, il diritto di concedere licenze di utilizzazione dell’acqua, prerogativa del Direttore del catasto giordano, veniva trasferito alle autorità israeliane. Secondo diverse fonti, dopo il 1967, sono stati concessi dai 5 ai 10 permessi. Allo stesso modo, come in ogni colonizzazione che si rispetti, anche il rifacimento e la manutenzione dei pozzi sono sottoposti ad autorizzazioni israeliane, mai accordate.

La finalità, anche questa tipica del colonialismo, come ci ricorda già il sempre illuminante Neve Gordon, nel suo testo “L’occupazione israeliana”, era quella di porre i Territori palestinesi in una situazione di dipendenza giuridica, amministrativa ed economica. A partire dal 1967, la Mekorot, l’azienda israeliana che controlla i rifornimenti d’acqua sul territorio, ha sviluppato reti di distribuzione in favore di un profitto quasi esclusivo per le colonie, mentre nei settori palestinesi serviti dalla Mekorot, lo stato di manutenzione è tale che fino al 40% dell’acqua trasportata in Cisgiordania è persa in rete. A Gaza, la situazione è ancora più drammatica, dato che la falda acquifera costiera super sfruttata viene infiltrata attualmente dall’acqua del mare. Le distruzioni delle reti idriche e delle riserve obbligano a far arrivare l’acqua tramite camion-cisterna, facendone rincarare il prezzo, che può arrivare fino a 40 NIS/metro cubo (più di 8 euro), vale a dire un prezzo quasi 10 volte più alto di quello inizialmente richiesto dalle municipalità. Se gli Israeliani beneficiano dell’acqua corrente tutto l’anno, i Palestinesi sono vittime di interruzioni arbitrarie, in particolar modo durante l’estate. Per quel che riguarda il prezzo pagato da un consumatore palestinese, l’acqua è fortemente sovvenzionata per le colonie ebraiche, mentre un Palestinese deve pagarla 4 volte più cara di un colono per accedervi. D’altra parte l’acqua e la sua riduzione fa ridurre drasticamente anche la già scarsissima possibilità che aveva l’agricoltura palestinese di poter competere in un mercato fatto di mille restrizioni alla circolazione dei beni. In aggiunta, il 75 % delle acque del Giordano sono deviate da Israele prima che queste bagnino i Territori.

A Gaza, proprio ai margini della Striscia, il governo israeliano ha costruito delle pompe che seccano in buona parte i pozzi palestinesi, la cui acqua disponibile risulta salmastra e oramai inquinata. Non esistono corsi d’acqua nella striscia di Gaza, ma un Wadi che raccoglie le acque di molti wadi della regione. Gli Israeliani hanno disposto piccoli sbarramenti su questi wadi e la sola acqua che scorre ormai nel Wadi Gaza è quella già usata e non ritrattata della città di Gaza.

Dulcis in fundo, come se ci fosse qualcosa di non amaro in tutto questo, come già detto, i Palestinesi non hanno il diritto di perforare pozzi, mentre i coloni lo possono fare e sempre più a grandi profondità (dai 300 ai 500 metri) non solo infatti viene proibito ai Palestinesi di perforare dei nuovi pozzi senza l’autorizzazione militare israeliana, ma soprattutto i loro pozzi non possono arrivare oltre i 140 metri di profondità, mentre quelli dei coloni hanno la potenzialità di arrivare oltre gli 800 metri. Un rapporto dell’ONU indica che fra la firma degli accordi di Oslo del 1993 e del 1999, sono stati distrutti 780 pozzi che fornivano acqua per uso domestico e per l’irrigazione. Nel marzo 2003, ed in seguito all’inizio della Seconda Intifada, i danni procurati nei Territori occupati potevano enumerarsi come segue : 151 pozzi, 153 sorgenti, 447 cisterne, 52 cisterne mobili (tankers), 9.128 serbatoi da abitazione, 14 bacini di riserva, 150 km di condutture e canalizzazioni che collegavano più di 78.000 abitazioni. Come ho già avuto modo di spiegare in un precedente articolo, dal titolo “i fiori del deserto”, la nascita di questa leggenda che pone Israele, come unico Stato capace di far fiorire il deserto, ha purtroppo un’origine macabra, quei fiori fondano la loro crescita su un sistema che non solo, come abbiamo brevemente analizzato, non rispetta la scarsità delle risorse, oggettiva a tutto il territorio, ma distrugge al contempo un fragilissimo ecosistema, schiacciando giornalmente i più basilari diritti umani.

Per sostenere questo sistema di fioritura Israele sta da anni affrontando una delle crisi più ampie sul rifornimento di acqua, il lago di Tiberiade, che era stata la principale fonte d’acqua potabile per Israele, si sta prosciugando. Da un paio di decenni, resisi conto che il problema stava divenendo assai importante per tutta l’economia dello Stato, le autorità israeliane hanno avviato un piano di desalinizzazione dell’acqua di mare riuscendo a ridurre la quantità di acqua che veniva estratta dal lago per irrigare le vaste coltivazioni del deserto. Tiberiade rimane però in condizioni sempre sotto soglia. Il governo israeliano era arrivato a prendere 400 milioni di metri cubi all’anno di acqua, per poter gestire la sempre maggiore richiesta idrica per coltivazioni, allevamenti e colonie con esigenze ben lontane da quel calibrato uso delle risorse che era stato attuato per secoli dalle comunità storiche. È il motivo per cui Israele aveva deciso di investire circa 250 milioni di euro per pompare nel lago acqua presa dal Mediterraneo, che dista circa 50 chilometri, e in seguito desalinizzarla. È risultata però un’impresa complicata, perché mai nella storia un lago di acqua dolce è stato ri-riempito in questo modo, una volta installate tutte le pompe, ci si aspettava di stabilizzare il livello del lago entro il 2020, obiettivo che appare quanto mai lontano. I lavori fanno parte di un ancora più grande piano del Ministro dell’Energia Yuval Steinitz, che vuole raddoppiare la quantità d’acqua che Israele desalinizza ogni anno, e che al momento è pari a circa 600 milioni di metri cubi.

