COVID-19 in Palestina: annessione nella Valle del Giordano

Yumna Patel

17 settembre 2020 – Mondoweiss

Se seguite le notizie su Israele e Palestina, avrete probabilmente sentito parlare della Valle del Giordano.

È l’area del territorio palestinese che si trova al confine tra la Giordania e la Cisgiordania occupata. È un’enorme superficie di terra, che si estende per oltre 100 chilometri e costituisce quasi un terzo dell’intera Cisgiordania.

È inoltre una delle principali aree di cui Israele ha previsto l’annessione – una politica che vedrebbe il governo israeliano imporre unilateralmente la sua sovranità su migliaia di ettari di terra palestinese occupata.

Si dà il caso che in base al diritto internazionale questa politica sia illegale e che sia stata ampiamente condannata dalla comunità internazionale.

Nell’ambito della serie di puntate sul COVID-19 in Palestina ci siamo recati nella Valle del Giordano per vedere com’è lì la vita per i palestinesi mentre combattono due battaglie: una contro il coronavirus e una contro l’annessione.

Mentre attraversiamo la Valle del Giordano è possibile notare decine di gruppi di piccoli villaggi e accampamenti.

Molti palestinesi qui sono in realtà beduini e comunità di pastori che dipendono per il loro stile di vita dall’agricoltura. Ma a causa dei piani di annessione di Israele sono minacciati di sfollamento forzato, minaccia che affermano si sia effettivamente accentuata durante il periodo della pandemia di coronavirus.

“La pandemia da coronavirus è ovunque nel mondo ma nelle aree palestinesi, in particolare nella Valle del Giordano abbiamo due pandemie: la pandemia dell’occupazione [israeliana] e poi il coronavirus”, dice a Mondoweiss Motaz Bisharat, un attivista palestinese che abita nel nord della Valle del Giordano.

In quest’area l’occupazione – afferma – è per noi persino peggiore della pandemia da coronavirus. Le forze di occupazione hanno approfittato della pandemia da coronavirus per impossessarsi di altre porzioni del territorio della Valle del Giordano”.

Secondo Bisharat durante l’epidemia da coronavirus Israele ha confiscato nella valle del Giordano settentrionale oltre 1800 ettari di terra di proprietà palestinese e l’ha posta sotto il controllo dello Stato.

Abdelrahim Abdallah, abitante di al-Hadidiya, un piccolo borgo nella valle del Giordano settentrionale, è uno delle centinaia di palestinesi della zona a cui nel corso della pandemia da coronavirus è stata confiscata la terra e che hanno subito la minaccia di demolizione delle loro case.

L’assistenza sanitaria è un diritto dell’uomo. Il governo israeliano dovrebbe avere un po’ di umanità a ragione di questa emergenza e della pandemia che ha attaccato il mondo intero”, afferma Abdallah a Mondoweiss dall’interno della sua casa – una piccola tenda di incerata appoggiata su una lastra di cemento.

“Invece hanno accentuato i loro attacchi e le pressioni su di noi: raid notturni, arresti, divieti di pascolo e attacchi ai terreni agricoli”, aggiunge Abdallah. “Questo è ciò che stanno facendo le forze di occupazione.”

Dall’inizio della pandemia Abdallah e suo figlio, insieme ad altri uomini del villaggio, sono stati arrestati in varie occasioni dalle forze israeliane.

Abdallah afferma che in una circostanza le forze israeliane lo hanno accusato di “aver rubato l’acqua” da una sorgente naturale posta nel territorio palestinese, ma sottratta dai coloni israeliani durante la pandemia.

All’una del mattino sono arrivati più di 100 soldati e ci siamo svegliati con loro in piedi davanti a noi”, afferma. “Ci hanno arrestati e ci hanno ammanettati, ci hanno coperto gli occhi e ci hanno portato in una base militare a pochi chilometri di distanza”.

“Ci hanno tenuti lì dall’una di notte alle nove – racconta Abdallah – senz’ acqua, senza liberarci le mani e senza nemmeno permetterci di usare il bagno”.

Oltre ad affrontare le aggressioni quotidiane da parte dei militari israeliani, le comunità palestinesi della Valle del Giordano vivono senza avere accesso ai beni di prima necessità come l’elettricità, l’acqua corrente e all’assistenza sanitaria.

L’ospedale o la clinica più vicini dove fare il test per COVID-19 si trova a circa 25 chilometri da al-Hadidiya e per arrivarci si impiegano 30 minuti in auto.

Anche se i residenti potessero avere la disponibilità di un veicolo privato dovrebbero percorrere strade non asfaltate e superare lungo il percorso una serie di posti di blocco e insediamenti militari israeliani.

“Per tutta la nostra esistenza non abbiamo certo avuto una vita decente perché l’occupazione ci ha negato tutto ciò di cui abbiamo bisogno per vivere”, dice Abdallah.

“L’unica cosa che non possono negarci è l’aria che respiriamo. Se potessero negarcela, lo farebbero”.

Motaz Bisharat sottolinea il fatto che “la Quarta Convenzione di Ginevra prevede che lo Stato occupante si assuma la responsabilità dell’area occupata”.

“Dovrebbero fornire assistenza sanitaria, istruzione, acqua e tutto il resto“, afferma. “Ma ciononostante l’occupazione non offre assolutamente nulla”.

Ad agosto Israele ha raggiunto un accordo con gli Emirati Arabi Uniti, il che ha reso gli Emirati il terzo Paese arabo a normalizzare le relazioni con Israele.

Come parte dell’accordo gli Emirati Arabi Uniti hanno rivendicato la responsabilità di aver fermato l’annessione. Ma i palestinesi della Valle del Giordano affermano che nella realtà l’annessione è in corso da anni, specialmente durante la pandemia da coronavirus, ed è una politica che Israele probabilmente non smetterà mai di cercare di applicare.

“Il presupposto secondo cui gli Emirati Arabi Uniti avrebbero stipulato questo accordo con Israele per fermare l’annessione è una totale assurdità“, sostiene Bisharat. “Qualsiasi civile, qualsiasi leader, qualsiasi politico nel mondo che afferma che l’occupazione ha fermato l’annessione sta delirando“.

Le forze di occupazione hanno fatto l’opposto. Hanno accentuato gli attacchi e hanno scoperto che il coronavirus rappresenta la migliore occasione per portare a termine il loro piano di annessione sul campo”.

“Il nostro messaggio al mondo, alle persone libere del mondo, è di mettere il loro Paese al posto della Palestina”, dice Abdallah. “Accetteresti che i tuoi figli vivano come vivono i bambini palestinesi? Accetteresti di perdere i tuoi diritti come i palestinesi, che non hanno (più) diritti?”

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Gli accordi di Abramo visti da Gaza: “È la fine della nazione araba. La vecchia guardia ha fallito”

Umberto De Giovannangeli

16 settembre 2020 Globalist

Quei missili lanciati da Gaza, e l’immediata risposta israeliana, raccontano che la pace, quella vera, non può prescindere dai palestinesi. “Non ci sarà nessuna pace in Medio Oriente finché durerà l’occupazione israeliana dei territori palestinesi”, scandisce il presidente Abu Mazen. “È un giorno buio”, ripete il premier palestinese Mohammed Shtayyeh.

  “Tradimento” grida la folla scesa in strada a Ramallah. E dalla Striscia di Gaza, controllata da Hamas, diversi razzi sono stati lanciati nella notte su Israele, inducendo decine di migliaia di residenti di Asheklon e Ashdod a precipitarsi nei rifugi antiaerei. Due soli i feriti, stando a quanto riferiscono i media locali, ma la paura è grande. In risposta, aerei ed elicotteri da combattimento israeliani avrebbero colpito “10 obiettivi terroristici di Hamas a Gaza”Fra questi, fa sapere il portavoce militare israeliano, anche degli stabilimenti per la produzione di armi e di esplosivi nonché una base di addestramento utilizzata per condurre esperimenti nei lanci di razzi. “La organizzazione terroristica di Hamas – ha precisato il portavoce militare israeliano – è responsabile di ogni evento che abbia origine dalla Striscia”. Un chiaro riferimento agli attacchi di ieri verso le città israeliane. 

Sulla escalation di violenza in mattinata è intervenuto anche Netanyahu. “Non mi stupisco dei terroristi palestinesi – ha detto il premier in partenza da Washington-. Hanno sparato contro Israele proprio durante una cerimonia storica. Vogliono far retrocedere la pace, ma non ci riusciranno. Noi colpiremo chiunque tenti di colpirci, ma porgiamo una mano di pace a quanti vogliono la pace con noi”. Al ritorno in Israele, ha aggiunto, lo attendono adesso tre compiti urgenti: “Combattere il coronavirus, combattere il terrorismo ed allargare il cerchio della pace“.

Punto di non ritorno

Per cogliere gli umori della gente palestinese, Globalist ha scelto di affidarsi alle considerazione di un giovane intellettuale palestinese, non arruolato in una delle tante fazioni dell’arcipelago palestinese: Muhammad Shehada,  scrittore e attivista della società civile della Striscia di Gaza.

“Oggi il Medio Oriente è giunto un punto di non ritorno – annota Shehada su Haaretz -. Non che un leader palestinese avrebbe potuto fermare la frenesia della normalizzazione tra il Golfo e Israele. Ma la debolezza, il cinismo e la frammentazione dei leader palestinesi ora in carica hanno criticamente minato ogni potenziale capacità di prevenire, ritardare, impegnarsi o rispondere in modo significativo all’innovativo strisciare degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein verso Israele, e verso Donald Trump. Questo non ha impedito agli eserciti troll saudita e degli Emirati Arabi Uniti di investire i loro sforzi nell’incolpare i palestinesi per il loro stesso abbandono, non offrendo alcuna ragione chiara per l’abbandono dei loro regimi di quella che una volta era la causa del consenso della regione. Questa settimana, almeno un leader palestinese ha raccolto parole di lotta. Il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh ha dichiarato lunedì che “Domani, l’iniziativa di pace araba muore, così come il consenso arabo… [è] un giorno buio nella storia della nazione araba e della Lega araba”.  Il tradimento della Palestina da parte degli Emirati Arabi Uniti infrange finalmente il mito della nazione araba. L’amore tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti è stata una pubblicità provocatoria, non un affare di pace. Il problema con i monarchi del Golfo – famosi per la brutale repressione delle loro popolazioni – non è mai stata la loro mancanza di consapevolezza delle tribolazioni che i palestinesi subiscono. I loro difetti fatali sono la mancanza di coscienza, l’assenza di una bussola morale e la priorità degli interessi egoistici: mantenere i loro troni e far progredire la loro egemonia regionale. Nessun discorso emotivo o anche solo eloquente potrebbe influenzare i regimi arabi autocratici a rinunciare a vendere la causa palestinese a buon mercato, solo azioni drastiche. I leader dell’Autorità palestinese lo sapevano fin troppo bene, ma non sono riusciti a gestire questo rischio: hanno ripiegato sui discorsi.

Negli ultimi quattro anni  prosegue Shehada – è stato chiarissimo che i regimi arabi si sono mossi verso la normalizzazione. Mentre l’Autorità Palestinese  ha investito grandi sforzi nell’approfondire i rapporti con i governi europei, ha fatto molto meno per rafforzare i rapporti con i Paesi arabi nel proprio cortile di casa – e ancor meno per contrastare la corsa alla normalizzazione.

Invece, i funzionari dell’AP ci hanno assicurato in ogni occasione che la sua posizione regionale era eccellente e che nessuno Stato arabo avrebbe mai osato staccarsi dal consenso di lunga data sull’Iniziativa di pace araba.  Seriamente e incautamente, il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat ha sfidato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a nominare un Paese arabo con il quale Israele ha migliorato le sue relazioni. Più recentemente, Erekat ha dichiarato che il Bahrein è ‘pienamente impegnato’ nell’Iniziativa di pace araba, il che significa nessun riconoscimento unilaterale di Israele senza un progresso verso uno Stato palestinese. Sei giorni dopo è stato annunciato l’accordo Bahrein-Israele. Erekat era ingenuo, fuorviato  o cieco a ciò che non voleva vedere? Nel corso degli ultimi quattro anni i leader palestinesi hanno volontariamente presentato le dichiarazioni ufficiali senza senso dei regimi del Golfo come promesse di ferro. Questo è servito ad alleviare le preoccupazioni dell’opinione pubblica, assicurandogli (erroneamente) che i loro interessi e diritti erano protetti. Nel frattempo, quei leader palestinesi non hanno reagito con sufficiente forza all’aumento delle prove sul terreno della strisciante normalizzazione.  Questa strategia è nata da una serie di ipotesi radicalmente superate, se non addirittura auto-elusive, su gran parte del mondo arabo. L’Autorità Palestinese ha dato per scontata la lealtà di un regime arabo di base alla causa palestinese. La sua strategia è nata da una serie di ipotesi radicalmente superate, se non addirittura auto-elusive, su gran parte del mondo arabo. L’Autorità palestinese ha dato per scontata la fedeltà di un regime arabo di base alla causa palestinese: era un presupposto fatalmente falso. Credeva che la causa palestinese godesse ancora dello stesso potere simbolico di sempre, non ultimo per i governanti arabi che tradizionalmente usavano la questione per mobilitare, placare e distrarre il loro pubblico.

