L’appoggio dell’UE a Israele la rende complice di genocidio

Niamh Ni Bhriain e Mark Akkerman

6 luglio 2024 – Al Jazeera

L’UE continua ad esportare armi verso Israele e finanzia vari enti israeliani

Sono passati 9 mesi dall’inizio della guerra genocida di Israele contro Gaza che ha ucciso più di 38.000 palestinesi, ne ha feriti più di 86.000 e ne ha sfollati più di 1.9 milioni. Nonostante le frequenti condanne a parole, i leader europei hanno fatto ben poco per fermarla. Ancora peggio, molti Paesi europei continuano a sostenere economicamente e militarmente Israele.

Poiché gli Stati Uniti sono considerati il maggior sostenitore della macchina da guerra israeliana, è facile non tenere in considerazione l’appoggio europeo. Tuttavia uno sguardo più attento sulle dimensioni dell’assistenza finanziaria e militare europea a Israele mette a nudo la complicità dell’UE con il continuo genocidio a Gaza e le varie atrocità nella Cisgiordania occupata.

Fornitura di armi utilizzate per il genocidio

L’UE è il secondo maggior fornitore di armi a Israele dopo gli USA. Secondo le cifre della banca dati COARM [Esportazione di armi convenzionali] dell’European External Action Service [Servizio Europeo per le Azioni all’Estero] tra il 2018 e il 2022 gli Stati membri dell’UE hanno venduto a Israele armi per un valore di 1,76 miliardi di euro.

Le armi hanno continuato a passare dai Paesi europei a Israele anche dopo che in gennaio la Corte Internazionale di Giustizia ha emesso una sentenza provvisoria in base alla quale probabilmente l’esercito israeliano sta commettendo un genocidio. L’UE ha in vigore un sistema per imporre un embargo sulle armi, ma si è rifiutata di applicarlo a Israele, lasciando agli Stati membri la possibilità di mettere in atto lentamente misure sotto la pressione della società civile, con scarsa volontà politica di farlo e molto al di sotto di quanto necessario.

Alcuni Paesi dell’UE, tra cui Italia, Olanda, Spagna e la regione belga della Vallonia, hanno annunciato che avrebbero sospeso il trasferimento di armi a Israele, ma alcune di queste dichiarazioni non sono state seguite da azioni concrete e tempestive, o, quando lo sono state, hanno rappresentato una sospensione temporanea o parziale di vendita di armi, molto meno di un embargo militare contro Israele.

Secondo il SIPRI [Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace, con sede a Stoccolma, ndt.] la Germania è di gran lunga il maggior fornitore europeo, avendo rifornito Israele con il 30% del suo armamento tra il 2019 e il 2023. Lo scorso anno le esportazioni sono salite da 32,3 a 326,5 milioni di euro, e la maggior parte delle licenze è stata concessa dopo il 7 ottobre.

Secondo i dati dell’UE tra il 2018 e il 2022 ci sono stati altri importanti fornitori europei a Israele. Essi includono la Romania, che ha esportato licenze per un valore di 314,9 milioni di euro, l’Italia, con 90,30 milioni di euro, la Repubblica Ceca, con 81,55 milioni di euro, e la Spagna, con 62,9 milioni di euro. L’UE non ha ancora presentato i dati dei trasferimenti nel 2023. Oltre ai rifornimenti diretti a Israele, gli armamenti dell’UE spesso vengono esportati indirettamente in Israele attraverso gli USA.

Benché l’esportazione di armi sia soggetta ad accordi con l’utilizzatore finale, gli USA rifiutano di rispettare questa condizione e i Paesi dell’UE non la mettono in pratica. Ciò rende impossibile tracciare in che misura le armi e componenti di armamenti dell’UE esportati negli USA finiscono successivamente nei sistemi d’arma inviati in Israele.

Ciononostante le esportazioni militari note dell’UE verso Israele possono essere direttamente legate al genocidio a Gaza. I carrarmati israeliani Merkava, che dall’invasione di terra iniziata alla fine di ottobre operano a Gaza, stanno utilizzando componenti per motori fabbricati dall’impresa tedesca MTU (una controllata di Rolls Royce), mentre le corvette Sa’ar, navi da guerra costruite dall’impresa tedesca ThyssenKrupp Marine Systems, sono state in attività nelle acque che circondano la Striscia assediata.

L’impresa britannica BAE Systems, in collaborazione con la tedesca Rheinmetall, produce gli obici semoventi M109, che sono stati utilizzati per bombardare zone densamente abitate di Gaza. Amnesty International ha trovato prove che queste armi di artiglieria hanno utilizzato anche munizioni al fosforo bianco, che possono bruciare la pelle fino all’osso e provocare disfunzioni organiche. In base alle leggi internazionali il loro uso in aree civili è limitato.

I caccia da guerra F-35, prodotti negli USA e utilizzati per i bombardamenti a tappeto contro Gaza, si basano su componenti europei con almeno il 25% di pezzi di ricambio esportati direttamente in Israele dall’Europa. Solo l’Olanda ha imposto limitazioni su di essi in seguito a una denuncia intrapresa da organizzazioni della società civile vinta in appello.

Soldi pubblici europei per le armi israeliane

I Paesi europei non solo esportano armi in Israele mentre c’è un crescente consenso internazionale sul fatto che Israele sta portando avanti un genocidio a Gaza, ma stanno anche spendendo denaro pubblico per appoggiare i produttori di armi che le fabbricano.

Una nuova ricerca del Transnational Institute [gruppo di studio e ricerca olandese, ndt.] e di Stop Wapenhandel [organizzazione olandese contro il commercio e la produzione di armi, ndt.] rivela che il denaro dei contribuenti europei per un importo di 426 milioni di euro sta attualmente finanziando imprese che armano Israele.

L’impresa tedesca Rheinmetall, che invia in Israele proiettili per carrarmati, ha ricevuto oltre 169 milioni di euro, mentre la compagnia finno-norvegese Nammo, il cui lanciarazzi a spalla “anti-bunker” vengono esportati in Israele, ha ricevuto più di 123 milioni di euro. Altri beneficiari includono Leonardo, ThyssenKrupp, Rolls Royce, BAE Systems e Renk.

Il denaro pubblico europeo è anche andato a finanziare progetti di sicurezza e difesa che hanno beneficiato la macchina da guerra israeliana. Dal 2008 sono stati 84 gli enti israeliani a ricevere 69,39 milioni di euro da un totale di 132 progetti per la sicurezza. Nonostante violi sistematicamente da decenni i diritti umani dei palestinesi, il ministero della Sicurezza Pubblica [israeliano] ha partecipato ai principali progetti per la sicurezza finanziati dall’UE.

Inoltre molta della produzione di conoscenza utilizzata nello sviluppo degli strumenti per la guerra digitale israeliana attualmente utilizzati a Gaza è stata probabilmente perfezionata e migliorata in università che beneficiano dei finanziamenti europei per la ricerca.

Dal 7 ottobre l’UE ha concesso 126 milioni di euro per finanziare 130 progetti di ricerca che coinvolgono enti israeliani. Due di questi progetti stanno fornendo un totale di 640.000 euro per l’impresa bellica Israel Aerospace Industries. Negli anni che hanno preceduto il 7 ottobre 2023 alcuni enti israeliani hanno ricevuto 503 milioni di euro in base a Horizon Europe [programma di finanziamento dell’UE per progetti scientifici, ndt.] (2021-2023).

Inoltre per decenni i Paesi dell’UE hanno speso denaro dei contribuenti in armamenti per Israele, supportandone quindi il complesso militare-industriale. Israele è tra i primi 10 esportatori di armi al mondo, con circa il 25% delle sue esportazioni per la difesa che vanno a Paesi europei.

Le aziende israeliane pubblicizzano regolarmente i propri prodotti come “testati sul campo”, una strategia che è legittimata dai Paesi dell’UE quando fanno affari con loro. I droni sono di gran lunga il prodotto di maggior successo e l’agenzia di sicurezza dei confini dell’UE Frontex li noleggia da Elbit e dalle Israel Aerospace Industries (IAI) per voli di sorveglianza sul Mediterraneo.