Il problema dell’acqua, abbiamo visto, è stato vivo sin dall’inizio dell’occupazione: la crescente quantità di popolazione, e le necessità di una popolazione con abitudini occidentali, hanno comportato fin dall’inizio la necessità di controllare le risorse idriche del territorio. Il 90 per cento dell’acqua del Giordano viene portata al Negev per il progetto sul deserto, non solo bypassando tutte le necessità dei palestinesi sulla strada, ma sballando completamente tutti gli equilibri naturali. Assolutamente esemplare è l’esempio della valle di Gerico, in cui sono sorte 33 colonie, per la maggior parte specializzate in monocolture molto richieste dal mercato interno e internazionale, come il caffè e il the, piantagioni tipicamente inadatte al luogo, e che tendono ad inaridire terreni, che avrebbero necessità di colture a rotazione. Parallelamente, proseguendo nella valle, le intense monocolture sono invece di ananas, banane, palma da dattero, manghi, avocados. Coltivazioni non endemiche, disadatte alla ciclicità e al naturale rinnovamento del terreno; in tutta la valle di Gerico e non solo, sono completamente scomparsi gli alberi più caratteristici del territorio, ovvero gli alberi di arance, il commercio delle arance, come tristemente ci racconta anche l’esperienza economica siciliana, era troppo poco redditizio rispetto a datteri, manghi o avocados, cibi che oramai con la nuova cultura alimentare sono molto più richiesti e vengono pagati maggiormente.

La gestione di questo modello economico, e i progetti di immensa portata, che prevedono la costruzione di pompe idrauliche e la desalinizzazione progressiva delle acque pompate dal mare, sono salutati dalla comunità internazionale con l’afflato salvifico che fa come sempre di Israele il salvatore di un territorio arido, senza invece capire minimamente che questa immensa opera è pensata per arginare i danni irreversibili di uno sviluppo economico insostenibile sul piano ambientale, prosciugando il lago di Tiberiade, il Giordano e conseguentemente il Mar Morto, a causa di una politica dello spreco senza precedenti. Il medesimo discorso fatto per Tiberiade vale ovviamente per il Mar Morto, il calo dei livelli di acqua non è il solo risultato dei cambiamenti climatici, ma è dovuto all’aumentato uso delle acque degli immissari che dovrebbero rifornire il lago per l’irrigazione, e allo sfruttamento per l’estrazione di minerali. Il bacino è alimentato principalmente dal fiume Giordano, che si immette nel lago a nord, ma il Giordano non ha emissari, dunque modificando il suo corso prelevando una ingente parte delle sue acque per l’agricoltura e le colonie, il contraccolpo non solo sul fiume stesso ma anche sul mar Morto è risultato insostenibile: il ritiro dell’acqua ha lasciato intere sezioni del lago completamente secche, e questa rapida diminuzione del livello del Mar Morto ha una serie di conseguenze dannose, che vanno dai più elevati costi di pompaggio per le fabbriche che utilizzano il Mar Morto per estrarre il cloruro di potassio, magnesio e sale, ad un accelerato deflusso delle acque dolci sotterrane e circostanti dalle falde acquifere, inoltre, sempre per portare i famosi “fiori nel deserto”, il Giordano da circa cinquanta anni viene sfruttato per irrigazione su larga scala sottraendo gran parte dell’acqua che da sempre alimenta il lago.

Buona giornata dell’acqua, a chi può considerarla un bene non in discussione, ma soprattutto, a chi non ha questa fortuna.




Perfino in una pandemia Israele non tratta i suoi sottoposti come uguali

Hagai el Ad, direttore B’Tselem

30 marzo 2020 +972 Magazine

2 aprile 2020 Cultura è Libertà

Un paese guidato da un primo ministro etnocentrico e razzista alle prese con una minaccia universale che colpisce tutte le persone sotto il suo controllo.

In un discorso alla nazione di metà marzo, il Primo Ministro di Israele Benjamin Netanyahu ha cercato goffamente di rivolgersi a tutte le persone che vivono sotto l’effettivo controllo del Governo – compito difficile dato che l’idea stessa va contro le sue convinzioni fondamentali.

In difficoltà nel trovare le parole giuste per rivolgersi al suo pubblico, Netanyahu se ne è uscito così: “Possiamo farlo insieme. Tutti i cittadini, tutti i residenti, chiunque mi stia ascoltando ora, seguano queste linee guida e raggiungeremo il nostro obiettivo. “

Se tutte le persone che vivono nel territorio sotto il controllo di Israele fossero considerate uguali, Netanyahu non avrebbe dovuto dividerle in tre categorie per parlare direttamente con loro. Eppure è esattamente così che funziona il regime israeliano; non è né umanistico né universalistico e si basa sulla attribuzione di diritti e libertà diversi a persone diverse in base alla loro classificazione.

Traduciamo. L’enfasi di Netanyahu su “tutti i cittadini” era, a quanto pare, un raro tentativo di riconoscere non solo i cittadini ebrei, ma anche quelli palestinesi di Israele. Riferendosi a “tutti i residenti“, il primo ministro ha incluso oltre 300.000 non cittadini palestinesi che vivono nell’annessa Gerusalemme est. Il suo vago appello a “chiunque mi stia ascoltando ora” ha lasciato intendere che i soggetti palestinesi nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza potrebbero essere entrati a forza nella coscienza del primo ministro.

Sono tutti tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo: cittadini, residenti e soggetti. Tutto sommato, 14 milioni di persone che non condividono gli stessi diritti.

Normalmente Netanyahu non conta né i residenti né i soggetti. Omette allegramente circa cinque milioni di persone – tutte palestinesi – il cui ruolo nel sistema è obbedire ai diktat israeliani. Di solito cerca anche di trascurare i cittadini palestinesi di Israele, che costituiscono oltre un quinto della cittadinanza del paese e che ha definito “sostenitori del terrorismo”. Ciò significa che il primo ministro conta abitualmente solo la metà delle persone che vivono sotto le regole del suo governo, tutti cittadini ebrei.

Eppure questi sono tempi insoliti. Il rischio per la salute costituito dal coronavirus non obbedisce ai decreti israeliani. In effetti, mina gli stessi pilastri del regime israeliano, perché non distingue tra diverse classi di persone. Un primo ministro con una visione del mondo particolaristica, etnocentrica e razzista si trova di fronte a una minaccia universale.