Ma il Medio Oriente è coinvolto in altri conflitti, crisi e distrazioni. L’Autorità Palestinese ha anche lavorato con l’errata convinzione che l’equità e la giustezza della nostra causa sarebbero ancora sufficienti per ottenere simpatia e sostegno da parte dei governanti arabi. ‘Ciò che ci lega al mondo arabo non sono solo le relazioni o gli interessi, è il sangue e il sangue non diventerà mai acqua’, mi disse una volta un alto funzionario dell’AP. Quella falsa fiducia ha portato la leadership dell’AP a sedersi tra il pubblico, ma poi, scioccato, si è affrettato ad agire ogni volta che sono arrivate notizie di paesi arabi che si avvicinavano alla piena normalizzazione.

Capolinea per la vecchia guardia

La strategia dell’AP o la sua mancanza, è nata dal presupposto che il diritto prevarrà sempre inevitabilmente sulla falsità, l’ingiustizia e l’oppressione. Tutto quello che dovevano fare era stare fermi, resistere alla pressione e aspettare che le condizioni maturassero a loro vantaggio.  Più l’AP ha aspettato con ansia e si è bloccata, per quanto amaramente, con lo status quo, più ha perso. Come recita l’adagio arabo ‘Un diritto non si perde mai, finché qualcuno si sforza di rivendicarlo’. Gli attuali leader palestinesi non sono riusciti a lottare adeguatamente per i diritti dei palestinesi. Tanto per cominciare, il raggiungimento dell’unità palestinese avrebbe dovuto essere la loro priorità assoluta, in modo che la comunità internazionale potesse prenderci sul serio e che nessuno dei due campi palestinesi minasse l’altro. Per mantenere viva la lotta, per fare notizia piuttosto che reagire sempre ad essa, i leader palestinesi dovrebbero partecipare ad atti di resistenza popolare e non violenta, piuttosto che partecipare ad interminabili vertici in sale conferenze patinate. Mobilitare una simpatia e un sostegno più attivo nel mondo arabo sarebbe un monito ai governanti arabi che cercano di abbandonare la causa palestinese. .L ‘AP avrebbe dovuto amplificare il suo valore per i governanti del Golfo: unendosi alla coalizione contro l’Isis, o coltivando gli sforzi per aumentare la visibilità positiva dei palestinesi, come gli scambi culturali e il commercio. E quei leader avrebbero dovuto mantenere la lotta attiva diplomaticamente offrendo un’alternativa al prepotente racconto della ‘normalizzazione senza concessioni’: mettere sul tavolo le loro creative proposte di pace. Salam Fayyad ha recentemente chiesto all’Olp di modificare il suo statuto per includere gli appelli per le soluzioni a uno e due Stati contemporaneamente. Abbas ha accennato solo una volta, e di sfuggita, che avrebbe sostenuto una confederazione israelo-palestinese, ma non è mai stata fatta alcuna proposta ufficiale. Israele ha determinato la sua nuova era di relazioni con i regimi arabi attraverso decenni di lobbying, cooperazione, innumerevoli incontri, tangenti, pacificazione, manipolazione, costruzione della fiducia e altre tattiche che hanno aperto la strada fino al momento opportuno, quando è emersa la disperazione di Trump per la spedizione elettorale, mentre l’AP ha perso per decenni di inadeguatezza e fiducia nelle sue tattiche obsolete. Ora che abbiamo superato il punto di non ritorno, i leader palestinesi si sono finalmente svegliati e si sono riuniti. Hanno lanciato un comitato nazionale unificato per la resistenza popolare, che ha chiesto ai palestinesi di iniziare atti di resistenza civile non violenta: issare la bandiera palestinese il giorno della firma degli accordi, e marciare verso i confini della Cisgiordania, bloccati o murati, una settimana dopo. Il cambiamento inizia quando i leader palestinesi di tutte le fazioni si rivolgono al loro pubblico effettivo piuttosto che l’uno all’altro, trattando il popolo palestinese come un elettorato e non come un suddito, permettendogli di decidere chi è più meritevole di guidare la causa palestinese e in quale direzione. Il minimo che si dovrebbe fare ora è indire elezioni nazionali che rianimino il pubblico, gli diano voce al proprio destino e lo rendano di nuovo visibile alla loro leadership.  È il momento di iniettare nuovo sangue nell’AP e nell’Olp da parte delle giovani generazioni molto più sensibili alle priorità e ai terribili bisogni dell’opinione pubblica, e non così concentrate sulla salvaguardia dei loro peccati.  L’opinione pubblica palestinese dovrebbe decidere, attraverso le elezioni, se vuole una leadership che si impegni o resista alla nuova realtà mediorientale. Solo leader freschi, più trasparenti e responsabili possono determinare una vera svolta per il futuro palestinese”.

Di certo, quello di Muhammad Shehada è un pensiero condiviso da molti, soprattutto dai giovani, a Gaza. Quegli accordi sono un punto di non ritorno, anche per il notabilato palestinese. E forse la vera sfida a Israele è quella di uno Stato binazionale.




Sprofondate nella disperazione: le politiche di Israele colpiscono le famiglie di Gaza che vivono di pesca

9 settembre 2020 – B’Tselem

Il 12 agosto 2020 Israele ha ridotto da 15 a 8 miglia nautiche [da 27 a 15 km, ndtr.] la zona di pesca nelle acque di Gaza, ufficialmente a causa dei palloni esplosivi lanciati verso Israele. Il 16 agosto 2020 ha poi interdetto totalmente l’accesso al mare di Gaza, ma il 2 settembre 2020 l’ha riaperto entro le 15 miglia. Questa restrizione va ad aggiungersi a varie altre forme di pene collettive inflitte ai pescatori palestinesi dall’inizio del blocco imposto da Israele sulla Striscia nel 2007. Israele ha arrestato pescatori e ne ha confiscato le imbarcazioni, proibito l’importazione di materie prime usate per le riparazioni e sparato ai pescherecci accusati di oltrepassare i limiti permessi. A oggi il fuoco israeliano ha ucciso sette pescatori, ferendone centinaia. Le restrizioni hanno quasi portato al crollo dell’industria ittica: al momento ci sono meno di 4.000 pescatori invece dei circa 10.000 di vent’anni fa. Chi è rimasto soffre per le pericolose condizioni di lavoro imposte da Israele e vive con la propria famiglia in povertà estrema.

Le seguenti testimonianze sono state raccolte sul campo per noi da Olfat al-Kurd fra mogli e madri di pescatori e pescivendoli a Gaza. Descrivendo la loro dolorosa realtà e il loro futuro incerto, le donne hanno parlato della costante paura per i loro cari e dei gravi problemi economici creati dalle restrizioni israeliane al loro sostentamento e destinate a peggiorare a causa della pandemia.

Nella sua testimonianza del 5 agosto 2020, Intesar a-Sa’idi (52 anni), mamma con sei figli che vive nel campo rifugiati di a-Shati’ a Gaza City, descrive le difficoltà economiche e la tragedia personale che affliggono la sua famiglia:

Quando Muamen va a lavorare sono preoccupata perché penso che non ritornerà, mi tranquillizzo solo quando è di nuovo a casa.

Agli inizi del 2018, Muamen era andato a pesca e non era tornato per molto tempo. Ho avuto paura per la sua vita quando ho saputo da altri pescatori della nostra famiglia che i soldati l’avevano arrestato. Ero terrorizzata e in lacrime. All’epoca i soldati avevano in custodia anche suo fratello. Avevo paura che non sarebbe tornato a casa. Nostro figlio Muhammad aveva solo sette mesi.

Per tre settimane non abbiamo saputo dove lo tenessero e non ho quasi dormito o mangiato. Finalmente l’hanno liberato. Quando è entrato in casa, quasi non credevo ai miei occhi, piangevo e ridevo, l’ho abbracciato, ero così felice.

Dopo l’arresto, nonostante i rischi, è tornato a pescare, è l’unico lavoro che sa fare. Fra il 2013 e il 2017 i soldati hanno confiscato tre dei pescherecci della famiglia e finora ne hanno restituito solo uno. L’anno scorso i fratelli di Muamen hanno comprato una barca e lui ha ricominciato a lavorare con loro, 5 fratelli in una barca. Ogni fine-settimana riceve 150 shekel (circa 40 euro), ma non è abbastanza per noi quattro, specialmente perché i bambini sono piccoli e hanno bisogno di pannolini e latte ogni giorno. La mia vita gira intorno a prestiti e debiti con famigliari e amici. Mia suocera ogni tre o quattro mesi prende 750 shekel (185 euro) dal Ministero del Welfare e li divide fra i figli. Mio marito li usa tutti per saldare i nostri debiti. Qualche volta fa dei prestiti per comprare reti e remi e quando vende il pesce usa tutti i soldi per ripagare i debiti.

Quando sento che i soldati hanno aperto il fuoco contro i pescatori chiamo immediatamente i miei cognati per sapere di Muamen e non sono tranquilla finché non è a casa. Anche lui ha paura di essere arrestato o ucciso, questo mi rende ancora più agitata. Gli chiedo di non dire cose così e di tornare sano e salvo, se dio vuole.

Qualche volta dico a Muamen che spero cambi lavoro per i pericoli che vengono dal mare e dall’esercito israeliano. Gli chiedo di cercarsene un altro e di smettere con la pesca, ma lui dice che la situazione a Gaza è difficile e non c’è nient’altro. Mi chiede di essere paziente e sperare in tempi migliori.

Prego dio che tenga I’esercito israeliano lontano da mio marito e dagli altri pescatori. Prego che la nostra situazione economica migliori, per un futuro sicuro per i nostri figli e perché mio marito rimanga sano e salvo e che non venga ferito.

Anche ‘Ula a-Sa’idi (36), mamma di nove bambini che vive nel campo rifugiati di a-Shati’ a Gaza City, parla delle difficoltà di dipendere dalla pesca:

Mio marito (42 anni) ha fatto il pescatore fin da quando ci siamo sposati 18 anni fa. È un lavoro impegnativo e non mi piace perché è molto pericoloso, anche se tutti i miei parenti sono pescatori. Ma è la nostra sola fonte di reddito, così dobbiamo vivere con questo rischio.  Abbiamo dei problemi economici. Dall’inizio del blocco, il guadagno di mio marito è crollato a 700 shekel (~170 euro) al mese. Adesso, anche se lavora duro, guadagniamo al massimo 500 shekel (~120 euro). È piuttosto poco e non basta per le nostre necessità. Prendevo un sussidio di 1.800 shekel (~445 euro) dal Ministero dei servizi sociali ogni tre o quattro mesi. Dopo quattro anni è sceso a 700 shekel che non bastano per vivere e qualche volta neppure per i bisogni giornalieri o per comprare dei vestiti nuovi ai bambini per le vacanze.

Dallo scoppio del coronavirus, le cose sono persino peggiorate perché la situazione economica a Gaza è pessima e la gente compra meno pesce, ci sono meno stranieri, meno grandi eventi e ordinazioni.  

Mio marito lavora con il fratello sulla sua barca. Va in mare alle tre del mattino e torna dopo le tre del pomeriggio. Quando va a pesca, prego dio che lo tenga lontano dai soldati e dai loro proiettili. Non sono tranquilla fino a quando non torna a casa o mi chiama. Quando è fuori, sono molto in ansia, specialmente quando sento che sparano ai pescatori. Divento nervosa e lo chiamo immediatamente per controllare che stia bene. Anche i miei bambini stanno in ansia quando sentono degli spari e si chiedono quale dei pescatori è stato arrestato e sperano non sia papà. Io cerco di calmarli, dico di essere pazienti, che papà tornerà a casa. Quando mio marito è in ritardo, nostro figlio Anas di 9 anni è così preoccupato che va al porto ad aspettarlo.