Dopo il 7 ottobre i Paesi dell’Ue hanno continuato a collaborare con imprese di armamenti israeliane. Mentre c’è stato un tentativo della Francia di escludere le compagnie israeliane dalla fiera delle armi Eurosatory, l’iniziale sentenza a tal fine di un tribunale è stata di fatto ribaltata da una corte di Parigi e alle imprese israeliane è stato concesso di parteciparvi.

Il fatto che denaro pubblico europeo sia destinato a industrie belliche e ad altri enti coinvolti nel massacro israeliano a Gaza significa di fatto che l’UE sta finanziando un genocidio.

Con tutti i suoi discorsi sui diritti umani e lo Stato di diritto l’UE non ha tenuto fede a nessuno dei due in risposta alla guerra genocida di Israele contro Gaza, facendo a pezzi la sua credibilità e legittimità. Non è troppo tardi per invertire parte dei danni imponendo un embargo sulle armi contro Israele e riducendo il flusso di armi statunitensi che transitano attraverso l’Europa verso il regime genocida. Non farlo, soprattutto alla luce della sentenza transitoria della CIG sulla plausibilità del genocidio, renderebbe complici l’UE e i suoi Stati membri.

Le opinioni espresse in questo articolo sono degli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

Niamh Ni Bhriain

Coordinatrice del Transnational Institute.

Niamh Ni Bhriain coordina il programma Guerra e Pacificazione del Transnational Institute, che si concentra sullo stato di guerra permanente e sulla resistenza pacifica. Ha conseguito un master in Leggi Internazionali per i Diritti Umani presso l’Irish Centre for Human Rights [Centro Irlandese per i Diritti Umani] all’università statale d’Irlanda di Galway (NUIG). Prima di arrivare al TNI Niamh ha passato alcuni anni in Colombia e Messico lavorando con organizzazioni della società civile e con l’ONU nelle aree di costruzione della pace, giustizia transizionale, protezione dei difensori dei diritti umani e analisi dei conflitti.

Mark Akkerman

Ricercatore presso Stop Wapenhandel.

Mark Akkerman è un ricercatore di Stop Wapenhandel ed è attivamente coinvolto nelle ricerche del Transnational Institute sulla militarizzazione dei confini. Ha anche scritto e fatto campagne su argomenti come l’esportazione di armamenti in Medio Oriente, il settore degli eserciti e della sicurezza privati, il greenwashing del mercato delle armi e la militarizzazione della risposta al cambiamento climatico.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Manifestanti pro-Palestina bloccano il porto italiano di Genova

Redazione di Middle East Monitor

25 giugno 2024 – Middle East Monitor

L’agenzia Anadolu riferisce che martedì attivisti solidali con la Palestina hanno inscenato una protesta al porto di Genova, nel Nord Italia, contro una consegna di armi ad Israele.

Martedì mattina presto i manifestanti, che comprendevano associazioni della società civile e sindacati dei portuali, hanno bloccato il porto in solidarietà con i palestinesi della Striscia di Gaza.

L’agenzia di stato italiana ANSA ha riferito che oltre 500 manifestanti hanno impedito il passaggio di camion che trasportavano container che dovevano essere caricati sulle navi.

I gruppi hanno criticato la fornitura di armi a Israele e hanno sostenuto che il porto di Genova è un punto di transito per le armi usate nel “massacro” dei palestinesi.

Un gruppo chiamato “giovanipalestinesi” ha scritto su Instagram che i container in arrivo al porto sono stati bloccati martedì mattina alle 6 ore locali.

Il gruppo ha aggiunto: “Sappiamo molto bene che la macchina da guerra comincia dalla logistica che invia armi, munizioni e tecnologia che hanno causato il genocidio del nostro popolo.”

Dall’incursione di Hamas oltre il confine del 7 ottobre 2023 che ha provocato 1.200 vittime, Israele ha ucciso più di 37.600 palestinesi. Il massacro ha ridotto il territorio in macerie e ha provocato una carestia.

Tuttavia da allora Haaretz [giornale israeliano di centro sinistra, ndt.] ha rivelato che elicotteri e carri armati dell’esercito israeliano hanno di fatto ucciso molti del 1.139 soldati e civili che Israele ha dichiarato essere stati ammazzati dalla resistenza palestinese.

Avendo violato la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che chiedeva un immediato cessate il fuoco, Israele ha dovuto affrontare una condanna internazionale a fronte della sua continua e brutale offensiva a Gaza [iniziata] dall’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023.

Israele è accusato di genocidio dalla Corte Internazionale di Giustizia, che con la sua ultima sentenza ha ordinato a Tel Aviv di fermare immediatamente le sue operazioni nella città meridionale di Rafah, dove un milione di palestinesi aveva cercato rifugio dalla guerra prima che fosse invasa il 6 maggio.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Gaza: la causa avviata dalla società civile presso la Corte Penale Internazionale contro Ursula von der Leyen alza la posta in gioco sulla complicità nel genocidio

Richard Falk

6 giugno 2024-Middle East Eye

Molti esperti sollecitano la Corte Penale Internazionale ad indagare la Presidente della Commissione Europea sul suo presunto sostegno all’assalto genocida di Israele contro il popolo palestinese

Nei quasi 80 anni di esistenza delle Nazioni Unite mai prima d’ora è stata intrapresa una tale gamma di strategie giudiziarie presso i tribunali internazionali nel tentativo, finora inutile, di fermare un genocidio che continua a devastare la vita di 2,3 milioni di palestinesi a Gaza.

Da gennaio non solo la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) ha emesso tre ordinanze provvisorie che impongono a Israele di fermare il suo “plausibile genocidio”, ma a quello Stato è stato anche ordinato di smettere di interferire con la fornitura di aiuti di emergenza ai palestinesi affamati.

Durante lo stesso periodo il procuratore capo della Corte Penale Internazionale (CPI), Karim Khan, ha richiesto mandati di arresto contro i leader israeliani e di Hamas.

Questa impennata dell’attività giudiziaria internazionale arriva in mezzo alle frustrazioni delle Nazioni Unite per i tentativi falliti di imporre un cessate il fuoco mentre la guerra israeliana determina condizioni sempre più drammatiche a Gaza. Gli Stati Uniti hanno usato il veto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per proteggere il loro alleato criminale dalle pressioni delle Nazioni Unite.

Israele ha reagito agli ultimi sviluppi con furia e atteggiamenti di sfida e ha goduto, seppur espresso in modo più discreto, del sostegno degli Stati Uniti.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ripetutamente sostenuto che, alla luce dell’Olocausto, Israele non potrà mai essere accusato del crimine di genocidio, che dal 7 ottobre Israele esercita il proprio diritto all’autodifesa contro un attacco terroristico di Hamas e che i mandati di arresto proposti dalla Corte Penale Internazionale, se emessi, minerebbero la capacità delle democrazie di difendersi in futuro.

Ha anche invitato, con un certo successo, il governo degli Stati Uniti e altre Nazioni che sostengono Israele a esercitare pressioni sulla Corte Penale Internazionale affinché respinga la richiesta dal procuratore.

Massimizzare la pressione

In mezzo a tutte queste controversie legali sta diventando evidente che a Israele importa moltissimo di essere marchiato come criminale da questi tribunali che deride in quanto non avrebbero competenza per accogliere denunce sul suo comportamento.

Questa apparente contraddizione suggerisce che Israele si rende conto che il suo rifiuto di conformarsi alle sentenze di questi tribunali internazionali non cancellerà la loro influenza sull‘opinione pubblica e questo rende vitale esercitare la massima pressione per scoraggiare tali valutazioni della CIG/CPI sul presunto comportamento criminale di Israele a Gaza, in particolare per quanto riguarda il genocidio, il crimine dei crimini.

In questo contesto, alla fine del mese scorso il Geneva International Peace Research Institute [Istituto Internazionale di Ricerca sulla pace di Ginevra] (GIPRI) ha aggiunto un’ulteriore dimensione di complessità giuridica invitando la Corte Penale Internazionale a indagare sulla Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, per presunta “complicità nei crimini di guerra e genocidio commessi da Israele”.

Lo Statuto di Roma del 2002, che stabilisce il quadro del trattato che modella il lavoro della CPI, conferisce alle ONG e ai singoli individui il diritto, ai sensi dell’articolo 15, di portare prove di atti criminali all’attenzione del procuratore, che può decidere se le prove presentate sono sufficientemente convincenti da giustificare un’indagine.

