La CPI (Corte Penale Internazionale) ha stabilito di avere l’autorità di indagare sui presunti crimini di guerra di Israele e di Hamas

Redazione di MEE

5 febbraio 2021 – Middle East Eye

Le conclusioni aprono la strada perché la procuratrice capo prosegua le indagini su presunti crimini di guerra commessi a partire dal bombardamento di Gaza da parte di Israele nel 2014.

Venerdì [5 febbraio 2021] i giudici della Corte Penale Internazionale (CPI) hanno stabilito di avere “giurisdizione territoriale” all’interno delle zone occupate da Israele dal 1967, aprendo la strada per una possibile indagine riguardo a presunti crimini di guerra.

Nel gennaio 2020 un collegio giudicante preliminare presso la corte con sede all’Aia è stato incaricato di stabilire l’ambito di competenza giurisdizionale della CPI riguardo a Israele e Palestina, posto che lo Stato di Israele, a differenza dell’Autorità Nazionale Palestinese, non è membro della CPI.

La Palestina ha…accettato di sottomettersi alle condizioni dello Statuto di Roma della CPI e ha il diritto di essere trattato come qualunque altro Stato membro per le materie riguardanti l’applicazione dello Statuto,” ha affermato venerdì la CPI in un comunicato.

Il primo ministro palestinese Muhammad Shtayyeh ha accolto positivamente la decisione, definendo la sentenza della CPI “una vittoria della giustizia e dell’umanità.” Ha anche chiesto alla corte di “accelerare le procedure giudiziarie” riguardo ai casi relativi ai palestinesi.

L’ambito giurisdizionale della CPI includerebbe le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata, generalmente considerate illegali in base alle leggi internazionali.

La convenzione di Ginevra stabilisce che una potenza occupante non può trasferire legalmente parte della propria popolazione nel territorio che occupa, e nel 2004 la Corte Internazionale di Giustizia ha emanato un parere consultivo affermando che costruendo le colonie Israele ha violato i suoi obblighi in base alle leggi internazionali.

Israele ha tassativamente rigettato qualunque forma di giurisdizione della CPI sui propri cittadini.

L’iniziativa è stata contestata anche dagli USA, i più stretti alleati di Israele, che venerdì hanno affermato di essere “seriamente preoccupati riguardo ai tentativi della CPI di esercitare la propria giurisdizione sul personale israeliano.”

Una base ragionevole” per avviare un’indagine

La corte ha preso in considerazione la questione della giurisdizione territoriale dopo che la procuratrice generale, Fatou Bensouda, ha annunciato che esistevano i presupposti per aprire un’indagine complessiva riguardo a presunti crimini di guerra commessi all’interno dei territori occupati.

All’epoca Bensouda aveva sottolineato che, avendo stabilito che c’era “una base ragionevole per avviare un’inchiesta sulla situazione in Palestina,” era comunque necessario che prima la corte definisse la giurisdizione. La sua decisione era arrivata dopo cinque anni di indagini preliminari ed analisi delle prove.

Venerdì, pur notando che problemi di confine e questioni di sovranità non rientrano nell’ambito di competenza della corte, la CPI ha autorizzato Bensouda a procedere con un’indagine esaustiva.

Un’inchiesta complessiva della CPI potrebbe portare a incriminazioni di singole persone, ma non di Stati.

Ora si prevede che Bensouda inizi a indagare funzionari e politici israeliani e di Hamas riguardo a presunti crimini di guerra nei territori occupati a iniziare dal 2014, durante il quale i bombardamenti aerei israeliani contro la Striscia di Gaza provocarono la morte di 2.251 palestinesi, in maggioranza civili. Durante lo stesso periodo vennero uccisi anche 74 israeliani, quasi tutti soldati.

Nel 2015 un rapporto di una commissione ONU stabilì che durante il conflitto sia Israele che gruppi armati palestinesi potrebbero aver commesso crimini di guerra.

Il rapporto della Commissione per i Diritti Umani dell’ONU (UNHRC) affermò che, mentre sia israeliani che palestinesi erano stati “profondamente colpiti” dalla guerra, a Gaza “le dimensioni delle devastazioni erano state senza precedenti”. Sostenne che tra i morti c’erano 551 minori palestinesi e se ne contavano altre migliaia tra gli 11.231 feriti dalle azioni israeliane.

Tra gli israeliani che potrebbero essere indagati dalla CPI ci potrebbero essere: il primo ministro Benjamin Netanyahu, gli ex-ministri della Difesa Moshe Yaalon, Avigdor Lieberman e Naftali Bennett, gli ex-capi di stato maggiore delle Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.] Benny Gantz e Gadi Eisenkot, l’attuale capo di stato maggiore Aviv Kochavi e sia l’ex che l’attuale capo del servizio di sicurezza interno Shin Bet, rispettivamente Yoram Cohen e Nadav Argaman.

Gli USA sanzionano funzionari della CPI

In giugno anche un gruppo di palestinesi della Cisgiordania occupata ha presentato una denuncia alla CPI, chiedendo un’indagine contro importanti politici israeliani e statunitensi che hanno autorizzato il piano “Pace verso la Prosperità” dell’ex-presidente USA Donald Trump.

All’epoca un rappresentante del gruppo ha affermato che c’erano “prove ragionevoli” in base alle quali importanti funzionari USA, compreso Trump, erano stati “complici di azioni che potrebbero rappresentare crimini di guerra riguardanti il trasferimento di popolazione nei territori occupati e l’annessione di territorio sotto la sovranità dello Stato di Palestina.”

Israele e gli USA sono due dei pochi Stati ad essersi opposti alla nascita della CPI, mentre 123 Paesi ne hanno accettato la giurisdizione.

A settembre gli Stati Uniti, sotto Trump, hanno imposto sanzioni contro Bensouda e Phakiso Mochochoko, un altro importante funzionario della procura, per le inchieste su Afghanistan e Palestina. All’epoca Trump sottolineò che la corte non aveva “giurisdizione sul personale degli Stati Uniti e di alcuni dei suoi alleati,” in riferimento ad Israele.

L’amministrazione Biden ha affermato che prevede di rivedere le sanzioni contro i funzionari della CPI. “Per quanto siamo in disaccordo con le azioni della CPI relative ai casi afghano e israelo-palestinese, le sanzioni saranno comunque riesaminate mentre decideremo i nostri prossimi passi,” ha affermato in un comunicato il portavoce del Dipartimento di Stato durante la prima settimana del mandato di Biden.

Il portavoce ha aggiunto che la nuova amministrazione appoggia riforme “che aiutino la corte a realizzare più efficacemente la propria principale missione di punire e scoraggiare atrocità” e in “casi eccezionali” potrebbe collaborare con la CPI.

In seguito alla decisione di venerdì, il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price ha affermato che gli USA sono “seriamente preoccupati” riguardo ai tentativi della CPI di stabilire la propria giurisdizione su personalità israeliane.

Non crediamo che i palestinesi siano uno Stato sovrano e di conseguenza non sono legittimati a ottenere l’ammissione come Stato o a partecipare in tale veste ad organismi, entità o incontri internazionali, compresa la CPI,” ha affermato Price.

Gli Stati Uniti hanno sempre adottato la posizione secondo cui la giurisdizione della corte dovrebbe essere riservata ai Paesi che vi aderiscono o che sono indicati dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il responsabile della politica estera di Biden: USA intendono mantenere l’ambasciata a Gerusalemme.

Al Jazeera e agenzie di notizie

20 gennaio 2021 – Al Jazeera

Antony Blinken afferma che l’amministrazione Biden non annullerà il controverso trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, voluto da Donald Trump.

La nuova amministrazione del presidente eletto Joe Biden manterrà l’ambasciata USA in Israele a Gerusalemme, ha affermato il suo candidato a Segretario di Stato durante l’audizione di conferma al Senato.

Siete d’accordo che Gerusalemme sia la capitale di Israele e vi impegnate a che gli Stati Uniti mantengano la propria ambasciata a Gerusalemme?”, ha chiesto il senatore repubblicano del Texas Ted Cruz [esponente dell’estrema destra trumpiana, ndtr.].

Sì e ancora sì”, ha detto Antony Blinken nella sua audizione martedì.

Il presidente uscente Donald Trump annunciò il riconoscimento USA di Gerusalemme come capitale di Israele nel dicembre 2017. Gli USA trasferirono l’ambasciata in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme nel maggio dell’anno seguente.

Gerusalemme resta al centro del pluridecennale conflitto mediorientale, con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) che sostiene che Gerusalemme est – occupata illegalmente da Israele dal 1967 – debba essere la capitale di uno Stato palestinese.

L’unico modo per garantire il futuro di Israele come Stato ebraico e democratico e per dare ai palestinesi uno Stato a cui hanno diritto sta nella cosiddetta soluzione a due Stati”, ha detto Blinken.