Per una moglie avere un marito pescatore è la cosa peggiore. D’inverno mio marito soffre per il gran freddo e così mi preoccupo anche di quello, oltre ai pericoli del mare e più di tutto delle sparatorie contro i pescatori. Ogni volta che qualcuno mi dice che i soldati hanno sparato contro i pescatori, sento che sto per perdere mio marito. Prego dio che ce lo riporti sano e salvo.

I soldati hanno arrestato mio marito varie volte, l’ultima nel 2018. Nel 2007 è stato in prigione per sei mesi. Avevano anche confiscato due delle nostre barche e quattro motori e li hanno bloccati nel porto di Ashdod. Di solito l’esercito non li restituisce dopo la confisca.

Spero che un giorno la nostra situazione migliori. Vorrei che ci restituissero i nostri pescherecci, così mio marito avrebbe la sua barca, e che allarghino la zona di pesca. Voglio vivere dignitosamente, sicura per il futuro dei bambini e in grado di soddisfare i loro bisogni e desideri. Spero che non diventeranno pescatori, è un lavoro duro e pericoloso.

A.M. (49 anni), sposata e con nove figli, vive nel campo rifugiati di a-Shati’ a Gaza City, il cui marito è un commerciante di pesce, in una testimonianza rilasciata il 9 agosto 2020 dice:

Mi sono sposata nel 1989. Mio marito ha lavorato nel settore del pesce da quando aveva 12 anni. Lavorava con il padre pescivendolo e con altri parenti. Ho nove figli dai sei ai 29 anni. Viviamo vicino alla costa e molti dei nostri parenti sono in questo settore.

Nei primi anni di matrimonio c’era un sacco di pesce e poca concorrenza. Mio marito andava al mercato alle 3 del mattino e portava a casa grandi quantità di pesce, lo puliva e lo portava al mercato. Di solito lo vendeva tutto nel giro di due ore e tornava a casa. Avevamo un buon reddito di circa 3.000-4.000 shekel mensili (~ 740-990 euro).

È andata avanti così per anni e avevamo un alto livello di vita, ci siamo comprati la casa e avevamo tutto quello che ci serviva, mi ero persino comprata dei gioielli d’oro. Abbiamo allevato i nostri figli in un momento in cui le nostre finanze erano ottime, non gli è mancato niente, vivevamo felici e tranquilli.

Circa 13 anni fa, quando Israele ha cominciato il blocco su Gaza, le cose sono cambiate. Gli affari ne hanno sofferto, la zona di pesca è stata limitata e talvolta la pesca è stata completamente vietata. Il pesce era scarso e caro per i commercianti e i consumatori. D’estate quando ce n’era tanto, la gente ne comprava 4/5 chili, adesso uno o due.

Qualche volta mio marito deve portarsi a casa un po’ o quasi tutto il pesce. Sta al mercato tutto il pomeriggio e la sera cercando invano di venderlo. È impossibile tenere al fresco il pesce per la scarsità di energia elettrica e qualche volta va a male.    

Dall’inizio del blocco le nostre finanze sono peggiorate. Mio marito non possiede una bancarella al mercato e così affitta uno spazio largo un metro o due a circa 10 shekel (~2,50 euro) al giorno. I bambini lavorano con lui, ma in totale non guadagniamo più di 1,500 shekel (~ 370 euro) al mese e siamo in 14 in famiglia. Due figli sono sposati e uno ha dei bambini, ma viviamo tutti nella stessa casa. Anche se siamo una famiglia numerosa, non prendiamo sussidi perché mio marito lavora in proprio. Per saldare i debiti e pagare per i matrimoni dei nostri figli ho venduto tutto il mio oro e 250 mq di terra che avevo comprato. Uno dei nostri figli ha abbandonato l’università perché non potevamo continuare a pagare le rette. Dall’inizio della crisi da coronavirus la situazione è peggiorata: ristoranti e hotel non comprano quasi più pesce perché restano chiusi per lunghi periodi e a Gaza non ci sono visitatori perché i confini sono chiusi. La crisi ha veramente danneggiato il lavoro di mio marito al mercato.  

È molto dura non essere in grado di soddisfare le necessità dei miei figli. Non ho potuto comprare i vestiti per le vacanze da festa e per l’inizio dell’anno scolastico. Devono usare vestiti, zainetti e persino scarpe dell’anno scorso. Mi fa male al cuore perché avrei veramente voluto dar loro delle cose nuove! Ma non possiamo permettercelo e quando chiedono qualcosa, come andare in gita, ogni volta devo rimandare. Mi fa male perché mi piacerebbe vedere i loro occhi riempirsi di gioia.

La situazione è deprimente e opprimente, ma so che non c’è un altro lavoro per mio marito o per i nostri figli. Spero che la nostra situazione migliori.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Gaza entra nella seconda settimana di isolamento tra le difficoltà per il controllo dell’epidemia

DALLA REDAZIONE DI Mondoweiss

4 SETTEMBRE 2020 Mondoweiss

Gli ultimi dati:

32.817 palestinesi sono risultati positivi per COVID-19; 24.445 in Cisgiordania; 697 a Gaza; 7.675 a Gerusalemme Est; 192 morti

126.419 israeliani sono risultati positivi per COVID-19; 993 morti;

mercoledì Israele ha registrato il maggior numero di nuovi casi con 3.074 persone risultate positive

Per la seconda settimana di seguito la maggior parte della Striscia di Gaza resta sotto isolamento mentre le autorità sanitarie, nel tentativo di rallentare la diffusione del coronavirus, si affrettano ad incrementare rapidamente i test e impongono ai palestinesi di restare nelle loro case. La scorsa settimana l’intera Striscia di Gaza è stata isolata, quando sono stati scoperti i primi casi di trasmissione all’interno della comunità. Questa settimana gli isolamenti sono stati limitati a 19 focolai.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità nel suo ultimo rapporto sulla situazione ha fatto una descrizione del coprifuoco a più livelli di Gaza, riferendo che a nord non c’è “nessun movimento tranne che per motivi di emergenza fino a nuovo avviso”, e nel centro e nel sud le persone sono costrette nelle loro case durante la notte tra le 20:00 e le 8:00.

Allo stesso tempo i test, che erano circa 18.000 la scorsa settimana, sono aumentati nel corso della settimana successiva, quando l’OMS, in collaborazione con l’Agenzia austriaca per lo sviluppo, ha consegnato altri 50 kit di test, sufficienti per sottoporre a screening quasi 5.000 persone, e ulteriori 4.000 tamponi. Dal 24 agosto più di 7.000 persone sono state sottoposte al test e quasi 500 sono risultate positive.

Nello stesso momento in cui venivano emessi gli ordini di isolamento a Gaza è stato interrotto il servizio idrico, lasciando molti palestinesi in quarantena nelle loro case con circa quattro ore di elettricità al giorno e senza acqua dal rubinetto. Torniamo un po’ indietro per fare chiarezza:

In concomitanza con la pandemia c’è stata un’escalation tra Hamas e Israele che ha avuto poca copertura mediatica. I palestinesi di Gaza hanno rilasciato dei palloncini che trasportavano dispositivi incendiari e lanciato razzi su Israele, e Israele ha sferrato quasi ogni notte attacchi aerei contro Gaza. Nel contesto di queste ostilità Israele ha fermato il trasferimento di carburante, il che ha fatto interrompere il funzionamento dell’unica centrale elettrica di Gaza. Ciò ha di punto in bianco lasciato i palestinesi in una crisi energetica che poi è sfociata in una crisi idrica.

A Gaza il servizio idrico comunale dipende dal flusso costante di energia verso gli impianti di desalinizzazione al fine di depurare l’acqua che viene pompata da pozzi che attingono da una falda acquifera. L’intera operazione collassa se manca la corrente.

Per una famiglia l’interruzione si è rivelata fatale.

Omar al-Hazeen ha usato delle candele per illuminare la sua casa nel campo profughi di al-Nuseirat, nella parte centrale della striscia di Gaza. Mercoledì è scoppiato un incendio nella camera da letto condivisa da tre dei suoi figli che sono rimasti tragicamente uccisi nell’incendio.

Niente elettricità, niente acqua, l’isolamento priva i più poveri di Gaza del sostentamento essenziale

Tareq S. Hajjaj ha riportato sul nostro sito le conseguenze devastanti parlando con le famiglie del quartiere di Shujaiyeh, nel nord-est di Gaza.

Abbiamo sentito e visto i pericoli di questa pandemia, ma restare a casa costituisce un ulteriore pericolo mortale. Potremmo morire di fame, ha detto Baker Mousa, 52 anni, ad Hajjaj che lo ha intervistato davanti alla sua casa, dove il soggiorno è stato trasformato in un piccolo negozio di alimentari. “Giorni fa ho dovuto bussare alla porta del mio vicino per prendere dell’acqua.”

Hajjaj ha scoperto che a Shujaiyeh molte persone, essendo loro impedito di lasciare le loro case a causa delle misure di isolamento e restando bloccate in casa con i rubinetti asciutti, hanno dovuto fare la difficile scelta di acquistare l’acqua al posto del cibo.

Hajjaj racconta:

Majeda al-Zaalan, 49 anni, siede al tavolo della sua cucina con i suoi tre figli adolescenti e organizza le loro razioni per la giornata. Divide una singola porzione di pane e formaggio da condividere in quattro. Successivamente fa le razioni dell’acqua, dando a ciascuno tre litri al giorno per uso personale. Nel corso dell’ultima settimana ha fatto il bucato per la casa una volta e a ciascuno è stata concessa una doccia.

Afferma: “In questi tempi l’acqua è la cosa più preziosa e deve esserci in ogni casa ma sfortunatamente di solito non l’abbiamo per nulla”.

Al – Zaalan prosegue: ‘La famiglia viveva con una piccola entrata del mio figlio maggiore Ahmed, che vendeva boccette di profumo in una strada principale. Ma da lunedì nessuno di noi ha attraversato la porta per uscire”. Ora la sua unica fonte di reddito proviene da una sovvenzione dell’organizzazione benefica britannica Oxfam International che le fornisce la modesta cifra di 30 euro al mese.

“Ho solo la mia famiglia – prosegue – e non ho intenzione di perdere nessuno di loro.”

Cosa ha portato all’epidemia?

Il dottor Yasser Jamei, responsabile del Gaza Community Mental Health Program, il più grande istituto palestinese della Striscia di Gaza per la salute mentale, ha raccontato come i funzionari siano venuti a conoscenza della diffusione inosservata del coronavirus abbastanza per caso.

Jamei riporta una sinossi dal tracciamento dei contatti,

lunedì 24 agosto 2020 drammatiche notizie per la popolazione nella Striscia di Gaza. Quel giorno, l’ospedale Makassed di Gerusalemme ha informato le autorità sanitarie che una donna di Gaza che era presente all’ospedale è risultata positiva al COVID-19. La donna era lì per fare compagnia alla figlia malata che aveva ricevuto un permesso per uscire da Gaza per motivi umanitari. Erano arrivate a Gerusalemme sei giorni prima. Il ministero della salute di Gaza ha contattato la famiglia della donna che vive nel campo profughi di Maghazi, nella parte centrale della Striscia, e ha sottoposto al test i suoi familiari. Quattro di loro sono risultati positivi, di cui uno è proprietario di un supermercato. Un altro lavora in una scuola.

Poco prima di lasciare Gaza, la donna risultata positiva a Gerusalemme aveva partecipato a un matrimonio. Le grandi feste erano state vietate, ma poche settimane prima [della sua partenza, ndtr.] le autorità locali hanno adottato misure diverse al fine di allentare le restrizioni. Ciò era stato giustificato dal fatto che Gaza veniva considerata libera da COVID. Le moschee sono state riaperte. Sono state permesse le riunioni e nella prima settimana di agosto gli studenti sono rientrati a scuola”.

Subire la pandemia sotto l’occupazione

Per buona parte dell’estate abbiamo riferito dello sbalorditivo aumento del numero di nuovi casi giornalieri in Cisgiordania, dove si è verificata una seconda ondata più virulenta del coronavirus. L’OMS riferisce che, soltanto in agosto, il numero totale di coloro che sono risultati positivi in tutti i territori palestinesi occupati è raddoppiato da 15.201 a 31.929. La maggior parte dell’incremento interessa la Cisgiordania.

Questa settimana la corrispondente di Mondoweiss, Yumna Patel, ha pubblicato un secondo video della sua serie in cinque parti che racconta come i palestinesi stanno subendo la pandemia sotto l’occupazione. La sua ultima puntata ci porta al villaggio di al-Walaja, nei pressi di Betlemme, che si trova nell’Area C della Cisgiordania [area sotto esclusivo controllo israeliano, ndtr.], e osserva che “all’Autorità Nazionale Palestinese è stato qui impedito di portare aiuto con interventi di contenimento” e che il governo israeliano “non ha fornito nulla” ai palestinesi “in termini di test, trattamento o contenimento del coronavirus”.