A differenza della CIG– che si occupa di risolvere controversie legali tra Stati sovrani, funzionando come il braccio giudiziario delle Nazioni Unite – la CPI ha l’autorità di indagare, arrestare, incriminare, perseguire e punire individui giudicati da un collegio di giudici di essere colpevoli di un crimine previsto dal diritto internazionale.

Tutti i membri delle Nazioni Unite aderiscono allo statuto che governa la CIG, mentre gli Stati devono dare la loro approvazione per diventare parti della CPI e non hanno alcun obbligo di farlo – sebbene 124 Stati lo abbiano fatto, comprese le democrazie dell’Europa occidentale e la Palestina (considerata a questo fine come Stato).

Di rilievo è il fatto che né Israele né gli Stati Uniti hanno aderito allo Statuto di Roma, né lo hanno fatto Russia, Cina, India e pochi altri. Gli Stati Uniti, tuttavia, non hanno esitato a spingere la Corte Penale Internazionale ad incriminare il presidente russo Vladimir Putin dopo l’invasione dell’Ucraina del 2022, opponendosi nel medesimo tempo alla sua applicabilità a Israele per la situazione di Gaza sulla base del fatto che quest’ultima non ne fa parte. (Lo Statuto di Roma conferisce alla CPI l’autorità di agire contro individui che commettono crimini nel territorio di qualsiasi Stato che aderisce al trattato, in questo caso la Palestina).

Complicità e favoreggiamento

L’iniziativa del GIPRI è interessante perché riguarda la questione relativamente trascurata della complicità o del favoreggiamento nella commissione di un crimine internazionale. Questa questione si basa sul dovere legale, incorporato nella Convenzione sul Genocidio e nello Statuto di Roma, che rende perseguibile il favoreggiamento e la complicità nei crimini in violazione del diritto umanitario internazionale.

Il Nicaragua ha avviato una denuncia di questo tipo presso la CIG contro la Germania, chiedendo un ordine di emergenza per far cessare attività che potrebbero plausibilmente essere considerate come complicità con un genocidio. L’accusa principale contro la Germania era quella di aver fornito a Israele armamenti funzionali alla condotta genocida di Israele.

Ad aprile, l’ICJ ha respinto la richiesta del Nicaragua con un voto di 15-1, affermando che le circostanze non giustificavano un ordine di emergenza. Ma la corte ha anche bocciato il tentativo della Germania di respingere la denuncia del Nicaragua per complicità: il che significa che la Corte Internazionale di Giustizia a tempo debito esaminerà le argomentazioni di entrambe le parti sul merito fattuale della controversia e alla fine raggiungerà una decisione di merito.

Al contrario l’iniziativa del GIPRI è arrivata sotto forma di una dichiarazione approvata da vari esperti di diritto internazionale, compreso il sottoscritto, consegnata al procuratore della CPI a maggio.

Anche la dichiarazione del GIPRI si basa su una ipotesi di complicità penale e di favoreggiamento, ma il bersaglio è necessariamente un individuo, Von der Leyen, piuttosto che uno Stato. Il GIPRI sostiene che il sostegno della Commissione Europea “ha avuto un effetto sostanziale sulla commissione e sulla continuazione di crimini da parte di Israele, compreso il genocidio”.

La GIPRI fa notare che questo favoreggiamento è consistito nel sostegno politico, nel materiale militare e nella mancata adozione di misure ragionevoli per prevenire il genocidio.

Comunque vada a finire l’iniziativa del GIPRI, essa illustra l’ampiezza del potenziale della Corte Penale Internazionale e mostra un tentativo della società civile di ricorrere al diritto internazionale visto il fallimento delle Nazioni Unite o del sistema intergovernativo nel prevenire e punire un genocidio così evidente.

Insieme a iniziative di solidarietà come la campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) e le proteste universitarie, soprattutto negli Stati Uniti, la società civile si sta rivelando un attore politico che persino Israele capisce di non poter ignorare se vuole avere qualche speranza di evitare nel lungo termine lo status di paria.

Qualunque sia la risposta della Corte Penale Internazionale a questa iniziativa del GIPRI, si tratta di un ulteriore segno che la società civile sta diventando un attore politico sulla scena globale.

Richard Falk è uno studioso di diritto internazionale e relazioni internazionali che ha insegnato all’Università di Princeton per quarant’anni. Nel 2008 è stato anche nominato dalle Nazioni Unite per un mandato di sei anni come relatore speciale sui diritti umani palestinesi.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




L’ordine giuridico internazionale deve essere restaurato – e Gaza ne fa parte”

Ghousoon Bisharat

24 maggio 2024 – +972 Magazine

Il direttore di Al Mezan, Issam Younis, spiega gli ostacoli e le opportunità per i palestinesi dopo gli importanti interventi dei principali tribunali internazionali.

In una settimana frenetica per gli sviluppi globali in campo giuridico due dei più importanti tribunali internazionali hanno compiuto passi fondamentali per affrontare la guerra che infuria a Gaza dagli attacchi del 7 ottobre.

Il 20 maggio il procuratore della Corte Penale Internazionale (CPI), Karim Khan, ha annunciato di aver emesso i mandati di arresto per diversi importanti leader israeliani e di Hamas per crimini di guerra e contro l’umanità: il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Yoav Gallant, che ha accusato di aver ridotto intenzionalmente alla fame e diretto attacchi contro civili palestinesi a Gaza; e Yahya Sinwar, Mohammed Deif e Ismail Haniyeh, ritenuti responsabili di aver diretto l’uccisione e il rapimento di civili israeliani il 7 ottobre.

Poi, il 24 maggio, nellambito del processo in corso in seguito alle accuse di genocidio portate dal Sudafrica contro Israele, la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) ha ordinato a Israele di cessare immediatamente linvasione di terra di Rafah, in corso da settimane, e di riaprire il valico di Rafah con lEgitto per consentire lingresso di aiuti umanitari e osservatori su mandato delle Nazioni Unite, e ha ribadito la sua richiesta per il rilascio immediato di tutti gli ostaggi israeliani ancora detenuti a Gaza.

Per comprendere il significato di questi sviluppi +972 ha parlato con Issam Younis, direttore del Centro Al Mezan per i diritti umani con sede a Gaza, ed ex commissario generale della Commissione Indipendente Palestinese per i Diritti Umani. Younis è stato sfollato con la sua famiglia dalla città di Gaza all’inizio della guerra, prima di lasciare la Striscia per il Cairo, dove si trova attualmente.

Nel corso di una intervista che tocca molti temi Younis ha [detto di aver] accolto favorevolmente le richieste di mandato di arresto avanzate da Khan, sottolineando la necessità di utilizzare ogni strumento legale per porre Israele di fronte alle proprie responsabilità; contemporaneamente ha visto la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia come un passo significativo per assicurare un cessate il fuoco permanente a Gaza. Tuttavia, ha avvertito Younis, il sistema globale del diritto internazionale si trova con ogni evidenza ad un punto di rottura.

I palestinesi, ha spiegato, sentono che esiste una cronica contraddizione” tra la loro ricerca della giustizia e un mondo in cui le norme del diritto internazionale vengono applicate selettivamente solo a determinati attori. Gaza, secondo Younis, è quindi un test per lordine giuridico, poiché i Paesi del Sud del mondo combattono per sostenere le convinzioni etiche enunciate dal Nord del mondo quasi ottantanni fa.

Younis ha inoltre sostenuto che prendere di mira Netanyahu e Gallant sia stata la cosa facile da fare”, poiché sono i volti pubblici impopolari della campagna militare israeliana. Ma ha sottolineato che la CPI deve perseguire una serie di funzionari che hanno eseguito i crimini, compresi quelli esaminati dallindagine più estesa della Corte sui territori occupati, come lespansione degli insediamenti coloniali in Cisgiordania. Tuttavia Younis è rimasto cautamente ottimista: La giustizia non si ottiene con un knockout, ma con una vittoria ai punti”, ha detto.

L’intervista è stata modificata per motivi di lunghezza e chiarezza.

