Israele si appresta a trasformare i cittadini beduini in rifugiati nel loro stesso Paese

Jonathan Cook

16 ottobre 2019 – Mondoweiss

La pluridecennale lotta di decine di migliaia di israeliani contro l’espulsione dalle loro case – per alcuni per la seconda o la terza volta – dovrebbe essere la prova sufficiente che Israele non è una democrazia liberale occidentale, come sostiene di essere.

La scorsa settimana 36.000 beduini – tutti cittadini israeliani – hanno scoperto che il loro Stato sta per farne rifugiati nel loro stesso Paese, spostandoli in campi vigilati. Questi israeliani, a quanto pare, sono del tipo sbagliato.

Il loro trattamento ha dolorosamente ricordato il passato. Nel 1948 750.000 palestinesi vennero espulsi dall’esercito israeliano fuori dai confini del recentemente fondato Stato ebraico costituito sulla loro patria – quella che i palestinesi definiscono la Nakba, o catastrofe.

Israele viene regolarmente criticato per la sua aggressiva occupazione, la sua espansione incessante delle colonie illegali sulla terra palestinese e i suoi ripetuti e spietati attacchi, soprattutto contro Gaza. Di rado gli analisti notano anche le sistematiche discriminazioni di Israele contro gli 1.8 milioni di palestinesi i cui progenitori sopravvissero alla Nakba e vivono all’interno di Israele, apparentemente come cittadini.

Ma ognuno di questi soprusi viene affrontato singolarmente, come se non fossero collegati tra loro, invece che come differenti sfaccettature di un progetto complessivo. Si può individuare un modello guidato da un’ideologia che disumanizza i palestinesi ovunque Israele li trovi.

Questa ideologia ha un nome. Il sionismo fornisce il filo rosso che mette in rapporto il passato – la Nakba – con l’attuale pulizia etnica dalle loro case da parte di Israele a danno dei palestinesi nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est, la distruzione di Gaza e i tentativi coordinati dello Stato di cacciare i cittadini palestinesi di Israele fuori da ciò che è rimasto delle loro terre storiche e dentro a ghetti.

La logica del sionismo, anche se i suoi più ingenui sostenitori non riescono a comprenderla, è sostituire i palestinesi con ebrei – quella che Israele definisce ufficialmente ebraizzazione.

La sofferenza dei palestinesi non è uno sfortunato effetto collaterale del conflitto. È il reale obiettivo del sionismo: incentivare i palestinesi ancora presenti ad andarsene “volontariamente”, per sfuggire a oppressione e miseria ulteriori.

L’esempio più evidente di questa strategia di sostituzione della popolazione è il trattamento di lunga data che Israele riserva a 250.000 beduini che formalmente hanno la cittadinanza. I beduini sono il gruppo più povero di Israele, vivono in comunità isolate per lo più nella vasta area semiarida del Negev, il sud del Paese. In gran parte non visibili, Israele ha avuto relativamente mano libera nei suoi tentativi di “spostarli”.

È per questo che, per un decennio dopo che aveva apparentemente finito le sue operazioni di pulizia etnica del 1948 e guadagnato il riconoscimento dalle capitali occidentali, Israele ha segretamente continuato ad espellere migliaia di beduini fuori dai suoi confini, nonostante il loro diritto alla cittadinanza.

Nel contempo altri beduini in Israele sono stati cacciati a forza fuori dalle loro terre ancestrali per essere spostati sia in circoscritte zone controllate, sia in townships [termine che riprende il nome delle zone urbane destinate ai neri nel Sudafrica dell’apartheid, ndtr.] che sono diventate le comunità più deprivate di Israele.

È difficile definire nei beduini, semplici contadini e pastori, una minaccia per la sicurezza, come è stato fatto con i palestinesi sotto occupazione.

Ma Israele ha una definizione più ampia di sicurezza della semplice sicurezza fisica. Essa si fonda sulla conservazione di un’assoluta predominanza demografica degli ebrei. I beduini possono essere tranquilli, ma il loro numero pone una gravissima minaccia demografica e il loro modo di vivere pastorale ostacola la sorte prevista per loro – tenerli ben chiusi in ghetti.

La maggior parte dei beduini ha titoli di proprietà di molto precedenti alla creazione di Israele. Ma Israele ha rifiutato di rispettare queste rivendicazioni e molte decine di migliaia sono stati criminalizzati dallo Stato, ai loro villaggi è stato negato il riconoscimento legale.

Per decenni sono stati obbligati a vivere in baracche o tende perché le autorità rifiutano di autorizzare [la costruzione di] case adeguate e vengono loro negati servizi pubblici come scuole, acqua ed elettricità.

Se vogliono vivere in modo legale i beduini hanno un’unica alternativa: devono abbandonare le loro terre ancestrali e il loro modo di vita per spostarsi in una povera township. Molti beduini hanno fatto resistenza, rimanendo attaccati alla loro terra storica nonostante le durissime condizioni impostegli.

Uno di questi villaggi non riconosciuti, Al Araqib, è stato utilizzato per dare l’esempio. Lì le forze israeliane hanno demolito le case di fortuna più di 160 volte in meno di un decennio. Ad agosto un tribunale israeliano ha approvato il fatto che lo Stato faccia pagare a sei abitanti 370.000 dollari come multa per le ripetute espulsioni.

Il leader di Al Araqib, il settantenne Sheikh Sayah Abu Madhim, recentemente ha passato mesi in carcere dopo essere stato arrestato per occupazione illegale di suolo, benché la sua tenda sia a pochi passi dal cimitero dove sono sepolti i suoi antenati.

Ora le autorità israeliane stanno perdendo la pazienza con i beduini.

Lo scorso gennaio sono stati svelati piani per lo sgombero dalle loro case urgentemente e con la forza di circa 40.000 beduini in villaggi non riconosciuti, sotto il pretesto di progetti di “sviluppo economico”. Sarà la più vasta espulsione da decenni.

Come “sicurezza”, anche “sviluppo” ha una connotazione diversa in Israele. In realtà significa sviluppo per gli ebrei, o ebraizzazione – non sviluppo per i palestinesi.

Il progetto include una nuova autostrada, una linea elettrica ad alta tensione, una struttura per la sperimentazione di armamenti, una zona militare di tiro e una miniera di fosforo.

La scorsa settimana è stato rivelato che le famiglie verrebbero obbligate a stare dentro centri di trasferimento nelle township, a vivere per anni in sistemazioni di fortuna mentre viene deciso il loro destino finale. Questi centri sono già stati paragonati ai campi di rifugiati costruiti per i palestinesi in seguito alla Nakba.

Il malcelato scopo è di imporre ai beduini condizioni di vita tali per cui alla fine accetteranno di essere rinchiusi definitivamente nelle township alle condizioni imposte da Israele.

Quest’estate sei importanti esperti per i diritti umani delle Nazioni Unite hanno inviato una lettera a Israele per protestare in base alle leggi internazionali contro le gravi violazioni dei diritti delle famiglie beduine e per sostenere che sarebbero possibili approcci alternativi.

Adalah”, l’associazione giuridica per i palestinesi in Israele, nota che Israele ha espulso a forza i beduini per settant’anni, trattandoli non come esseri umani ma come pedine nella sua battaglia senza fine per sostituirli con coloni ebrei.

Lo spazio vitale dei beduini si è incessantemente ridotto e il loro modo di vita è stato distrutto. Ciò contrasta crudamente con la rapida espansione delle città e fattorie di singole famiglie ebraiche sulla terra da cui i beduini sono stati cacciati.

È difficile non concludere che quello che sta avvenendo sia una versione amministrativa della pulizia etnica che i funzionari israeliani mettono in atto in modo più palese nei territori occupati sulla base di cosiddetti problemi di sicurezza.

Queste interminabili espulsioni sembrano meno una politica necessaria e ragionata e più un orribile tic nervoso ideologico.

Jonathan Cook ha vinto il Premio Speciale Martha Gellhorn per il giornalismo. Tra i suoi libri: “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” [“Israele e il crollo della civiltà: Iraq, Iran ed il piano per rifare il Medio Oriente”] (Pluto Press), e “Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” [“Palestina scomparsa: esperimenti israeliani in disperazione umana”] (Zed Books).

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’appoggio a Benny Gantz da parte della Joint Arab List è stato un errore

Haidar Eid

24 settembre 2019 – Al Jazeera

I politici palestinesi non avranno niente da guadagnare dall’ appoggio a un generale accusato di crimini di guerra perché diventi primo ministro

Una delle più gravi conseguenze dei disastrosi accordi di Oslo è stata che hanno ridisegnato il popolo palestinese come se fosse composto solo da chi vive nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza occupate. Il 1,8 milione di cittadini palestinesi di seconda classe in Israele e i 6 milioni di rifugiati palestinesi che vivono nella diaspora sono stati quindi relegati in fondo all’agenda di qualunque discussione, dato che non hanno rappresentanti al tavolo negoziale.

In seguito a ciò ogni componente del popolo palestinese sta perseguendo il proprio personale progetto e la propria soluzione finale – che si tratti di uno Stato indipendente per quanti vivono in Cisgiordania e a Gaza, di una maggiore allocazione di fondi pubblici per i palestinesi cittadini di Israele o di più diritti civili per i rifugiati che vivono nel mondo arabo.

Solo all’interno di questo contesto si può comprendere la catastrofica iniziativa di tre dei quattro partiti che fanno parte della Joint Arab List [Lista Araba Unita] di appoggiare Benny Gantz – un uomo che ha progettato crimini di guerra durante l’attacco israeliano del 2014 contro Gaza, che ha ucciso più di 2.200 palestinesi, e che non ha dimostrato nessun pentimento per questo – per la carica di prossimo primo ministro israeliano. La ragione per cui la Joint Arab List, con l’eccezione di tre membri del partito Balad, ha deciso di proporre il nome di Gantz è “perché vogliamo porre fine all’era di Netanyahu”, come ha spiegato il suo presidente Ayman Odeh.

In uno dei suoi tweet egli ha aggiunto che “vogliamo vivere in un luogo pacifico basato sulla fine dell’occupazione, la fondazione di uno Stato palestinese accanto allo Stato di Israele, reale uguaglianza a livello civile e nazionale, giustizia sociale e una democrazia garantita per tutti,” senza spiegare come ciò giustifichi il sostegno a Gantz, che ha già respinto in anticipo tutte queste richieste e che durante la campagna elettorale si è vantato, di fatto, di aver ucciso palestinesi.