Netanyahu sicuramente comprende il pericolo che questo virus rappresenta. Si rende conto che dopo aver spostato centinaia di migliaia di cittadini ebrei in circa 250 insediamenti in Cisgiordania – dove vivono in mezzo a 3 milioni di soggetti palestinesi – questa lotta non può essere vinta senza un approccio universalistico. Se sceglie di non prendere in considerazione tutti i milioni di persone che condividono questa terra, il virus si diffonderà e sconfiggerà tutti.

Netanyahu deve anche sicuramente sapere che nella Striscia di Gaza bloccata, ci sono condizioni mature per un’orribile diffusione della pandemia. Israele ha dimostrato il suo potere di tagliare Gaza dal resto del mondo attraverso i suoi 13 anni di assedio. Ciò potrebbe aver allontanato Gaza dal mondo in difficoltà; ma all’interno di una delle strisce di terra più densamente popolate della terra, quanto realistico è il distanziamento sociale come mezzo per combattere una pandemia?

Nel nord Italia, un sistema sanitario occidentale è crollato e il bilancio delle vittime ha raggiunto il 10 percento di tutte le persone infette. A Gaza, il sistema sanitario era crollato molto prima del primo paziente COVID-19 a seguito della politica israeliana. Se metà della popolazione rinchiusa a Gaza fosse contagiata, un tasso di mortalità del 10% significherebbe la morte di 100.000 persone.

Ovviamente, la retorica razzista e la visione del mondo del primo ministro si estendono oltre i suoi discorsi. Anche adesso, Netanyahu continua a incitare contro i cittadini palestinesi di Israele e minare la legittimità della loro rappresentanza politica. Circa 140.000 residenti palestinesi che vivono in quartieri oltre la barriera di separazione a Gerusalemme si svegliano ogni giorno con la paura di essere tagliati fuori dalla loro città e dal sistema sanitario che dovrebbe prendersi cura di loro e delle loro famiglie.

Nel frattempo, i soldati israeliani continuano a opprimere i palestinesi in Cisgiordania, alcuni ora indossando equipaggiamento medico protettivo. Al checkpoint di Maccabim, gli agenti di polizia hanno lasciato un lavoratore palestinese che mostrava sospetti sintomi del coronavirus sul ciglio della strada. La violenza dei coloni aumenta, senza sosta.

Questo è ciò che Netanyahu avrebbe dovuto dire a chiunque stesse ascoltando il suo discorso: che “un virus che non distingue tra nessuno, felice o triste, ebreo o non ebreo” (come ha detto) è per definizione un pericolo universale. Che questo tipo di minaccia va fronteggiata da una politica universalista che “non distingue tra nessuno”. Che sradicherà la divisione tra cittadini, residenti e soggetti. Che tutti sono esseri umani che hanno bisogno di essere protetti. Che difendere tutti noi è sua responsabilità.
Netanyahu, ovviamente, non dirà nulla del genere. Non può dirlo perché è un razzista. Il razzismo corrompe sempre l’anima, ma molte volte il prezzo può essere pagato anche con vite umane. Questo è uno di quei momenti.

Hagai El-Ad è il direttore esecutivo di B’Tselem: il Centro informazioni israeliano per i diritti umani nei territori occupati.

traduzione Alessandra Mecozzi




«I palestinesi non hanno mai perso l’occasione di perdere un’occasione»?

Alain Gresh

16 marzo 2020 ORIENT XXI

La citazione è vecchia, ma è stata modificata per favorire una propaganda che addossa ai palestinesi la colpa del fallimento della pace durante questi ultimi decenni. Si era appena dopo la guerra dell’ottobre 1973 e per la prima volta si tenne una conferenza a Ginevra che coinvolse Israele, la Giordania e l’Egitto. Il Cairo, che aveva proposto di invitare l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), che stava per essere ammessa alle Nazioni Unite come osservatore, si vide opporre un veto israeliano.

Fu in seguito al fallimento di questa conferenza che Abba Eban, allora rappresentante di Israele alle Nazioni Unite, pronunciò questa frase destinata ad essere infinite volte ripetuta e rivolta contro i palestinesi: “Gli arabi non perdono mai l’occasione di perdere un’occasione”, accusa ripresa in occasione del rifiuto dei palestinesi del piano di Trump, che avalla l’annessione da parte di Israele di un terzo della Cisgiordania e di Gerusalemme e la creazione di uno “Stato” palestinese senza alcuna sovranità.

Questa narrazione corrisponde alla realtà? Nel 1982 la Lega Araba riunì i suoi vertici a Fèz: per la prima volta il mondo arabo adottò collettivamente un progetto di pace globale che avrebbe visto riconosciuto il diritto di “tutti gli Stati della regione a vivere in pace”, in cambio della creazione di uno Stato palestinese. Iniziativa storica accettata dall’OLP, respinta da Israele al momento stesso in cui l’insieme del mondo arabo si dichiarava pronto a riconoscerlo.

In seguito alla guerra condotta contro l’Iraq (dopo l’invasione del Kuwait da parte di questo Paese), il 30 ottobre 1991 il presidente George H. Bush presentò un piano di pace e convocò, insieme all’agonizzante URSS, una conferenza a Madrid. Il Primo Ministro israeliano non volle parteciparvi: per una volta Washington torse il braccio a Israele e lo costrinse, sotto minaccia di sanzioni economiche, ad andarci. Ma il veto israeliano contro la presenza dell’OLP fu mantenuto.

Negoziare finalmente con l’OLP

Alla fine Israele negoziò segretamente con l’OLP e nel settembre 1993 firmò insieme ad essa gli Accordi di Oslo. Il loro carattere iniquo saltava agli occhi: l’OLP riconosceva ufficialmente Israele, il quale in cambio si limitava a riconoscere….l’OLP. Tuttavia i palestinesi fecero la scommessa della pace. Speravano che l’autonomia che veniva loro concessa avrebbe portato alla creazione di uno Stato.