Molti palestinesi avvertono da tempo che il diritto internazionale non è riuscito a proteggerli o a far progredire la loro lotta, questo fallimento è culminato in ciò che vediamo oggi a Gaza. Avendo dedicato la vita a questo tema, cosa direbbe ai suoi connazionali palestinesi su come considerare gli attuali sviluppi giuridici?

Ci sono due risposte alla richiesta di mandati di arresto di Khan. La prima è che siamo ottimisti sul lungo termine, sul piano strategico. Non siamo ingenui e siamo consapevoli che il diritto internazionale è il prodotto di ciò che gli Stati accettano per proprio vantaggio. Ma cerchiamo il più possibile di utilizzare questi strumenti esistenti. Come scrisse il poeta Al-Tughrai, come sarebbe angusta la vita senza uno spazio per la speranza”, quindi dobbiamo mantenere viva la speranza.

La seconda risposta richiede la comprensione del sistema giuridico internazionale. Le Nazioni Unite, le Convenzioni di Ginevra e altri regolamenti e istituzioni del dopoguerra furono istituiti dai vincitori per proteggere la pace e la sicurezza internazionale, mantenere lordine globale e facilitare la cooperazione internazionale. Queste regole sono diventate troppo restrittive per affrontare le ingiustizie esistenti nel mondo, al punto che il diritto internazionale ora si applica chiaramente solo ad alcuni Paesi e ad alcuni esseri umani, ma non a tutti. Come si può spiegare altrimenti questa iniquità [nella risposta dei Paesi occidentali a Gaza]?

Naturalmente lo status quo [dellapplicazione selettiva del diritto internazionale] è pericoloso. Mette in luce la crisi dellintero sistema. Il genocidio di Gaza conferma che questo ordine internazionale è obsolescente; le regole del 1945 non possono reggere al giorno doggi. Ma fa ancora parte del nostro sistema come palestinesi. Se riusciamo a ottenere giustizia attraverso questi recenti sviluppi, bene; se non possiamo, è unopportunità per massimizzare il nostro impegno politico e legale e dimostrare lassenza di giustizia.

I palestinesi di tutto il mondo – sia in Cisgiordania che a Gaza, a Gerusalemme, nella diaspora o allinterno di Israele – sentono che esiste una cronica contraddizione tra la giustizia e la realtà del mondo. Lassalto a Gaza, in quanto [segnale di] uno scadimento quanto mai brutale e criminale dei valori morali e legali, ha messo [la mancanza di giustizia] in cima allagenda mondiale.

Eppure ai palestinesi dico: non importa quanto brutale e criminale sia la situazione, la giustizia prevarrà. Perché non importa quanto le persone si abituino alla vista del sangue e della morte, questa è una situazione anormale. Non è giusto e un giorno le cose cambieranno. La giustizia non si ottiene con un knockout, ma con una vittoria ai punti, e la vittima deve sempre fare buon uso degli strumenti a sua disposizione.

C’è un chiaro movimento in tutto il mondo: ci sono proteste di massa nelle strade e nei campus. La guerra di Gaza non sta solo sconvolgendo lordine globale, ma rivelando una nuova relazione tra il Nord e il Sud del mondo. Il fatto che il Sudafrica abbia portato avanti il ​​caso di genocidio davanti alla CIG non è stato solo simbolico; lo schierarsi degli Stati del Sud, dichiarato o meno, è importante.

Laltra parte del mondo, gli europei bianchi del Nord, devono rendersi conto che le cose non sono più come prima. Lordine internazionale ha bisogno di essere restaurato e Gaza ne fa parte. Pensavamo che, nonostante il divario tra Sud e Nord, spartissimo alcuni valori con lintera comunità internazionale, solo per scoprire che anche i concetti [più basilari] non sono condivisi.

La prova di questa iniquità è che la guerra a Gaza è ancora in corso dopo otto mesi e che luccisione di [oltre 15.000] bambini è un argomento controverso. Finché il mondo non interviene, continua a inviare spedizioni di armi e a dare sostegno politico, significa che il mondo accetta luccisione di bambini perché non sono bianchi e crede che ogni palestinese sia uno scudo umano, un terrorista, o un ostacolo sul cammino di un nuovo Medio Oriente.

Cosa ne pensa della decisione odierna della CIG?

E’ una evoluzione molto significativa – un passo cruciale [non solo] per porre fine al genocidio a Gaza, ma anche per aprire la strada affinché Israele sia ritenuto responsabile del crimine di genocidio.

La CIG chiede a Israele di fermare immediatamente la sua offensiva militare e qualsiasi altra azione nel Governatorato di Rafah che possa infliggere alla comunità palestinese di Gaza condizioni di vita tali da poter portare alla sua distruzione fisica totale o parziale”. Intendo questo messaggio come una richiesta di cessate il fuoco: la CIG ordina a Israele di interrompere le sue operazioni militari in tutta la Striscia di Gaza, aggiungendo poi una virgola molto importante seguita da qualsiasi altra azione nel Governatorato di Rafah”.

Secondo me con queste parole la CIG ordina a Israele di porre fine del tutto alla guerra, anche se mi aspettavo che la Corte fosse più chiara [nella sua formulazione].

Cosa pensano i palestinesi di Gaza riguardo a questi sviluppi presso la CPI e la CIG?

La gente a Gaza è estremamente arrabbiata con lintero ordine globale e con le istituzioni giuridiche esistenti. Il tempo si misura con i loro cadaveri e gli altri sono vivi solo per caso. Si sentono abbandonati e sentono che il mondo è complice di ciò che sta accadendo loro. Finché non fermerai questa guerra, ne farai parte.

Le ONG palestinesi come Al Mezan hanno collaborato con la CPI sulle indagini riguardanti casi che risalgono alla guerra del 2014. Cosa ne pensa della lentezza delle indagini, che non hanno ancora prodotto alcuna accusa, e della rapidità di quelle avviate in seguito alla guerra in corso?

L’origine della storia risale alla guerra di Gaza del 2008-2009. Ci siamo rivolti allallora procuratore della CPI, il signor Luis Moreno Ocampo, e abbiamo chiesto di indagare [sulla condotta di Israele durante la guerra] come violazione dello Statuto di Roma. Tre anni dopo Ocampo ci ha risposto dicendo che lo status giuridico dello Stato di Palestina non era chiaro alle tre principali istituzioni – lAssemblea Generale dell’ONU, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU e gli Stati parti dello Statuto di Roma – per cui non poteva aprire un’indagine.

Quando nel novembre 2012 la Palestina è diventata uno Stato osservatore non membro dellAssemblea Generale dell’ONU abbiamo avuto una nuova apertura: la Palestina aveva ora il carattere” di uno Stato che poteva firmare lo Statuto di Roma, e così è diventata una dei 124 aderenti alla CPI.

Otto anni dopo la procuratrice della CPI, Fatou Bensouda, ha deciso che esisteva un fondamento in merito e la Camera Preliminare [dopo aver confermato lo status della Palestina come Stato] ha consentito lapertura di unindagine nel 2021. Da allora, lindagine non ha progredito di un solo millimetro, nonostante le numerose guerre lanciate contro Gaza, la continuazione del blocco e altri crimini.

Quindi penso che la recente decisione di Khan suggerisca che non può rimanere in silenzio di fronte a questa ferocia. Mostra anche lentità della pressione esercitata sulla Corte.

La richiesta di Khan di emettere mandati di arresto contro Netanyahu e Gallant – entrambi personaggi politici impopolari e indesiderabili per molti, compresi gli Stati Uniti – è stata la cosa più facile da fare. Il mondo si è reso conto, anche se tardivamente, che Netanyahu rappresenta un ostacolo. E per quanto riguarda Gallant, le sue dichiarazioni dicono Stiamo combattendo animali umani” e Ho ordinato un assedio completo alla Striscia di Gaza. Non ci sarà né elettricità, né cibo, né carburante” sono la prova di una politica brutale. Il procuratore non poteva rimanere neutrale.

L’aver scelto il percorso facile spiega perché non ci sono mandati di arresto per coloro che hanno eseguito e ordinato tali crimini: gli ufficiali militari e della sicurezza e tutti gli altri membri del gabinetto di guerra israeliano. Il criminale, secondo lo Statuto di Roma, è colui che ha ordinato, eseguito, assistito e perfino consentito il crimine, per cui è impensabile impartire ordini ad altri che non siano direttamente responsabili.