Questa iniziativa senza precedenti da parte di politici palestinesi in Israele, che giunge nel momento in cui ogni venerdì cecchini israeliani stanno uccidendo e mutilando manifestanti palestinesi nei pressi della barriera di Gaza, ha provocato forti ripercussioni in tutta la Palestina storica. Ciò non solo perché l’appoggio legittima un criminale di guerra che sostiene la legge razzista dello Stato-Nazione in Israele, che relega i palestinesi come cittadini di seconda classe, ma anche perché come primo ministro egli sicuramente continuerà a commettere crimini contro il popolo palestinese.  Egli ricomincerà da dove ha finito Netanyahu e continuerà a promuovere e rafforzare l’apartheid, l’uccisione di civili palestinesi innocenti, a mantenere la Cisgiordania sotto occupazione militare, ad assediare e strangolare la Striscia di Gaza con un atto di punizione collettiva, ad annettere terra palestinese e ad espandere le colonie ebraiche illegali in Cisgiordania.

Questa decisione della Joint Arab List riflette la miopia e l’opportunismo politico di parte dell’élite politica palestinese in Israele. Ciò riduce la lotta da parte dei cittadini palestinesi di Israele per una vera uguaglianza ed anche la comune lotta dei palestinesi per la libertà e la giustizia ad “averne semplicemente abbastanza di Netanyahu” e a sostituirlo con un altro criminale di guerra.

Invece di chiedere i loro pieni diritti, sono pronti a raccogliere “briciole di compassione buttate dal tavolo di qualcuno che si considera il (loro) padrone,” come direbbe l’arcivescovo Desmond Tutu [premio Nobel sudafricano che ha lottato contro l’apartheid, ndtr.].

Le ripercussioni della decisione presa dalla Joint Arab List ci perseguiteranno a lungo. È una forma di normalizzazione, in cui il colonizzato, accecato dall’ammirazione nei confronti della falsa democrazia etnica liberale del colonizzatore, non riesce a comprendere i meccanismi di potere in uno Stato colonialista d’insediamento.

Come hanno sottolineato molte forze politiche palestinesi, di sinistra e di destra, il fatto di partecipare alle elezioni israeliane è in sé una cosa molto problematica. Legittima le strutture politiche israeliane, come la Knesset israeliana, in cui si legifera continuamente a favore dell’oppressione del popolo palestinese e la si legalizza.

Appoggiare queste strutture non può in alcun modo aiutare i palestinesi a ottenere i diritti umani fondamentali, la giustizia o l’uguaglianza. Dato che il fulcro del potere è l’apartheid, lavorare al suo interno non può portare né porterà mai alla liberazione del popolo palestinese, in quanto si fonda sulla segregazione, sull’oppressione e sull’occupazione.

Questo sistema dev’essere boicottato, per mettere in discussione la legittimità del suo ordine razzista e per preparare la strada ad alternative. Perché ciò avvenga, tuttavia, è evidente che ci sia bisogno di decolonizzare la mente dei palestinesi in Israele, in modo che i dirigenti dei partiti arabi in Israele comprendano che opporsi alla tendenziosità politica ed ideologica del sistema implica rifiutare tutte le sue strutture di potere.

Finché ciò non avverrà, la Joint Arab List continuerà a giocare il suo gioco politico, che non solo esclude le altre due componenti del popolo palestinese, ma gioca anche d’azzardo con i diritti fondamentali del suo stesso elettorato.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Haidar Eid è docente associato dell’università Al-Aqsa di Gaza.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il piano di annessione di Netanyahu ucciderà Israele

David Hearst

17 settembre 2019    Middle East Eye

L’annessione elimina tutti i muri accuratamente eretti da Israele per dividere i palestinesi, distruggendo dall’interno il sogno sionista di uno Stato a maggioranza ebraica.

Questa doveva essere la promessa elettorale più importante. Benjamin Netanyahu, l’uomo che governa Israele da quasi 30 anni, aveva previsto di assestare così il colpo di grazia ai suoi rivali politici della destra colonizzatrice. Avigdor Lieberman, l’ago della bilancia? Ora non più.

Tuttavia l’annuncio di Netanyahu che, se sarà rieletto, annetterà la Valle del Giordano e con essa quasi un terzo della Cisgiordania, non ha avuto l’effetto previsto.

Netanyahu si è vantato di essere in grado di annettere tutte le colonie  al centro della sua patria, grazie alla “sua relazione personale con il presidente Trump”.

Ma il presidente americano Donald Trump questa volta non è stato al gioco.

Bolton licenziato

La Casa Bianca ha emesso un comunicato che afferma che la politica americana al momento non è cambiata e per rafforzare il concetto Trump ha licenziato il suo consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, a lungo considerato dai dirigenti israeliani il proprio uomo a Washington.

Ben Caspit, corrispondente di Maariv (quotidiano israeliano, ndtr.), ha affermato che Netanyahu aveva chiesto a Trump un riconoscimento per l’annessione della Valle del Giordano simile a quello dato per le Alture del Golan. Bolton era d’accordo, ma Trump si è rifiutato.

Caspit ed altri corrispondenti hanno sottolineato che Netanyahu non aveva neppure bisogno di chiedere il permesso di Trump per annettere la Valle del Giordano, che ha una storia giuridica molto diversa da quella delle Alture del Golan, che sono state sottratte alla Siria.

Netanyahu ha bisogno soltanto di una maggioranza semplice alla Knesset [parlamento israeliano, ndtr.] per annettere la Valle del Giordano, perché la legge che glielo permette esiste già. Questa legge, adottata dai deputati di sinistra nel 1967, perfezionava un’ordinanza risalente al mandato britannico, che autorizzava il governo ad emanare un decreto che enunciava in quali regioni della Palestina si dovevano applicare la giurisdizione e l’amministrazione dello Stato di Israele. È questa legge che ha permesso a Levy Eshkol [all’epoca primo ministro israeliano, ndtr.] di annettere Gerusalemme est nel 1967.

Poco importa. Questa defezione sensazionale è stata seguita da un’altra : la sua.

Netanyahu ha dovuto essere portato via dal palco dalle guardie del corpo nel mezzo di un discorso  della campagna elettorale a Ashdod, nel sud di Israele, quando dei razzi lanciati da Gaza hanno fatto suonare le sirene di allarme che annunciavano un attacco dal cielo. Era un avvertimento indirizzato a Netanyahu e a tutti i coloni israeliani dalla terra sulla quale si sono insediati.

La finzione ANP

Nessuna annessione, per quanto ampia, porrà fine a questo conflitto. I palestinesi se ne infischiano di sapere in che modo le loro terre sono occupate, o se effettivamente un ulteriore 33% sarà sottratto al 20% della Palestina storica che rimane loro.

Sapere in quale enclave, in quale bantustan o in quale prigione sono detenuti, o se l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) è davvero dissolta, o se il presidente Mahmoud Abbas consegna le chiavi della Cisgiordania al più vicino comandante dell’esercito israeliano, tutti questi sono sofismi per loro. Allo stato attuale delle cose, Abbas deve chiedere il permesso all’esercito israeliano per ogni suo atto.

L’ANP non esiste veramente, non è che uno strumento con cui Israele obbliga i poliziotti palestinesi a liberare le strade prima che le sue forze armate entrino in tutta la Cisgiordania con incursioni notturne.

L’autonomia della zona A [in base agli accordi di Oslo sotto totale controllo palestinese, ndtr.] è in gran parte fittizia. Se l’ANP dovesse essere sciolta, l’unica preoccupazione di Israele sarebbero le circa 100.000 armi detenute dalle forze di sicurezza palestinesi.

A causa della loro natura priva di sostanza, tutte le istituzioni e le strutture palestinesi sono diventate ampiamente irrilevanti – tranne che come fonte di reddito – per gli stessi palestinesi. Poco importa sapere chi gestisce l’occupazione, né quante leggi vengono adottate per privarli della loro identità nazionale, dei loro diritti di proprietà e del loro Stato.

Qualunque cosa accada e qualunque sia il numero delle enclave create per i palestinesi, il nodo demografico di questo conflitto resterà lo stesso: oggi ci sono più palestinesi che ebrei israeliani tra il fiume [Giordano] e il mare [Mediterraneo].

Apartheid israeliano

Il vice capo dell’Amministrazione civile israeliana [ente che governa sui territori palestinesi occupati, ndtr.], generale Haim Mendes, ha presentato i seguenti dati alla Commissione affari esteri e difesa della Knesset lo scorso dicembre : vi sono attualmente 6,8 milioni di palestinesi tra il fiume e il mare (5 milioni a Gaza e in Cisgiordania, 1,8 milioni all’interno di Israele e di Gerusalemme est). Di contro, secondo l’Ufficio Centrale di Statistica, gli ebrei in Israele sono 6,6 milioni.

Il solo modo di cambiare il cuore del conflitto è sapere se, o quando, Israele procederà ad un’altra espulsione di massa o ad un’azione di pulizia etnica, come è avvenuto nel 1948 e nel 1967.

Diversamente, la vita dei palestinesi non cambierà. Questo significa che, qualunque siano le dichiarazioni fatte durante le campagne elettorali, gli ebrei israeliani stanno diventando una minoranza su quella che affermano essere la propria terra e non possono imporre la loro supremazia che attraverso l’apartheid.

Anche se ciò non modifica niente rispetto alla situazione di sudditanza imposta ai palestinesi nel loro Paese, modifica però la narrativa di Israele tra le elite politiche in Europa e negli Stati Uniti, alle quali Israele ha devoluto miliardi di shekel [valuta israeliana] per ingraziarsele.

Prima dell’annessione, e quando il principio “terra in cambio di pace” era ancora la narrazione dominante del processo di Oslo, la classe politica di sinistra e di destra in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in tutta Europa poteva aderire simultaneamente a interpretazioni che si escludevano l’un l’altra  per una soluzione del conflitto.

Potevano impegnarsi ad essere “sostenitori di Israele”, approvando al tempo stesso il diritto all’autodeterminazione palestinese in un Stato palestinese ipotetico – però mai realizzabile.