Ma l’applicazione degli accordi si procrastinava, mentre la costruzione delle colonie accelerava. Nel settembre 1995, intervenendo al parlamento israeliano, il Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin precisò le rivendicazioni del suo Paese:

  • annessione di Gerusalemme e di molte colonie, cioè circa il 15% del territorio della Cisgiordania;
  • creazione del confine di sicurezza di Israele sul fiume Giordano

Un’altra volta, Israele perdeva un’occasione di pace!

Come noto, l’impasse degli accordi di Oslo portò alla seconda Intifada nel contesto di una rinnovata violenza. Per uscirne, il 27 e 28 marzo 2002 si tenne a Beirut un vertice della Lega Araba. Esso propose, con l’avallo dell’OLP, di considerare che il conflitto con Israele fosse terminato e di stabilire delle “normali relazioni con Israele” a tre condizioni:

  • il ritiro totale di Israele dai territori occupati nel 1967;
  • la creazione di uno Stato palestinese con Gerusalemme est come capitale;
  • una soluzione giusta” del problema dei rifugiati.

Nuovo rifiuto israeliano.

La situazione nei territori [palestinesi] occupati si deteriorò, con una repressione israeliana senza precedenti e sanguinosi attentati palestinesi. Fu in questo contesto che il 30 aprile 2003 il Quartetto – composto da Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Nazioni Unite – adottò una “road map”. Non era un nuovo piano di pace, bensì un quadro che fissava dei parametri e un calendario per favorire i negoziati e la loro applicazione. L’OLP accettò, Israele anche, ma con così tante condizioni da svuotare la proposta di ogni senso.

Dal mese seguente il Primo Ministro Ariel Sharon pretese come requisito per i negoziati la rinuncia da parte dei palestinesi al loro “diritto al ritorno”. Il 2 febbraio 2004 annunciò la sua decisione di smantellare le colonie a Gaza e ritirarsi da quel territorio. Progresso della pace? Egli rifiutò di discutere del ritiro con l’Autorità Nazionale Palestinese – che viveva sotto blocco militare a Ramallah. I suoi consiglieri spiegarono che l’obbiettivo era di allentare la pressione internazionale per colonizzare meglio la Cisgiordania.

Chi è, alla fine, che non ha perso occasione di perdere un’occasione?

Alain Gresh

Esperto di Medio Oriente, è autore di diversi libri, tra cui ‘De quoi la Palestine est-elle le nom?” (Che cosa è ciò che si chiama Palestina?)

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Coronavirus: ai lavoratori palestinesi viene ordinato di lasciare Israele a causa del cattivo trattamento

 

Akram Al-Waara – Betlemme, Cisgiordania occupata

giovedì 26 marzo 2020 – Middle East Eye 

L’Autorità Nazionale Palestinese chiede a tutti i suoi cittadini di rientrare a casa in quanto Israele è accusato di “mettere a rischio la loro salute”

I lavoratori palestinesi lasciano Israele dopo l’indignazione suscitata da diversi casi di operai malati cacciati dai loro datori di lavoro israeliani.

Effettivamente negli ultimi giorni parecchi operai palestinesi che lavoravano in Israele sono stati scaricati ai checkpoint tra Israele e il nord della Cisgiordania dopo aver presentato sintomi di COVID-19.

All’inizio di questa settimana le immagini video di un lavoratore malato e indebolito, steso a terra per ore davanti a un checkpoint della regione di Ramallah dopo esservi stato abbandonato dalle autorità israeliane, sono diventate virali, mettendo in discussione il trattamento riservato da Israele ai lavoratori palestinesi.

Oggi l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ordina a tutti i suoi cittadini che lavorano in Israele di tornare in Cisgiordania e di entrare in quarantena obbligatoria di 14 giorni, a pena di sanzioni non precisate da parte del governo.

Tenuto conto degli sviluppi gravi e continuati in Israele e delle restrizioni previste in materia di spostamenti, chiediamo a tutti i lavoratori palestinesi di rientrare a casa allo scopo di proteggerli e preservare la loro sicurezza”, ha dichiarato martedì il Primo Ministro dell’ANP Mohammad Shtayyeh in un comunicato.

Giovedì scorso Shtayyeh aveva annunciato che i palestinesi erano ormai sottoposti anche al divieto di lavorare nelle colonie israeliane illegali nel territorio occupato.

Questa decisione è intervenuta solo qualche giorno dopo che migliaia di lavoratori si erano precipitati in Israele in seguito alla promessa che si sarebbe dato loro un adeguato alloggio da parte dei loro datori di lavoro israeliani e sarebbero stati autorizzati a rimanere anche di notte in Israele, in modo da evitare la propagazione del virus in Cisgiordania – un’opportunità per innumerevoli lavoratori di provvedere alle necessità della propria famiglia in un contesto di incremento della disoccupazione durante la pandemia.

Sistema inquietante

Negli ultimi giorni sono stati registrati almeno quattro incidenti che hanno coinvolto operai palestinesi abbandonati ai posti di controllo dalle forze israeliane.

Lunedì Ibrahim Abu Safiya, del villaggio di Beit Sira, nella regione di Ramallah, ha raccontato a Middle East Eye di aver visto un operaio palestinese, in seguito identificato come Malek Jayousi, steso a terra davanti al locale checkpoint con febbre alta e difficoltà respiratorie.

Abu Safiya ha detto che la sera prima anche un altro operaio, del campo profughi di Jalazone nel governatorato di Ramallah, si era presentato al posto di controllo di Beit Sira con febbre alta, dopo che il suo datore di lavoro gli aveva tolto il lavoro in Israele.

L’uomo, che si sarebbe visto rifiutare le cure mediche in Israele, è arrivato da solo al checkpoint in taxi, prima di essere trasferito a Ramallah in ambulanza.

Martedì sera i media palestinesi hanno riferito che tre operai erano stati abbandonati dalle autorità israeliane ad un posto di controllo vicino a Tulkarem ed un altro davanti al posto di controllo di Jbara, vicino a Hizma, nella Cisgiordania centrale.

Le informazioni precisano che parecchi degli operai erano sintomatici, con febbre alta, a volte più di 40 gradi. Tutti i lavoratori sarebbero stati sottoposti a test per coronavirus da parte di medici locali e posti in isolamento.