Perché il procuratore ha chiesto mandati di arresto relativi solo ai reati a partire dal 7 ottobre?

Spero che questo sia il primo round. Il dovere del procuratore è quello di esaminare tutti i crimini che minacciano la pace e la sicurezza internazionale e di analizzare lintero fascicolo, senza essere selettivo e parziale.

Ma sembra che sia sotto pressione e non potrebbe andare oltre la data del 7 ottobre. Se lo facesse, significherebbe aprire il dossier sugli insediamenti coloniali [in Cisgiordania]. Per i palestinesi le colonie non sono meno pericolose della guerra in atto perché hanno il fine di eliminare ogni possibilità di esistenza per il popolo palestinese. Il trasferimento di una popolazione in territori occupati è un crimine grave ai sensi dello Statuto di Roma e delle Convenzioni di Ginevra. Mi aspettavo che ciò entrasse a far parte del processo in corso presso la CPI, ma sembra che questo sia il massimo che Khan può fare adesso.

La pressione su di lui spiega anche perché ha scelto di richiedere mandati contro tre membri di Hamas e solo due israeliani. Inoltre, i palestinesi sono accusati di otto crimini, gli israeliani di sette, e solo i palestinesi sono accusati di tortura, maltrattamenti, ecc., mentre non vengono nemmeno citati i crimini di rapimento, sparizione e detenzione di palestinesi nelle carceri militari israeliane. Lavoro in questo campo da 35 anni, e non ho mai visto una tale brutalità [contro i prigionieri]: 27 palestinesi sono stati uccisi nelle carceri israeliane: non combattenti illegali”, ma lavoratori che si trovavano sul posto di lavoro quando Hamas ha lanciato il suo attacco, tutti passati attraverso controlli di sicurezza e in possesso del permesso di lavorare in Israele.

Inoltre il procuratore ha scelto di non menzionare il reato di genocidio. Eppure quello che sta accadendo ora è un genocidio in tutti i sensi, e prove attendibili [di questo] sono state presentate dal team legale sudafricano davanti alla CIG.

Una questione chiave riguardo allintervento della CPI è la complementarità (ovvero Israele che indaga su sé stesso). Quale è stata lesperienza di Al Mezan sul modo di perseguire l’accertamento di responsabilità da parte del sistema giudiziario israeliano?

In quanto organizzazione per i diritti umani, trattiamo con lautorità esistente purché garantisca un certo rispetto per i diritti umani dei cittadini. Tra le parti con cui abbiamo collaborato, ad esempio, c’è il Corpo dellAvvocatura Generale Militare Israeliana (MAG Corps). Durante la guerra del 2014 e prima abbiamo presentato centinaia di richieste sui crimini più gravi commessi. La stragrande maggioranza dei casi non è stata oggetto di indagini, ad eccezione di quelli riguardanti la disciplina militare, come il caso di un soldato che ha rubato una carta di credito. Non c’è stata alcuna indagine sugli omicidi di intere famiglie cancellate dall’anagrafe o sulla distruzione di un ospedale. Ma dobbiamo sfruttare tutti i mezzi di contenzioso a livello nazionale di fronte alla potenza occupante.

Israele è quasi l’unico Paese al mondo in cui la magistratura boicotta le vittime. Ciò è delineato nella modifica del 2012 della legge sulla responsabilità dello Stato [n. 8]. In molti paesi, le vittime boicottano il sistema giudiziario perché lo considerano non indipendente, imparziale o neutrale.

Il nostro criterio è stato: Siamo di Gaza e i giudici israeliani devono renderci giustizia”, ma loro forniscono sempre copertura politica e legale [allo Stato]. Una vittima [che noi rappresentavamo] ha perso la sua casa nel 2008 e l’ha ricostruita, nel 2012 un suo familiare è stato ucciso e nel 2014 lesercito ha nuovamente distrutto la sua casa. Nessun tribunale israeliano gli ha reso giustizia. Allora dove deve rivolgersi? Il principio di complementarità è fondamentale, ma nel caso di Israele, la sua magistratura non può garantire giustizia ai palestinesi.

Come considera la reazione degli Stati Uniti alle notizie della CPI?

Gli Stati Uniti sono parte del problema, non parte della soluzione. Gli Stati Uniti hanno esercitato pressioni sulla Corte e quando la precedente procuratrice Fatou Bensouda ha aperto unindagine, è stata punita: lamministrazione Trump ha revocato i visti a Bensouda e ad altri collaboratori, oltre ad altre misure di ritorsione. Durante lamministrazione Bush, gli Stati Uniti hanno anche firmato accordi con la maggior parte degli Stati firmatari dello Statuto di Roma per non estradare o detenere alcun cittadino americano accusato di crimini di guerra, garantendo così limmunità ai propri soldati. Questa settimana, i senatori statunitensi hanno firmato dichiarazioni minacciose contro la Corte. Ciò non ha precedenti.

Cosa ci si può aspettare da un Paese che pensa e agisce in questo modo? Se gli Stati Uniti avessero voluto porre fine alla guerra lavrebbero fatto in cinque minuti, con una telefonata di Biden. Per gli Stati Uniti, il tribunale è eccellente purché emetta un mandato di arresto per Putin, ma diventa un problema quando si occupa di altri casi che riguardano suoi stretti alleati. Gli Stati Uniti stanno trascinando il mondo verso situazioni pericolose e persino catastrofiche.

Cosa significano i mandati per gli obblighi della Palestina in quanto firmataria dello Statuto di Roma – compreso il fatto che Sinwar e Deif si trovano in territorio palestinese?

Conveniamo sul fatto che lo Stato di Palestina non esercita alcun tipo di sovranità ed è uno Stato sotto occupazione. È uno Stato virtuale. Se lo stesso Presidente vuole spostarsi da un luogo all’altro della Cisgiordania o al di fuori di essa ha bisogno dell’approvazione degli israeliani. Il mondo è consapevole che lAutorità Nazionale Palestinese non ha alcun potere per arrestare nessuno. Vuole adempiere ai suoi doveri legali come Stato indipendente, ma non può.

[Riguardo ad Hamas], non siamo noi a stabilire il diritto internazionale, ma ci sono regole che valgono per tutti e che tutti devono rispettare. La resistenza e la lotta fanno parte della natura umana, che cerca di porre l’accento sulla moralità e le leggi umanitarie che il mondo civilizzato ha accettato per sé. C’è sempre bisogno di riflettere sui mezzi di resistenza e su come ottenere i migliori risultati possibili. La resistenza ha sempre bisogno di riesaminare sé stessa, ma ciò non nega che esiste unoccupazione e ad essa bisogna resistere.

La domanda più importante è come può il popolo palestinese fare ciò mentre è sottoposto a questa ferocia e aggressione. Alla fine, lalbero della vita è sempreverde e la teoria è grigia.

È necessario porre fine a questo conflitto e fornire ai palestinesi tutte le risorse morali, legali e umanitarie affinché possano esercitare il loro diritto allautodeterminazione. A proposito, non si tratta solo del diritto al proprio Stato; sono contrario allidea che il problema dei palestinesi sia che non hanno uno Stato. In effetti, il popolo palestinese rivendica il diritto allautodeterminazione affinché possiamo decidere del nostro destino. E se non volessimo uno Stato?

Questa è la prima volta che i leader palestinesi vengono formalmente accusati di crimini di guerra internazionali. Cosa significa questo per la lotta e la resistenza palestinese? La mossa della CPI significa che ci sono linee rosse anche per la resistenza?

Come organizzazioni per i diritti umani crediamo che chiunque violi lo Statuto di Roma, indipendentemente dalla sua nazionalità, debba essere assicurato alla giustizia e assumersi la responsabilità delle proprie azioni.

Sono dellopinione che, anche se questa decisione di richiedere mandati di arresto contro Sinwar, Deif e Haniyeh è inaccettabile per alcuni palestinesi, questa è unopportunità per qualsiasi imputato per presentarsi davanti alla Corte, difendere la propria versione, contestualizzare le cose e presentare prove. In definitiva, anche se vengono emessi mandati, gli accusati sono sempre innocenti fino a prova contraria.