Perdita di legittimità internazionale

Per quanto riguardava Israele, il mito che ribadivano era che c’era qualcosa chiamato “Israele propriamente detto”, che è stato riconosciuto a livello internazionale – e poi, ahimè (grosso sospiro) c’erano cose chiamate colonie, che erano illegali, ma (altro grosso sospiro) che cosa ci si può fare? L’idea era che se soltanto le due parti fossero riuscite a fare dei compromessi, si sarebbe potuta trovare una soluzione territoriale.

Con l’annessione come politica ufficiale, tutto questo cambierebbe. Il momento in cui lo Stato di Israele consideri le colonie come facenti parte del proprio territorio,  sarà il momento in cui “Israele propriamente detto” cesserà di esistere. Tutto Israele diventerebbe una colonia. Lo Stato israeliano perderebbe la sua legittimità internazionale.

Se l’annessione è letale per l’immagine internazionale di Israele come Stato europeo avanzato in un deserto di arabi selvaggi, irragionevoli e agitati, lo è ancor di più nella prospettiva di costruire e mantenere uno Stato ebraico all’interno.

La concessione più deleteria che Yasser Arafat e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) hanno fatto nel corso del processo di Oslo non è stato il riconoscimento dello Stato di Israele, ma l’abbandono dei palestinesi – il 20% della popolazione – che ci vivono.

Lotta per la sovranità

Questo ha creato ogni sorta di anomalie. Gerusalemme era il cuore del conflitto e la capitale dello Stato palestinese, ma l’ANP, in quanto tale, non esercitava alcuna autorità sugli abitanti di Gerusalemme che là vivono.

Per una gran parte del processo di pace i “palestinesi del 1948” – quelli che sono stati autorizzati a restare, o che sono stati spostati all’interno del Paese al momento della creazione dello Stato di Israele – non hanno preso parte alla lotta contro l’occupazione. Avevano la cittadinanza israeliana e sono stati chiamati dai loro padroni “arabi israeliani”.

L’annessione cambia tutto ciò. Elimina in un colpo solo tutti i muri accuratamente eretti che Israele ha costruito per dividere i palestinesi, creando una gamma di blocchi carcerari sotto sorveglianza. Gaza, la Cisgiordania, i “palestinesi del 1948” e quelli della diaspora diventano un solo popolo che lotta per la sovranità nel proprio Paese.

Inconsapevolmente, l’annessione distrugge dall’interno il sogno sionista di uno Stato a maggioranza ebraica.

I dirigenti palestinesi che non sono stati assassinati o imprigionati da Israele erano essenziali per il mantenimento dello status quo, grazie al quale aree come la Valle del Giordano sono state annesse di fatto, se non ufficialmente.

Non è come se i palestinesi potessero realmente utilizzare e coltivare la Valle del Giordano, la loro terra più fertile. Essa si estende su circa 160.000 ettari e rappresenta quasi il 30% della Cisgiordania. Israele sfrutta la quasi totalità della Valle del Giordano per le proprie necessità e impedisce ai palestinesi di entrare o di utilizzare circa l’85% dell’area, sia per edilizia che per infrastrutture, per scopi agricoli o abitativi.

Nel 2016 ci vivevano 65.000 palestinesi e 11.000 coloni. Ciò significa che una minoranza della popolazione è autorizzata a spostarsi nell’85% della terra.

Una morte lenta

Israele non ha bisogno di annettere la Valle del Giordano. In realtà lo ha già fatto.

Dato che i dirigenti palestinesi sono moribondi, le future generazioni di palestinesi andranno alla ricerca di una prospettiva molto diversa. Saranno obbligati a riformulare la loro strategia, a correggere gli errori del passato e a considerarsi nuovamente come parte di un popolo espulso da un Paese.

L’annessione è la morte dell’Israele del 1948, uno Stato a maggioranza ebraica.

E’ la nascita di uno Stato ebraico minoritario che non può sopravvivere se non eliminando e controllando la sua maggioranza palestinese. Fare questo, in un continente a maggioranza araba e musulmana, equivale a votarsi ad una morte lenta e costante.

Quale che sia il numero di dirigenti palestinesi che compra, Israele suscita continuamente l’ira degli arabi e dei musulmani, dovunque vivano. Nessun muro, nessun esercito, nessuna flotta di droni, nessun arsenale nucleare, nessun presidente americano proteggeranno a lungo termine uno Stato con una minoranza ebraica.

 

David Hearst è caporedattore di Middle East Eye. Quando ha lasciato The Guardian, era capo editorialista della rubrica Esteri del giornale. Durante i suoi 29 anni di carriera, si è occupato dell’attentato con una bomba a Brighton, dello sciopero dei minatori, della reazione lealista in seguito all’accordo anglo-irlandese in Irlanda del nord, dei primi conflitti scoppiati in Slovenia e Croazia al momento della dissoluzione della ex-Yugoslavia, della fine dell’Unione Sovietica, della Cecenia e delle guerre che hanno contraddistinto l’epoca a lui contemporanea. Ha seguito il declino morale e fisico di Boris Eltsin e le circostanze che hanno permesso l’ascesa di Putin. Dopo l’Irlanda, è stato nominato corrispondente europeo per la rubrica Europa del Guardian, prima di trasferirsi nel 1992 all’ufficio di Mosca, assumendone la direzione nel 1994. Ha lasciato la Russia nel 1997 per andare all’ufficio Esteri, prima di diventare redattore capo della rubrica Europa e poi vice redattore capo della rubrica Esteri. Prima di lavorare al Guardian, David Hearst è stato corrispondente per la rubrica Educazione nel giornale The Scotsman.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Permessi di costruzione per palestinesi

I nuovi permessi di costruzione per i palestinesi aprono la strada all’annessione?

A fine luglio la decisione israeliana di approvare 715 alloggi in città palestinesi potrebbe essere un gesto simbolico o la premessa di una maggiore presa di controllo sulle terre della Cisgiordania occupata

Ben White

23 agosto 2019 – Middle East Eye

La decisione del gabinetto di sicurezza israeliano, annunciata a fine luglio, di approvare i permessi di costruzione per abitazioni palestinesi in zona C [sotto totale controllo israeliano, ndtr.] della Cisgiordania occupata costituisce un’eccezione perché si tratta della “prima decisione di questo tipo dal 2016”.

Benché il numero comunicato di 715 alloggi nelle città palestinesi sembri positivo, finora non è stata diffusa alcun’altra informazione, per esempio se i progetti riguardino nuove costruzioni o la regolarizzazione retroattiva  di abitazioni costruite senza i permessi rilasciati da Israele.

Al di là della mancanza di chiarezza, queste abitazioni sono una goccia nell’oceano: secondo Peace Now, «si stima che ogni anno nella zona C vi sia almeno un migliaio di giovani coppie palestinesi che hanno bisogno di un alloggio.»

Dal 2009 al 2016 le autorità d’occupazione israeliane hanno approvato solo 66 permessi di costruzione per palestinesi nella zona C, cioè appena il 2% del totale delle domande. Nello stesso periodo è iniziata la costruzione di 12.763 alloggi nelle colonie israeliane della zona C.

Ciononostante, benché questi nuovi permessi di costruzione si avvicinino appena alle necessità derivanti da un sistema intenzionalmente discriminatorio, questa resta una decisione inusuale. Perché un governo di estrema destra –alla vigilia delle elezioni – dovrebbe prendere una simile misura?

Una iniziativa dovuta «alla pressione americana » ?

Il «piano di pace» della Casa Bianca costituisce un elemento essenziale del contesto : Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.] cita «fonti politiche» anonime che ritengono che questa iniziativa «potrebbe essere dovuta a pressioni americane.»

Queste autorizzazioni sono avvenute proprio prima della visita di una delegazione americana guidata dal consigliere della Casa Bianca Jared Kushner, nel quadro di un tour regionale per promuovere il piano.

Questa possibilità ha destato preoccupazione in alcuni membri del movimento dei coloni: due importanti responsabili hanno definito i permessi di costruzione per i palestinesi «particolarmente inquietanti”, tenuto conto di ciò che descrivono come «il chiaro obbiettivo dell’Autorità Nazionale Palestinese di stabilire uno Stato terrorista nel cuore del Paese.»

Non devono preoccuparsi. Secondo Haaretz, che cita «fonti informate sui dettagli», alcune informazioni hanno rapidamente rivelato che la decisione del governo israeliano è dipesa in realtà da un «cambio di politica destinato ad estromettere l’Autorità Nazionale Palestinese dalla pianificazione territoriale e dalla costruzione nei territori (occupati) ».

Prevenire uno Stato palestinese

Inoltre il Ministro dei Trasporti e deputato dell’Unione dei partiti di destra, Bezalel Smotrich, ha pubblicato su Facebook una spiegazione dettagliata  per giustificare questi permessi.

Affermando che uno dei principali obbiettivi della sua carriera politica è «impedire l’instaurazione di uno Stato terrorista arabo nel cuore di Israele » (con riferimento alla Cisgiordania), Smotrich scrive : «Oggi, finalmente…Israele predispone un piano strategico per fermare la creazione di uno Stato palestinese.”

Secondo Smotrich la decisione del gabinetto segna «la prima volta » che Israele « controlla che nella zona C vi siano costruzioni solo per gli arabi che siano residenti originari della regione dal 1994 e non per gli arabi arrivati in seguito dalle zone A [sotto controllo palestinese, ndtr.] e B [sotto controllo amministrativo palestinese e militare israeliano, ndtr]. »

La costruzione per i palestinesi sarà quindi autorizzata solo «in luoghi che non nuocciano alla colonizzazione e alla sicurezza delle colonie e non creino una contiguità territoriale né uno Stato palestinese di fatto. »

E non è tutto. «Per la prima volta nella sua storia », prosegue il Ministro, « lo Stato di Israele applicherà la propria sovranità sull’insieme del territorio ed assumerà la responsabilità di ciò che accade al suo interno. »

Ecco, sta scritto nero su bianco. I permessi concessi ai palestinesi nella zona C sono una dimostrazione della «sovranità » israeliana – un’altra premessa all’annessione formale.

In quest’ottica il legame tra i permessi di costruzione ed il piano dell’amministrazione Trump assume una dimensione più preoccupante – anche se poco sorprendente -, che non suggerisce una «concessione» per facilitare i negoziati, ma un coordinamento tra Israele e gli Stati Uniti riguardo all’annessione della zona C.