Penso che realisticamente sia difficile vedere prospettive a breve termine per avanzare a questo proposito. Ciò che sarebbe importante è garantire che nessuna delle parti prenda iniziative che rendano ancor più insidioso il già arduo processo”, ha aggiunto.

Finora non vi è stato alcun commento da parte della leadership palestinese.

Lama Khater, una giornalista che vive nella città di Hebron nella Cisgiordania occupata, ha scritto su twitter: “Tutto può cambiare nei programmi delle varie amministrazioni USA, tranne l’assoluta lealtà verso Israele”.

L’amministrazione Trump è stata sfrontata nel suo aperto sostegno ad Israele.

Gli scorsi quattro anni hanno consolidato il favore statunitense nei confronti di Israele attraverso politiche come la cancellazione degli aiuti USA all’ANP e l’annullamento dei finanziamenti all’agenzia ONU per i rifugiati, da cui milioni di palestinesi dipendono per l’istruzione, il cibo e il sostentamento.

In conflitto con la posizioni condivisa a livello internazionale, l’amministrazione Trump ha riconosciuto la sovranità di Israele su Gerusalemme e sulle Alture del Golan occupate e ha dichiarato che la costruzione di colonie non è illegale.

Circa 500.000 israeliani vivono in colonie situate nella Cisgiordania occupata. Negli ultimi anni l’espansione delle colonie si è intensificata, mettendo a serio rischio la possibilità di uno Stato palestinese indipendente come parte della soluzione a due Stati.

Benché Biden abbia affermato che la sua amministrazione ripristinerà la politica di Washington precedente a Trump di opposizione all’espansione delle colonie, dichiara tuttavia “un ferreo sostegno” ad Israele.

Gli analisti hanno sottolineato che la politica di Biden verso Israele sarà probabilmente in continuità, non in opposizione, alla precedente amministrazione. Funzionari della campagna di Biden hanno affermato che probabilmente lui non annullerà nemmeno il riconoscimento di Trump della sovranità di Israele sulle Alture del Golan occupate.

Biden ha detto che lascerà l’ambasciata USA a Gerusalemme.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Operai palestinesi scioperano in una zona industriale della Cisgiordania

Danny Zaken

14 gennaio 2021 – Al-Monitor

Gli operai palestinesi della Yamit stanno scioperando per ottenere il loro primo consistente aumento salariale in decenni.

La storia delle fabbriche israeliane nelle zone industriali in Cisgiordania in cui vige un’ambiguità legale ha risvolti economici e politici e la crisi da coronavirus ne ha evidenziato le dinamiche nel momento in cui i palestinesi lottano per l’uguaglianza salariare con gli israeliani.

Ogni giorno entrano in Israele circa 80.000 lavoratori palestinesi. Stando ai dati dell’Amministrazione Civile israeliana, un dipartimento del Ministero della Difesa [israeliano] che tiene i collegamenti tra le autorità palestinesi e quelle israeliane, i lavoratori hanno un salario mensile in media di 6.000 shekel [circa €1.500]. Ciò equivale all’incirca al salario minimo per gli israeliani, ma corrisponde a circa quattro volte la media nei territori palestinesi. Altri 30.000 palestinesi lavorano in Cisgiordania, principalmente nelle zone industriali adiacenti alle colonie israeliane. Alcune migliaia sono occupati nell’edilizia. Secondo l’Amministrazione Civile, i salari dei palestinesi che lavorano nelle colonie in Cisgiordania sono solo leggermente inferiori a quelli dei palestinesi che lavorano in Israele, con una media di circa 5.500 shekel [€1.400] al mese. Hanno anche diritto a condizioni e sussidi previsti dalla legge israeliana come pensioni, malattia e vacanze retribuite.

Un funzionario dell’Amministrazione Civile ha detto ad Al-Monitor che nel 2019 i redditi di questi 120.000 lavoratori sono ammontati a più di un quarto del totale delle entrate in Cisgiordania. Quest’anno la cifra è persino maggiore a causa della pandemia che ha devastato l’economia palestinese. Dato che Israele dipende in buona misura dalla forza-lavoro palestinese, soprattutto nell’edilizia, persino durante il picco delle ondate dell’infezione i lavoratori che altrimenti avrebbero dovuto essere in lockdown hanno avuto il permesso di entrare in Israele.

Nel 2007 la Corte Suprema ha deliberato che la legge israeliana si applica ai palestinesi impiegati in Israele e nelle colonie della Cisgiordania. Nove giudici hanno deciso all’unanimità che la nazionalità non poteva essere usata come scusa dai datori di lavoro per offrire loro condizioni che differissero da quelle della controparte israeliana.

La decisione si applica a tutti i palestinesi che lavorano in Israele e nelle colonie. Comunque non vale nella zona industriale di Nitzanei Shalom, che negli anni ’90, subito dopo la firma degli accordi di Oslo, fu costruita vicino alla città palestinese di Tulkarem e lungo la barriera di separazione. La Yamit, che costruisce filtri dell’acqua per uso agricolo e casalingo, si trova in questa zona industriale e perciò non è soggetta alla legge israeliana in generale.

La fabbrica impiega 80 palestinesi che guadagnano mensilmente fra i 5.000 e i 6.000 shekel (1.260-1.500 €). Alcuni vi lavorano da vent’anni o più e ora che hanno una considerevole esperienza professionale vogliono un aumento. Si sono persino organizzati come un sindacato con Maan, l’organizzazione sindacale israeliana.

I negoziati con la fabbrica sono iniziati l’anno scorso, ma, a causa del coronavirus, si sono trascinati per mesi. Alla fine Ofer Talmi, il proprietario, li ha informati che non avrebbe potuto soddisfare le loro richieste a causa della crisi economica conseguente al COVID-19. Ma i lavoratori si sono rifiutati di cedere. Il 31 dicembre 2020 sono scesi in sciopero. Sorpreso, Talmi ha mandato una email di protesta al capo di Maan, Assaf Adiv, dicendo che lui aveva soddisfatto tutti gli obblighi di legge verso i propri lavoratori. Poi ha aggiunto: “La terra di Israele appartiene al popolo ebraico. Quindi non voglio avere dei lavoratori palestinesi con legami di alcun tipo con lo Stato di Israele.” Furiosi per la risposta, gli scioperanti hanno passato la mail ai media palestinesi e israeliani.

Halil Shihab, uno degli scioperanti, dice: “Noi abbiamo lavorato per anni pagati con il minimo salariale. Noi siamo specializzati e prendiamo il minimo. Adesso lui dice che non vuole dare ai suoi dipendenti nemmeno le condizioni di base perché sono arabi, non certo perché non può permetterselo.”

Rendendosi conto dell’enormità del suo errore, Talmi ha diffuso una lettera in arabo in cui si scusava con i suoi lavoratori e li metteva in guardia che se lo sciopero fosse continuato sarebbe stato costretto a chiudere. Ha promesso a ognuno di loro 1.000 shekel [€ 253] se fossero ritornati al lavoro e ha detto che avrebbe ripreso i negoziati sui salari. “Voglio scusarmi e ritrattare quello che ho scritto nella mia mail precedente sul diritto alla Terra di Israele. L’ho scritta in un momento di estrema pressione. … Per me è molto duro vedere chiusi i cancelli della nostra fabbrica perché potrebbe avere serie conseguenze per tutte le nostre vite. Attraversiamo un periodo difficile e lo sciopero ci danneggia tutti. Mette in pericolo la nostra stessa esistenza.”

Secondo i dirigenti della fabbrica, Adiv aveva condiviso la prima lettera con organizzazioni antiisraeliane come il movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, che l’ha usata per attaccare Israele. I suoi motivi, loro dicono, erano totalmente politici. Nel frattempo il proprietario della fabbrica dice ad Al-Monitor: “Yamit ha impiegato lavoratori palestinesi per oltre 35 anni. Opera in accordo con la legge e garantisce a tutti vari diritti e indennità, inclusi una paga migliore, pensioni, indennità per malattia e indennizzi. Assaf Adiv di Maan sta usando cinicamente questo momento difficile, sapendo che Yamit, come tante altre fabbriche e industrie in Israele e in tutto il mondo, sta affrontando enormi difficoltà a causa del coronavirus. Questo tentativo di interferire, apparentemente a favore di una o l’altra ideologia, causa un danno enorme a relazioni che altrimenti funzionavano bene, con una effettiva coesistenza che per anni è stata il marchio distintivo di questa fabbrica. ”

Adiv nega le accuse. In una conversazione con Al-Monitor afferma che tutto quello che voleva era ottenere migliori condizioni lavorative per dipendenti con anzianità. Se Talmi avesse dichiarato la sua disponibilità ad aumentare i salari alla fine della crisi, l’intera situazione si sarebbe risolta. Adiv ha anche affermato che nel corso degli anni Talmi, non avendo mai pagato i contribuiti al fondo pensioni dei lavoratori, ha risparmiato milioni.