Il portavoce dell’ANP, Ibrahim Melhem, ha condannato il trattamento israeliano “razzista e disumano” dei lavoratori palestinesi.

Se dovete lavorare per guadagnarvi da vivere, allora che sia con dignità e non in questo modo degradante”, ha affermato in un comunicato rivolto alle migliaia di operai palestinesi che lavorano in Israele.

Ribal Kurdi, un attivista di Betlemme di 29 anni, ha dichiarato a MEE di essere rimasto sconvolto e indignato vedendo come i lavoratori che presentavano sintomi della malattia venivano trattati dalle autorità e dai datori di lavoro israeliani.

Israele voleva che i lavoratori venissero nel Paese a lavorare”, ricorda Kurdi. “Ma (gli israeliani) non vogliono più farsene carico quando i lavoratori si ammalano”.

L’occupazione israeliana dovrebbe essere responsabile della vita dei lavoratori palestinesi”, sostiene.

I datori di lavoro non ci hanno dato niente” 

Secondo le associazioni di difesa dei diritti umani, la decisione presa la scorsa settimana di autorizzare i lavoratori a rimanere in Israele anche di notte – contrariamente alla usuale politica di Israele in materia di permessi di lavoro – per un periodo prolungato, allo scopo di evitare una nuova diffusione del COVID-19, era viziata fin dall’inizio.

Kav LaOved, un’associazione israeliana di difesa dei diritti dei lavoratori, ha dichiarato in un comunicato pubblicato su Facebook il 18 marzo che “purtroppo la maggioranza degli interlocutori israeliani non ha rispettato gli impegni presi riguardo all’offerta di una sistemazione adeguata e sicura ai lavoratori”.

Insieme a fotografie di centinaia di operai bloccati a un checkpoint non identificato, l’associazione ha anche affermato che non era stata presa alcuna misura per “assicurare una protezione sanitaria nel caso in cui un lavoratore fosse esposto” al coronavirus.

Secondo Kav LaOved circa 60.000 palestinesi lavorano in Israele, soprattutto nell’edilizia e in agricoltura. Si stima che altri 30.000 lavorino nelle colonie israeliane in Cisgiordania.

Kav LaOved, l’Associazione per i Diritti Civili in Israele (ACRI) e Medici per i Diritti Umani hanno preteso che il governo israeliano – in particolare il Ministro della Difesa Naftali Bennett, che aveva approvato l’ingresso dei lavoratori – tuteli i diritti dei lavoratori palestinesi durante la pandemia.

Abbiamo contattato i Ministeri del Lavoro, della Sicurezza e della Sanità per esigere che il governo verifichi il lavoro di questi lavoratori ed il loro soggiorno qui, e protegga i loro diritti. Abbiamo chiesto specificamente alloggi accettabili e assistenza sanitaria”, ha dichiarato un portavoce dell’ACRI a MEE.

Ma finora gli sforzi di queste ONG sono stati vani.

A., un lavoratore che ha trascorso parecchie notti in Israele, ha confidato a MEE in forma anonima che lui ed i suoi colleghi sono stati costretti a dormire su dei cartoni nel cantiere edile dove lavoravano e non hanno ricevuto nessuna protezione igienica come guanti, mascherine o disinfettante per le mani.

È molto diverso da quello che ci avevano detto”, lamenta. “I nostri datori di lavoro non ci hanno dato niente e se ti ammali ti mandano via senza la minima cura”.

Mercoledì il numero dei casi di coronavirus accertati in Palestina è arrivato a 62 – contro gli oltre 2.100 casi confermati in Israele.

Wafa, l’agenzia di stampa ufficiale dell’ANP, ha riferito che uno dei nuovi casi confermati, una donna sulla sessantina del villaggio di Biddu, vicino a Ramallah, “potrebbe aver contratto la malattia dai suoi figli che lavorano in Israele”.

Ribal Kurdi ha insistito sul fatto che non è stata colpa degli operai che andavano a lavorare in Israele. “Hanno dovuto scegliere tra mantenere la propria famiglia o ammalarsi. È una situazione spaventosa”, ha dichiarato l’attivista. In fin dei conti, secondo lui, “è l’occupazione israeliana ad essere responsabile di mettere a rischio la salute di tutta la Cisgiordania”.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




UE e Israele il caso della complicità

 

I fondi per la ricerca UE sono stati una importantissima fonte di finanziamento per accademici, aziende, e Istituzioni statali, e tra loro una quantità di aziende del militare e di quelle coinvolte negli illegali insediamenti di Israele. Sebbene Israele non sia un paese UE, dal 1995 richiedenti israeliani hanno potuto avere accesso a fondi UE per la ricerca sulle stesse basi degli Stati membri attraverso l’accordo di associazione UE-Israele. Per molti anni la società civile europea e palestinese insieme ad organizzazioni per i diritti umani hanno sollevato la preoccupazione sul fatto che i soldi dei contribuenti UE andassero ad aziende e istituzioni israeliane accusate di crimini di guerra1 e coinvolte in violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani. L’Unione Europea per anni ha espresso “profonda preoccupazione” e “condanne” relativamente alle “esecuzioni mirate” e alle colonie illegali – e dunque dovrebbero essere finanziate aziende che appoggiano queste attività illegali?

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L’isolamento della Cisgiordania non è iniziato con la pandemia del coronavirus

Lior Amihai 

11 marzo 2020 – +972 magazine

I principi che hanno guidato i governi israeliani durante 52 anni di occupazione sembrano caratterizzare la risposta al coronavirus nei territori occupati.

Lo scorso giovedì, con in pieno svolgimento sia il coronavirus che la crisi politica israeliana, il ministro della Difesa ad interim Naftali Bennett ha annunciato una chiusura militare totale di Betlemme, dopo che è stato confermato che un certo numero di abitanti della città ha contratto il COVID-19. Tre giorni dopo il ministero della Sanità ha annunciato che a chiunque sia stato a Betlemme, Beit Jala e Beit Sahour viene richiesto di mettersi in quarantena volontaria per due settimane.