Non siamo noi a decidere cosa sia un crimine di guerra: alla fine lo deciderà il tribunale. Ma la Corte stessa deve essere totalmente credibile e non politicizzare la questione, perché il sistema internazionale è ora messo alla prova. E continuiamo a chiedere ad alta voce: Chi sta commettendo un genocidio?”

Per quanto riguarda la scelta tra resistere o negoziare [con Israele], secondo me, entrambe le scelte sono problematiche finché non hanno il consenso della gente. Pagheremo un prezzo per entrambe le opzioni, ma siamo pronti a farlo. La questione importante è che esiste una causa giusta e noi vogliamo porre fine alloccupazione, ma c’è uno sforzo organizzato per inquadrare ogni nostra azione come immorale.

E’ fiducioso sul fatto che il mondo rispetterà i mandati di arresto?

Continuiamo a credere che il mantenimento della sicurezza internazionale, della stabilità e della pace sia un dovere internazionale. È interessante che un Paese che fornisce copertura per il genocidio, come la Germania, affermi che le decisioni della Corte devono essere rispettate. La mancata attuazione di queste decisioni significherebbe che il mondo ha dimenticato lo Stato di diritto e sta passando alle regole della giungla.

In che modo la richiesta di mandati darresto da parte della CPI potrebbe influenzare il procedimento giudiziario presso la CIG?

Sono due ambiti diversi e ogni tribunale gode di piena indipendenza, senza alcun rapporto ufficiale tra loro. Ma dal momento che la CIG sta discutendo il caso del genocidio, ciò può aiutare il procuratore della CPI nelle accuse contro gli israeliani incriminati. Senza dubbio, il procedimento presso la CIG aiuta a creare lambiente appropriato [per le azioni della CPI]. LCIG ha accettato la richiesta del Sud Africa, il che significa che esiste un fondamento per la richiesta. Spetta alla Corte decidere nel merito, ma da un punto di vista procedurale il procuratore della CPI non avrebbe dovuto aver paura di portare avanti le accuse di genocidio contro i singoli israeliani.

Lei e la sua famiglia avete lasciato Gaza a dicembre e ora vi trovate al Cairo. Come vi sentite in questo momento?

Siamo vivi per caso e ci troviamo ancora in bilico tra la vita e la morte. La cosa più importante per me è essere forte e sostenere mia moglie e i miei figli. Sono al Cairo, ma il mio cuore e la mia mente sono con la mia famiglia, i miei vicini, i miei colleghi e i miei amici a Gaza.

Abbiamo perso le nostre case e le proprietà. Sono stato costretto a lasciare la mia casa nel quartiere di Al-Rimal a Gaza City il 13 ottobre. La mia casa e il mio ufficio sono stati gravemente danneggiati e lintero edificio di mio figlio è stato distrutto, colpito da un missile. Siamo stati sfollati a Rafah per alcuni mesi, a differenza di molti altri che sono stati uccisi quando le loro case sono state prese di mira, e abbiamo lasciato Gaza il 3 dicembre.

Ciò che abbiamo vissuto a Gaza è stato incredibile. Non dimenticherò mai la paura della cintura di fuoco dei bombardamenti. Immagini il rumore degli spari di un fucile automatico; ora immagini la stessa cosa dagli aeroplani. Con lanci a intervalli regolari, di pochi secondi tra loro, in una zona residenziale piena di bambini e donne. Lo stato di terrore è indescrivibile. Ho perso molti familiari e amici. Cerco di non ascoltare le notizie, perché le notizie ti portano sempre i nomi delle persone che sono state uccise.

Tornerà a Gaza?

Sì, naturalmente. Quando la guerra finirà voglio tornare indietro e contribuire alla ricostruzione di Gaza. Non c’è dignità se non nella propria patria. Voglio tornare indietro, ma la mia famiglia potrebbe non tornare perché non ci sono case, ospedali, scuole o università.

Capisco chi afferma di non poter tornare, perché tutte le cose necessarie alla vita sono state completamente distrutte. Capisco i giovani che sono riusciti ad andare via e non vogliono tornare. Ma tornerò per ricostruire Gaza per le giovani generazioni, per i miei figli e nipoti.

Ghousoon Bisharat è la redattrice capo della rivista +972.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Guerra a Gaza: secondo un’esperta dell’ONU ci sono“fondati motivi” per ritenere che Israele abbia commesso un genocidio

Redazione MEE

26 marzo 2024 – Middle East Eye

Francesca Albanese, relatrice speciale dell’ONU, ha chiesto un embargo sulle armi a Israele

Lunedì Francesca Albanese, l’esperta di diritti umani delle Nazioni Unite, ha presentato al Consiglio di sicurezza dell’ONU [ in realtà al Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU a Ginevra. ndt] un rapporto in cui sostiene che nella sua guerra contro Gaza Israele ha commesso diversi atti di genocidio e che dovrebbe essere sottoposto a un embargo sulle armi.

Albanese, relatrice speciale dell’ONU sui diritti umani nei territori palestinesi, nel suo rapporto ritiene che vi siano “fondati motivi” per stabilire che Israele ha violato tre dei cinque punti elencati nella Convenzione dell’ONU sul genocidio.

Queste violazioni sono: luccisione di palestinesi, il causare loro gravi danni fisici o mentali, e linfliggere deliberatamente condizioni di vita tali da provocare, in tutto o in parte, la distruzione fisica della popolazione, azioni approvate da dichiarazioni di intenti genocidi da parte di funzionari militari e governativi.

La schiacciante natura e portata dellassalto israeliano a Gaza e le condizioni di vita devastanti inflitte rivelano lintento di distruggere fisicamente i palestinesi come popolo, afferma il rapporto.

Inoltre il rapporto accusa Israele di tentare di legittimare le sue azioni genocide etichettando i palestinesi come terroristi”, trasformando così tutto e tutti in un bersaglio o in un danno collaterale, quindi uccidibile o distruttibile”.

“È ovvio che in questo modo a Gaza nessun palestinese è al sicuro”, afferma.

Il rapporto aggiunge che lattuale guerra a Gaza non è iniziata il 7 ottobre ma che si tratta dellultima fase di un lungo processo di cancellazione coloniale da parte dei coloni, che costituisce una Nakba continua”, o catastrofe, riferendosi alla pulizia etnica della Palestina da parte delle milizie sioniste per far posto alla creazione di Israele nel 1948.

Inadempienza

Albanese esorta gli Stati membri a imporre un embargo sulle armi a Israele “poiché è chiaro che non ha rispettato le misure vincolanti imposte dalla Corte Internazionale di Giustizia (CIG)”, riferendosi alle misure provvisorie emesse dalla Corte a gennaio, dopo che il Sud Africa aveva portato Israele davanti al tribunale dellAja con laccusa di genocidio contro i palestinesi.

La Corte ha ordinato a Israele, in attesa di una sua sentenza, di adottare, misure atte a prevenire azioni che rientrino nell’articolo II della Convenzione sul genocidio.

Il rapporto chiede inoltre unindagine approfondita, indipendente e trasparentesu tutte le violazioni del diritto internazionale e un piano per porre fine allo status quo illegale e insostenibile che costituisce la causa principale dellultima escalation”.

Albanese ha aggiunto che lUnrwa, lagenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, dovrebbe essere adeguatamente finanziata per affrontare la galoppante crisi umanitaria a Gaza. L’agenzia ha affermato di essere al “vicina al collasso” in seguito alla sospensione dei finanziamenti dopo che Israele ha affermato che 12 dei suoi dipendenti sarebbero coinvolti negli attacchi guidati da Hamas il 7 ottobre.

Israele ha imposto un divieto di visto ad Albanese dopo la sua affermazione su X che gli attacchi guidati da Hamas al sud di Israele sono stati una “risposta all’aggressione di Israele”.

La missione diplomatica israeliana a Ginevra ha respinto il rapporto, condannando le “accuse oltraggiose” di Albanese come “semplice continuazione di una campagna che cerca di minare la stessa istituzione dello Stato ebraico”.