Ali, un altro operaio, parla con Al-Monitor del conflitto. Chiedendo di non citare il suo cognome, dice: “Sono disposto a perdonare Ofer Talmi, ma lui deve capire che ci meritiamo di più. Se vuole veramente sostenere la coesistenza, che ci faccia vedere come. Poi noi lo aiuteremo a far uscire la fabbrica dalla crisi.” In questo caso il modello della zona industriale potrebbe sopravvivere. Altrimenti potrebbe trovarsi in serio pericolo.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La chiesa ortodossa di Gerusalemme accusata di voler vendere terreni come ‘lotti da colonizzare’

Qassam Muaddi, Betlemme, Cisgiordania occupata

5 gennaio 2021 – Middle East Eye

Se venduta, la terra collegherebbe la colonia di Gilo nell’area di Betlemme a Gerusalemme, mette in guardia un importante gruppo di base cristiano palestinese

Il patriarca ortodosso di Gerusalemme ha suscitato indignazione per la recente rivelazione dei piani di vendita di circa 27 acri [circa 11 ettari, ndtr.] di proprietà della chiesa a due società israeliane che mirano a collegare una colonia [sita] nell’area di Betlemme a Gerusalemme.

Il Consiglio centrale ortodosso in Palestina (OCCP), un’organizzazione di base cristiano- palestinese, ha criticato la decisione martedì scorso, che coincideva per la chiesa ortodossa con la vigilia di Natale, nel corso di una conferenza stampa.

L’OCCP ha riferito che il patriarca di Gerusalemme – uno dei nove patriarchi della chiesa ortodossa orientale – è pronto a vendere la proprietà della chiesa a due società israeliane che presumibilmente intendono utilizzarla per progetti turistici e abitativi.

La proprietà in questione è annessa al monastero di Mar Elias [uno dei più antichi monasteri cristiani tuttora attivi sin dalla fondazione, ndtr.], situato su una collina che domina la zona sud di Betlemme.

“Si tratta di un progetto recente, che risale allo scorso settembre, [che] mira al completamento di una cintura di colonie israeliane, estesa dall’insediamento di Gilo vicino alla città palestinese di Beit Jala fino a Talpiot a Gerusalemme”, riferisce a Middle East Eye il portavoce dell’OCCP Jalal Barham.

Barham ammonisce sul fatto che una volta fatto l’acquisto il progetto territoriale israeliano “distruggerà l’economia di Betlemme fondata sul turismo”.

Le colonie israeliane sono considerate illegali sulla base del diritto internazionale.

Mettere a tacere chi si oppone

L’operazione, secondo l’OCCP, vale 125 milioni di shekel (32 milioni di euro). Le due società israeliane intenzionate ad acquistare il terreno sono state identificate come Talpiot Hadasha e Broeket Habsaga, società appaltatrici che operano nella Gerusalemme est occupata.

Barham afferma che l’OCCP è stato in grado di accedere ai dettagli dell’accordo tramite un casellario giudiziario israeliano, “che chiunque può consultare via internet”.

Ma un funzionario dell’Alto Comitato presidenziale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina per gli affari delle chiese (HCC) ha detto a MEE che “i documenti prodotti dall’OCCP sono da mettere in dubbio”. L’HCC è l’organo palestinese ufficiale incaricato delle relazioni tra il governo palestinese e le chiese cristiane.

Tuttavia Barham sostiene che le affermazioni dell’HCC contrarie alla validità dei documenti raccolti sulla vendita sono inventate, e nel menzionare i documenti giudiziari israeliani pubblicamente disponibili riferisce a MEE che tali documenti “non provengono da fonti segrete”.

L’OCCP è stata avversata nei suoi interventi contro l’accordo sulla [vendita della] terra attraverso l’annullamento della sua prima conferenza stampa programmata da parte di autorità ignote.

Barham afferma che l’ufficio del governatore di Betlemme inizialmente aveva riferito al gruppo che la sua conferenza stampa era stata annullata da “alti funzionari”.

“Abbiamo contattato il governo palestinese a Ramallah e ci hanno detto che nessuno aveva dato un ordine di vietare la conferenza stampa e che avevamo il pieno diritto di organizzarla”, dice Barham.

“Deduciamo – aggiunge – che la pressione rivolta ad impedire la conferenza stampa sia arrivata dal Comitato presidenziale superiore per gli affari delle chiese“.

“L’HCC ha esercitato in passato pressioni nei nostri confronti per impedirci di denunciare la complicità ortodossa nell’insediamento coloniale israeliano di Gerusalemme”, afferma.

L’HCC nega tuttavia di aver tentato di bloccare la conferenza stampa, e riferisce a MEE che i suoi avvocati “stanno seguendo tutti i casi di vendita di proprietà della chiesa ai coloni”, ma che non avrebbero tentato di mettere a tacere nessun altro riguardo l’analisi di tali procedure.

Una polemica secolare

Sebbene gli accordi controversi sulle terre del patriarcato ortodosso siano diventati negli ultimi anni un tema scottante tra i palestinesi, le tensioni tra la gerarchia della chiesa ortodossa di Gerusalemme e i membri palestinesi della congregazione sono vecchie di secoli.

“La questione ortodossa in Palestina è il risultato dell’egemonia greca sulla chiesa di Gerusalemme, che risale al 1534, quando l’impero ottomano rimosse l’ultimo patriarca autoctono arabo di Gerusalemme, Atallah II, e lasciò che la chiesa greca nominasse il suo sostituto,” riferisce a MEE Alif Sabbagh, membro del Consiglio centrale ortodosso in Israele.

“Da allora – afferma – la chiesa greca controlla la comunità ecclesiastica e tutte le sue proprietà“.

Nel frattempo l’OCC ha insistentemente richiesto il diritto di “arabizzare la chiesa” nominando un patriarca locale.

“Questo è del tutto comprensibile”, dice Sabbagh.

“Tutti i vescovi del mondo sono cittadini appartenenti al loro stesso popolo, tranne che in Palestina. La gerarchia ecclesiastica è estranea alla popolazione e alla loro causa, motivo per cui non riesce a vedere il problema nella vendita di proprietà ai coloni israeliani”.

Le proprietà della chiesa ortodossa a Gerusalemme e nella sua diocesi, che comprende tutto il mandato palestinese, sono amministrate dalla “Confraternita del Santo Sepolcro”, in prevalenza greca, costituita nel XVI secolo.

“La costituzione della Confraternita è completamente laica e si occupa solo dell’amministrazione della proprietà, che considera esplicitamente come appartenente alla ‘Nazione greca’, e quindi può fare di quella proprietà qualunque cosa gli piaccia”, spiega Sabbagh.

Il patriarca ortodosso di Gerusalemme ha realizzato in passato degli accordi su grandi estensioni di terre, compreso, nel 1951, un contratto di affitto, per un periodo di 99 anni, di un terreno di proprietà della chiesa [situato] a Gerusalemme ovest, al Fondo Nazionale Ebraico [ente no-profit, con poteri para-statali, dell’Organizzazione sionista mondiale fondato nel 1901 a Basilea per comprare e sviluppare terre nella Palestina ottomana per l’insediamento degli ebrei, ndtr.]. Oggi, il terreno ospita la maggior parte delle istituzioni statali israeliane, inclusa la Knesset [il parlamento, ndtr.] israeliana.

Nel frattempo, il patriarca ortodosso di Gerusalemme, Teofilo III, dovrebbe arrivare a Betlemme giovedì per celebrare la messa di mezzanotte di Natale secondo il calendario orientale, una visita che l’OCCP e gruppi scout della chiesa palestinese hanno invitato a boicottare.

Il boicottaggio delle visite natalizie del patriarca Teofilo III è in corso da quattro anni consecutivi, in segno di denuncia del coinvolgimento del patriarca nella vendita e affitto di immobili appartenenti alla chiesa ortodossa a società appaltatrici delle colonie israeliane.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’albero dei soldi americani: la storia mai raccontata degli aiuti statunitensi ad Israele

Ramzy Baroud

1 gennaio 2021 – Counterpunch

Il 21 dicembre scorso il Congresso USA ha approvato il Pacchetto di Aiuti per il Covid 19, come parte di una misura più ampia del valore di $2.3 trilioni [1.870 miliardi di euro, ndtr.] che coprirà la spesa per il resto dell’anno finanziario. Come al solito i rappresentanti USA hanno destinato una massiccia somma di denaro ad Israele.

Proprio mentre disoccupazione e povertà stanno raggiungendo livelli record in seguito ai ripetuti lockdown, gli USA ritengono essenziale fornire ad Israele $3.3 miliardi [2,69 miliardi di euro, ndtr.] in “assistenza alla sicurezza” e $500 milioni [407 milioni di euro, ndtr.] per la cooperazione USA-israeliana nella difesa missilistica.

Mentre un misero aiuto di 600 dollari [490 euro, ndtr.] alle famiglie americane in difficoltà è stato per mesi al centro di intensi dibattiti, non si è discusso molto fra i politici americani sui grandi fondi elargiti ad Israele, che non hanno alcun ritorno.