Gli abitanti di quelle comunità non possono più entrare in Israele, benché molti di loro vi lavorino. Tra quanti ora si trovano in quarantena dopo essere stati nella zona di Betlemme ci sono alcuni dei miei colleghi dell’organizzazione per i diritti umani Yesh Din [“C’è la legge”, ong israeliana che intende difendere i diritti dei palestinesi nei territori occupati, ndtr.].

Domenica Bennett ha annunciato che, come parte della lotta contro il coronavirus, stava prendendo in considerazione la totale chiusura militare di tutte le città palestinesi in Cisgiordania. Tuttavia lunedì, in seguito a un incontro con vari ministri, generali ed altri rappresentanti del governo, Bennett ha fatto retromarcia rispetto alla sua dichiarazione ed ha deciso di non bloccare i territori dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Ordini simili di blocco e quarantena non sono stati imposti ai quartieri ebraici della zona di Betlemme come Gilo, che si trova nei pressi di Beit Jala, o Har Homa, vicino a Betlemme. Oltretutto gli abitanti di Ashkelon, Gerusalemme, Ariel e Petah Tikvah, tutte città con casi confermati di COVID-19, non sono stati sottoposti ad estesa chiusura militare né a quarantena (salvo che per quanti sono attualmente malati).

Nella colonia di Einav, nella Cisgiordania settentrionale, quattro persone sono risultate positive al coronavirus e altri 100 abitanti sono in quarantena. Si tratta di circa il 12% dei coloni, eppure, nel momento in cui scrivo, l’insediamento non è ancora stato chiuso.

Ciò che difficile da fare per gli israeliani sembra essere facile per milioni di palestinesi che vivono sotto il flagello dell’occupazione israeliana.

Nel contempo a quanto pare il ministero della Salute non ha tenuto conto del fatto che la Tomba di Rachele, un luogo di pellegrinaggio ebraico molto frequentato, si trova al centro di Betlemme. I visitatori del luogo per ora non sono sottoposti all’obbligo di auto-quarantena di due settimane per chiunque sia stato nella zona di Betlemme. La tomba, che, nonostante la sua posizione, è sul lato israeliano del muro di separazione, è protetta da un’entrata molto sorvegliata ed è vietata ai palestinesi. Lunedì notte in quel luogo si è tenuta una preghiera di massa per bloccare il coronavirus.

E martedì a coloni israeliani nella Hebron occupata è stato consentito di realizzare i loro festeggiamenti annuali di Purim in coordinamento con l’esercito israeliano. La decisione di consentire che questo evento avvenisse nel centro di Hebron è un’ulteriore dimostrazione dell’enorme differenza dei rapporti del governo israeliano con le due popolazioni che vivono nello stesso territorio.

I passi che il governo israeliano ha intrapreso per prevenire la diffusione del coronavirus non sono esagerati. Al contrario sembra che le misure prese finora siano riuscite ad impedire un’esplosione di casi nelle ultime settimane.

Ma bisognerebbe ricordare che lo Stato di Israele, l’esercito che controlla i territori [palestinesi] occupati e noi come società abbiamo la responsabilità, imposta dalle leggi internazionali e dagli obblighi etici, di proteggere l’incolumità, la sicurezza e la salute di tutte le persone sotto il controllo israeliano – comprese quelle che vivono sotto occupazione israeliana.

L’emergenza totale provocata dal coronavirus ha proposto un test allo Stato di Israele. I palestinesi non dovrebbero essere percepiti come una popolazione che può essere isolata dagli israeliani con chiusure, assedi, leggi differenziate e strade per evitarli. I rischi per la loro salute e qualità di vita ricadono principalmente su di noi, in quanto potere che ne è responsabile.

Le decisioni di imporre una chiusura militare totale sui territori [palestinesi] occupati (escludendo le colonie), o su alcune zone dei territori, non possono essere prese quando le principali considerazioni riguardino le implicazioni per la popolazione e l’economia israeliane, per esempio la mancanza di lavoratori edili e di risorse umane. Al contrario, queste decisioni devono prima rispondere “sì” alla domanda: verrebbero prese le stesse decisioni se la popolazione coinvolta fosse ebraica?

Inoltre i palestinesi che vivono in Cisgiordania sono già sottoposti durante tutto l’anno a una chiusura militare e alla grande maggioranza di loro è vietato entrare in Israele. Di solito ci sono alcune “eccezioni”, palestinesi che hanno permessi temporanei che consentono loro di entrare in Israele per lavorare. Tuttavia negli ultimi giorni anche a quelli con permessi di ingresso è stato vietato di entrare in Israele, a causa della festa di Purim – che, come per ogni importante festa ebraica, ha portato Israele a chiudere totalmente la Cisgiordania. E quei coloni israeliani che hanno celebrato Purim a Hebron hanno usufruito delle stesse strade che sono state chiuse ai palestinesi per un quarto di secolo.

Sembra che gli stessi principi che hanno guidato i governi israeliani per 52 anni di occupazione – con il suo allontanamento, occultamento e disumanizzazione dei palestinesi – continuino a guidare il governo di Benjamin Netanyahu durante una pandemia che cambia le carte in tavola. Eppure, in contrasto con queste linee guida, è diventato ancora più chiaro che lo spazio in cui viviamo sia una ragnatela umana che non può essere separata artificialmente. Questa pandemia può essere la nostra opportunità per dimostrare che non abbiamo dimenticato come si comportano gli esseri umani.

E forse, all’ombra del coronavirus, gli abitanti di Betlemme e di altre città sottoposte a chiusura militare saranno liberati da incursioni notturne, improvvisi posti di blocco, arresti arbitrari, spedizioni militari e scontri quotidiani con il potere occupante.

Lior Amihai è direttore esecutivo di Yesh Din.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Per la prima volta nella storia di Israele, tra la popolazione ebraica si profila un vero campo della pace

Jonathan Cook

giovedì 5 marzo 2020  Middle East Eye

Nonostante il fatto che Benjamin Netanyahu e l’estrema destra siano i grandi vincitori del voto di lunedì, un numero senza precedenti di ebrei israeliani sembra aver sostenuto la “Lista Unita”

Gli ci sono forse voluti un anno e tre elezioni per riuscirci, ma martedì Benjamin Netanyahu ha iniziato ad assomigliare al grande Houdini – il re dell’evasione – della politica israeliana.