Dare priorità alle comunità ebree

Fatto rivelatore, parallelamente alla concessione di permessi ai palestinesi, il governo israeliano ha approvato circa 6000 alloggi nelle colonie israeliane. Il giorno dopo, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, in occasione di una visita nella colonia di Efrat, dichiarava: «Nessuna colonia e nessun colono saranno sradicati…Ciò che fate qui è definitivo.»

Tuttavia, che i permessi di costruzione per i palestinesi – se mai si concretizzeranno – siano solo un gesto simbolico oppure una premessa all’annessione, questi sviluppi mettono in evidenza i limiti di una critica meramente umanitaria alla politica israeliana di demolizione e di espulsione.

Negli ultimi anni il brutale approccio «discriminatorio ed iniquo» di Israele riguardo alle comunità e alle abitazioni nella zona C della Cisgiordania ha suscitato giustamente critiche internazionali sempre più numerose, e Amnesty International ha condannato il regime di pianificazione discriminatorio di Israele come “unico al mondo.”

Nonostante questo, man mano che Israele si avvicina all’ufficializzazione dell’annessione della zona C, alcuni diranno che tale sviluppo è vantaggioso per gli abitanti palestinesi perché concederà loro la cittadinanza, legalizzerà le loro comunità, rilascerà dei permessi, eccetera.

Beninteso, un simile argomento può essere contestato in base ai suoi stessi termini, anche citando gli argomenti chiaramente avanzati dai sostenitori di Smotrich, secondo i quali la politica di pianificazione continuerà a dare priorità alle comunità ebree (come è sempre stato entro i confini del 1967).

Progetto colonizzatore

Tuttavia, una posizione molto più forte consiste nel considerare le demolizioni e le espulsioni di Israele nella zona C, compresi i permessi che rilascia, nel contesto di un regime di apartheid molto più vasto, nel quale i palestinesi vengono espulsi, frammentati e discriminati per perseguire l’obbiettivo principale di mantenere lo Stato ebraico – ed il controllo della terra e della demografia necessario a tale obbiettivo.

Il regime di pianificazione territoriale discriminatorio di Israele costituisce una crisi umanitaria e dei diritti umani, ma non si tratta solo di questo – e se l’opposizione alle demolizioni si esprime in questi termini, le critiche diventano vulnerabili alle iniziative israeliane quale un aumento simbolico dei permessi, cioè l’annessione.

In fin dei conti, come altrove in Palestina, è più facile comprendere e attaccare le politiche israeliane collocandole nel quadro di un progetto di colonizzazione di molti decenni – un quadro che mantiene tutta la sua rilevanza, piuttosto che assistere tra breve ad un’annessione ufficiale della zona C o alla perpetuazione dello statu quo.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solo l’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ben White è autore di “Israeli Apartheid: A Beginner’s Guide” [Apartheid israeliano: una guida per principianti] e di “Palestinians in Israel: Segregation, Discrimination and Democracy” [Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia]. Suoi articoli sono stati pubblicati su diversi media, tra cui Middle East Monitor, Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, The Electronic Intifada, The Guardian ed altri ancora.

 

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Adolescente israeliana uccisa da un’esplosione nei pressi di una colonia in Cisgiordania

MEE e agenzie

23 agosto 2019 – Middle East Eye

L’esercito dice che una ragazza diciassettenne e stata uccisa, suo padre e suo fratello feriti gravemente in un attacco con una mina nei pressi di una nota meta escursionistica.

Secondo l’esercito israeliano, venerdì un’adolescente israeliana è stata uccisa mentre suo padre e suo fratello sono rimasti gravemente feriti a causa di un’esplosione nella Cisgiordania occupata.

Un portavoce dell’esercito ha affermato che la famiglia è stata colpita da un ordigno artigianale (IED) mentre visitava una sorgente d’acqua nei pressi di Dolev, una colonia israeliana illegale a nord-ovest della città palestinese di Ramallah.

In precedenza si era detto che dopo l’esplosione la ragazza diciassettenne era in condizioni critiche e che veniva curata sul posto da un’equipe medica.

In un comunicato l’esercito ha affermato: “Tre civili che si trovavano presso una vicina sorgente sono stati feriti dall’esplosione di una mina.”

Uno dei civili viene curato sul posto mentre gli altri due sono stati portati da un elicottero (dell’esercito) in un ospedale per ulteriori cure mediche.”

L’esercito ha anche detto che forze di sicurezza stavano cercando nella zona palestinesi ritenuti responsabili.

L’equipe di soccorso ha detto che il padre e il fratello dell’adolescente, di 46 e 21 anni, sono stati gravemente feriti. Dolev si trova in una regione collinosa circondata da uliveti e orti, ed è un luogo molto frequentato da turisti ed escursionisti.

Lo scorso anno nella zona ci sono stati scontri tra palestinesi ed israeliani a causa dell’espansione delle colonie, con gli abitanti palestinesi che denunciano i tentativi dei coloni di occupare la loro terra, comprese le sorgenti. In seguito all’attacco le forze di sicurezza israeliane hanno rapidamente isolato la zona attorno alla sorgente di Ein Bobin, vicino al villaggio palestinese di Deir Ibzi.

Ci sono timori di un aumento della violenza in vista delle elezioni israeliane, previste per il 17 settembre.

La tensione è alta in Cisgiordania, dove recentemente c’è stata una serie di attacchi nei pressi delle colonie israeliane.

Lo scorso venerdì due israeliani sono stati feriti presso la colonia di Elazar, in quello che la polizia afferma essere stato un attacco con un’auto. Il conducente, un uomo palestinese, è stato ucciso sul posto dalle forze di sicurezza israeliane. All’inizio di questo mese un soldato israeliano è stato accoltellato a morte presso la colonia di Migdal Oz, cosa che ha portato all’arresto di due palestinesi.

Più di 600.000 ebrei vivono in circa 140 colonie costruite in Cisgiordania da quando Israele ha occupato il territorio nella guerra mediorientale del 1967. In base alle leggi internazionali le colonie israeliane in Cisgiordania, dove vivono circa 2.5 milioni di palestinesi, sono illegali.

(traduzione di Amedeo Rossi)




In Israele i coloni ebrei hanno il controllo totale, ma a quale prezzo?

Ramzy Baroud

19 agosto 2019 – Middle East Monitor

I coloni ebrei israeliani sono inarrestabili quando si scatenano in tutta la Cisgiordania palestinese occupata. Mentre la violenza dei coloni è parte della routine quotidiana in Palestina, la violenza delle scorse settimane è direttamente legata alle elezioni politiche israeliane, previste per il 17 settembre.

Le elezioni precedenti, solo quattro mesi fa, il 9 aprile, non sono riuscite a portare stabilità politica. Benché Benjamin Netanyahu sia ora il primo ministro più a lungo al potere in Israele nei 71 anni di storia del Paese, non è stato in grado di formare una coalizione di governo.

Segnata da una serie di casi di corruzione che coinvolgono lui, la sua famiglia e i suoi collaboratori, la leadership di Netanyahu si trova in una posizione poco invidiabile. Gli investigatori della polizia gli stanno alle costole, mentre alleati politici opportunisti, come Avigdor Leiberman [segretario di un partito di estrema destra, ndtr.], gli stanno forzando la mano nella speranza di estorcergli future concessioni politiche.

La crisi politica in Israele non è il risultato di un partito Laburista resuscitato o di partiti politici di centro più forti, ma dell’incapacità della destra (compresi i partiti di estrema destra e ultranazionalisti) di esprimere un programma politico unitario.

I coloni ebrei illegali comprendono bene che la futura identità di una qualunque coalizione di governo di destra avrà un impatto duraturo sulla loro impresa di colonizzazione. I coloni, tuttavia, non sono affatto preoccupati, dato che tutti i maggiori partiti politici, compreso quello “Blu e Bianco”, il presunto partito di centro di Benjamin Gantz, hanno fatto dell’appoggio alle colonie ebraiche una parte importante della propria campagna elettorale.

Il voto decisivo dei coloni ebrei della Cisgiordania e dei loro sostenitori all’interno di Israele è risultato evidente nelle ultime elezioni. Il loro potere ha obbligato Gantz ad adottare un approccio politico totalmente diverso.

L’uomo che due giorni prima delle votazioni di aprile ha criticato l’“irresponsabile” annuncio di Netanyahu riguardo all’intenzione di annettere la Cisgiordania, pare ora un grande sostenitore delle colonie. Secondo il sito di notizie israeliano “Arutz Sheva”, Gantz ha promesso di continuare ad espandere le colonie “da un punto di vista strategico e non come una strategia politica”.

Dato il cambio di prospettiva di Gantz riguardo alle colonie, a Netanyahu non è rimasta altra possibilità che alzare la posta in gioco. Ora sta spingendo per un’annessione totale e irreversibile della Cisgiordania.

Annettere il territorio palestinese occupato è, dal punto di vista di Netanyahu, una strategia politica corretta. Naturalmente il primo ministro israeliano si dimentica delle leggi internazionali che considerano illegale la presenza militare e delle colonie di Israele. Né Netanyahu né qualunque altro leader israeliano, tuttavia, si sono mai preoccupati delle leggi internazionali. Tutto ciò che conta realmente per Israele è avere il sostegno cieco e incondizionato di Washington.

Secondo “Times of Israel” [giornale indipendente israeliano, ndtr.] Netanyahu sta ora facendo ufficialmente pressione per una dichiarazione pubblica da parte del presidente USA Donald Trump di sostegno all’annessione della Cisgiordania da parte di Israele. Benché la Casa Bianca si rifiuti di fare commenti a questo proposito, e un funzionario dell’ufficio di Netanyahu sostenga che ciò “non è esatto”, la destra israeliana è sulla buona strada per rendere possibile l’annessione.

Incoraggiati dalla dichiarazione dell’ambasciatore USA David Friedman, secondo cui “Israele ha il diritto di impossessarsi di una parte della Cisgiordania”, molti politici israeliani parlano con franchezza ed esplicitamente della loro intenzione di annettere il territorio occupato. Netanyahu ha effettivamente accennato a questa possibilità in agosto durante una visita alla colonia illegale di Beit El: “Siamo venuti a costruire. Le nostre mani si tenderanno e noi renderemo più profonde le nostre radici nella nostra patria, in ogni sua parte,” ha detto durante una cerimonia che festeggiava l’espansione delle colonie illegali con altre 650 unità abitative.