Il sostegno ad Israele è considerato una priorità bipartisan e da decenni viene visto come l’elemento più stabile dell’agenda della politica estera USA. Sollevare semplicemente la questione di come Israele utilizzi quei fondi – se gli aiuti militari siano usati attivamente per sostenere l’occupazione illegale della Palestina, per finanziare le colonie ebraiche e l’annessione di terre palestinesi o per violare i diritti umani dei palestinesi – è assolutamente tabù.

Uno dei pochi membri del Congresso a chiedere che gli aiuti ad Israele siano condizionati al rispetto dei diritti umani è il senatore Democratico del Vermont Bernie Sanders, che è stato anche uno dei principali candidati presidenziali del Partito Democratico. “Non possiamo dare carta bianca al governo israeliano…Abbiamo il diritto di esigere il rispetto dei diritti umani e della democrazia”, aveva detto Sanders nell’ottobre 2019.

Il suo rivale Democratico, l’attuale Presidente eletto Joe Biden, ha subito replicato: “L’idea che io ritiri, come è stato suggerito da altri, gli aiuti militari ad Israele, è bizzarro”.

Non è certo un segreto che Israele sia il maggiore beneficiario al mondo degli aiuti USA dai tempi della II Guerra mondiale. Secondo dati del Servizio Ricerca del Congresso, Israele ha ricevuto ben 146 miliardi di dollari [119 miliardi di euro, ndtr.] dei contribuenti americani a partire dal novembre 2020.

Gran parte dei fondi ricevuti dagli USA fra il 1971 e il 2007 si sono rivelati fondamentali perché Israele si desse una solida base economica. Da allora in avanti gran parte del denaro è stato destinato ad attività militari, compresa la sicurezza delle colonie illegali israeliane.

Nonostante la crisi finanziaria USA del 2008, i soldi americani hanno continuato a fluire verso Israele, la cui economia è passata quasi indenne attraverso la recessione globale.

Nel 2016 gli USA hanno promesso addirittura di aumentare il flusso. L’amministrazione Democratica di Barack Obama, che viene spesso – seppure a torto – considerata ostile nei confronti di Israele, aveva aumentato significativamente i fondi USA ad Israele. Nel Memorandum di Intesa decennale, infatti, Washington e Tel Aviv hanno concluso un accordo che garantisce ad Israele $38 miliardi [31 miliardi di euro, ndtr.] in aiuti militari USA per gli esercizi finanziari 2019-2028. Questo rappresenta l’esorbitante cifra di $8 miliardi [6,50 miliardi di euro, ndtr.] in più rispetto al precedente accordo decennale che scadeva alla fine del 2018.

I nuovi fondi statunitensi sono divisi in due categorie: $ 33 miliardi [27 miliardi di euro, ndtr.] in contributi militari ed altri $ 5 miliardi [4 miliardi di euro, ndtr.] in difesa missilistica.

La generosità USA viene tradizionalmente attribuita all’incommensurabile influenza dei gruppi pro-israeliani, AIPAC (American Israel Public Affairs Committee) in testa, ma negli ultimi quattro anni questi gruppi non hanno dovuto sforzarsi più di tanto, perché sono stati pezzi potenti all’interno dell’Amministrazione stessa ad agire come sostenitori di primo piano di Israele.

Oltre agli infiniti “omaggi politici” che l’Amministrazione Trump ha elargito negli ultimi anni ad Israele, ora essa sta pure prendendo in considerazione la possibilità di accelerare la procedura di assegnazione dei fondi rimanenti secondo l’ultimo Memorandum di Intesa, che attualmente ammontano a $26,4 miliardi [21,5 miliardi di euro, ndtr.]. Secondo documenti ufficiali del Congresso, gli USA “potrebbero anche approvare ulteriori vendite di F-35 e velocizzare la consegna degli KC-46A, aerei militari per il rifornimento in volo e trasporto strategico, ad Israele.

Questi non sono che una parte dei fondi e benefici ricevuti da Israele. Gran parte di essi passano inosservati, in quanto fluiscono attraverso canali indiretti oppure vengono propagandati sotto il termine flessibile di “cooperazione”.

Per esempio, fra il 1973 e il 1991 la imponente cifra di $460 milioni [375 milioni di euro, ndtr.] di fondi USA è andata a finanziare l’emigrazione ebraica verso Israele. Molti di questi nuovi immigranti sono gli stessi militanti israeliani che occupano attualmente le colonie illegali in Cisgiordania. In questo caso particolare il denaro va all’organizzazione benefica United Israel Appeal, che a sua volta lo passa all’Agenzia Ebraica, la stessa Agenzia che nel 1948 ha avuto un ruolo centrale nella fondazione di Israele sulle rovine delle città e villaggi palestinesi.

Decine di milioni di dollari mascherati da donazioni benefiche vengono regolarmente inviati in Israele sotto forma di “elargizioni deducibili dalle tasse per le colonie ebraiche in Cisgiordania e Gerusalemme Est,” ha scritto il New York Times. Gran parte dei soldi, propagandati come donazioni per finalità educative e religiose, spesso finiscono col finanziare e comprare abitazioni per i coloni illegali, “oltre a cani da guardia, giubbotti antiproiettile, cannocchiali da puntamento e veicoli per proteggere avamposti (ebraici illegali) all’interno delle zone occupate (palestinesi).”

Molto spesso il denaro USA finisce nei forzieri statali israeliani con pretesti ingannevoli. Per esempio l’ultimo Pacchetto di Incentivi comprende $50 milioni [41 milioni di euro, ndtr.] di fondi destinati al Nita M. Lowey Middle East Partnership for Peace Funds, che in teoria fornisce investimenti in “scambi interpersonali e cooperazione economica…fra israeliani e palestinesi al fine di sostenere la soluzione negoziata e sostenibile dei due Stati.”

Questi soldi invece non sono funzionali ad alcuno scopo particolare, dal momento che Washington e Tel Aviv sono impegnati per garantire il fallimento di un accordo di pace negoziato e lavorano fianco a fianco per uccidere la ormai defunta soluzione dei due Stati.

La lista potrebbe continuare all’infinito, anche se gran parte dei soldi non sono inclusi nei pacchetti di aiuti ufficiali da USA ad Israele. Proprio per questo essi raramente vengono esaminati e tanto meno sono sottoposti a copertura mediatica.

E’ dal febbraio 2019 che gli USA hanno ritirato ogni finanziamento all’Autorità Palestinese in Cisgiordania, inoltre hanno tagliato gli aiuti all’Agenzia ONU per i Profughi palestinesi (UNRWA), l’ultima salvaguardia rimasta per assicurare istruzione di base e assistenza sanitaria a milioni di profughi palestinesi.

A giudicare dalla sua tradizione di continuo sostegno nei confronti della macchina militare israeliana e della incessante espansione coloniale in Cisgiordania, Washington insiste nel ricoprire il ruolo di principale benefattore – se non partner diretto – di Israele mentre respinge del tutto i palestinesi.

Aspettarsi che gli USA giochino un ruolo costruttivo nel conseguimento di una pace giusta in Palestina non riflette solo un’insostenibile ingenuità, ma pure caparbia ignoranza.

Ramzy Baroud è giornalista e curatore di The Palestine Chronicle. E’ autore di cinque libri, l’ultimo dei quali è “These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons(Clarity Press, Atlanta). Il dott. Baroud è ricercatore presso il Centro per gli Affari Islamici e Globali (CIGA) della Istanbul Zaim University (IZU). Il suo website è www.ramzybaroud.net

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




Un sonoro messaggio da Betlemme: Porre fine all’occupazione

Sami Abu Shehadeh

26 dicembre 2020 – Middle East Eye

I palestinesi hanno il diritto di godere di un futuro di pace fondato sulla giustizia, la tolleranza e il rispetto

Gli sviluppi politici che hanno avuto luogo nel 2020 dovrebbero essere attentamente compresi e colti al fine di rendere il 2021 un anno migliore per tutti.

L’amministrazione Trump sta lasciando dietro di sé un’eredità di incitamento all’odio e all’uso della religione come arma contro i diritti del popolo palestinese.

Il governo israeliano sarà presto sciolto e in primavera si terranno le quarte elezioni in meno di due anni, ma non vi è alcuna indicazione che le sue politiche di annessione nei territori occupati, la sua istigazione all’odio e alla discriminazione istituzionalizzata contro i cittadini palestinesi di Israele siano destinate a cessare tanto presto.

Questo è il contesto in cui dovremmo intendere il Natale di quest’anno nella Terra Santa occupata: Betlemme, città natale di Gesù, a causa del Covid-19 ha trascorso unBianco Natal” con pochissimi pellegrini e quasi nessuna attività turistica. La città è assediata da migliaia di nuove unità di insediamenti coloniali israeliani illegali in costruzione sulla sua terra.