Patel riferisce:

Immagina di essere lasciato a difenderti da solo contro il coronavirus mentre la tua casa è minacciata di demolizione e la tua famiglia vive sotto l’occupazione militare.

Questa è la realtà per i palestinesi che vivono nel villaggio di Al-Walaja, annidato tra le colline di Betlemme e Gerusalemme, nel sud della Cisgiordania occupata”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




PCHR: violazioni israeliane dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati

Rapporto settimanale del Palestinian Center for Human Rights [Centro Palestinese per i Diritti Umani] (PCHR) dal 27 agosto al 2 settembre 2020

4 settembre 2020 – International Middle East Media Center

Sintesi

Le Forze Israeliane di Occupazione (FIO) hanno continuato a commettere crimini e svariate violazioni contro i civili palestinesi e le loro proprietà, comprese incursioni caratterizzate da un uso eccessivo della forza, aggressioni, maltrattamenti e attacchi contro i civili nelle città palestinesi. Questa settimana le FIO hanno ferito sei civili palestinesi, compreso un minore, con uso eccessivo della forza durante incursioni in città palestinesi e la repressione di proteste pacifiche in Cisgiordania. Le FIO hanno anche continuato la loro politica di demolizione e distruzione di case e strutture palestinesi per i loro programmi di espansione delle colonie.

Alla fine di questa settimana Dawoud Tal’at al-Khatib (48 anni) è morto all’interno della prigione di Ofer a causa di un infarto solo a quattro mesi dalla data del suo rilascio. Al-Khatib, di Betlemme, è stato nelle prigioni israeliane negli ultimi 18 anni e negli ultimi anni di prigionia ha sofferto condizioni di salute particolarmente difficili, l’ultima delle quali è stata una crisi cardiaca nel 2017. La decisione di tenerlo in carcere ha aggravato le sue critiche condizioni di salute, e alla fine è morto per un attacco cardiaco il 2 settembre 2020.

Nella Striscia di Gaza, dopo che sono stati scoperti casi fuori dai centri di quarantena, per la seconda settimana di fila è proseguito il coprifuoco per limitare la diffusione del coronavirus. Il PCHR teme un peggioramento catastrofico nelle condizioni di vita se il coprifuoco verrà mantenuto per un periodo prolungato senza un meccanismo di protezione per le famiglie povere, disoccupate e con un reddito ridotto, così come per i lavoratori a giornata che hanno perso la loro fonte di sostentamento a causa dello stato di emergenza e del coprifuoco. Il PCHR mette in guardia dalle conseguenze catastrofiche della diffusione del coronavirus nella Striscia di Gaza, soprattutto con il suo sistema sanitario già allo stremo a causa di 14 anni dell’illegale e disumano blocco e delle politiche di punizione collettiva imposti alla Striscia di Gaza dalle FIO.

Questa settimana il PCHR ha documentato 151 violazioni delle leggi internazionali per i diritti umani e del diritto umanitario internazionale (IHL) da parte delle FIO e dei coloni nei TPO. Va rilevato che i limiti dovuti alla pandemia da coronavirus hanno ridotto gli spostamenti per il lavoro sul campo del PCHR e la sua possibilità essere presente sul posto; di conseguenza le informazioni contenute in questo rapporto sono solo una parte delle continue violazioni da parte delle FIO.

Spari e violazioni del diritto all’integrità fisica da parte delle FIO:

In Cisgiordania le FIO hanno ferito 6 civili, compreso un minore, con un uso eccessivo della forza: 2 civili, compreso un minore, feriti a Jenin, 1 ferito durante scontri ad Hebron, nella repressione da parte delle FIO delle proteste di Kufur Qaddoum a Qalqilia e un ferito a Betlemme. Le FIO hanno aggredito a Tulkarem un anziano palestinese, gettandolo a terra, ferendolo e umiliandolo gravemente in un incidente documentato da media e giornalisti. Nella Striscia di Gaza le FIO hanno aperto il fuoco 5 volte verso le terre agricole ad est di Khan Younis e Rafah, nella zona meridionale della Striscia di Gaza.

Incursioni delle FIO e arresti di civili palestinesi:

Le FIO hanno effettuato 70 incursioni in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est. Queste incursioni hanno incluso attacchi in case di civili e sparatorie, terrorizzando i civili e aggredendone molti. Durante le incursioni di questa settimana sono stati arrestati 38 palestinesi, compresi 6 minori e un giornalista. A Gaza le FIO hanno condotto una incursione limitata nella zona ad est di Rafah, nella Striscia di Gaza meridionale.

Espansione delle attività delle colonie e attacchi dei coloni:

Le FIO hanno continuato le operazioni di espansione delle loro colonie in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est occupata. Il PCHR ha documentato 7 violazioni, comprese:

  • Jenin: demolizione di una panetteria e notifica di un ordine di demolizione al negozio di un falegname;

  • Gerusalemme est: 3 case demolite dagli stessi proprietari [per non dover pagare i costi di demolizione, ndtr.];

  • Betlemme: divieto a un palestinese di continuare la costruzione della sua casa e confisca di materiale da costruzione;

  • Hebron: due case di lamiera e una baracca demolite, 1 stanza (di mattoni e lamiera) demolita;

  • Ramallah: 3 tende adibite ad abitazione smontate e confiscate.

Attacchi dei coloni:

Il PCHR ha documentato l’attacco incendiario contro un veicolo e atti di vandalismo contro arabi a Nablus.

Politica israeliana di interruzione della circolazione e limitazioni alla libertà di movimento:

Lunedì 31 agosto 2020 le autorità israeliane hanno dichiarato la riapertura del valico di Karem Abu Salem, consentendo di nuovo l’ingresso di carburante e materiali da costruzione nella Striscia di Gaza.

Le autorità israeliane hanno anche deciso di estendere di nuovo l’area di pesca come prima delle recenti misure punitive imposte alla Striscia di Gaza. Ciò è avvenuto in seguito al raggiungimento di un accordo per fermare l’escalation militare israeliana contro la Striscia di Gaza iniziata il 10 agosto, durante la quale Israele ha imposto misure punitive contro Gaza, sostenendo che si trattava della risposta al lancio di palloni incendiari verso le colonie israeliane vicine alla Striscia di Gaza.

La Striscia di Gaza soffre ancora del peggiore blocco, ormai arrivato al quattordicesimo anno, nella storia dell’occupazione israeliana dei TPO, senza nessun miglioramento riguardo agli spostamenti di persone e cose, alle condizioni umanitarie e sopportando conseguenze catastrofiche in tutti gli aspetti della vita.

Per la seconda settimana di seguito a Gaza è ancora imposto il coprifuoco per contenere l’epidemia di coronavirus, soprattutto dopo che fuori dai centri di quarantena della Striscia di Gaza sono stati confermati casi di COVID-19. In seguito a ciò le sofferenze della popolazione della Striscia di Gaza sono aumentate. Il PCHR teme un peggioramento catastrofico delle condizioni di vita se il coprifuoco verrà mantenuto per un lungo periodo senza meccanismi di protezione per le famiglie povere, disoccupate e con scarsi mezzi economici, così come per i lavoratori a giornata che hanno perso le fonti di reddito a causa dello stato di emergenza e del coprifuoco.

Nel contempo le FIO continuano a dividere la Cisgiordania in cantoni separati, con le principali strade bloccate dall’occupazione israeliana fin dalla Seconda Intifada e con posti di controllo temporanei e permanenti, per cui il movimento dei civili è limitato ed essi rischiano l’arresto.

I. Sparatorie e altre violazioni del diritto alla vita e all’integrità fisica:

  • Alle 2 circa di giovedì 27 agosto 2020 le FIO, con il sostegno di parecchi veicoli militari, hanno attaccato il campo di rifugiati di al-Fawar, a sud di Hebron. Hanno pattugliato le strade del campo e si sono schierate nella zona meridionale, mentre soldati si sono distribuiti tra le case civili nel centro del campo. Numerosi militari hanno fatto incursione e perquisito una casa della famiglia Abu Hashhash, di tre piani e 5 appartamenti.

I soldati [sono entrati] nell’appartamento di Iyad Mahmoud Ahmed Abu Hashhash (40 anni) e lo hanno aggredito picchiandolo duramente e arrestandolo. I soldati hanno aggredito anche il fratello di Iyad, Yaqoub, (35 anni), e, dopo aver fatto irruzione nel suo appartamento, l’hanno colpito al naso, fratturandolo. I soldati lo hanno ammanettato, lo hanno portato nell’appartamento di suo fratello ed hanno iniziato a picchiare entrambi con mani, piedi e calci dei fucili. In seguito a ciò Iyad e Yaqoub sono svenuti. Dopo che le FIO si sono ritirate dalla casa, portandosi via Iyad, Yaqoub è stato trasferito all’ospedale al-Ahli, dove ha ricevuto cure mediche, e i medici hanno fissato un appuntamento per operarlo al naso. Quando Yaqoub è tornato a casa ha scoperto che i soldati israeliani gli avevano rubato 5.800 shekel [circa 1.500 euro] che si trovavano nella sua camera da letto. Va sottolineato che i soldati israeliani avevano già fatto irruzione nella casa un mese fa, avevano aggredito Yaqoub e gli avevano rotto il naso, per cui si era già sottoposto a un’operazione chirurgica al naso.

  • Verso le 23,30 di giovedì 27 agosto 2020 soldati israeliani schierati lungo la barriera di confine a est del villaggio di al-Shoka, a est di Rafah, hanno aperto il fuoco verso terreni agricoli. Non ci sono notizie di vittime.

  • Verso le 13,30 di venerdì 28 agosto 2020 alcuni giovani palestinesi si sono riuniti nella zona di Bab al-Zawiyah, nel centro di Hebron, ed hanno lanciato pietre contro soldati israeliani vicino a un posto di controllo militare nei pressi della di via al-Shuhada chiusa.

Alcuni soldati israeliani hanno sparato granate stordenti contro i manifestanti. I giovani si sono dispersi nelle zone di Beir al-Sabe’a e Wadi al-Tuffah, sono tornati al checkpoint ed hanno lanciato pietre contro i soldati israeliani protetti da cubi di cemento e hanno nuovamente lanciato pietre contro di loro. I soldati hanno sparato proiettili veri. In conseguenza di ciò un diciottenne è stato colpito al ginocchio sinistro. I soldati lo hanno inseguito e arrestato, portandolo al posto di controllo. Verso le 19,30 è arrivata sul posto un’ambulanza militare e ha portato il civile ferito all’ospedale pubblico di Hebron. La sua ferita non è considerata grave.

  • Verso le 13 di sabato 29 agosto 2020 le FIO si sono schierate nei pressi dell’ingresso settentrionale del villaggio di Kufur Qaddoum, a nord di Qalqilia, hanno represso una protesta a cui partecipavano decine di civili palestinesi. Le FIO hanno dato la caccia ai giovani riuniti nella zona. Si sono scontrati con loro, hanno sparato proiettili ricoperti di gomma, bombe stordenti e lacrimogeni. In seguito a ciò 2 civili sono stati colpiti agli arti inferiori da proiettili veri.

  • Verso l’una di domenica 3 agosto 2020 le FIO, con alcuni veicoli militari, hanno attaccato il campo di rifugiati di al-Aroub, a nord di Hebron, e si sono piazzati nei pressi del centro di distribuzione dell’UNRWA [agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, ndtr.]. I soldati hanno pattugliato i quartieri e hanno lanciato molti volantini minacciando gli abitanti del campo a causa dei cosiddetti “violenze, disordini e continuo lancio di pietre”. Nel contempo decine di giovani si sono riuniti ed hanno lanciato pietre contro le unità di fanteria delle FIO, mentre queste ultime hanno sparato indiscriminatamente granate stordenti e lacrimogeni contro chi lanciava le pietre e tra le case.

A causa di ciò alcuni manifestanti sono rimasti soffocati dall’inalazione dei gas lacrimogeni. Scontri tra le FIO e i giovani sono continuati fino alle 2,30, quando le FIO hanno sparato raffiche di proiettili veri in aria per ritirarsi dal campo. Non ci sono notizie di arresti né di incursioni nelle case.