A differenza di Netanyahu, l’ex-ministra della Giustizia e dirigente di “Destra Unita”, [coalizione] da poco formata, Ayelet Shaked, non parla in codice. In un’intervista con il “Jerusalem Post” ha chiesto la totale annessione dell’Area C, che costituisce quasi il 60% della Cisgiordania. “Dobbiamo applicare la nostra sovranità su Giudea e Samaria,” ha insistito Shaked, utilizzando la terminologia biblica per descrivere la terra palestinese, come se ciò rafforzasse in qualche modo la sua posizione.

Peraltro il ministro della Sicurezza Pubblica, delle Questioni Strategiche e dell’Informazione Gilad Erdan vuole fare un passo in più. Secondo “Arutz Sheva” e il “Jerusalem Post”, Erdan ha chiesto l’annessione di tutte le colonie illegali in Cisgiordania, così come l’estromissione del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas.

Ormai al centro della politica israeliana, i coloni ebrei si godono lo spettacolo di essere corteggiati da tutti i principali partiti politici. La loro crescente violenza contro gli autoctoni palestinesi in Cisgiordania è una sorta di prova di forza politica, un’espressione di dominio e una brutale dimostrazione di priorità politiche.

“C’è una sola bandiera dal Giordano al mare [Mediterraneo, ndtr.], la bandiera di Israele,” è stato lo slogan di un corteo di oltre 1.200 coloni ebrei che hanno percorso le strade della città palestinese di Hebron il 14 agosto. I coloni, insieme ai soldati israeliani, hanno invaso via Al-Shuhada e hanno maltrattato gli abitanti palestinesi e gli attivisti internazionali nella città assediata.

Pochi giorni prima, circa 1.700 coloni ebrei, appoggiati dalla polizia israeliana, hanno fatto irruzione nel complesso della moschea di Al-Aqsa nella Gerusalemme est occupata. Secondo la Mezzaluna rossa palestinese, oltre 60 palestinesi sono rimasti feriti quando le forze israeliane e i coloni hanno attaccato i fedeli musulmani. La violenza si è ripetuta a Nablus, dove colone armate hanno invaso la città di Al-Masoudiya e hanno fatto un “addestramento militare” sotto la protezione dell’esercito di occupazione israeliano. Il messaggio dei coloni è chiaro: ora abbiamo il controllo totale, non solo in Cisgiordania, ma anche nella politica israeliana.

Ma a quale prezzo? Tutto ciò avviene come se si trattasse esclusivamente di una questione politica israeliana. L’ANP, che è appena stata del tutto esclusa dai calcoli politici USA, viene lasciata a emanare occasionali e irrilevanti comunicati stampa sulla sua intenzione di chiamare Israele a rispondere in base alle leggi internazionali.

Tuttavia anche i garanti delle leggi internazionali sono assenti in modo sospetto. Né le Nazioni Unite né i sostenitori della democrazia e delle leggi internazionali nell’Unione Europea sembrano essere interessanti ad opporsi all’intransigenza israeliana e alle palesi violazioni dei diritti umani.

Con i coloni ebrei che dettano l’agenda politica in Israele e provocano costantemente i palestinesi nei territori occupati, è probabile che nei prossimi mesi la violenza aumenti in modo esponenziale. Come avviene spesso in questi casi, ciò verrà utilizzato in modo strategico dal governo israeliano, questa volta per porre le basi di un’annessione finale e completa della terra palestinese. Questo sarà un risultato disastroso, indipendentemente da come lo si veda.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Ricordare il “disimpegno” di Israele da Gaza

Rebecca Stead

15 agosto 2019 – Middle East Monitor

Cosa: Israele smantellò le sue colonie nella Striscia di Gaza, ritirando tutti i coloni e le truppe di terra dall’enclave.

Dove: Nella Striscia di Gaza, Palestina occupata.

Quando: Il 15 agosto 2005

Cos’è successo?

Il 15 agosto 2005 Israele iniziò il suo disimpegno dalla Striscia di Gaza, che aveva occupato dalla guerra dei Sei Giorni del 1967. Nel corso di 38 anni Israele aveva creato circa 21 colonie nell’enclave costiera e trasferito nel territorio circa 9.000 coloni, in violazione delle leggi internazionali.

Di fronte a costi in vertiginosa ascesa per l’amministrazione del territorio, Israele decise di far uscire dalla Striscia le sue forze armate e i coloni illegali. Mentre le telecamere di tutto il mondo li riprendevano, i coloni che non volevano andarsene vennero portati via a forza dalle proprie case, un momento perfetto di propaganda che dimostrava la “volontà” di Israele di ritirarsi dai territori occupati nel tentativo di “riannodare” il processo di pace.

Quattordici anni dopo Israele non si è in realtà disimpegnato da Gaza: conserva il controllo dei suoi confini terrestri, dell’accesso al mare a allo spazio aereo. La popolazione di 1,9 milioni di Gaza rimane sottoposta a un’occupazione a “controllo remoto” e a un rigido assedio, che ha distrutto l’economia locale e soffocato l’esistenza dei palestinesi.

Il grande piano di Sharon

Benché il disimpegno sia iniziato nel 2005, la politica era già in atto da tempo. Nel mezzo della Seconda Intifada – una rivolta popolare nei territori palestinesi che ebbe luogo tra il settembre del 2000 e gli inizi del 2005 – l’allora primo ministro Ariel Sharon propose il disimpegno dalla Striscia di Gaza.

Prima delle elezioni israeliane del 2003, Sharon aveva manifestato il proprio appoggio alla continuazione della colonizzazione del suo Paese nella Striscia, affermando che “il destino di Tel Aviv è quello di Netzarim”, una colonia nel sud della Striscia di Gaza. Eppure dopo la sua elezione Sharon sembrò aver cambiato parere, spiegando nel dicembre di quell’anno che “l’obiettivo del piano di disimpegno è ridurre il più possibile il terrorismo e garantire ai cittadini israeliani il massimo livello di sicurezza.”

Proseguì: “Il processo di disimpegno porterà a un miglioramento della qualità di vita (degli israeliani), aiuterà a rafforzare l’economia israeliana, (…) incrementerà la sicurezza degli abitanti di Israele e ridurrà la pressione sulle IDF (Forze di Difesa Israeliane) e sulle forze di sicurezza.”

In una lettera dell’aprile 2004 all’allora presidente USA George Bush, Sharon sottolineò la sua visione del disimpegno, proponendo che Israele “trasferisse le installazioni militari e tutti i villaggi e cittadine israeliane dalla Striscia di Gaza.” Il piano includeva l’eliminazione di quattro colonie illegali dalla Cisgiordania settentrionale.

Nell’ottobre di quell’anno, la Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] approvò in via preliminare alla proposta di Sharon. Uno dei più accesi critici fu il ministro degli Affari Esteri Benjamin Netanyahu, che minacciò di dimettersi dal governo salvo che Sharon non avesse sottoposto il progetto a un referendum. Alla fine fece marcia indietro, citando la “nuova situazione” presentata dalla prevista dipartita del leader palestinese di lungo corso Yasser Arafat, che morì l’11 novembre 2004.

Nel febbraio 2005 il piano di disimpegno venne approvato ufficialmente dalla Knesset, mentre in marzo ai cittadini israeliani che non vivessero già nella Striscia di Gaza venne vietato di insediarsi nel territorio. La scena era pronta.

Luci, motore, azione

Il 15 agosto Israele iniziò a realizzare il disimpegno. Gush Katif – un blocco di colonie nel sud della Striscia – venne dichiarato zona militare chiusa e il valico di Kissufim, la principale arteria che collegava la colonia a Israele, venne chiuso.

Alle 8 ora locale (le 5 ora di Greenwich) forze israeliane entrarono a Gush Katif, andando di casa in casa con l’ordine che i coloni se ne dovevano andare. Alcuni accettarono di farlo in modo pacifico, essendogli stato offerto un pacchetto di misure di indennizzo fino a 500.000 dollari. Altri si rifiutarono di andarsene, obbligando l’esercito israeliano a portarli via con la forza dalle loro colonie.

Immagini di coloni portati via a calci dalle loro abitazioni e che gridavano vennero diffuse in tutto il mondo. Alcuni bambini dei coloni lasciarono le proprie case con le mani in alto, con stelle di David gialle simili a quelle che contraddistinguevano gli ebrei durante l’Olocausto. Questi “fiumi di lamenti” vennero descritti dalla stampa israeliana come “kitsch” e “squallidi”, mentre molti israeliani criticarono duramente l’invocazione dell’Olocausto da parte dei coloni.

Come notò Donald Macintyre – l’ex capo dell’ufficio dell’“Independent” [giornale britannico di centro sinistra, ndtr.] a Gerusalemme – nel suo libro “Gaza: preparandosi all’alba”: “C’era qualcosa di teatrale in questo congedo forzoso – e in tutto il ritiro israeliano da Gaza.”

Il 22 agosto l’evacuazione era stata in buona misura completata. Le forze israeliane distrussero con i bulldozer migliaia di case, edifici pubblici e luoghi di culto; persino i cadaveri nei cimiteri ebraici vennero esumati e sepolti di nuovo in Israele.

La maggior parte dell’apparato militare israeliano venne rimosso e il 21 settembre il governo dichiarò che la Striscia di Gaza era territorio extragiudiziale e designò i valichi nell’enclave come confini internazionali che richiedevano documenti di viaggio.

Nei giorni seguenti i palestinesi camminarono per le vie delle colonie ora abbandonate che erano state loro vietate per decenni. I bambini raccolsero palloni e giocattoli lasciati dai bambini israeliani per portarli a casa ai propri fratelli. Alcuni erano felici che l’occupazione se ne fosse andata, mentre altri corsero al mare che prima non potevano raggiungere. I festeggiamenti non sarebbero durati a lungo.

Come evidenziò Macintyre, benché il disimpegno “rappresentasse certamente un precedente storico, il paradosso era che segnava anche l’inizio di un decennale e opprimente blocco economico di Gaza e di tre attacchi militari da parte di Israele più devastanti di ogni altro nella turbolenta storia del territorio.”

Forse i semi di quello che stava per avvenire erano stati seminati nel settembre 2005. Meno di una settimana dopo che Israele aveva dichiarato Gaza territorio extragiudiziale, aerei da guerra israeliani bombardarono la Striscia, uccidendo parecchi palestinesi, tra cui il comandante della Jihad islamica Mohammed Khalil. Gli attacchi israeliani colpirono anche una scuola e altri edifici che [Israele] sosteneva fossero stati usati per costruire razzi.