Soffocare Betlemme

Qualche settimana fa mi sono unito a un gruppo di diplomatici europei per una visita in loco alla colonia illegale di Giv’at Hamatos, che consoliderà la separazione artificiale tra le città bibliche di Betlemme e Gerusalemme. Recentemente il sindaco di Betlemme ha inviato una lettera disperata alle missioni europee chiedendo un’azione urgente per fermare l’insediamento della colonia: “Betlemme merita di essere riportata al suo antico splendore di città aperta alla pace”, ha scritto.

Queste parole significano poco per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che sembra intenzionato a soffocare Betlemme, sia espandendo colonie come Har Homa, Gilo o Efrat, tutte illegali secondo il diritto internazionale, o attraverso il muro di annessione, ritenuto illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia circa 16 anni fa.

Allo stesso modo, un gruppo di religiosi di Betlemme ha implorato la comunità internazionale di intervenire per fermare il processo di annessione in corso: “I nostri parrocchiani non credono più che qualcuno si schiererà coraggiosamente per la giustizia e la pace e fermerà questa tremenda ingiustizia che si sta verificando davanti a vostri occhi.” Qualcuno dimostrerà che si sbagliano?

Il governo israeliano e la sua macchina propagandistica, tuttavia, faranno ancora una volta un uso cinico del Natale.

Lo stesso Netanyahu ha consegnato un “messaggio natalizio” in cui tratta i cristiani come “stranieri”, eppure stiamo celebrando la nascita di Cristo proprio nella terra che oggi Israele sta occupando.

La propaganda israeliana si dipinge come la “protettrice” dei cristiani in Medio Oriente. Ma niente potrebbe essere più lontano dalla verità.

Questo approccio ipocrita è stato chiaramente rappresentato dall’ ambasciatore israeliano all’Onu Gilad Erdan in un “messaggio di Natale” in cui ha detto: “Spero che trascorriate serene festività e un nuovo anno felice ed in salute”.

Erdan ha sostenuto tutte le politiche che minacciano la presenza cristiana in Israele e Palestina, dagli insediamenti coloniali e dall’annessione alle leggi razziste. E’ stato anche responsabile dell’inserimento dei quaccheri nella lista nera del rifiuto di ingresso nel Paese a un funzionario del Consiglio ecumenico delle Chiese, oltre che ad altre organizzazioni cristiane che sostengono i diritti dei palestinesi e si oppongono alle colonie illegali.

Ne abbiamo viste tante. Dalla Nakba del 1948, che ha avuto un impatto immenso sui cristiani palestinesi – con quasi 50.000 cristiani su 135.000 sfollati – alle realtà attuali del moltiplicarsi delle colonie e delle leggi atte ad impedire l’unificazione delle famiglie palestinesi, Israele ha adottato una politica sistematica contro i suoi cittadini non-ebrei.

Prendiamo come esempio i casi emblematici dei villaggi di Iqrith e Kufr Bir’im.

Miracolo di giustizia

Durante la Nakba [la Catastrofe, cioè la pulizia etnica a danno dei palestinesi nel 1947-48, ndtr.] l’esercito israeliano chiese agli abitanti del villaggio di Iqrith e Kufr Bir’im di lasciare le loro case solo per due settimane. Settantadue anni dopo, tuttavia, essi non possono ancora farvi ritorno. Hanno chiesto giustizia attraverso il sistema giudiziario israeliano solo per ritrovarsi con il governo israeliano che ha bloccato l’attuazione di una risoluzione che avrebbe consentito il loro ritorno.

Il caso è stato sollevato da eminenti vescovi cattolici ed è arrivato persino alla Santa Sede, ma nessun governo israeliano è stato disposto a ripristinare i diritti di quei cittadini palestinesi di Israele che, questo Natale, sono tornati negli unici edifici rimasti in piedi nei rispettivi villaggi, la Chiesa cattolica di Iqrith e la Chiesa maronita di Kufr Bir’im, per celebrarvi il Natale in attesa di un miracolo di giustizia su questa terra.

Questi non sono casi isolati. Quasi il 25% dei cittadini palestinesi di Israele sono sfollati interni. I loro diritti non sono stati onorati semplicemente perché l’uguaglianza tra tutti i cittadini israeliani è qualcosa che non esiste. Decine di leggi consolidano un sistema di discriminazione istituzionalizzato che è stato incoraggiato negli ultimi anni dall’amministrazione Trump.

Sarebbe stato difficile immaginare una legge come la legge sullo “Stato – Nazione ebraico” senza persone come David Friedman [ambasciatore USA in Israele, ndtr.], Jared Kushner [genero e consigliere di Trump per il Medio Oriente, ndtr.] e Jason Greenblatt [consigliere di Trump per Israele, ndtr.].

Realtà dolorose

Oggi possiamo valutare le conseguenze di tali politiche. L’attacco terroristico incendiario che ha preso di mira la chiesa di Getsemani all’inizio di questo mese è stato sventato grazie all’azione efficace dei giovani palestinesi cristiani e musulmani della Gerusalemme est occupata. Questo attacco non deve essere considerato un evento isolato.

Quando i funzionari israeliani sottolineano costantemente che questa è “terra ebraica”, negando i diritti dei cristiani e dei musulmani palestinesi, le persone non dovrebbero sorprendersi per tali eventi. Sembra che l’incendio della Chiesa della Moltiplicazione dei Pani e dei Pesci a Tiberiade nel 2015 non sia stato un monito sufficiente per comprendere le minacce che stiamo affrontando.

La vigilia di Natale il patriarca latino di Gerusalemme ha percorso lo storico tragitto tra la Porta di Jaffa della città e la Chiesa della Natività a Betlemme. Questa processione natalizia potrebbe, paradossalmente, essere chiamata la nuova “Via Dolorosa” [percorso che Cristo avrebbe seguito a Gerusalemme prima della crocifissione, ndtr.] in quanto riflette il dolore e le ingiustizie subite dal popolo palestinese.

Il corteo attraversa la proprietà di centinaia di famiglie di rifugiati cristiani palestinesi a Qatamon [quartiere della zona centro-meridionale della Città Vecchia a Gerusalemme, ndtr.] e Baqaa [quartiere meridionale di Gerusalemme, ndtr.], per poi rientrare nei territori occupati che testimoniano dell’ espansione delle colonie illegali di Giv’at Hamatos e Har Homa, che presto trasformeranno lo storico monastero di Mar Elias [uno dei più antichi monasteri cristiani tuttora attivi sin dalla fondazione, ndtr.], la prima sosta del patriarca, in un’isola dentro un oceano di insediamenti coloniali.

Da lì dovrebbe varcare il muro di annessione attraverso il famigerato Checkpoint 300 di Betlemme. Sono tutte realtà quotidiane che Netanyahu e i suoi amici populisti di destra, sia a livello locale che internazionale, hanno continuato a perpetuare.

Auguri di Buon Anno Nuovo

Sono nato a Giaffa da una famiglia musulmana e sono andato a scuola al Collegio Terra Sancta, una storica istituzione cristiana. Il Natale fa parte della nostra identità nazionale palestinese da generazioni e della convivenza tra fedi diverse.

Mentre l’amministrazione Trump si avvicina al termine e mentre ci stiamo preparando per le nuove elezioni in Israele, il mio sincero augurio per questo nuovo anno è che il messaggio d’amore generato da questa ricorrenza venga esaudito.

Ciò può prendere l’avvio solo con il riconoscimento dei principi di base dell’uguaglianza tra tutti i cittadini israeliani, ponendo contemporaneamente fine all’occupazione che perpetua l’ingiustizia inflitta al popolo della Palestina.

Possano i bambini che celebrano il Natale nella “Terra Santa occupata” godere di un futuro di pace basato su giustizia, tolleranza e rispetto.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Sami Abu Shehadeh

Sami Abu Shehadeh è un membro della Knesset [parlamento, ndtr.] israeliana e fa parte della Lista Unita [coalizione politica israeliana formata da partiti che rappresentano in prevalenza gli arabo-israeliani, ndtr.]

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta )




Cambio del guardiano dei due Stati

Maureen Clare Murphy

24 dicembre 2020 – The Electronic Intifada

Questa settimana il diplomatico bulgaro Nickolay Mladenov ha presentato al Consiglio di Sicurezza dell’ONU la sua ultima relazione in qualità di inviato di pace per il Medio Oriente.

Mladenov ha concluso il suo mandato di sei anni con un desolante aggiornamento sull’implementazione della risoluzione 2334 adottata dal Consiglio di Sicurezza nel 2016, che ribadisce l’illegalità delle colonie israeliane sui territori occupati.

Essa inoltre “sottolinea che la cessazione di ogni attività di colonizzazione da parte di Israele è requisito essenziale per la salvaguardia della soluzione dei due Stati.” La risoluzione richiede agli Stati di distinguere fra Israele e i territori che occupa dal 1967.

Il Consiglio di Sicurezza viene aggiornato ogni tre mesi sull’implementazione della risoluzione.

Lunedì, allo scadere del mandato, Mladenov non aveva buone notizie per l’ONU.