  • Verso le 2,15 della stessa domenica le FIO hanno fatto irruzione a Hebron, si sono piazzati in via Malek Faisal e si sono schierati tra le case. Dopo aver aperto la porta con attrezzi speciali, hanno fatto irruzione e perquisito una fabbrica per la lavorazione del legno e mobili di proprietà della famiglia di Taha Abu Suneinah. Nel contempo alcuni giovani palestinesi si sono riuniti ed hanno lanciato pietre e bottiglie vuote contro le FIO, mentre queste ultime sparavano in modo indiscriminato granate assordanti e lacrimogeni. Come conseguenza di ciò, una granata assordante è caduta in una stanza del reparto di medicina interna dell’ospedale pubblico Aaliyah, adiacente all’area degli scontri. Perciò circa 25 pazienti affetti da coronavirus sono rimasti soffocati e sono stati portati in altri reparti dell’ospedale. Verso le 4 dello stesso giorno le FIO si sono ritirate dalla zona. Non ci sono notizie di arresti.

  • Verso le 20,30 di lunedì 31 agosto 2020 le FIO incaricate di controllare il muro di annessione a nordest del villaggio di Faqqua, a nord est di Jenin, hanno aperto il fuoco contro Mahmoud Taleb Mahmoud Shaheen (18 anni), mentre stava tornando a casa, che si trova a 200 metri dal summenzionato muro. In seguito a ciò Shaheen è stato colpito alla gamba destra da un proiettile vero ed è stato trasferito all’ospedale Khalil Suleiman a Jenin per essere curato.

  • Il padre di Shaheen ha detto all’operatore sul campo del PCHR:

  • Verso le 20,30 di lunedì 31 agosto 2020 mio figlio Mahmoud (18 anni) ha partecipato ad una festa di matrimonio nel villaggio di Faqqua, a nordest di Jenin, e stava tornando a casa nel quartiere a nord, che si trova a 200 metri dal muro di annessione. Quando è arrivato a circa 40-50 metri dal muro, i soldati israeliani incaricati di controllare il muro di annessione hanno aperto il fuoco contro di lui, ferendolo senza ragione alla gamba destra. I vicini sono subito arrivati nella zona e lo hanno trasportato all’ospedale Khalil Suleiman a Jenin perché venisse curato.

  • Verso le 3,50 di martedì 1 settembre 2020 le FIO hanno invaso le vie al-Saf e al- Mahd nel centro di Betlemme. Hanno fatto irruzione e perquisito alcune delle case e arrestato Shadi Mohammed al-Harimi (31 anni) e Touni Asa’ad Qatan (27 anni). Nel contempo alcuni giovani palestinesi si sono riuniti nei pressi di piazza al-Mahd ed hanno lanciato pietre e bottiglie molotov contro le FIO che si trovavano nella zona, mentre queste ultime hanno subito sparato contro di loro proiettili ricoperti di gomma, granate assordanti e lacrimogeni. Alcuni giovani hanno patito le conseguenze dell’inalazione di gas lacrimogeni.

  • Verso le 13 le FIO che si trovavano sulle terre dei villaggi di Shufah e Jbarah, a sudest di Tulkarem, hanno represso una manifestazione a cui hanno partecipato decine di civili. Le Fio hanno inseguito giovani riuniti nella zona, si sono scontrati con loro ed hanno sparato pallottole vere e ricoperte di gomma, bombe stordenti e lacrimogeni. Le Fio hanno aggredito Khairi Hanoun (64 anni), del villaggio di Anabta, a est di Tulkarem, colpendolo ai piedi. Lo hanno arrestato e rilasciato dopo un’ora e mezza. Le FIO hanno aggredito anche molti giornalisti che stavano informando delle proteste, compreso Fadi Yaseen, fotografo di Palestine TV. Inoltre molti civili hanno sofferto le conseguenze dell’inalazione di gas lacrimogeni.

  • Verso le 0.20 di mercoledì 2 settembre 2020 le FIO schierate lungo la barriera di confine a est di Khan Younis [nella Striscia di Gaza, ndtr.], hanno sparato proiettili veri e lacrimogeni verso terreni coltivati, a est del villaggio di al-Qararah, nei pressi della barriera di confine.

  • Verso le 4 dello stesso mercoledì le FIO di stanza presso una torre di guardia nella zona della Tomba di Rachele, di fianco alla moschea Bilal Ben Rabah, a nord di Betlemme, hanno aperto il fuoco contro un civile di 32 anni che stava camminando nella zona. In conseguenza di ciò è stato colpito al piede da un proiettile vero. È stato portato all’ospedale Beit Jala per essere curato.

  • Verso le 4,15 le FIO hanno fatto irruzione nel villaggio di Ash-Shuhada, a sudest di Jenin, nel nord della Cisgiordania, e hanno circondato una casa di proprietà di Ihab Hatem Husein Darwish Asous (27 anni). Nel contempo alcuni civili palestinesi si sono riuniti ed hanno lanciato pietre contro le FIO, mentre queste ultime hanno risposto con pallottole vere, bombe assordanti e lacrimogeni. In seguito a ciò un ragazzo di 16 anni è stato colpito con 2 proiettili veri. È stato portato all’ospedale pubblico Khalil Suleiman per essere curato. Prima di ritirarsi dal villaggio le FIO hanno arrestato il civile Asous.

  • Verso le 8,30 dello stesso mercoledì le FIO di stanza lungo la barriera di confine a est di Khan Younis hanno sparato proiettili veri verso terreni coltivati a est del villaggio di Khuza’a, vicino alla barriera di confine. Non si hanno notizie di vittime.

II. Incursioni e arresti:

Martedì 27 agosto 2020:

  • Verso l’una le FIO sono entrate nel villaggio di Biddu, a nordovest di Gerusalemme est occupata. Hanno fatto irruzione e perquisito la casa di Ayyoub Mohammed al-Khadour’s (28 anni) e l’hanno arrestato. Va rilevato che al-Khadour è già stato imprigionato nelle carceri israeliane.

  • Verso le 2 le FIO sono entrate nel villaggio di Qutna, a nordovest di Gerusalemme occupata. Hanno fatto irruzione e perquisito la casa di Mos’ab Saleem Shamasna’s (23 anni) e lo hanno arrestato.

  • Verso le 2,30 le FIO sono entrate nel villaggio di Jabal Hindaza, a est di Betlemme. Hanno fatto irruzione e hanno perquisito la casa di Na’eem Mousa Abu ‘Ahour’s (18 anni) e lo hanno arrestato. È da rilevare che Abu ‘Ahour era rimasto ferito a una gamba da un proiettile vero mentre si trovava nei pressi della stazione di servizio al-Quds vicino alla moschea Bilal Bin Rabah all’ingresso settentrionale di Betlemme.

  • Più o meno alla stessa ora le FIO sono entrate nel villaggio di al-Arqa, a sudovest di Jenin. Hanno fatto irruzione e hanno perquisito la casa di Nael Mohammed Yehya’s (24 anni) e lo hanno arrestato.

  • Verso le 3,10 le FIO sono entrate nel villaggio di Rujeib, a sudest di Nablus, nella Cisgiordania settentrionale. Hanno fatto irruzione e perquisito la casa di Khalil Abdul Khaleq Mohammed Dwaikat, che il 26 agosto 2020 ha accoltellato un soldato israeliano a Bitah Tikva [in Israele, ndtr.] per prendere le misure della casa prima della demolizione. Va notato che le autorità israeliane utilizzano la demolizione come punizione collettiva contro le famiglie palestinesi.

  • Verso le 3,30 le FIO sono entrate nel villaggio di al-‘Abayat, a est di Betlemme. Hanno fatto irruzione e perquisito la casa di Omar Khaled Ayyad’s (17 anni) e lo hanno arrestato.

  • Verso le 3,30 le FIO sono entrate nel villaggio di Qarawat Bani Zeid, a nordovest di Ramallah. Hanno fatto irruzione e perquisito la casa di Amer Bassam Sneif’s (31 anni) e lo hanno arrestato. In seguito le FIO lo hanno rilasciato.

  • Verso le 3,50 le FIO sono entrate nel villaggio di Beit Loqya, a sudovest di Ramallah. Hanno fatto irruzione e hanno perquisito la casa di Najeeb Ahmed Najeeb Mafarja’s (35 anni) e lo hanno arrestato.

  • Verso le 6,30 le FIO sono entrate nel villaggio di Jin Safout, a est di Qalqilia. Hanno fatto irruzione e hanno perquisito la casa di Karam Khamees Shobaki’s (22 anni) e lo hanno arrestato

  • Verso le 7 le FIO, con vari veicoli militari e scavatrici, sono entrate per 100 metri nel villaggio di al-Shwaika, a est di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza. Hanno fatto irruzione dalla porta al-Motabaq, nei pressi della barriera di confine tra la Striscia di Gaza e Israele. Hanno rastrellato e spianato il terreno e si sono ritirati verso le 11.

  • Verso le 14 le FIO hanno arrestato Ghassan Alian (55 anni), di Bitin, a ovest di Betlemme, dopo aver fatto rapporto al servizio israeliano di intelligence nella colonia di Gush Etzion, a sud della città.

  • Le FIO hanno compiuto (6) incursioni nei villaggi di Beit Ammer, Hadab al-Fawwar e Sa’eer a Hebron, a Faqoua’, a sudest di Jenin, a Tayaseer, a est di Tubas, e a Karf Ein, a nordovest di Ramallah. Non si hanno notizie di arresti.

Venerdì 28 agosto 2020:

  • Verso le 2 le FIO, con alcuni veicoli militari, sono entrate nel campo di rifugiati di al-‘Aroub, a nord di Hebron. Hanno fatto irruzione ed hanno perquisito la casa di Bara’ Abdul Hai Jawabra’s (19 anni) e lo hanno arrestato.

  • Verso le 3,50 le FIO sono entrate nel villaggio di Azun, a est di Qalqilia. Hanno fatto irruzione ed hanno perquisito la casa di Karam Fares Shbaita’s (18 anni) e lo hanno arrestato.

  • Verso le 22,30 le FIO, dopo averli duramente percossi, hanno arrestato 3 civili che si trovavano in via al-Wad nella Città Vecchia di Gerusalemme occupata. Le Fio li hanno portati nel centro investigativo di al-Qushla nella Città Vecchia. Gli arrestati sono Khaled al-Sokhn (23 anni), Abdullah al-Julani (28 anni) e Mohammed Zein (21 anni).

  • Le FIO hanno effettuato (6) incursioni a Hebron, nel campo profughi di al-Fawwar e a Yatta, nel governatorato di Hebron, a Yamoun, a ovest di Jenin, e a Kufur Qaddoum e Hibla, a est di Qalqilia. Non si hanno notizie di arresti.

Sabato 29 agosto 2020:

  • Verso le 16 le FIO sono entrate in via al-Bostan nel quartiere di Obaid, a ovest di al-‘Isawiya, a nordest di Gerusalemme est occupata. Hanno fatto irruzione e perquisito la casa di Mo’tasem Hamza Obaid’s (17 anni) e lo hanno arrestato. Va rilevato che Obaid era stato arrestato 10 giorni prima ed era agli arresti domiciliari per due settimane.

  • Le FIO hanno fatto (4) incursioni nei villaggi di al-Samoua’, Hebron, Beit Ammer e al-Mowreq, nel governatorato di Hebron. Non si ha notizia di arresti.

Domenica 30 agosto 2020:

  • All’una circa le FIO sono entrate nel villaggio di Nahaleen, a ovest di Betlemme. Hanno fatto irruzione e perquisito varie case e arrestato Mahmoud Maher Shakarna (17 anni) e consegnato ad Hamdan Yousef Fannoun (32 anni) una convocazione al servizio israeliano di intelligence nella colonia di Gush Etzion, a sud della città.

  • Verso le 2,30 le FIO sono entrate nella zona periferica di al-Shwaika, a est di Tulkarem. Hanno fatto irruzione e perquisito due case di Sameer Abdul Qader Mohammed Omar (47 anni) e Sameh Adnan Mohammed Obaid (31 anni) e li hanno arrestati.

  • Verso le 7 le FIO hanno fatto un’imboscata nei pressi della località di Haddad, a sudest di Jenin, nel nord della Cisgiordania, ed hanno arrestato Yaser Waleed Khuzeima (30 anni), di Qabatya, a sudest di Jenin, dopo aver fermato e perquisito la sua auto. Le FIO lo hanno portato in un luogo sconosciuto ed hanno abbandonato la sua auto. Va rilevato che Khuzeima è già stato detenuto nelle prigioni israeliane.

  • Verso le 15 nel centro di Gerusalemme le FIO hanno fermato un autobus, hanno obbligato (4) minori a scendere per arrestarli e li hanno portati alla stazione di polizia “al-Bareed” in via Salah al Dein. Gli arrestati sono: Ahmed Dari (17 anni), sua sorella Noumi (16 anni), Yasmine Qaisiya (16 anni) e Sajeda Abu Roumi (16 anni).