La narrazione di Israele riguardo al disimpegno sostiene che, in seguito alla sua decisione di lasciare la Striscia, ai palestinesi era stata offerta una grande opportunità di diventare economicamente prosperi. Questa narrazione spesso ricorda le serre lasciate dai coloni che, a quanto si dice, vennero immediatamente distrutte dai palestinesi con un caratteristico delirio di imprevidenza.

Tuttavia, anche se qualche serra venne depredata di alcune parti, esse rimasero in grande misura intatte. Il raccolto di novembre rese un valore di 20 milioni di dollari in frutta e verdure pronte da esportare in Europa e altrove, molte delle quali marcirono per il caldo autunnale in quanto rimasero in attesa dei controlli di sicurezza al valico di confine di Karni. Secondo stime dell’ONU, solo il 4% del raccolto stagionale venne esportato.

Occupazione a controllo remoto

Nel gennaio 2006 nella Striscia di Gaza e nella Cisgiordania occupata si tennero le elezioni per il consiglio legislativo palestinese (CLP). Hamas, all’epoca un movimento popolare palestinese, vinse 74 dei 132 seggi, battendo tra i più votati Fatah – che aveva dominato la politica palestinese per decenni. Ismail Haniyeh, del movimento islamico, venne eletto primo ministro dell’ANP.

A febbraio Israele sospese il trasferimento dei dazi doganali all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), imponendo limitazioni agli spostamenti dei membri di Hamas a Gaza. Dopo che Fatah rifiutò di collaborare con il governo guidato da Hamas – e una fazione all’interno di Fatah venne sostenuta da Israele e dagli USA per fare un colpo di stato contro Hamas – ne seguì una guerra civile di fatto, che portò a una definitiva divisione del governo nel giugno 2007 e al consolidamento del potere di Hamas nella Striscia, con Fatah che continuò a governare a Ramallah sotto Mahmoud Abbas. La fine del 2007 vide Israele chiudere totalmente i confini di Gaza, sottoponendola a un duro assedio che continua fino ad oggi.

Nel corso dell’assedio, arrivato ormai ai 12 anni, Israele ha continuato a strangolare Gaza a distanza. Dopo tre pesanti offensive militari israeliane – in cui sono stati uccisi circa 4.000 palestinesi – e innumerevoli attacchi aerei, le infrastrutture e il sistema sanitario della Striscia sono a pezzi. Circa il 54% della popolazione di Gaza ora è disoccupata, mentre il 53% vive al di sotto della soglia ufficiale di povertà di 2 dollari al giorno.

Invivibile”, “prigione a cielo aperto” e occupazione “a controllo remoto” sono diventati luoghi comuni quando si descrive oggi l’enclave costiera. Gaza rimane un territorio occupato, senza controllo sui suoi confini, sulle acque del territorio o sullo spazio aereo. Nel contempo Israele rispetta ben poche delle sue responsabilità in quanto potere occupante, non provvedendo alle necessità fondamentali dei civili palestinesi che vivono nel territorio.

In Israele il disimpegno viene generalmente visto come un errore, non a causa delle misere condizioni umanitarie che colpiscono i palestinesi in conseguenza di ciò, ma perché non ha portato alcun “vantaggio per la sicurezza o diplomatico” a Israele.

Oggi importanti personalità del sistema politico israeliano, compresa la ministra della Cultura Miri Regev e il presidente della Knesset Yuli Edelstein, hanno manifestato pentimento per il disimpegno di Israele da Gaza. Politici di destra come la leader di “Yemina”, Ayelet Shaked, e il ministro dei Trasporti Bezalel Smotrich hanno chiesto l’annullamento del disimpegno e la ricostruzione delle colonie israeliane illegali là.

Nella corsa alle elezioni politiche israeliane del settembre 2019, le seconde quest’anno, il reinsediamento nella Striscia di Gaza è stato propagandato da quei ministri di destra come modo per rimediare all’errore storico di Sharon. Con gli stessi politici che invocano attivamente l’annessione dell’Area C della Cisgiordania a Israele, il prossimo mandato della Knesset potrebbe vedere Israele ri-colonizzare la Striscia di Gaza e porre ancora una volta la popolazione palestinese sotto diretto potere militare [israeliano].

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Palestina occupata. Passate la notte in una colonia!

Anna Mutelet e Annabelle Martella

14 agosto 2019 – Orient XXI

Accogliere il turista di passaggio è una pratica sempre più diffusa tra i coloni israeliani. Ma dietro all’ospitalità si nasconde un obiettivo politico: migliorare l’immagine delle colonie e dell’occupazione.

Montagna tranquilla, ancora un po’ selvaggia, coperta di verde e di fiori sbocciati al sole, il monte Gerizim ha tutto della meta sognata per un “couchsurfer” [letteralmente ‘surfista del divano’, termine inglese che indica un ospite che a titolo gratuito viene sistemato a dormire su un sofà, ndtr.], Ophir ne è convinto. “Guardate un po’ che vista!” Un “vero regalo” con il quale è fiero di poter sorprendere gli invitati fugaci che si succedono da circa un anno nel suo salotto di Har Brakha.

Riguardo all’atmosfera, il suo profilo sul sito di alloggi gratuiti couchsurfing. com sembra predisporre il contesto: Pink Floyd, spiritualità e natura. Ma quello che Ophir non specifica è che Har Brakha (in ebraico “monte della benedizione”) è una colonia israeliana situata in terra palestinese, nel nord della Cisgiordania. Un territorio illegale agli occhi del diritto internazionale.

Peraltro non è il caso di vedervi un tentativo di dissimulazione, perché come tutti i coloni della sua generazione Ophir ha fatto la scelta di vivere qui come risultato di un “sogno di bambino” e della ricerca di “questa terra di Samaria, promessa agli ebrei nella Bibbia”. Perché precisare una cosa che si giudica così naturale? Al contrario, è un progetto molto particolare che l’ha spinto ad iscriversi come ospite su “Couchsurfing”: “Ho un messaggio da trasmettere al mondo: mostrare che qui tutto va bene, viviamo in pace.”

Vacanze di sogno ai piedi delle vigne

A prima vista a Har Brakha, abbarbicata a 880 metri d’altezza dietro a una barriera di sicurezza, la vita è prospera. Nella colonia il tempo sembra fermarsi.

Sulle strade ci sono poche macchine, ma molti bambini che camminano soli all’uscita da scuola. Si è ben lontani dall’agitazione di Nablus, polverosa e caotica, situata a valle e bastione della Seconda Intifada palestinese (2000-2006). Ophir vaga per la montagna e le sue vigne che si estendono a perdita d’occhio. Una parte di esse viene coltivata dai cristiani evangelici che si sono aggiunti agli ebrei di Har Brakha.

Negli Stati Uniti mio padre coltivava patate. Un giorno ha scoperto che nella Bibbia non si coltivavano patate, ma semmai vigne. Ed è venuto ad abitare qui,” spiega Nate, che parla di qui come “Israele”.

Nelle strade della colonia e in mezzo ai tralci delle vigne è difficile capire che Har Brakha ha preso forma al di là della “Linea Verde” – i confini dello Stato ebraico suggellati nel 1949. Unico segno della storia, un posto di guardia militare che testimonia della presenza dell’esercito su queste terre nel 1982, prima di lasciar posto ai primi membri della comunità religiosa.

Circa 2.000 persone vivono oggi a Har Brakha. Nella Cisgiordania occupata dopo gli anni ’90 il numero dei coloni è triplicato, per raggiungere i 420.000 abitanti, senza considerare Gerusalemme est.

Ma non è questa storia profana che Ophir vuole raccontare ai suoi ospiti. Questa guida turistica professionista confida nel suo metodo e nella sua narrazione: “Le persone vengono, ci si diverte, si beve del vino, gli faccio incontrare degli abitanti della regione, e qui possono sperimentare la pace.”

Sì, è legale”

Se ci si basa sui commenti lasciati su couchsurfing.com, è una ricetta che funziona. “Ho imparato molto durante questo soggiorno, ci penserò sicuramente per molto tempo,” oppure: “Sono contento che tu faccia vedere cos’è la vita nelle colonie”. Cisco, che non aveva mai visitato una colonia, una volta tornato in Romania ne conclude: “Ciò consente di avere una vita semplice in famiglia. Onestamente, non si può chiedere di meglio.”

A un centinaio di chilometri a sud nella colonia di Kfar Adumim, Yonadav, 18 anni, quest’estate ha iscritto la sua famiglia su couchsurfing.com. Come Ophir, la sua abitazione seduce molti viaggiatori. Alle porte del deserto, vicino a Gerusalemme, anche questo luogo ha una dimensione biblica.

Più che la pace, sono le loro voci che Yonadav e la sua famiglia vogliono far sentire: “La maggior parte del tempo le persone non conoscono che una sola storia, e hanno una cattiva immagine di Israele.” Anche se non è la motivazione all’origine del fatto di mettere a disposizione la loro casa ai “couchsurfer”, “ciò ci permette di dare quest’altra versione, soprattutto a quelli che hanno viaggiato nei territori palestinesi”, riconosce il liceale, che non ha mai lasciato il suo Paese. Questa versione è lunga una riga, la prima della sua descrizione: “Vivo in una colonia, non è pericoloso, e sì, è legale”. Insomma, fedele alla dottrina del governo. Del resto Yonadav ha aggiornato il suo profilo poco più di un mese fa, dopo la visita di due ospiti che pensavano che abitasse in un villaggio arabo.

Un’esperienza buffa, che deriva dai riferimenti ambigui proposti dalla piattaforma “Couchsurfing”. Quando si digita “Cisgiordania” nella barra di ricerca, gli annunci che vengono visualizzati includono a casaccio ospiti palestinesi o coloni, senza specificazioni relative a chi risiede in una colonia. Stesso risultato se si cerca “Giudea e Samaria”, termini di origine biblica che corrispondono alla denominazione amministrativa utilizzata dalle autorità israeliane per definire le zone a maggioranza ebraica che si trovano in Cisgiordania, a parte Gerusalemme est. A causa di questi riferimenti schizofrenici e a meno di spulciare i 23.864 annunci, impossibile ottenere la cifra totale delle sistemazioni relative alle colonie.