Nella sua ultima relazione, molto simile alle quindici precedenti, elencava casi di espansione delle colonie israeliane e esprimeva diligentemente dispiacere e preoccupazione.

“Nell’ultimo anno le autorità israeliane hanno presentato controversi progetti di colonie che erano rimasti congelati da anni,” ha detto.

“Dopo un rinvio di 8 anni sono stati presentati progetti per circa 3500 unità nell’area strategica E1 [un’area di circa 12 km2 di terra confiscata ai palestinesi che attraversa trasversalmente la Cisgiordania, n.d.t.]. Se tale progetto venisse attuato la Cisgiordania sarebbe tagliata in due parti separate, nord e sud.”

Mladenov ha dichiarato che “il proseguimento di tutte le attività di colonizzazione devono cessare immediatamente.”

Ma come tutte le altre relazioni precedenti neanche questa contiene un appello ad agire per costringere Israele a rispettare le leggi internazionali.

Da inviato speciale Mladenov non ha mai espresso il proprio appoggio per un’inchiesta del Tribunale Penale Internazionale sui crimini di guerra commessi da Israele nelle colonie, né si è mai avvalso della sua posizione per sostenere il database dell’ONU delle aziende che operano nelle colonie.

Anziché richiamare Israele alle proprie responsabilità, il lavoro di Mladenov, sacrificando il concetto di giustizia che impone di sanzionare Israele per le sue violazioni delle leggi internazionali, ha scelto invece di lanciare un appello ipocrita alla “pace”.

Lo ha fatto promuovendo il “coordinamento per la sicurezza” fra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese e ha letteralmente abbracciato i leader israeliani che rendono la vita dei palestinesi un vero e proprio inferno.

Ultimamente Mladenov è arrivato a considerare i diritti dei palestinesi come oggetto di negoziato con Israele, a cui invece non ha chiesto nulla.

Si è riconosciuto al diplomatico il merito di avere impedito un altro massacro su larga scala a Gaza come quello del 2014, ma scegliendo di aderire rigidamente alla dottrina della soluzione negoziale dei due Stati invece di richiamare Israele alle sue responsabilità, Mladenov e il segretario generale dell’ONU permettono che la colonizzazione israeliana delle terre rubate ai palestinesi continui indisturbata.

Mladenov ha accolto con favore – se non addirittura propugnato, come ha fatto di fronte ad una lobby israeliana – gli accordi di normalizzazione fra Israele e monarchie del Golfo, quali gli Emirati Arabi Uniti, ma questi accordi non sono altro che contratti di forniture d’armi che non hanno niente a che vedere con la pace o con l’autodeterminazione dei palestinesi.

Nella sua relazione finale al Consiglio di Sicurezza Mladenov ha tracciato una falsa uguaglianza fra i colonizzatori israeliani e gli abitanti storici della Palestina espropriati, senza Stato e soggetti al dominio coloniale:

“Israeliani e palestinesi, arabi ed ebrei vivono nel conflitto da troppo tempo. La dolorosa realtà della loro lotta si ripercuote su ogni singola famiglia da generazioni,” ha detto Mladenov.

“Perdita e sradicamento fanno parte della storia personale di ogni singola unità familiare.”

In questo modo Mladenov ha distorto quella che è una lotta di liberazione nazionale facendola diventare “un conflitto sul diritto stesso alla coesistenza fra due nazioni.”

Il ruolo della Norvegia

A Mladenov subentrerà Tor Wennesland, l’inviato norvegese per il Medio oriente.

Che cosa possono aspettarsi i sostenitori della giustizia e dei diritti dei palestinesi dal successore di Mladenov?

La Norvegia è presidente permanente dell’Ad Hoc Liaison Committee – Commissione Speciale di Collegamento (AHLC), che coordina i donatori internazionali alla Autorità Nazionale Palestinese, fra cui UE, ONU e USA.

Questo comitato nacque in seguito ai negoziati fra Israele e OLP promossi dalla Norvegia negli anni ‘90 del Novecento che portarono agli accordi di Oslo, funzionali esclusivamente agli interessi della parte più forte.

“Le due parti non erano alla pari in nessun senso del termine né vennero trattate come pari dai norvegesi,” furono le conclusioni di una ricerca dello studioso Hilde Henriksen Waage per l’Istituto di Ricerca della Pace di Oslo.

Il compianto studioso palestinese Edward Said, che si dimise dal comitato esecutivo dell’OLP per protestare contro l’iniziativa, descrisse gli accordi di Oslo come “strumento della capitolazione palestinese.”

I negoziati di Oslo furono fondamentalmente asimmetrici ed imposero una falsa parità fra occupanti e occupati, colonizzatori e colonizzati, paradigma fondamentalmente disonesto e viziato che è stato utilizzato dall’ONU come quadro di riferimento politico.

Durante l’iniziativa di Oslo la Norvegia agì di fatto come agente di Israele, richiedendo concessioni ai palestinesi senza mettere mai in discussione i punti fermi di Israele. Dopo quegli accordi ottenne l’ambita nomina alla presidenza permanente di AHLC.

“Avendo un’influenza marginale sui donatori,” la Norvegia fu vista da USA e UE, che aspiravano entrambi a quella carica, come la candidata di compromesso.

Ma, come osserva Waage, nella sua veste di presidente del Comitato la Norvegia ha agito su delega USA: “Gli USA gestivano l’attività, la Norvegia fungeva da suo collaboratore e messaggero.”

Il lato grottesco del percorso di Oslo si riflette nelle pratiche correnti del Comitato.

L’AHLC ha incluso nelle proprie conferenze dei donatori alti rappresentanti delle forze armate israeliane responsabili di creare proprio le tragiche condizioni che rendono necessari gli aiuti internazionali ai palestinesi. Così dei criminali di guerra sono diventati parti in causa nel determinare quali aiuti ricevano i palestinesi e come li ricevano.

Mentre si atteggia a mediatore per gli aiuti ai palestinesi, la Norvegia vende armi a Israele e tratta gli aguzzini di Gaza come controparti con cui aspira a cooperare.

Lo Stato scandinavo si oppone al movimento BDS, che sostiene i diritti dei palestinesi, e l’attuale governo ha perseguito un ulteriore allineamento con Israele.

Non vi è motivo di ritenere che il successore di Mladenov si discosti dalla prassi di non fare alcuna richiesta ad Israele pretendendo invece di tutto dai palestinesi.

Per quanto ci possano essere differenze nello stile e nel curriculum dei vari inviati speciali dell’ONU, alla fine della fiera questi diplomatici vengono nominati per implementare un assetto che favorisce intrinsecamente Israele a discapito dei diritti più basilari dei palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)




Palestina a colori

Mohamed Shurrab

10 dicembre 2020 – We are not numbers

Gaza

La bandiera del mio Paese racconta la nostra storia attraverso i colori. Verde, nero, rosso e bianco: ognuno rappresenta miriadi di storie palestinesi, esperienze che hanno fatto di noi quelli che siamo e che potremmo diventare.

Verde

Il verde era il colore dominante dovunque nel mio amatissimo Paese. È il colore preferito degli agricoltori, il colore del raccolto. Significa duro lavoro, ma anche soddisfazioni e riposo. Purtroppo il verde è stato rubato dalla nostra terra. L’occupazione israeliana ha sradicato le distese di ulivi, sostituendole con colonie – i nostri bei ricordi verdi sono diventati grigio cemento.

Avevo solo 5 anni quando Israele nel 2008 scatenò la prima delle sue tre principali guerre contro Gaza, oggi comunemente chiamata il Massacro di Gaza (“Operazione Piombo Fuso” per gli israeliani). Durò tre settimane e causò la morte di 1.417 palestinesi.

Il terzo giorno ero intento a giocare con le figure del mio supereroe quando il silenzio sembrò avvolgere l’intero quartiere. Era la calma prima della tempesta. Improvvisamente un suono acuto squarciò l’aria, scuotendo la nostra casa come un budino. Il mio giocattolo a forma del verde e muscoloso Hulk cadde a terra. Era un attacco aereo israeliano. Le mie sorelle corsero sul balcone a vedere dove fosse caduto il missile questa volta. Non era il primo, ma era il più vicino. Io saltai in braccio a mia madre, chiedendole che cosa fosse successo, anche se ora mi rendo conto che nulla potrebbe davvero spiegare le nostre vite. Un fiume di lacrime scorreva sul suo viso ed aveva la paura negli occhi.

Persone cattive hanno bombardato la casa dei nostri vicini”, rispose piangendo. “Che razza di persone può uccidere e bombardare?”

Pensai tra me: “Se Hulk esistesse davvero non lo permetterebbe mai.”

Fuori dalla nostra finestra si levò il fumo, tracciando una scia di fumo dalle macerie che lo avevano prodotto. Odio le macerie che seppelliscono la nostra infanzia. Le nostre conversazioni quotidiane riguardano la guerra, il blocco e le sanzioni. Abbiamo visto i nostri amici uccisi, portati via prima della loro ora.