  • Testimoni affermano che le FIO hanno fermato e perquisito un autobus in via Nablus, controllato i documenti di identità e obbligato alcuni di loro a scendere dal bus sostenendo che non stavano portando in modo corretto le mascherine. Hanno aggiunto che le FIO hanno colpito e spintonato alcuni di loro e hanno arrestato (4) studenti di ritorno da scuola verso la loro casa a al-‘Isawiya. In seguito Qaisiya e Abu Roumi sono stati rilasciati su cauzione, Dari è stata rilasciata dopo alcune ore a condizione che rimanga agli arresti domiciliari per due giorni e le hanno vietato di entrare dalla porta di Damasco “Bab al-‘Amoud” per 10 giorni.

  • Le FIO hanno fatto un’incursione a Sabastya, a nordovest di Nablus. Non si ha notizia di arresti.

  • Lunedì 31 agosto 2020:

  • Alle 2 circa un’unità israeliana di fanteria è entrata nella città vecchia di Hebron. Ha fatto irruzione e perquisito la casa di Saif al-Dein Mahmoud al-Ja’bari’s (22 anni) e lo ha arrestato.

  • Verso le 2,30 le FIO sono entrate a Nablus, nel nord della Cisgiordania. Hanno fatto irruzione e perquisito la casa di Mohammed Hilal al-Titi’s (22 anni) e lo hanno arrestato.

  • Verso le 4 le FIO sono entrate nel villaggio di Anata, a nordest di Gerusalemme est occupata. Hanno fatto irruzione e hanno perquisito la casa di Mohammed

  • Verso le 8 le FIO hanno arrestato Khalaf Hussain Obaidallah (26 anni), mentre si trovava all’entrata del villaggio di Kisan, a sudest di Betlemme. Le FIO lo hanno portato in un luogo sconosciuto.

  • Verso le 19 le FIO sono entrate nel villaggio di Bab Hatta, uno dei quartieri di Gerusalemme est occupata. Hanno fatto irruzione e hanno perquisito la casa di Ameer Farid al-Basti’s (23 anni) e lo hanno arrestato.

  • Verso le 19,45 un gruppo di Mista‘arvim (unità speciale israeliana travestita da civili palestinesi) ha arrestato Nizar Issa Obaid (22 anni), di Kufur Qaddoum, a est di Qalqilia, mentre stava lavorando alla stazione di servizio di al-Natour, a Tulkarem. Secondo una telecamera di sorveglianza che ha documentato la scena, un veicolo con targa palestinese è arrivato alla stazione di servizio e, quando Obaid è andato a fare il pieno all’auto, due uomini sono scesi e lo hanno arrestato.

  • Verso le 23 il servizio israeliano di intelligence ha convocato tre membri del movimento Fatah di Silwan, a sud della Città Vecchia di Gerusalemme est occupata, per essere interrogati nella stazione id polizia di al-Bareed, in via Salah al-Dein. Shadi al-Mtawr, segretario del movimento Fatah a Gerusalemme, ha affermato che i servizi israeliani di intelligence hanno convocato Fawzi Sha’ban, Mohammed Abu Sowi e Ahmed al-‘Abbasi per interrogarli riguardo alla loro presenza a una riunione sulla demolizione di case a Silwan. Dopo alcune ore le FIO li hanno rilasciati su cauzione (3.000 shekel [circa 750 euro] per ciascuno) e con il divieto di partecipare per tre mesi ai sit in del quartiere di al-Bostan a Silwan.

  • Le FIO hanno effettuato (4) incursioni nei villaggi di Ethna, Surif e Karma, nel governatorato di Hebron, e a Tulkarem. Non si ha notizia di arresti.

Martedì 1 settembre 2020:

  • Verso l’una le FIO sono entrate a Hebron e si sono schierate in via al-Salam. Hanno fatto irruzione e hanno perquisito la casa di Ma’moun Hussain al-Natsha’s (25 anni) e lo hanno arrestato.

  • Le FIO hanno fatto (2) incursioni a Dura e al-Samoua’, nel governatorato di Hebron. Non si ha notizia di arresti.

Mercoledì 2 settembre 2020:

  • Verso le 2 le FIO sono entrate a Yatta, a sud di Hebron, e si sono schierate nella zona di Roq’a. Hanno fatto irruzione e perquisito la casa di Shadi Bader al-‘Amour’s (30 anni) e lo hanno arrestato.

  • Verso le 5 le FIO sono entrate nel villaggio di al-Fridis, a est di Betlemme. Hanno fatto irruzione e perquisito la casa di Jom’a Abu Moheimed’s (29 anni) e lo hanno arrestato.

  • Verso le 18 le FIO sono entrate ad al-‘Isawiya, a nordest di Gerusalemme est occupata. Hanno fatto irruzione e perquisito la casa del fotogiornalista Mohammed Qarout Edkaik’s (27 anni), lo hanno arrestato e gli hanno confiscato l’ equipaggiamento, le macchine fotografiche, molti dei suoi files e documenti personali. Samer Edakaik, il fratello di Mohammed, ha detto al collaboratore sul campo del PCHR che le FIO hanno fatto irruzione, perquisito e confiscato varie fotocamere, un dispositivo senza fili, documenti personali e un tablet di Mohammed. Ha confermato che le FIO hanno ammanettato suo fratello e lo hanno portato al commissariato di “al-Bareed” in via Salah al-Dein. Va rilevato che Adkaik è un fotogiornalista del canale Al-Jazeera e di molte altre agenzie di notizie ed è un attivista sulle reti sociali con migliaia di follower.

  • Le FIO hanno fatto (4) incursioni nei villaggi di Hebron, Ethna, Beit Owa e Deir Samit nel governatorato di Hebron. Non ci sono notizie di arresti.

III. Espansione delle colonie e violenza dei coloni in Cisgiordania:

a. Demolizione e confisca di proprietà di civili:

  • Verso le 9 di giovedì 27 agosto 2020 le FIO, con veicoli da costruzione militari e accompagnati da funzionari dell’Amministrazione Civile Israeliana [l’ente militare che governa in Cisgiordania, ndtr.] sono entrate nel villaggio di ‘Arraba, a sudovest di Jenin. I veicoli da costruzione militari hanno demolito la panetteria in costruzione di Rami Ahmed Abu Mashaikh, costruita 3 mesi fa su un terreno di 170 m2. È da notare che 12 giorni fa le FIO avevano notificato di smettere di lavorare nella panetteria in previsione della sua demolizione, con il pretesto di costruzione illegale in Area C. Per lo stesso motivo, le FIO hanno anche notificato a Mostafa ‘Ali Hammad di demolire il suo negozio di falegnameria.

  • Domenica 30 agosto 2020 Khaled Mahmoud Mohammed Basheer ha adempiuto alla decisione del Comune israeliano di autodemolizione della sua casa nel villaggio di Jabal al-Mokkaber, a sudest di Gerusalemme est occupata, con il pretesto che non aveva la licenza edilizia.

Basheer ha affermato che 3 mesi fa ha costruito per suo figlio una casa di 50 m2 composta da una stanza, una cucina e un bagno. Basheer ha chiarito che due settimane fa gli impiegati dell’amministrazione comunale israeliana, insieme al ministero degli Interni, si sono presentati nella sua casa e gli hanno consegnato un ordine di demolizione. Basheer ha aggiunto di essere stato obbligato a demolire lui stesso la sua casa per evitare di pagare i costi di demolizione, stimati in 100.000 shekel [25.000 euro] al personale del Comune. Ha anche detto che nel 2014 i funzionari del Comune hanno demolito la casa di suo figlio Mahmoud nel quartiere di al-Sal’ah del villaggio di Jabal al-Mokkaber e gli hanno comminato una multa di 80.000 shekel [20.000 euro] con il pretesto che non aveva la licenza edilizia.

  • Lunedì 31 agosto 2020 ‘Odai e ‘Abed al-Salam al-Razem hanno adempiuto alla decisione dell’amministrazione comunale israeliana ed hanno demolito la propria casa nel quartiere di al-Ashqariyia nel villaggio di Beit Hanina, a nord della Città Vecchia nella Gerusalemme est occupata, con il pretesto che non avevano la licenza edilizia. ‘Abed al-Salam al-Razem ha detto che la sua famiglia, composta da 6 persone, e quella di suo fratello, di 3 persone, hanno vissuto per 8 anni nella loro casa di 65 m2. Ha spiegato che 5 anni fa il personale del Comune si è presentato nelle loro case ed ha notificato a suo fratello di demolirle, oltre a una multa di 40.000 shekel [10.000 euro] contro di loro. ‘Abed al-Salam ha aggiunto che durante gli ultimi anni lui e suo fratello hanno atteso inutilmente di avere la licenza edilizia. Ha anche detto che un mese fa il tribunale israeliano ha emesso una ordinanza di demolizione definitiva delle loro case, e se non l’avessero rispettata lo avrebbe fatto il personale del Comune e li avrebbe obbligati a pagare i costi, stimati a 125.000 shekel [circa 30.000 euro].

  • Alle 6,30 circa di martedì 1 settembre 2020 le FIO, accompagnate da veicoli da costruzione militari, sono entrati nel villaggio di Tuqu, a sudest di Betlemme, dove hanno ordinato a Mohammed Fahed Shawareeh di interrompere i lavori per la costruzione della sua casa e gli hanno confiscato materiali da costruzione. Il sindaco di Tuqu, Tayseer Abu Mefreh, ha affermato che le FIO hanno requisito materiali dalla casa in costruzione di Shawareeh. Ha aggiunto che una settimana fa, con il pretesto della mancanza di un permesso edilizio, a Shawareeh era stata consegnata una ingiunzione di cessazione della costruzione.

  • Verso le 10 di mercoledì 2 settembre 2020 le FIO, insieme a veicoli da costruzione militari e funzionari dell’Amministrazione Civile Israeliana, sono entrate nella zona di al-Masafer a Yatta, a sud di Hebron. Le FIO si sono schierate tra le case palestinesi mentre veicoli da costruzione demolivano 2 case in lamiera con il pretesto che non avevano la licenza edilizia.

Queste sono state le demolizioni:

Mahmoud ‘Isaa Rab’i: casa fatta con lamiera e mattoni, con 16 abitanti;

Mahmoud ‘Isaa Rab’i: baracche fatte di lamiera e mattoni, per il bestiame;

Fadel ‘Isaa Rab’i: casa fatta di lamiera e mattoni, con 15 abitanti.

Va rilevato che il 23 febbraio 2012 le autorità israeliane avevano consegnato ingiunzioni di blocco delle costruzioni per le due case e la baracca.

  • Verso le 10 le FIO, accompagnate da veicoli da costruzione militari e da funzionari dell’Amministrazione Civile Israeliana, sono entrate nel villaggio di Beren nella zona orientale di Hebron. Le FIO si sono schierate tra le case palestinesi mentre i veicoli militari da costruzione hanno demolito la stanza di 40 m2 di Faraj Mohammed Ghaith, costruita di mattoni, con il pretesto della mancanza di permesso edilizio.

  • Verso le 13 le FIO, accompagnate da veicoli da costruzione militari e da funzionari dell’Amministrazione Civile Israeliana, sono entrate nel villaggio di Deir Dibwan, a est di Ramallah. Le FIO hanno portato addetti israeliani per smantellare e confiscare tre tende da abitazione, con il pretesto che erano senza permesso nell’Area C.

Le tende erano di:

Suliman Mostafa Ka’abnah: smantellamento e confisca di una tenda che ospitava la sua famiglia, composta da 7 persone;

Oda ‘Awwad Ka’abnah: smantellamento e confisca di una tenda che ospitava 8 persone;

Suliman Salem Ka’abnah: smantellamento e confisca di una tenda che ospitava 8 persone.

Va rilevato che per due volte le FIO hanno demolito proprietà dei summenzionati civili e senza precedente avviso, notando che queste proprietà erano state demolite in precedenza, il 25 agosto 2020.

b. Violenza dei coloni israeliani

  • Verso le 2,30 di venerdì 28 agosto 2020 i coloni israeliani del gruppo “Price Tag” [coloni estremisti particolarmente violenti, ndtr.] hanno attaccato la zona meridionale del villaggio di Asira al-Qibliya, a sudest di Nablus. I coloni hanno dato fuoco al veicolo di Wael Mousa ‘Asayrah ed hanno vandalizzato i muri della sua casa, scrivendo slogan razzisti.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La malnutrizione affligge Gaza

Isra Saleh el-Namey 

27 agosto 2020 – Electronic Intifada 

Muhammad Abu Amra ha il diabete e non può permettersi le cure: avrebbe bisogno di due iniezioni di insulina al giorno, ognuna a circa 6 euro. Il suo debito con due farmacie cresce in continuazione.