Per avere un ordine di idee che si avvicini al massimo alla realtà, è possibile non far apparire altro che ospitanti che indichino di parlare ebraico, prendendo in considerazione delle zone geografiche sufficientemente lontane per evitare che i risultati si sommino. Così si trovano 47 persone ospitanti ad Ariel, 323 a Modin Illit, o ancora 518 a Alfei Menashe. Quanto alle Alture del Golan, che fanno parte dei territori occupati da Israele contemplati nella risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, se ne trovano 231.

Presi di mira da Amnesty International

Ma queste risoluzioni e altre critiche internazionali che fanno delle colonie uno degli ostacoli principali alla soluzione del conflitto israelo-palestinese non sembrano influenzare le esperienze dei viaggiatori. Sui profili di Ophir, di Yonadav e di molti altri, i commenti vantano il loro senso di ospitalità, le loro virtù culinarie, o la bellezza dei luoghi. Scoprire che nelle colonie si fa del “couchsurfing” come ovunque altrove. “Tutti se ne fregano! assicura Ophir. “Si beve del vino, il paesaggio è gradevole. È tutto quello che interessa. La sua unica esperienza negativa non è andata oltre lo stadio virtuale. “Non è mai venuta, perché quando ha capito che era qui, nella cosiddetta ‘Cisgiordania’, mi ha scritto che a Ginevra dicono ‘così e cosà’, e che quello che fate è male. Ride. “Le ho detto: va bene, a Ginevra dicono così, ma c’è dio. E io scelgo dio.

Peraltro il turismo nelle colonie può essere un turismo qualunque? Per Amnesty International e per molte altre Ong la risposta è no. In un rapporto al vetriolo pubblicato lo scorso gennaio l’organizzazione per la difesa dei diritti umani prende di mira le attività di Booking.com, Airbnb, Expedia e TripAdvisor per le loro offerte nelle colonie, accusate di contribuire “alla conservazione, allo sviluppo e all’estensione delle colonie di popolamento illegale, che costituiscono dei crimini di guerra in base al diritto penale internazionale, traendone profitto. In sostanza, queste compagnie sono accusate di normalizzare la situazione. In novembre Airbnb ha ritirato tutte le sue offerte di affitto nella Cisgiordania occupata, prima di cambiare idea in aprile e di riproporne circa 200, minacciata di denuncia in Israele come negli Stati Uniti. Ormai, garantisce la compagnia, “Airbnb non ricaverà nessun profitto dall’attività nella regione.”

La piattaforma “Couchsurfing”, che ha superato il livello di 4 milioni di utenti, fornisce un servizio gratuito, tranne che per i membri cosiddetti “verificati”, che pagano una cifra fissa al sito e di cui fanno parte un certo numero di coloni. Senza contare che nessun avvertimento compare sulle pagine delle sistemazioni in zona occupata.

Il turismo nelle colonie costituisce una questione strategica per Israele, che d’altronde nel 2018 ha raggiunto il suo record complessivo di visitatori con quasi 4 milioni di viaggiatori. A colpi di sovvenzioni, finanziamenti dei programmi o statuti speciali, negli ultimi anni il governo ha massicciamente investito in Cisgiordania. Ultimo aiutino a metà maggio: lo Stato promette fino al 20% di sovvenzioni agli imprenditori che vogliano costruire o ingrandire i propri hotel in “Giudea e Samaria”. Sul “Jerusalem Post” il sindaco di Efrat si è rallegrato di questa misura: “I turisti sono i migliori ambasciatori nella promozione del sionismo e nella lotta contro il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni).” L’obiettivo: “Vedranno così che non c’è una guerra quotidiana e che non c’è apartheid.” Come su “Couchsurfing”?

Anna Mutelet

Giornalista.

Annabelle Martella

Giornalista.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Issawiya, la cittadina palestinese che resiste alle punizioni collettive di Israele

Hanadi Qawasmi – ISSAWIYA, Gerusalemme est occupata

Lunedì 12 agosto 2019 – Middle East Eye

L’ultima campagna israeliana contro questo quartiere della conurbazione di Gerusalemme est, una delle più lunghe e violente della sua storia recente

Nel quartiere palestinese di Issawiya le auto della polizia israeliana non sono tollerate.

Nel comune ogni traccia della presenza poliziesca degenera rapidamente in scontri, con giovani palestinesi che lanciano pietre e molotov contro i veicoli, mentre le forze israeliane fanno uso di proiettili veri, di pallottole d’acciaio ricoperte di gomma e di lacrimogeni.

Questo quartiere, che conta più di 15.000 abitanti, è ben noto ai palestinesi come un faro della resistenza civile all’occupazione israeliana.

Issawiya è una delle zone più ribelli di Gerusalemme,” dichiara a Middle East Eye Fadi Elayan, un abitante trentatreenne della cittadina.

La polizia obbedisce alla logica in base alla quale se Issawiya viene sottomessa e il suo rifiuto dell’occupazione è ridotto al silenzio, il resto di Gerusalemme sarà domato.”

La portata della determinazione della polizia israeliana nel demonizzare questa zona periferica è stata svelata lo scorso martedì, quando si è saputo che, durante una serie televisiva di reality show sulla polizia, alcuni agenti hanno messo un fucile M-16 nella casa di un abitante di Issawiya e in seguito hanno sostenuto di averlo scoperto lì.

Durante gli ultimi due mesi Issawiya è stata bersaglio di una violenta e dirompente repressione israeliana lanciata poco dopo l’Aid al-Fitr [festa musulmana per la fine del Ramadan, ndtr.] con il pretesto di garantirvi la sicurezza.

Da allora la cittadina è bersaglio di una politica di punizione collettiva: più di 250 arresti politici, centinaia di vessazioni perpetrate dalle forze israeliane ai danni di veicoli e negozi, decine di abitanti feriti dagli spari israeliani e il funerale per un giovane palestinese.

Il 27 giugno, durante un’incursione notturna, la polizia israeliana ha ucciso Mohammad Samir Obaid, provocando viva indignazione tra gli abitanti della cittadina. Due testimoni oculari hanno dichiarato a MEE che nel momento in cui è stato ucciso questo palestinese di 20 anni non rappresentava alcuna minaccia.

Il giorno prima le immagini di un soldato ricoperto di pittura rossa lanciata dai giovani della cittadina erano state ampiamente condivise dai palestinesi sulle reti sociali.

Repressione concertata

Tale repressione non è un fatto raro per la cittadina: di fatto non passa un anno senza azioni simili da parte delle forze israeliane.

Ma secondo gli abitanti l’ultima campagna è una delle più lunghe e violente della storia recente del quartiere – dura consecutivamente da più di 50 giorni ed è stata messa in atto da diversi organi militari e civili israeliani.

Le incursioni delle forze israeliane sembrano una sfilata organizzata: quattro grossi SUV arrivano nel quartiere, insieme a guardie di frontiera e a volte a un reparto a piedi, gli agenti lanciano delle bombe assordanti nelle strade per disperdere i giovani e seminare la paura, poi procedono a un’operazione di controllo e perquisizione umiliante e aggressiva.

La polizia di frontiera, le forze speciali, la polizia stradale, così come le autorità municipali e fiscali israeliane si danno da fare durante tutta la giornata, concentrandosi sui giovani nelle strade e sugli abitanti che ritornano a casa dopo il lavoro.

Come il resto di Gerusalemme est, Issawiya è passata sotto occupazione israeliana nel 1967 ed oggi è circondata da ogni parte dalle colonie israeliane e dalle loro infrastrutture, che in base al diritto internazionale sono tutte illegali.

L’autostrada 1, che si trova al limite est del quartiere, è stata costruita per collegare le colonie della Cisgiordania occupata a Gerusalemme e Tel Aviv.

A sud Issawiya è a cavallo del campus dell’Università Ebraica. A nord e a ovest si trovano le colonie della Collina Francese e di Tsameret HaBira. 

La cittadina è sottoposta a restrizioni, come blocchi stradali e perquisizioni arbitrarie, che sconvolgono la vita quotidiana.

Punire la cittadina e i suoi abitanti”

Quando procedono a degli arresti, le autorità israeliane non esitano a ricorrere alla forza, aggredendo i giovani, sfondando le porte delle case prima di perquisirle e procedendo a perquisizioni violente.

Fonti locali hanno dichiarato a Middle East Eye che negli ultimi due mesi, soprattutto durante retate notturne, sono stati arrestati dalla polizia non meno di 250 giovani maschi.

La maggioranza di loro è stata arrestata per brevi periodi e poi rilasciata, spesso su cauzione, e posta agli arresti domiciliari per periodi variabili, a volte fino a una settimana.

Secondo l’avvocato Mohammad Mahmoud, che li rappresenta davanti ai tribunali israeliani, almeno cinque di essi sono ancora detenuti.

L’avvocato Mahmoud ha dichiarato a MEE che questi giovani devono rispondere di diverse accuse, come partecipazione a manifestazioni e a scontri con le forze israeliane, compreso il lancio di pietre e di molotov, in particolare dopo l’annuncio della morte di Obaid.

Sempre secondo il loro avvocato, le cauzioni di quelli che sono stati liberati superano i 60.000 shekel (più di 15.000 €).

Mohammad Abu al-Hummos, un attivista politico di Issawiya, ritiene che le misure israeliane siano assolutamente arbitrarie e costituiscano una forma di punizione collettiva. Rappresentano il “desiderio della polizia dell’occupazione israeliana di procedere a una qualunque perquisizione o detenzione, poco importa il motivo, semplicemente per punire la cittadina e le sue famiglie,” ha dichiarato a MEE.

Un padre convocato dalla polizia per un bambino

Il 30 luglio la storia di Mohammad Elayyan, 4 anni, è diventata virale sulle reti sociali quando lui e suo padre sono stati convocati dalla polizia israeliana per un interrogatorio.

Il nonno del bambino, Nayef Elayan, ha dichiarato in un’intervista che Mohammad giocava per la strada con altri bambini quando un veicolo della polizia israeliana ha fatto irruzione nella zona.

Più tardi, durante la giornata, le forze israeliane si sono recate al domicilio di Mohammad alla ricerca del bambino, sostenendo che aveva lanciato delle pietre contro di loro. Quando si sono resi conto che aveva 4 anni e che in base alla legge non poteva essere arrestato, hanno consegnato a suo padre, Rabiaa, un mandato di comparizione per l’indomani mattina, chiedendogli di portare con sé Mohammad.