La guerra di Israele è contro Hamas, non contro i civili palestinesi, ha affermato la missione in una nota.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele deve porre fine all’occupazione della Palestina per smettere di alimentare l’apartheid e le violazioni sistematiche dei diritti umani

18 febbraio 2024 – Amnesty International

In occasione dell’inizio delle udienze pubbliche presso la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) per l’esame delle conseguenze sul piano legale delloccupazione prolungata da parte di Israele Amnesty International ha dichiarato che Israele deve porre fine alla brutale occupazione di Gaza e della Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, iniziata nel 1967.

Le udienze pubbliche sono in programma all’Aia dal 19 al 26 febbraio in seguito alla risoluzione con cui nel dicembre 2022 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha richiesto un parere consultivo alla CGI sulla legalità delle politiche e delle prassi di Israele nei Territori Palestinesi Occupati (TPO) e sulle conseguenze per gli altri Stati e per l’ONU della condotta di Israele. Parteciperanno ai lavori più di 50 Stati, l’Unione Africana, la Lega Araba e l’Organizzazione per la Cooperazione Islamica.

Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International, ha affermato: Loccupazione israeliana della Palestina è la più lunga e una delle più letali occupazioni militari al mondo, caratterizzata da decenni di diffuse e sistematiche violazioni dei diritti umani contro i palestinesi. Loccupazione militare ha anche consentito e rafforzato il sistema israeliano di apartheid imposto a tutti i palestinesi e nel corso degli anni si è trasformata in unoccupazione perpetua in flagrante violazione del diritto internazionale”.

Lattuale conflitto che infuria nella Striscia di Gaza occupata, dove la CIG ha stabilito che esiste un rischio reale e imminente di genocidio, ha messo in luce le conseguenze catastrofiche del permettere che i crimini internazionali di Israele nei territori occupati continuino impunemente per così tanto tempo.” – continua Callamard –Il mondo deve riconoscere che porre fine alloccupazione illegale di Israele è un prerequisito per fermare le ricorrenti violazioni dei diritti umani in Israele e nei TPO”.

Occupazione ‘perpetua’

Secondo il diritto internazionale umanitario loccupazione di un territorio durante un conflitto è intesa come temporanea. La potenza occupante è tenuta ad amministrare il territorio nell’interesse della popolazione sotto occupazione e a preservare quanto più possibile la situazione che esisteva all’inizio dell’occupazione, anche rispettando le leggi esistenti e astenendosi dall’introdurre cambiamenti demografici e dall’alterare l’integrità territoriale.

Loccupazione israeliana non è stata in grado di allinearsi con questi principi fondamentali del diritto umanitario internazionale. La durata delloccupazione israeliana – più di mezzo secolo – insieme allannessione ufficiale autoritaria e illegale di Gerusalemme Est occupata e allannessione di fatto di ampie aree della Cisgiordania attraverso la confisca delle terre e lespansione delle colonie, forniscono una chiara prova che lintenzione di Israele è rendere loccupazione permanente e a beneficio della potenza occupante e dei suoi cittadini.

La Striscia di Gaza è rimasta occupata anche dopo il ritiro delle forze israeliane e lallontanamento dei coloni nel 2005, poiché Israele ha mantenuto il dominio effettivo sul territorio e sulla sua popolazione, anche attraverso il controllo dei suoi confini, delle acque territoriali, dello spazio aereo e dell’anagrafe. Per 16 anni loccupazione è stata vissuta a Gaza attraverso il blocco illegale da parte di Israele che ha gravemente limitato la circolazione di persone e merci e ha devastato leconomia della Striscia, e dopo ripetuti episodi di ostilità che hanno ucciso e ferito migliaia di civili e distrutto gran parte delle infrastrutture e abitazioni di Gaza.

Tutti gli Stati devono rivedere le loro relazioni con Israele per garantire che non stiano contribuendo a sostenere loccupazione o il sistema di apartheid”, afferma Callamard. Mentre i ministri degli Esteri europei si riuniscono oggi a Bruxelles la necessità di lanciare un appello chiaro e unito per la fine delloccupazione israeliana non è mai stata così urgente”.

La vita sotto l’occupazione

I palestinesi che vivono sotto loccupazione israeliana sono soggetti a una miriade di violazioni dei diritti umani, mantenute da un regime istituzionalizzato di dominazione e oppressione sistematiche. Le leggi discriminatorie e repressive, ufficialmente adottate come parte delloccupazione ma di fatto al servizio degli obiettivi del sistema israeliano di apartheid israeliano, hanno frammentato e segregato i palestinesi nei territori occupati, sfruttando illegalmente le loro risorse, limitando arbitrariamente i loro diritti e le loro libertà e controllando quasi ogni aspetto della loro vita.

Anche prima delle ultime ostilità i palestinesi di Gaza sono stati sottoposti a numerose offensive militari israeliane – almeno sei tra il 2008 e il 2023 – oltre a un persistente blocco terrestre, aereo e marittimo che ha contribuito a mantenere un controllo effettivo e loccupazione di Gaza da parte di Israele. Durante quelle offensive, Amnesty International ha documentato una schema ricorrente di attacchi illegali, che costituiscono crimini di guerra e persino crimini contro lumanità, mentre il perdurare del blocco costituisce una punizione collettiva, anchessa un crimine di guerra.

In Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est occupata, i palestinesi affrontano regolarmente un uso eccessivo della forza, uccisioni illegali, arresti arbitrari, detenzione amministrativa, sfollamenti forzati, demolizioni di case, confisca di terre e risorse naturali e negazione dei diritti e delle libertà fondamentali. Il sistema di chiusura a più livelli di Israele, rafforzato da una sorveglianza di massa, barriere fisiche e restrizioni giuridiche, tra cui muri e recinzioni illegali, centinaia di checkpoint e posti di blocco e un regime arbitrario, ha limitato la libertà di movimento dei palestinesi e perpetuato la loro privazione dei diritti civili.

Tra gli esempi più emblematici del totale disprezzo di Israele per il diritto internazionale si evidenzia la creazione e lincessante diffusione di colonie israeliane in tutti i TPO e lannessione illegale di Gerusalemme Est occupata subito dopo la guerra del 1967, sancita costituzionalmente nel 1980. Attualmente in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est occupata, ci sono almeno 300 insediamenti e avamposti coloniali israeliani illegali con una popolazione di oltre 700.000 coloni.

Per 56 anni i palestinesi nei TPO hanno vissuto intrappolati e oppressi sotto la brutale occupazione israeliana, soggetti a una discriminazione sistematica. Ogni aspetto della loro vita quotidiana è sconvolto e controllato dalle autorità israeliane, che pongono restrizioni ai loro diritti di spostarsi, guadagnarsi da vivere, perseguire aspirazioni educative e professionali e godere di una qualità di vita dignitosa, oltre a privarli dellaccesso alla loro terra e alle loro risorse naturali”, afferma Agnès Callamard.

Inoltre Israele ha continuato le sue feroci politiche di furto di terre espandendo incessantemente le colonie illegali in violazione del diritto internazionale con conseguenze devastanti per i diritti umani e la sicurezza dei palestinesi. Da decenni i violenti coloni israeliani attaccano i palestinesi nella pressoché totale impunità.

Un sistema di controllo draconiano

Il draconiano sistema di controllo di Israele sui TPO comprende una vasta rete di posti di blocco militari, muri e recinzioni, basi e pattuglie militari, nonché una serie di imposizioni militari repressive.

Il controllo da parte di Israele dei confini dei TPO, dei registri anagrafici, della fornitura di acqua, elettricità, servizi di telecomunicazione, dell’assistenza umanitaria e allo sviluppo, e l’imposizione della sua valuta hanno avuto effetti devastanti sullo sviluppo economico e sociale del popolo palestinese nei TPO.

Questo controllo ha raggiunto livelli di crudeltà senza precedenti nella Striscia di Gaza, dove Israele mantiene da 16 anni un blocco illegale ulteriormente rafforzato dal 9 ottobre 2023. Il blocco, insieme alle ricorrenti operazioni militari israeliane, hanno gettato la Striscia di Gaza in una delle più gravi crisi umanitarie e dei diritti umani dei tempi moderni.