La coalizione di Netanyahu, composta da partiti di coloni ed estremisti religiosi, ha ottenuto 58 seggi sui 120 del parlamento, e quindi gli mancano 3 seggi per avere la maggioranza assoluta.

Ma, cosa ancor più importante, il suo Likud ha ottenuto tre seggi in più del suo principale rivale, Benny Gantz, ex-generale dell’esercito che guida il partito laico di destra “Blu e Bianco”.

Netanyahu ha vinto, anche se il procuratore generale recentemente lo ha incriminato per una serie di accuse di corruzione. Il suo processo deve iniziare tra due settimane.

I palestinesi vanno a votare

Eclissato dalla trama principale, che si è giocata tra Netanyahu e Gantz, l’altro argomento importante di queste elezioni è l’ondata di sostegno alla “Lista Unita”, la fazione che rappresenta la grande minoranza palestinese d’Israele.

Ha ottenuto quindici seggi – due deputati in più che in settembre – cioè la sua rappresentanza più numerosa alla Knesset. La “Lista Unita” è ora di gran lunga il terzo più grande partito del Paese.

Benché sia troppo presto per sapere con certezza perché il tasso di partecipazione a favore della Lista sia aumentato, ci sono tre probabili spiegazioni.

Una di queste è che i cittadini palestinesi, ossia un quinto della popolazione israeliana, sembrano avere per la prima volta l’impressione che il loro voto sia importante, o almeno che dovrebbe esserlo.

Lo scorso aprile, alle prime elezioni dell’attuale serie [di votazioni], meno della metà degli elettori di questa minoranza era andata alle urne, facendo ottenere alla Lista 10 seggi. È probabile che questa volta abbiano votato circa i due terzi.

Ciò è in parte legato al piano Trump, che favorisce quello che viene chiamato uno “scambio di terre”, un obiettivo della destra guidata da Netanyahu. Questo scambio permetterebbe a Israele di annettere delle colonie e in cambio circa 250.000 palestinesi sarebbero privati della cittadinanza israeliana e assegnati allo “Stato (palestinese) in attesa” ridotto a brandelli.

Questa minaccia – la pulizia etnica attraverso un gioco di prestigio – ha molto probabilmente fatto infuriare molti cittadini palestinesi d’Israele che in precedenza avevano boicottato le elezioni o che erano troppo disillusi per andare a votare. Volevano dimostrare che il fatto che siano cittadini non può essere ignorato, né da Trump né da Netanyahu.

Un nuovo potere

Ma la rimonta della “Lista Unita” è precedente al piano Trump. In settembre il tasso di partecipazione della minoranza era salito a circa il 60%.

Fino a poco tempo fa – e sicuramente dopo lo scoppio della seconda Intifada, vent’anni fa -, la sensazione era che la politica israeliana fosse una faccenda esclusivamente ebraica. La maggioranza sionista era d’accordo sulle questioni politiche fondamentali, e i cittadini palestinesi non credevano di poter cambiare le cose. La loro voce non aveva la minima importanza.

Ma le ultime tre elezioni suggeriscono un lieve cambiamento. È vero che questa minoranza continua a non essere ascoltata. Di fatto gli oppositori di Netanyahu, che si tratti di “Blu e Bianco” di Gantz o della nuova coalizione guidata dai laburisti, hanno attivamente preso le distanze dalla “Lista Unita”, dato che Netanyahu ha ribattuto loro che sarebbe immorale contare sui deputati “arabi” per governare.

Quello che hanno invece dimostrato le tre elezioni è che, con il suo voto, la minoranza potrebbe bloccare il cammino di Netanyahu verso il potere e vendicarsi così del suo costante incitamento all’odio contro di loro e i loro rappresentanti in quanto traditori e nemici dello Stato ebraico.

Infatti, se il tasso di partecipazione dei cittadini palestinesi fosse stato sensibilmente minore, Netanyahu avrebbe probabilmente ottenuto i 61 seggi di cui ha bisogno.

È precisamente il suo timore del voto dei palestinesi che ha portato Netanyahu a moderare le sue provocazioni contro la minoranza durante le ultime tappe della campagna elettorale. Precedenti considerazioni, del tipo che “gli arabi ci vogliono annientare tutti, uomini, donne e bambini,” durante le ultime elezioni di settembre gli si sono rivoltate contro, facendo salire la partecipazione della minoranza.

Tuttavia questa nuova sensazione di potere potrebbe non durare. Deriva dal fatto che Netanyahu ha profondamente diviso l’elettorato ebraico. Senza di lui potrebbe ristabilirsi rapidamente un consenso sionista, che tratta i palestinesi come semplici pedine da spostare a piacere sullo scacchiere ebraico.

Scomparsa del campo della pace

L’altra spiegazione probabile, e ottimistica, di questa ondata è che un numero senza precedenti di ebrei israeliani sembrano aver sostenuto la “Lista Unita”.

La Lista comprende quattro partiti politici, di cui uno solo – il socialista “Hadash” – si presenta come un partito di arabi ed ebrei. L’unico posto che riservava di solito a un parlamentare ebreo in una posizione nella sua lista che ne permettesse l’elezione rifletteva il fatto che pochissimi ebrei israeliani sostenevano il partito.

La riduzione del sostegno degli ebrei non ha fatto che aumentare quando “Hadash” è stato obbligato da una nuova legge che ha imposto una soglia di sbarramento ad entrare nell’accordo della “Lista Unita” in tempo per le elezioni del 2015. Ha dovuto stare insieme a un partito islamista e a un partito liberale che rifiuta esplicitamente Israele in quanto Stato ebraico.

E allora, perché questo palese cambiamento in queste elezioni?

Gli ebrei che si identificano come parte del campo della pace si sono sentiti abbandonati dai loro partiti tradizionali di “sinistra sionista” – laburisti e Meretz. Nel momento in cui l’opinione pubblica ebraica si sposta sempre più a destra, i due partiti della “pace” si sono affrettati a seguirla. Né l’uno né l’altro ormai parlano più di uno Stato palestinese o della fine dell’occupazione.