Per appoggiare il padre e il figlio un gruppo di abitanti di Issawiya li ha accompagnati al commissariato di polizia di via Salah al-Din, la principale arteria commerciale di Gerusalemme est.

A causa della crescente pressione popolare, le autorità israeliane non hanno incontrato il bambino, ma hanno interrogato il padre.

Quest’ultimo ha dichiarato che dei poliziotti l’avevano minacciato che non avrebbe mai più visto suo figlio se quest’ultimo avesse lanciato loro delle pietre.

I bambini non costituiscono una minaccia,” ha dichiarato Fadi Elayyan, uno dei parenti di Mohammed.

Quello che avviene è un tentativo di terrorizzare le famiglie di Issawiya – dai giovani agli anziani.” 

Perquisita la casa di una persona malata

Un giorno dopo il caso di Mohammad, la polizia israeliana ha convocato un altro abitante palestinese di Issawiya per azioni di cui era accusato suo figlio di 6 anni.

Secondo l’agenzia di stampa ufficiale dell’Autorità Nazionale Palestinese, WAFA, Firas Obaid ha ricevuto un mandato di comparizione nel commissariato della polizia israeliana per essere interrogato riguardo a suo figlio Qais, accusato di aver tentato di lanciare pietre contro la polizia israeliana che stava di pattuglia nella cittadina.

In un altro episodio molto pubblicizzato tre settimane fa, le forze israeliane hanno cercato di arrestare Iyad Attiyah, un giovane uomo di 24 anni colpito dalla sindrome di Williams, un disturbo genetico raro che può causare problemi fisici e cognitivi. Sua madre, Laila Attiyah, ha dichiarato a MEE che la polizia aveva effettuato un’irruzione a casa loro dopo mezzanotte alla ricerca di suo figlio.

Iyad è stato convocato dai servizi di intelligence, un’ingiunzione che è stata annullata solo quando i servizi sociali sono intervenuti e hanno presentato documenti che provano la sua malattia.

Motivi ridicoli” 

Nel quadro della recente repressione, la polizia stradale israeliana è stata messa di guardia ad ognuno degli ingressi di Issawiya.

Gli agenti fermano arbitrariamente i veicoli per effettuare dei lunghi controlli della vettura, della patente, dell’assicurazione e della carta d’identità, prima di infliggere multe dai 250 ai 1000 shekel (da 65 a 255 euro), rendendo così più pesante il peso economico a scapito degli abitanti.

Secondo Mohammad Abu al-Hummos, durante improvvisi controlli sono state revocate decine di libretti di circolazione a causa di presunte infrazioni al codice della strada per i “motivi più ridicoli”.

In una situazione normale nei quartieri non palestinesi ragioni del genere non comporterebbero dei reati o l’annullamento di un libretto di circolazione,” sostiene. “Ci sono dei veicoli che hanno semplicemente superato di un mese il periodo di immatricolazione, cosa che non è illegale, ma ciononostante i loro proprietari ricevono delle multe.”

Giovedì scorso la polizia ha fermato un autobus che trasportava bambini dagli 8 ai 12 anni in viaggio per una gita ricreativa.

L’autista è stato accusato di aver commesso un’infrazione, il suo libretto di circolazione è stato revocato e cinque giovani che accompagnavano i bambini come guide sono stati arrestati.

Neppure i negozi sono stati risparmiati. Le squadre israeliane del Comune e della finanza hanno effettuato parecchie perquisizioni nei negozi, soprattutto sulla strada principale, ed hanno controllato le autorizzazioni, le attrezzature ed i pagamenti delle imposte.

Come reazione, i commercianti hanno cercato di evitare di ricevere troppe multe del fisco chiudendo i propri negozi e aprendoli solo dopo la partenza della polizia.

Di conseguenza l’attività commerciale della cittadina è stata notevolmente rallentata.

Messaggio di resistenza

Interrogate sulle ragioni della repressione israeliana, le famiglie di Issawiya hanno sottolineato la posizione contro l’occupazione adottata da molto tempo dal quartiere.

La cittadina è una delle più note a Gerusalemme per le sue reazioni alle aggressioni delle forze israeliane, e le azioni dei suoi cittadini non si limitano a respingere le misure prese da Israele in nome della sicurezza.

Le famiglie di Issawiya rifiutano anche la presenza delle istituzioni “civili” israeliane, come un centro comunitario finanziato dal governo nella cittadina.

I giovani di Issawiya, per inviare a Israele un messaggio di resistenza, hanno più volte incendiato il centro comunitario, in particolare l’ultima volta dopo l’assassinio di Obaid.

(traduzione di Amedeo Rossi)




In seguito all’uccisione del soldato*, politici israeliani promuovono l’annessione della Cisgiordania

Lubna Masarwa , Daniel Hilton

9 agosto 2019 – Middle East Eye

Esperti del discorso politico affermano che la scoperta del corpo del diciannovenne spinge i politici a chiedere l’estensione della sovranità di Israele, che ora è accettata dalla maggioranza dell’opinione pubblica israeliana

Inizialmente la risposta israeliana al ritrovamento giovedì del corpo del diciannovenne Dvik Sorek nei pressi di una colonia in Cisgiordania è stata la stessa di altri momenti in cui un soldato è stato ucciso nei territori occupati.

Le forze di sicurezza hanno perlustrato la zona nelle cittadine e villaggi vicini, bloccando le strade principali tra le città di Hebron e Betlemme.

Nel contempo leader israeliani hanno emesso comunicati, esprimendo le proprie condoglianze alla famiglia di Sorek, condannando l’aggressione e le fazioni palestinesi e promettendo una punizione esemplare.

Tuttavia la piega che ha preso il discorso è stata molto significativa.

Ore dopo che è iniziata la caccia all’uomo, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha partecipato ad una cerimonia per la posa della prima pietra nella colonia di Beit El. Là ha parlato della costruzione di centinaia di appartamenti e di rafforzare il radicamento israeliano “in tutte le sue parti”.

La nostra missione è di insediare il popolo di Israele sulla nostra terra, di garantire la nostra sovranità sulla nostra patria storica,” ha detto Netanyahu.

Benché la costruzione di colonie e l’incremento della presenza ebraica siano stati da molto tempo un ritornello comune delle politiche della destra israeliana, l’estensione della sovranità e quindi la piena annessione della Cisgiordania sta diventando un discorso sempre più spesso ventilato.

E il primo ministro israeliano non è stato l’unico leader a prendere la morte di Sorek nel blocco di colonie di Gush Etzion come spunto per parlarne ancora una volta.

Il portavoce del parlamento Yuli Edelstein ha detto che la risposta di Israele all’aggressione deve essere decisiva: “L’applicazione della sovranità israeliana in ogni luogo – e prima a Gush Etzion.”

È intervenuto anche Naftali Bennet, ex-ministro dell’educazione e importante esponente della lista “Destra Unita”, da poco formata.

Oggi, sì, oggi, la legge israeliana deve essere applicata a Gush Etzion con una decisione del governo,” ha twittato.

Raggiungere il consenso diffuso

L’idea di annessione ha fatto breccia nella comune opinione pubblica ai primi di aprile, giorni prima delle elezioni politiche israeliane, quando Netanyahu ha provato a prendersi i voti di destra promettendo di applicare la sovranità [israeliana] alle colonie della Cisgiordania.

La Cisgiordania è stata ufficialmente sotto occupazione militare da quando è stata conquistata nel 1967, e da allora ogni colonia vi è stata costruita in violazione delle leggi internazionali in base a un sistema amministrativo separato dalle comunità israeliane all’interno dei confini del Paese del 1948.

Ma negli ultimi mesi la destra ha cercato di estendere la sovranità israeliana e di annettere parti o tutto il territorio, riflettendo iniziative prese in altre zone conquistate nel 1967, come Gerusalemme est e le Alture del Golan. Queste annessioni non sono mai state riconosciute dalla comunità internazionale.

È sicuramente significativo che il dibattito sia diventato una questione ampiamente condivisa,” dice a Middle East Eye Meron Rapoport, un esperto analista politico israeliano. “Le parole ‘annessione’ e ‘sovranità’ vengono dette quotidianamente dai politici.”

Il dibattito non si limita alle sole colonie israeliane.

All’inizio di questa settimana Ayelet Shaked, dirigente della coalizione di estrema destra “Destra Unita”, ha chiesto ai membri della lista di dichiarare il proprio impegno ad estendere la sovranità di Israele sui “territori di Giudea, Samaria e della valle del Giordano,” riferendosi a tutta la Cisgiordania.

Con la “Destra Unita” in corsa per vincere circa 10 seggi nel parlamento israeliano, la Knesset, tale discorso potrebbe diventare una parte importante del futuro governo di destra in seguito alle elezioni israeliane del 17 settembre.

Già molti nel partito Likud di Netanyahu stanno chiedendo la stessa cosa.

La maggioranza dei deputati del Likud parla di sovranità, annessione e sviluppo delle colonie,” dice Rapoport.

Ma non bisogna dimenticare che è periodo di elezioni, quando i politici sostengono posizioni sempre più radicali.” Per Rapoport l’annessione senza cittadinanza per gli abitanti palestinesi della Cisgiordania, il cui numero è di circa 2.8 milioni, renderebbe ufficialmente Israele uno Stato di apartheid. Ma, afferma, se la destra dovesse fallire, ciò porrebbero serie domande.

L’annessione è uno dei principali progetti politici della destra. Per cui se non riuscisse ad ottenere l’approvazione per l’annessione della Cisgiordania, ciò provocherebbe una grave crisi all’interno della destra.”

Salah Khawaja, un attivista palestinese contro l’occupazione, afferma che l’annessione è già in atto sul terreno.

Nota che la maggior parte della popolazione palestinese che una volta risiedeva nell’Area C, territorio direttamente amministrato da Israele, è stata cacciata altrove in Cisgiordania a causa di una serie di politiche israeliane.

Nel contempo il discorso sulla soluzione dei due Stati è totalmente assente.

I partiti di destra israeliani non parlano più di uno Stato palestinese,” dice a MEE. “L’annessione sta diventando istituzionalizzata.”

* vedi http://zeitun.info/2019/08/10/luccisione-di-un-soldato-israeliano-scatena-una-vasta-caccia-alluomo-in-cisgiordania/

(traduzione di Amedeo Rossi)