Muhammad vive con la famiglia a Deir al-Balah, cittadina situata nel centro della Striscia di Gaza. La casa è in pessime condizioni, con buchi nei muri e sul soffitto.

Durante l’estate il caldo è stato insopportabile, i suoi cinque bambini hanno subito molte punture di zanzare. Mi sento impotente e senza speranza,” dice Muhammad, 33 anni. “Ho sempre più responsabilità, ma a causa della mia salute, non riesco a occuparmene. E la situazione economica della mia famiglia è molto grave.”

Muhammad, disoccupato, e la moglie Mansoura hanno pochi soldi per comprare da mangiare.

Alle volte devo prendere cose essenziali, pannolini, fazzolettini, sale e zucchero e lo devo fare a credito,” dice Mansoura a cui è stato proibito l’ingresso in un supermercato fino a quando non salderà il suo debito di circa 170 euro.

La maggior parte dei pasti che preparo per i bambini si basa sulle verdure più economiche che riesco a trovare, patate e melanzane,” aggiunge Mansoura.

Mangiamo carne rossa o pollo solo ogni sei mesi. I nostri bambini non bevono latte, sono veramente preoccupata che, a lungo andare, ciò danneggerà la loro salute.”

Ogni tre o quattro mesi la famiglia Abu Amra riceve un pacco con farina, riso e olio per cucinare dall’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite che fornisce aiuto ai rifugiati palestinesi.

Secondo Mansoura il contenuto del pacco dura a malapena un mese

La varietà scarseggia

A Gaza la malnutrizione è un problema serio denunciato da uno studio recente dell’agenzia del Programma alimentare mondiale che ha rilevato che l’86% dei bambini con meno di 5 anni che vive vicino al confine fra Gaza e Israele non ha una dieta minimamente accettabile.

A Gaza, secondo il Programma alimentare mondiale, il 28% delle donne durante l’allattamento ha dei livelli troppo bassi di ferro nel sangue.

In una loro precedente relazione e anche secondo altri gruppi che forniscono aiuti si è rilevato che gli abitanti hanno reagito alla difficile situazione economica riducendo la varietà del cibo.

Secondo le Nazioni Unite più del 68% dei due milioni di abitanti soffre di insicurezza alimentare, definita come la condizione di non avere accesso o non avere i soldi per comprare il cibo necessario per condurre una vita sana ed attiva.

La malnutrizione è stata una delle conseguenze del rigido blocco imposto da Israele. Attivisti per i diritti umani hanno documentato che nel 2008 Israele ha elaborato un piano con lo scopo di ridurre la quantità di cibo disponibile a Gaza.

Aziza al-Kahlout, la portavoce del ministero per gli affari sociali a Gaza, ha detto che negli ultimi mesi i problemi sono peggiorati. Le restrizioni imposte a causa della pandemia hanno portato a un aumento della disoccupazione.

Molti hanno perso la loro fonte di reddito, gli autisti che non hanno più passeggeri, gli operai delle fabbriche e di altre attività che sono state chiuse” dice al-Kahlout. “Tutti questi e le loro famiglie hanno urgentemente bisogno di aiuti in questi momenti difficili.”

Poiché le autorità di Gaza hanno problemi finanziari, è necessario un maggiore supporto da parte di donatori internazionali “per impedire alla situazione umanitaria di peggiorare,” conclude al-Kahlout.

Secondo la Federazione Generale Sindacale palestinese almeno 50 fabbriche hanno chiuso e si sono persi circa 4000 posti di lavoro.

I poveri diventano sempre più poveri

Mahmoud al-Lili ha una bancarella di snack nel campo profughi di Maghazi e prima della pandemia guadagnava un po’ più di 4 € al giorno.

Adesso il ventiseienne talvolta non guadagna nemmeno un euro: le attività sono crollate dall’inizio dell’anno, quando le autorità hanno imposto le restrizioni.

Vivo in una piccola casa con genitori, sorelle e fratello sposato,” dice al-Lili. “Faccio del mio meglio per guadagnare qualche soldo così qualche volta c’è qualcosa per la cena. Siamo una famiglia povera, ma la crisi ci ha resi ancora più poveri.”

Samir al-Sayid, 56 anni, ha vari problemi di salute, inclusa la pressione alta. La sua famiglia di 9 persone vive in una casa di due stanze nel campo profughi di Bureij.

Non lavoro e non posso occuparmi della mia famiglia,” dice Samir. “Per vivere facciamo affidamento principalmente sugli aiuti umanitari.”

I pacchi dell’UNRWA sono essenziali per la sua famiglia.

Quando ne riceviamo uno, pianifico attentamente su come sfruttarlo al meglio e farlo durare il più possibile,” dice Siham, la moglie di Samir. “Non posso comprare gli ingredienti per preparare la maggior parte dei piatti che i nostri bambini vorrebbero. Cucinare per la mia famiglia è un constante incubo.”

Isra Saleh el-Namey è una giornalista di Gaza.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




L’uccisione di Iyad al-Halak: famiglia ed avvocati accusano Israele di cercare di insabbiare il caso

Redazione di MEE

28 agosto 2020 – Middle East Eye

Sono sorte preoccupazioni dopo che il Ministero della Giustizia israeliano ha riconsiderato l’assassinio del palestinese autistico, sostenendo l’assenza di prove video.

La famiglia di un giovane palestinese autistico ucciso dalla polizia israeliana a maggio ha accusato la polizia di “aver distrutto deliberatamente le videocamere” che contenevano le prove dell’omicidio.

Iyad al-Halak, di 32 anni, il 30 maggio è stato ucciso da un poliziotto di frontiera israeliano mentre si recava ad una scuola per disabili nella città vecchia di Gerusalemme est occupata.

Un’inchiesta sulla sua uccisione è stata ostacolata dalla mancanza di ogni prova video, nonostante informazioni secondo cui nella zona dove è stato ucciso vi fossero almeno 10 telecamere di videosorveglianza.

L’uccisione di Halak in un deposito di rifiuti nella città vecchia ha provocato proteste in Palestina, in Israele e all’estero e, nonostante l’isolamento per il coronavirus, ha scatenato numerose manifestazioni.

Venerdì, parlando con l’agenzia di notizie ufficiale dell’Autorità Nazionale Palestinese WAFA, il padre di Halak ha accusato la polizia israeliana di cercare di insabbiare il caso di suo figlio e di aver distrutto le telecamere di sorveglianza che hanno documentato l’incidente.

Per tre mesi il governo di occupazione (Israele) non ha preso alcuna misura punitiva contro gli assassini di Iyad”, ha detto. “Stanno cercando di cancellare il crimine e farla franca riguardo all’omicidio.”

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, mercoledì un ufficio del Ministero di Giustizia israeliano ha effettuato una ricostruzione della scena, dopo aver detto che non vi erano registrazioni video dell’incidente.

In risposta, gli avvocati della famiglia Halak hanno sollecitato il ministero a “rivelare immediatamente l’identità dei colpevoli” e pubblicare le prove video.

Il ritardo fino ad ora, tre mesi dopo il delitto, nel portare davanti alla giustizia i responsabili è sospetto e preoccupante”, hanno affermato gli avvocati in una dichiarazione rilasciata a Middle East Eye.

Tutte le prove raccolte nel dossier dell’inchiesta indicano che si è trattato di un vero e proprio omicidio, quindi non è giustificabile impiegare così tanto tempo per raggiungere una decisione sul caso.”

I palestinesi hanno a lungo accusato Israele di condurre indagini superficiali sui delitti commessi dalle forze armate o dai coloni israeliani contro i palestinesi. Gli israeliani sono raramente posti sotto processo per l’uccisione di palestinesi e, se risultano colpevoli, normalmente vengono condannati a pene miti.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




A Gaza il sistema sanitario è a rischio mentre da una settimana continuano gli attacchi aerei israeliani

Yumna Patel

21 agosto 2020- Mondoweiss

È già successo tante di quelle volte,” ha detto a Mondoweiss il giornalista palestinese Omar Ghraieb, 33 anni, “ma adesso con una pandemia globale e l’intero mondo che sta andando a pezzi, senza elettricità né acqua è più dura.”

Israele bombarda Gaza ininterrottamente da otto giorni (dal 13 agosto, ndtr.), secondo Israele come parte della risposta al lancio di palloni incendiari da Gaza sul territorio israeliano. 

Ogni notte, da oltre una settimana, il cielo notturno di Gaza si accende di rosso e arancione, giovedì è stata l’ottava notte consecutiva di raid aerei israeliani. 

Nonostante si parli di tentativi da parte di alcuni funzionari egiziani di mediare un cessate il fuoco, non sembra che le tensioni ai confini finiranno tanto presto, stando alla dichiarazione rilasciata dal movimento Hamas secondo cui “non esiterà a combattere” le forze israeliane, “se continuano l’escalation, i bombardamenti e l’assedio (di Gaza).”

L’esercito israeliano sostiene che i bombardamenti sono diretti su avamposti che appartengono all’ala militare di Hamas che, secondo Israele, è responsabile dei “lanci di palloni esplosivi e incendiari dalla Striscia di Gaza verso Israele”.

I media locali palestinesi nell’ultima settimana hanno riportato vari episodi in cui i bombardamenti israeliani hanno causato danni a strutture residenziali e non legate ad Hamas e che, in alcuni casi, hanno ferito dei civili. 

All’inizio di questa settimana, Wafa, l’agenzia stampa (palestinese), ha sostenuto che in seguito a un attacco aereo su Bureij, il campo profughi situato nella zona centrale della Striscia di Gaza, una bambina di 3 anni, un ragazzo di 11 e una donna sono stati ricoverati in ospedale dopo essere stati gravemente feriti. Sono anche stati riportati “danni seri” a case nella zona. 

Un’altra donna è stata ricoverata in seguito un attacco aereo separato contro la cittadina di Beit Hanoun, nel nord di Gaza. 

Domenica i media palestinesi hanno riferito che un palestinese di 35 anni è stato gravemente ferito a causa dello scoppio di un ordigno israeliano inesploso nei dintorni di al-Zaytoun, nel sud della Striscia. 

Ci siamo passati migliaia di volte,” dice a Mondoweiss Omar Ghraieb, 33 anni,

riferendosi a bombardamenti e attacchi israeliani contro Gaza, che nel passato sono andati avanti ogni volta per settimane. 

Ma adesso con una pandemia globale e l’intero mondo che sta andando a pezzi, è più dura senza elettricità né acqua,” afferma. 

Ghraieb sottolinea che, sebbene gli abitanti di Gaza siano “abituati a cose terribili e traumi,” situazioni come queste “non miglioreranno mai.” 

È semplicemente troppo .”

Interruzioni di corrente elettrica mentre salgono i casi di COVID-19

I recenti bombardamenti arrivano in un momento difficile per i 2 milioni di abitanti di Gaza che soffrono per i problemi quotidiani con acqua, elettricità, crescita della disoccupazione e, più recentemente, a causa della pandemia da coronavirus. 

Anche se Gaza ha avuto successo nel mantenere il tasso di contagi da coronavirus straordinariamente basso, rispetto a Cisgiordania e Gerusalemme Est occupate, il ministero della Salute ha riportato ora nove nuovi casi, arrivando mercoledì a un totale di 18. 

Oltre alla costante minaccia del COVID-19, all’inizio di questa settimana l’unica centrale elettrica di Gaza ha chiuso e interrotto le attività a causa del blocco israeliano di importazioni di gasolio nel territorio.

Il divieto è una punizione di Israele, anche in risposta ai palloncini incendiari che sono stati la ragione dell’ultima serie di attacchi aerei. 

Da anni gli abitanti subiscono interruzioni di corrente e ore di blackout, ma adesso dicono che le cose sono più difficili per via del COVID-19. 

Abbiamo subito interruzioni giornaliere di elettricità per oltre dieci anni,” dice Ghraieb. “[Ma] in estate, con una pandemia globale e gli attacchi israeliani, è più difficile restare in contatto con il mondo e condividere l’inferno in cui stiamo vivendo senza luce o Internet.”

Uno si sente isolato e condannato a vivere in un inferno in fiamme,” dice. 