Il colpo finale è stato durante queste elezioni quando, per salvarsi dall’oblio elettorale, il Meretz, il partito sionista più a sinistra, è entrato in una coalizione formale non solo insieme al partito Laburista, di centro, ma con “Gesher”, la cui dirigente Levy-Abekasis è una transfuga del partito di estrema destra di Lieberman, “Israel Beytenu [Israele Casa Nostra, ndtr.].

I laburisti, partito fondatore di Israele, e il Meretz speravano che questa decisione li avrebbe rafforzati. Al contrario, segna un altro importante passo verso la loro scomparsa. Insieme dovrebbero ottenere sette seggi, uno in più di quelli che i laburisti avevano conquistato da soli lo scorso aprile – il peggior risultato del partito fino ad allora.

Una vera sinistra”

Il centro israeliano è schiacciato da ogni lato: i sostenitori più guerrafondai del partito Laburista si sono rivolti verso “Blu e Bianco”, mentre i pacifisti del Meretz sembrano attratti dalla “Lista Unita”.

Può darsi che si tratti di un piccolo numero, ma è uno sviluppo incoraggiante – quasi rivoluzionario. Ciò suggerisce che per la prima volta nella storia d’Israele nella popolazione ebraica si profila un vero campo della pace. Non un campo alla ricerca di un’illusoria soluzione a due Stati, fondata sui privilegi degli ebrei, ma un campo pronto a sedersi a fianco dei partiti palestinesi in Israele e a sostenerli, anche se come partner di minoranza.

Il capo della “Lista Unita”, Ayman Odeh, martedì ha festeggiato questo cambiamento, dichiarando: “È l’inizio della nascita di una vera sinistra.”

Questo potrebbe dimostrarsi l’aspetto positivo in un quadro molto più cupo di queste elezioni, nelle quali gran parte della popolazione ebrea israeliana ha chiaramente indicato non solo che, ancora una volta, non si interessa affatto delle violenze contro i palestinesi, sotto occupazione o cittadini [d’Israele, ndtr.], ma che ora è diventata insensibile all’autoritarismo e agli abusi contro ciò che resta delle loro istituzioni democratiche.

Jonathan Cook è un giornalista britannico residente dal 2001 a Nazareth. Ha scritto tre libri sul conflitto israelo-palestinese. Ha vinto il Martha Gellhorn Special Prize for Journalism [il premio speciale Martha Gellhorn per il giornalismo].

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Una settimana prima delle elezioni Netanyahu autorizza nuove unità abitative delle colonie nella E1

Yumna Patel

26 febbraio 2020 – Mondoweiss

Solo una settimana prima delle elezioni il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato l’autorizzazione a 3.500 nuove abitazioni illegali per i coloni nella contestatissima zona “E1”, nella parte centrale della Cisgiordania occupata.

Ho dato istruzioni di rendere immediatamente pubblica la presentazione del piano per la costruzione di 3.500 unità abitative nella E-1,” ha detto martedì Netanyahu in un discorso, aggiungendo che i progetti “sono stati ritardati per sei o sette anni.”

I piani di Israele per il corridoio E1, a cui si sta lavorando dal 1995, sono stati considerevolmente ritardati a causa delle pressioni da parte della comunità internazionale, comprese l’UE e l’ex-amministrazione USA.

Il progetto per la E1 intende creare un blocco di colonie che unisca il grande insediamento di Ma’ale Adumim a Gerusalemme, tagliando di fatto la Cisgiordania in due, separando il nord dal sud.

Le conseguenze del piano sono apparse evidenti negli ultimi anni attraverso la lotta per salvare dall’espulsione forzata la comunità beduina di Khan al-Ahmar, che si trova proprio in mezzo al corridoio E1.

La comunità sarebbe una delle decine di enclave beduine del corridoio che, se i progetti venissero portati a termine, verrebbero espulse a forza dalle proprie case.

L’annuncio è arrivato appena una settimana prima che gli israeliani si rechino ai seggi per la terza volta in un anno per eleggere il primo ministro, dopo due falliti tentativi da parte di Netanyahu e del suo rivale Benny Gantz di formare una coalizione di governo.

Nelle ultime due elezioni il governo di destra di Netanyahu si è basato sull’appoggio dei coloni e ha utilizzato promesse politiche simili per garantirsi il loro sostegno.

Nel primo turno delle elezioni nell’aprile dello scorso anno egli si impegnò ad annettere centinaia di colonie nella Cisgiordania occupata e prima delle elezioni di settembre è andato oltre quella promessa giurando che avrebbe esteso la sovranità israeliana alla valle del Giordano, che comprende un terzo di tutta la Cisgiordania.

I leader palestinesi hanno duramente attaccato Netanyahu per il suo annuncio e hanno chiesto agli Stati membri dell’UE di intervenire e di impedire l’attività edilizia israeliana nella zona.

Criticando il piano come un “progetto colonialista”, il capo negoziatore dell’OLP Saeb Erekat ha emanato un comunicato di condanna degli USA per il loro consenso perché Israele vada avanti con tali piani.

In accordo con i progetti concordati tra le delegazioni di USA e Israele, – ha detto Erekat – Israele ora continua a imporre sul terreno nuovi fatti illegali che violano sistematicamente le leggi internazionali e i diritti umani, annullano i diritti inalienabili del popolo palestinese, e minacciano la stessa pace e sicurezza dell’intera regione”.

Ora è chiaro alla comunità internazionale che questo quadro di annessione intende solo seppellire le prospettive di una soluzione negoziata,” ha continuato, chiedendo che la comunità internazionale imponga sanzioni contro Israele per le sue violazioni delle leggi internazionali nei territori occupati.

L’associazione [israeliana] di monitoraggio delle colonie Peace Now ha criticato duramente la decisione, affermando che “costruire nella E1 interromperebbe questa continuità territoriale, silurando la possibilità di uno Stato palestinese praticabile nel caso in cui Israele continui a conservare per sé la terra.”

L’organizzazione ha affermato: “Israele sta ufficialmente scegliendo di rischiare un conflitto permanente invece di risolverlo. Non è niente di meno di un disastro nazionale che deve essere fermato prima che sia troppo tardi.”

Yumna Patel è la corrispondente dalla Palestina per Mondoweiss.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)