Nella guerra del 2008 le forze di occupazione hanno ucciso 400 bambini in meno di un mese. Mi addolora ogni singola vita persa, ma credo che quelli tra noi che sono ancora vivi hanno qualcosa per cui lottare: il nostro futuro.

Nero

Il nero è simbolo di eleganza – e anche di oppressione, distruzione e cenere. Le forze israeliane ci colpirono nuovamente nel 2012, la più breve delle guerre, ma a suo modo non meno distruttiva.

Avevo 10 anni. Ero andato a comprare il pane per il pranzo e stavo tornando a casa. Giravano voci che stesse per iniziare una nuova guerra, perciò cercavo di camminare in fretta. All’improvviso un aereo sganciò un missile di avvertimento – che esplodeva dai 5 ai 10 minuti prima del colpo “vero”, e doveva servire come gentile avviso di abbandonare la propria casa. Non vedevo distintamente l’aereo, ma il razzo si vedeva abbastanza chiaramente. Sono impallidito, con gli occhi sbarrati. L’adrenalina che avevo in corpo fu più forte del mio spavento e mi permise di correre velocemente a casa, come un lampo. Aprii la porta e vidi la mia famiglia che mi aspettava, pregando che la pace del Signore mi proteggesse. Mi abbracciarono forte.

Rimasi a casa per tutta la durata della guerra, ma ero comunque traumatizzato. Per due settimane persi ogni interesse per qualunque cosa, anche per il disegno, il mio passatempo preferito. Ero triste, depresso e inerte. La guerra durò una settimana, ma la sofferenza durò molto più a lungo. Però avevamo qualcosa per cui lottare: il nostro futuro.  

Rosso

Il rosso è il colore del sangue, noto anche come il sangue degli shaheeds (i martiri). La nostra storia è intrisa di esso. Ma se dobbiamo morire perché altri vivano, che la nostra morte sia un atto di preghiera. Potete indovinare che cosa successe in seguito, vero? Il 2014 con un’altra nuova guerra, più memorabile e devastante delle precedenti.

La mia città perse tutti i suoi colori, tranne il rosso. Furono distrutti edifici, abbattuti alberi. Tutto era cenere nera e grigia, tranne il sangue rosso di oltre 2.700 gazawi uccisi. Durante quella guerra altri 100.000 rimasero senza casa.

Trascorsero 51 giorni in cui vedemmo madri piangere la perdita dei figli, edifici crollare qua e là come gocce d’acqua, persone vivere per strada mangiando rifiuti, ragazzi perdere braccia e gambe.

Ancora oggi l’immagine dei carri armati e aerei da guerra israeliani che invadono la mia città occupa la mia mente, comparendo negli incubi. A volte attraversa la mia mente la domanda: “Perché noi?”. Mentre la maggior parte dei bambini del mondo gioca a calcio e sogna di diventare pompiere, i bambini di Gaza vengono uccisi e molti vivono per strada.

Mi deprime vedere ragazzini che hanno fatto esperienza di guerra e politica.

Bianco

Il bianco rappresenta la sacralità dei nostri luoghi santi. Ma il ricorrente sacrilegio di Israele ha profanato ciò che restava di bianco nel nostro Paese. Gli israeliani costruiscono colonie accanto ai nostri luoghi santi e ci impediscono di pregarvi.

Ciononostante voglio seminare speranza. Perciò mi attengo al fatto che il bianco è anche il colore dell’ottimismo:

Bianco è il mio sogno che un giorno saremo liberi.

Bianco è il mio sogno che un giorno la mia città fiorirà come Singapore.

Bianco è il mio sogno che un giorno vivremo in pace.

Bianco è il mio sogno che coloro che sono ancora vivi conquisteranno il futuro che si meritano.

Tutor: Ben Gass

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Perché l’UE aiuta Israele nel trattamento dei suoi rifiuti in Cisgiordania?

Adri Nieuwhof

10 dicembre 2020 – The Electronic Intifada

Tre aziende europee stanno partecipato al bando per la commessa riguardante un nuovo impianto di termovalorizzazione maggiormente rispettoso dell’ambiente [previsto] nella colonia israeliana di Maaleh Adumim.

L’ubicazione dell’impianto – nei territori occupati, e quindi illegale ai sensi del diritto internazionale – non ha tuttavia scoraggiato l’Unione Europea, che sostiene con 1,5 milioni di euro l’attuazione di un piano strategico israeliano per il 2030, riguardante la gestione dei rifiuti, che include l’impianto di Maaleh Adumim [colonia nella Cisgiordania a est di Gerusalemme, ndtr.].

L’impianto dovrebbe essere costruito presso il deposito per il riciclaggio “Buon Samaritano” a est (e ben all’interno del territorio occupato) di Maaleh Adumim e a poche centinaia di metri da piccole comunità di pastori palestinesi.

Né l’UE, né le aziende europee possono pretendere di non essere informate al riguardo. Il bando di gara per il progetto è stato pubblicato nell’ottobre dello scorso anno, lasciando molto tempo per una approfondita verifica.

Tuttavia nel novembre di quest’anno il quotidiano [economico, ndtr.] israeliano Calaclist ha rivelato che tre società europee sono disposte a sostenere Israele – la gara prevede che le società straniere debbano avere un partner locale – nella costruzione dell’impianto illegale.

Esse sono: l’azienda tedesca Standardkessel Baumgarte, che ha sede a Duisburg e che collaborerà con l’Israeli Generation Capital Fund.

La Hitachi Zosen Inova, con sede in Svizzera, propone una partnership con la TMM Integrated Recycling Industries, in passato di proprietà di Veolia [multinazionale francese leader mondiale nel trattamento delle acque, ndtr.].

TMM gestisce attualmente la discarica di Tovlan nella Cisgiordania occupata.

L’azienda italiana TM.E. S.P.A. Termomeccanica Ecologia di Milano collabora con la società israeliana Shikun & Binui, che ha realizzato progetti negli insediamenti di Maaleh Adumim e Har Homa.

In tutto si trovano in competizione per la gara otto gruppi, con altre società israeliane che lavorano in partnership con aziende cinesi e giapponesi.

Tutte le aziende che intendono partecipare alla realizzazione di questo sito illegale di termovalorizzazione a Maaleh Adumim violano il diritto internazionale e dovrebbero essere considerate legalmente perseguibili.

Supporto dell’Unione Europea

L’Unione Europea sostiene il Ministero israeliano della Protezione Ambientale nell’attuazione del suo piano strategico per il 2030 al fine di migliorare la gestione dei rifiuti israeliani nell’ambito del suo progetto di gemellaggio da 1,5 milioni di euro.

L’accordo di gemellaggio specifica che “tutte le azioni finanziate dall’UE sono soggette alla politica dell’UE nei confronti di Israele sulla base dei suoi confini definiti in linea con il diritto internazionale”.

Ma il piano strategico per il 2030 del ministero include la creazione del termovalorizzatore di Maaleh Adumim.

L’impianto costerà fino a più di 400 miliardi di euro e tratterà circa 1.500 tonnellate di rifiuti al giorno provenienti dall’area metropolitana di Gerusalemme, inclusa Maaleh Adumim.

Dovrà essere costruito un inceneritore per l’utilizzo dei rifiuti per la produzione di elettricità.

Il trasferimento del trattamento dei rifiuti israeliani nella Cisgiordania occupata è illegale secondo il diritto internazionale. Non giova in alcun modo alla popolazione originaria palestinese. L’UE dovrebbe revocare immediatamente il suo sostegno al progetto.

Il progetto di gemellaggio sostiene di voler “contribuire alla protezione della salute umana e dell’ambiente in Israele”.

A quanto pare, [il concetto di] salute umana, secondo l’UE, non si estende ai palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




I vigneti israeliani vogliono partecipare alla crescita mondiale del vino delle colonie

Joseph Massad

sabato 5 dicembre 2020 – Middle East Eye

Israele ambisce a creare una nicchia commerciale per i suoi vini prodotti su terreni palestinesi e siriani rubati

Dagli anni ’90 uno degli aspetti più significativi della nuova cultura mondiale del vino è che non si limita ai Paesi produttori di vino europei.

Accanto alla Francia e, in misura minore, all’Italia, che in precedenza dominavano il settore, i nuovi produttori di vino sul mercato provengono da ex-colonie europee: Australia, Nuova Zelanda, California, Sudafrica, Argentina, Cile. I loro vini sono largamente commercializzati a livello internazionale.

Le colonie israeliane cercano di penetrare in questo mercato, peraltro senza successo a causa della scarsissima competitività dei loro vini sul piano qualitativo, salvo forse in luoghi limitati di alcune città americane ed europee e in alcune zone degli Emirati Arabi Uniti.

Recenti ricerche che valutano la produzione del vino in diverse regioni del mondo non citano neppure Israele come candidato degno di questo nome.