Martedì il CIRC [Comitato internazionale della Croce Rossa, ndtr.] ha espresso preoccupazione per la carenza di energia elettrica a Gaza, segnalando che i recenti blackout potrebbero colpire in maniera sproporzionata il già fatiscente settore sanitario, dato che le otto ore di elettricità al giorno sono state ridotte ad appena tre o quattro.

Quando gli abbiamo chiesto che messaggio avesse per la comunità internazionale circa i recenti attacchi, Ghraieb ha detto a Mondoweiss di “non avere un messaggio per un mondo che ci ha delusi per decenni e che ci vede vittime di violenze, occupazione, apartheid e pulizia etnica da parte degli israeliani. Al mondo non importa niente di noi e io non imploro giustizia,” afferma Ghraieb. “Ma prima o poi giustizia sarà fatta.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Crepe nel muro di separazione israeliano e la fragilità del potere di Netanyahu

Shir HeverNadia Nasser-Najjab

19 agosto 2020 – MiddleEastEye

Anche se quest’estate con l’allentamento delle misure di sicurezza alcuni palestinesi sono potuti andare in spiaggia, dietro questo si celano i problemi che affliggono il primo ministro israeliano.

Questa estate i media israeliani hanno riferito con sorpresa una scena inaudita: migliaia di famiglie palestinesi sulle spiagge di Tel Aviv e di altre città israeliane. Gli israeliani si sono abituati a svolgere la loro routine senza vedere i 2 milioni e mezzo di vicini della Cisgiordania occupata, che vivono giusto dall’altra parte del muro di separazione.

Da una spiaggia di Tel Aviv, dei palestinesi hanno condiviso il video di un bagnino israeliano che lasciava entrare i palestinesi di Nablus. La voce che i soldati stessero chiudendo un occhio di fronte ai famosi varchi nel muro si è diffusa rapidamente tra i palestinesi, che si sono affrettati ad approfittare dell’occasione, pagando prezzi esorbitanti ai taxi per andare oltre il muro.

Molti giovani palestinesi hanno visto per la prima volta il mare (che dista meno di 100 chilometri da gran parte della Cisgiordania occupata) e alcune famiglie hanno approfittato dell’occasione per visitare le zone in cui vivevano le loro famiglie prima della Nakba del 1948.

Qualche giornalista ha aspettato a riferire questi fatti finché i passaggi nel muro non sono stati nuovamente chiusi. In effetti la scorsa settimana, non appena la notizia delle famiglie palestinesi sulle spiagge è apparsa sulle pagine dei giornali israeliani, l’esercito ha rapidamente e aggressivamente richiuso i varchi per evitare l’accusa di essere indulgente con i palestinesi.

Rafforzare il potere coloniale

Negli ultimi anni, migliaia di lavoratori palestinesi sono entrati in Israele attraverso i buchi nel muro di separazione in cerca di lavoro e spesso muovendosi proprio sotto gli occhi dei soldati israeliani. La richiesta di manodopera palestinese a buon mercato, e la consapevolezza tra i politici israeliani del fatto che il reddito ricavato dal lavoro fatto in Israele sia un’ancora di salvezza essenziale per l’economia palestinese in rovina hanno dissuaso l’esercito israeliano dal sigillare quei buchi.

Ma nell’epoca del coronavirus è stato davvero sorprendente vedere che i buchi nel muro venivano usati non solo dai lavoratori, ma anche da intere famiglie.

La politica arbitraria di apertura e chiusura dei passaggi attraverso il muro crea tra i palestinesi un senso di incertezza, e rafforza il potere coloniale delle autorità israeliane sulla popolazione palestinese.

Quando l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha impartito direttive alle persone perché rispettassero il blocco del Covid-19 e rimanessero a casa, sapeva benissimo che le sue istruzioni sarebbero state ignorate. E con il coordinamento della sicurezza con Israele sospeso per via dei piani di annessione del primo ministro Benjamin Netanyahu, le forze di sicurezza palestinesi non si sono nemmeno preoccupate di impedire alle persone di entrare in Israele – un’ulteriore umiliazione e indebolimento per l’autorità e la legittimità dell’ANP.

I palestinesi però sanno che l’improvvisa e inaspettata clemenza rispetto ai valichi non è un segno della generosità israeliana. Il colonizzatore “non regala niente per niente”, come disse una volta il filosofo Frantz Fanon.

Per anni, un piccolo gruppo di donne israeliane ha fatto entrare clandestinamente [in Israele] dei palestinesi sulle proprie auto attraverso i posti di blocco, prendendo le corsie riservate agli ebrei israeliani. La più famosa è Ilana Hammerman, che ha spesso sfidato le autorità israeliane portando palestinesi attraverso il checkpoint.

Non è mai stata arrestata, probabilmente perché ciò svelerebbe regole dell’apartheid che consentono agli ebrei di attraversare i posti di blocco solo se non hanno palestinesi in auto. Ma lasciando che le aperture nel muro rimangano aperte, le autorità israeliane rendono irrilevante l’attivismo di Hammerman e altri.

Distogliere l’attenzione del pubblico

Una spiegazione ancora migliore per la decisione presa dal governo di allentare il blocco è la precaria situazione politica di Netanyahu. Ogni volta che le proteste contro il suo governo si fanno sentire, Netanyahu utilizza una crisi nella sicurezza per distogliere l’attenzione pubblica dai problemi economici e legali che affliggono la sua amministrazione.

Dieci anni fa, mentre i manifestanti invocavano giustizia sociale, Netanyahu ha falsamente accusato gli abitanti della Striscia di Gaza di essere coinvolti in un attacco che aveva avuto origine in Egitto, e ha ordinato il bombardamento del territorio costiero. Allo stesso modo, nel 2014-15, mentre gli investimenti stranieri in Israele crollavano e il Paese affrontava una crisi abitativa, Netanyahu spostò l’attenzione sull’Iran, affermando che prima di potersi prendere cura della qualità della vita bisogna prendersi cura della “vita stessa”.

Adesso i manifestanti stanno protestando contro le pesanti conseguenze economiche provocate dal blocco del Covid-19, la massiccia disoccupazione e il fatto che Netanyahu sia piuttosto impegnato a combattere le accuse di corruzione che ad affrontare la crisi – e niente può essere più utile di una piccola guerra o di una rivolta palestinese per dichiarare elezioni anticipate e vincerle come “Mr. Security”.

Sembra ormai chiaro che Benny Gantz, il “primo ministro di rimpiazzo” e rivale di Netanyahu, abbia interessi opposti. Nella sua qualità di ministro della Difesa è nella posizione ideale per mettere a frutto quanto appreso come comandante dell’esercito israeliano, vale a dire che le restrizioni alla libera circolazione dei palestinesi non creano sicurezza per gli israeliani, anzi – e che lasciare le famiglie palestinesi passare attraverso i varchi del muro diminuisce la loro motivazione immediata ad attaccare Israele.

Provocazioni fallite

Netanyahu non ha perso l’occasione di scatenare un po’ di violenza e cavalcare l’ondata di paura per un altro mandato come primo ministro, ma i suoi tentativi di provocare uno scontro con Hezbollah in Libano sono falliti, con l’esplosione di Beirut che rende il momento particolarmente inopportuno perché le forze israeliane scatenino attacchi mentre il resto del mondo invia aiuti.

Quindi, proprio come il suo predecessore Ehud Olmert, Netanyahu ha spostato l’attenzione dal Libano alla Striscia di Gaza. All’inizio di questo mese, alcuni palloni che trasportavano materiali incendiari sono stati lanciati da Gaza in Israele, provocando incendi nei campi israeliani. Non sono stati riportati feriti, tuttavia Netanyahu li ha usati come giustificazione per lanciare attacchi aerei, chiudere posti di blocco, fermare l’importazione di combustibile a Gaza e persino bloccare gli aiuti del Qatar al territorio assediato.

Tutto ciò, tuttavia, non è riuscito finora a indurre Hamas ad un attacco di ritorsione. Hamas ha già una chiara comprensione della politica israeliana e sa esattamente cosa Netanyahu stia cercando di ottenere.

Qualche gita al mare non farà dimenticare ai palestinesi il dolore dell’occupazione, né allevierà lo stress e la paura di una vita senza diritti – ma questa breve storia è sufficiente a dimostrare che il muro non ha mai riguardato la sicurezza israeliana, e che separare le diverse popolazioni che vivono sotto il controllo israeliano non è sostenibile.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Shir Hever è membro del consiglio di Jewish Voice for a Just Peace in the Middle East [Voce ebraica per una pace giusta in Medio Oriente].

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




I palestinesi sono privi di una voce politica e i loro leader non fanno nulla al riguardo

Ramona Wadi

13 agosto 2020 – Middle East Monitor

I rifugiati palestinesi sono al centro delle narrazioni palestinesi. La comunità internazionale, tuttavia, ha classificato [quella dei] rifugiati palestinesi come una questione umanitaria. In mezzo a queste rappresentazioni divergenti, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) cerca di cimentarsi con entrambe le parti per sollecitare la “protezione internazionale” nel contesto della pandemia del coronavirus.

Mentre gli aiuti internazionali a favore dei rifugiati palestinesi sono appena sufficienti per i beni di prima necessità (e questo contribuisce ad accentuare la loro vulnerabilità), l’OLP ha chiesto protezione e sostegno economico all’ONU. Secondo quanto riportato, “tale protezione e sostegno devono continuare fino a quando non verrà trovata una soluzione per il problema dei rifugiati sulla base della Risoluzione 194”.

Lo sfruttamento politico dei profughi palestinesi non conosce limiti. La Risoluzione 194 delle Nazioni Unite, che era stata ciecamente accettata come la cornice entro cui avrebbe dovuto essere trovata una soluzione, viene raramente criticata per aver spostato la responsabilità [del problema, ndtr.] sulla popolazione colonizzata, piuttosto che sulla struttura di colonizzazione e insediamento che usurpa il territorio palestinese e che ha come prima cosa fatto dei palestinesi dei rifugiati. La risoluzione 194 fa parte della narrazione internazionale sulla Palestina e ha poco a che fare con la salvaguardia dei diritti dei rifugiati perché non chiede la decolonizzazione della loro terra.

Ai rifugiati palestinesi non è data una tribuna politica a livello internazionale. Da qui il costante “parlare per” i rifugiati all’interno di un contesto umanitario che a sua volta giustifica il ruolo della comunità internazionale nel decidere come debba essere promossa la causa dei profughi palestinesi per enfatizzarne l’aspetto umanitario.

L’aiuto umanitario è prima di tutto una faccenda della comunità internazionale. I destinatari sono costretti a svolgere un ruolo in questa farsa, che ignora la colonizzazione israeliana della Palestina come causa dell’intera questione.

Inoltre, la richiesta di aiuto dell’OLP promuove la narrazione internazionale del rimandare. Gli aiuti devono essere forniti finché non verrà trovata una soluzione, insiste l’OLP, ma quanta enfasi viene posta sulla ricerca e attuazione di tale soluzione? La comunità internazionale e la leadership palestinese hanno trasformato i rifugiati palestinesi in accessori per convenienza politica. In effetti, non si fa quasi mai menzione dei rifugiati palestinesi, a meno che non venga evocato un contesto umanitario, o nel caso in cui le Nazioni Unite lancino un progetto per sfruttare l’illusione dell’ “autonomia palestinese” – inesistente in un contesto umanitario compromesso a causa di carenze e di alleanze politiche con il progetto coloniale sionista.

Quindi ho un suggerimento: che ne dite di ricordare i rifugiati palestinesi come le principali vittime della colonizzazione sionista; come persone che sono state private dei loro diritti dalla comunità internazionale che permette a quella colonizzazione di procedere indisturbata? Sono passati decenni da quando l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e il lavoro è stata incaricata di provvedere ai rifugiati palestinesi e vincolata a una visione “neutrale”, nonostante sia finanziata da Paesi che danno la priorità ai legami diplomatici ed economici con Israele a scapito dei diritti umani e della giustizia. L’autonomia palestinese per i palestinesi, compresi i rifugiati, è ancora un concetto inesistente, perché la comunità internazionale ha monopolizzato la politicizzazione degli aiuti umanitari senza consentire ai palestinesi di partecipare al processo.

Ogni volta che il legittimo diritto al ritorno dei palestinesi viene legato a richieste di aiuti umanitari, il “diritto” viene ulteriormente sminuito. Tale retorica mette ingiustamente i palestinesi in posizione passiva, posizione che l’Autorità Palestinese ama definire “di attesa”. Tali prospettive sono dannose per i palestinesi; non stanno aspettando, sono stati privati di una voce politica e la loro leadership non sta facendo nulla per contrastare questa violazione internazionale dei diritti umani.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)