Le origini colonialiste di questi vini sono una semplice coincidenza o la produzione del vino è stata fondata sul furto di terre indigene?

Un importante episodio della storia della produzione vitivinicola europea è stato il disastro avvenuto verso la fine del XIX secolo a causa di una invasione di fillossera, un insetto che si nutre delle viti. La fillossera ha rischiato di distruggere l’industria vinicola francese, con una produzione scesa di circa il 75% tra il 1875 e il 1889.

Era l’epoca dell’apogeo del colonialismo francese, in particolare in Algeria, che a partire dagli anni ‘70 dell’‘800 vide dilagare una nuova ondata di coloni. La maggior parte dei nuovi coloni erano agricoltori del Sud della Francia che cercavano di sfuggire alla povertà dopo la distruzione dei vigneti della Linguadoca e della Provenza da parte della fillossera.

Con la concessione di crediti da parte dello Stato e prestiti bancari ai coloni bianchi, i vigneti cominciarono a ricoprire la regione dell’Atlante telliano [catena montuosa settentrionale del Maghreb, ndtr.] in Algeria, dove si costituì e prosperò un’industria vitivinicola redditizia fino all’indipendenza dell’Algeria.

Le olive e l’uva

I contadini algerini spogliati delle loro terre svolgevano la maggior parte dei lavori agricoli. La resistenza anticolonialista algerina si manifestò con attacchi periodici contro le colonie agricole.

Come illustra l’esempio algerino, le misure giuridiche colonialiste che consentivano di privatizzare le terre conquistate sono sempre state determinanti per l’espansione della colonizzazione.

Nella vicina Tunisia, un’altra colonia francese, i francesi usurparono più di un quarto di milione di ettari tra il 1892 e il 1914.

L’agricoltura colonialista si è specializzata nelle olive e nell’uva per la produzione di olio e di vino. Con la colonizzazione ufficiale sostenuta dallo Stato, i francesi hanno cacciato i contadini tunisini dalle terre su cui lavoravano da sempre ma per le quali non avevano un titolo di proprietà.

La stessa sorte è stata riservata ai pascoli, che persero a favore dei coloni. I tunisini espulsi e in preda alla miseria attaccarono le aziende agricole coloniali.

Nel 1858 gli Ottomani emisero un codice agrario che privatizzò le terre in Palestina: esse cominciarono ad essere acquistate dai mercanti della Palestina e di altre zone. Proprietari assenteisti acquistarono enormi estensioni di terreno e ne vendettero alcuni a degli agenti locali di organizzazioni filantropiche ebraiche con sede in Francia, che finanziavano a loro volta delle colonie agricole.

Allo stesso tempo i vigneti francesi del barone Edmond de Rothschild, un importante produttore di vino francese, furono devastate dalla fillossera. Il barone cominciò a concedere dei fondi ai coloni ebrei russi perché coltivassero delle vigne e nel 1883 finanziò le colonie di Petah Tikva e di Rishon LeZion, dove intendeva impiantare dei vigneti e una tenuta vitivinicola.

Nel 1882 i coloni russi crearono sulle terre perse dal villaggio di Uyun Qarah la prima azienda vinicola di Rothschild a Rishon LeZion, poi poco più tardi nella colonia di Zikhron Yaakov, costruita su terre del villaggio palestinese di Zamarin.

Rothschild “seguì il modello della colonizzazione agricola francese in Algeria e in Tunisia” inviando degli esperti agricoli e orticoli formati in Algeria e in Francia. Proprio come i contadini tunisini ed algerini, quelli palestinesi vennero espulsi dalle terre dove avevano vissuto e lavorato da secoli.

Il primo grande atto di resistenza contadina contro le colonie ebraiche avvenne nel 1886, quando dei contadini attaccarono la colonia ebraica di Petah Tikva finanziata da Rothschild.

Alla colonia erano state vendute delle terre dei contadini confiscate da usurai di Giaffa e dalle autorità a causa dell’indebitamento dei contadini.

Tuttavia una grande quantità di terre vendute alla colonia non era stata confiscata e in realtà apparteneva ai contadini.

Le azioni di resistenza si moltiplicarono quando i coloni ampliarono le loro attività agricole, in quanto i contadini si resero conto di tutte le terre che gli erano state rubate.

Alla fine del XIX secolo la resistenza era tale che non c’era nessuna colonia ebraica “che prima o poi non fosse entrata in conflitto” con i palestinesi.

Vini provenienti dalle colonie

Circa un secolo dopo, nel 1967, Israele invase e occupò le Alture del Golan siriano, espellendo 100.000 siriani. In spregio al diritto internazionale, i coloni ebrei arrivarono in massa e nel 1981 Israele annesse il territorio.

Oggi circa 22.000 coloni ebrei vivono nelle 33 colonie sulle Alture del Golan. Alcune di esse hanno piantato viti e cominciato a produrre vino. Nel 1984 l’azienda vinicola delle Alture del Golan ha prodotto la sua prima annata. Tra gli altri produttori di vino figurano le colonie ebraiche costruite su terre confiscate a Gerusalemme est occupata e in Cisgiordania, come la colonia di Rehelim, nel nord della Cisgiordania. Ciò ha provocato dei problemi agli esportatori di vino israeliani e messo in difficoltà gli importatori europei.

Nel 2015 l’Unione Europea (UE), primo partner commerciale di Israele, ha deciso di identificare i vini provenienti dalle colonie ebraiche nella Cisgiordania occupata, di Gerusalemme est e delle Alture del Golan come provenienti dalle “colonie israeliane”. Questa decisione è stata ratificata nel 2019 da una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Questa decisione è stata presa dopo un’azione legale intentata dall’azienda agricola di Psagot, un’impresa fondata nella colonia ebraica di Pisgat Ze’ev a Gerusalemme est occupata, perché venissero rimosse le etichette di questo tipo.

I vigneti di Psagot sono situati sulle terre nella Cisgiordania occupata. La sua azione legale ha avuto un effetto controproducente: la decisione della Corte di Giustizia della UE ha fatto seguito a un’altra decisione presa nel 2019 da parte della Corte Federale del Canada, che ha rifiutato di autorizzare l’etichetta “Made in Israel” per il vino proveniente dalle colonie ebraiche.

Nel suo parere consultivo un alto responsabile della Corte di Giustizia dell’UE aveva già paragonato il vino israeliano prodotto nelle colonie alle merci proveniente dal Sudafrica all’epoca dell’apartheid.

Un apartheid di altro genere

Più di tre secoli fa dei coloni ugonotti [denominazione dei calvinisti in Francia, ndtr.] olandesi e francesi avviarono su terre indigene conquistate l’industria vitivinicola sudafricana. Gran parte della manodopera agricola delle vigne sudafricane era fornita dalla popolazione “di colore” pagata con vino attraverso il “dop system” [sistema per creare dipendenza da alcool, ndtr.], una forma ufficiosa di schiavismo che ha determinato un diffusissimo alcoolismo.

Negli anni ’90, dopo la fine dell’apartheid, che ha coinciso con l’era del neoliberismo, i vini sudafricani che appartenevano ancora a coloni bianchi hanno iniziato ad essere commercializzati all’estero.

Nonostante sia illegale, il “dop system” in Sudafrica continua ad esistere: secondo alcune stime, nel 2015 rappresentava tra il 2% e il 20% dei salari nella [provincia del] Capo Occidentale.

Insistendo sul fatto che, contrariamente all’apartheid sudafricano, il suo tipo di apartheid è più che accettabile agli occhi dei regimi arabi, in particolare del Golfo, con cui recentemente ha stretto rapporti, Israele ambisce a creare una nicchia commerciale per i suoi vini di scarsa qualità prodotti su terre palestinesi e siriane rubate.

Benché gli Emirati Arabi Uniti riconoscano le Alture del Golan come territorio siriano occupato e Gerusalemme est e la Cisgiordania come territori palestinesi occupati, la commercializzazione da parte di Israele di vini “Made in Israel” negli Emirati contribuisce a rafforzare il riconoscimento dell’annessione di questi territori, ottenuto dall’amministrazione Trump negli ultimi anni.

Resta tuttavia da sapere se il governo emiratino o i suoi tribunali insisteranno affinché l’etichettatura specifichi se i vini sono stati prodotti nelle colonie israeliane illegali o sarà consentito di etichettarli “Made in Israel”.

– Joseph Massad è professore di storia politica ed intellettuale araba moderna alla Columbia University di New York. È autore di numerosi libri ed articoli, sia accademici che giornalistici. Tra le sue opere figurano “Colonial Effects: The Making of National Identity in Jordan” [Effetti coloniali: la creazione dell’identità nazionale in Giordania], “Desiring Arabs” [Arabi Desideranti] e, pubblicato in francese, “La persistance de la question palestinienne” [La persistenza della questione palestinese] (La Fabrique, 2009). Più di recente ha pubblicato “Islam in Liberalism” [L’Islam nel liberismo]. I suoi libri ed articoli sono stati pubblicati in una decina di lingue.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)