In quanto potenza occupante Israele ha lobbligo di garantire la protezione e il benessere di tutti coloro che risiedono nel territorio che controlla. Invece, ha perpetrato impunemente gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani. Israele menziona come motivo delle sue politiche crudeli la necessità di mantenere la sicurezza. Ma la sicurezza non può mai giustificare lapartheid, le annessioni e gli insediamenti coloniali illegali, o i crimini di guerra contro la popolazione protetta. Lunico modo per garantire la sicurezza a israeliani e palestinesi è sostenere i diritti umani per tutti”, afferma Callamard.

Porre fine alloccupazione significherebbe ripristinare i diritti dei palestinesi revocando il brutale blocco su Gaza, smantellando le colonie israeliane in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, e annullando la loro annessione illegale. Permetterebbe ai palestinesi di muoversi liberamente nelle aree in cui vivono e consentirebbe il ricongiungimento alle famiglie separate da condizioni diverse di riconoscimento giuridico – come la residenza a Gerusalemme e in Cisgiordania o nella Striscia di Gaza. Allevierebbe le sofferenze di massa e porrebbe fine alle violazioni su vasta scala dei diritti umani.

Contribuirebbe inoltre ad affrontare una delle cause profonde della violenza e dei crimini di guerra ricorrenti contro gli israeliani, contribuendo così a migliorare la tutela dei diritti umani e a garantire giustizia e riparazione per le vittime di tutte le parti.

Antefatti

Il 30 dicembre 2022 lAssemblea Generale dell’ONU ha adottato la risoluzione A/RES/77/247, con la quale ha richiesto alla Corte Internazionale di Giustizia un parere consultivo su questioni chiave riguardanti: le conseguenze legali derivanti dalla occupazione prolungata e dalla colonizzazione e annessione del territorio palestinese occupato dal 1967; la modalità in cui le politiche e le pratiche di Israele influenzano lo status giuridico delloccupazione; l’entità delle conseguenze legali scaturite da questo status per tutti gli Stati e per lONU.

Si prevede che la Corte emetta il suo parere consultivo entro la fine dell’anno.

Per sessantanni Amnesty International ha documentato come le forze israeliane abbiano commesso impunemente gravi violazioni dei diritti umani negli OPT. Nel 2022, lorganizzazione ha pubblicato il rapporto sullapartheid israeliano contro i palestinesi: “Un sistema crudele di dominazione e di crimini contro lumanità”. Questo rapporto evidenzia il ruolo radicato che lesercito israeliano e la sua occupazione hanno avuto nel perpetuare il sistema di apartheid. Molti dei risultati e delle raccomandazioni del rapporto sottolineano lurgente necessità di porre fine alloccupazione israeliana per rimuovere le circostanze che consentono i crimini contro lumanità e di guerra.

Contatta:  media@aiusa.org

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Se l’esercito israeliano invade Rafah, cosa ne sarà dei più di 1,5 milioni di palestinesi che vi si sono rifugiati?

Amira Haas

10 febbraio 2024 – Haaretz

Un’invasione israeliana di Rafah porterà a un esodo di massa di circa un milione di palestinesi in preda al panico. L’IDF pianifica di conciliarlo con l’ordinanza della CIG secondo cui Israele deve prendere ogni misura per evitare atti di genocidio.

Dato che Yahya Sinwar, i suoi stretti collaboratori e i miliziani di Hamas non sono mai stati trovati, prima a Gaza City e poi neppure a Khan Younis, l’esercito israeliano sta prendendo in considerazione di estendere la sua campagna di terra nella città meridionale di Rafah a Gaza. L’esercito sta facendo questo perché ritiene che Sinwar e i suoi aiutanti si nascondano nei tunnel sotto questa zona del sud della Striscia di Gaza, presumibilmente insieme agli ostaggi israeliani che sono ancora in vita. La stragrande maggioranza degli abitanti della Striscia di Gaza, 1,4 milioni di persone, è concentrata a Rafah. Decine di migliaia stanno ancora fuggendo nella cittadina da Khan Younis, dove i combattimenti continuano. Il pensiero che Israele invaderà Rafah e che vi avranno luogo combattimenti in mezzo ai civili terrorizza gli abitanti della città e le persone che vi si trovano come sfollati interni. Il terrore che provano è acuito dalla conclusione che nessuno possa impedire a Israele di mettere in atto le sue intenzioni, neppure la sentenza della CIG che ordina a Israele di prendere ogni misura per evitare azioni di genocidio. I corrispondenti militari israeliani riportano e ipotizzano che l’esercito intenda ordinare agli abitanti di Rafah di spostarsi in una zona sicura. Da quando la guerra è iniziata l’esercito ha sventolato questo ordine di evacuazione come una prova che sta agendo per prevenire danni a “civili non coinvolti”. Tuttavia questa zona sicura, che è stata ed è ancora bombardata da Israele, si sta progressivamente stringendo. In realtà l’unica zona sicura che rimane e che ora l’IDF [l’esercito israeliano, ndt.] sta indicando alla massa di persone a Rafah è Al-Mawasi, un’area costiera del sud di Gaza di circa 16 km2. Non è ancora chiaro con quali formulazioni a parole l’IDF e i suoi esperti giuridici intendano conciliare il fatto di ammassare così tanti civili con le indicazioni impartite dalla CIG. “La zona umanitaria indicata dall’esercito è più o meno delle dimensioni dell’aeroporto internazionale Ben-Gurion (circa 16,3 km2),” hanno concluso i giornalisti di Haaretz Yarden Michaeli e Avi Scharf nel loro articolo all’inizio di questa settimana. Il reportage, intitolato “I gazawi scappano dalle loro case. Non hanno nessun posto a cui tornare,” ha svelato le estese distruzioni nella Striscia di Gaza riprese da immagini satellitari. Il paragone con l’aeroporto internazionale Ben-Gurion ci spinge a ipotizzare una densità al di là dell’immaginabile, ma i commentatori della televisione israeliana non vanno molto più in là dell’approfondita opinione secondo cui l’invasione di terra a Rafah in effetti “non sarà poi così semplice”. Anche se difficile, dobbiamo immaginare ciò che attende i palestinesi a Rafah se il piano dell’esercito verrà messo in pratica. Lo dobbiamo fare non tanto per considerazioni di carattere umanitario o morale, che dopo il 7 ottobre non sono così importanti per la maggioranza dell’opinione pubblica ebrea israeliana, ma a causa delle complicazioni di carattere militare, umanitario e, alla fine, giuridico e politico che sicuramente sono prevedibili se continuiamo su quella strada.

La compressione

Anche se “solo” circa un milione di palestinesi scapperanno per la terza o quarta volta ad Al-Mawasi, un’area che è già piena di gazawi sfollati, la densità sarà all’incirca di 62.500 persone per km2”. Ciò avverrà in una zona aperta senza grandi edifici per ospitare gli sfollati, dove non ci sono acqua corrente, privacy, mezzi di sostentamento, ospedali o ambulatori medici, pannelli solari né la possibilità di caricare i telefonini e tutto il resto, mentre le organizzazioni umanitarie dovranno attraversare o passare nei pressi delle zone di combattimento per distribuire quel poco di cibo che entra nella Striscia di Gaza. Pare che l’unica condizione in cui questa ristretta area potrebbe accogliere tutti quanti sarebbe se stessero in piedi o in ginocchio. Forse sarà necessario formare commissioni speciali che stabiliranno accordi per dormire a turno: qualche migliaio si sdraierà mentre gli altri continueranno a stare svegli in piedi. Sopra il ronzio dei droni e sotto i pianti dei bambini nati durante la guerra e le cui madri non avranno latte o non ne avranno abbastanza, questa sarà la snervante colonna sonora.dell’IDF e le battaglie a Gaza City e Khan Younis, è chiaro che l’operazione di terra a Rafah, se effettivamente ci sarà, durerà molte settimane. Israele crede che la CIG considererà la compressione di centinaia di migliaia o un milione di palestinesi in un piccolo fazzoletto di terra come una “misura” adeguata per evitare un genocidio?

La marcia per fuggire

Prima della guerra nel distretto di Rafah vivevano circa 270.000 palestinesi. Il milione e mezzo che attualmente vi si trova patisce fame e malnutrizione, sete, freddo, malattie ed epidemie, pidocchi nei capelli ed eruzioni cutanee; soffrono di esaurimento fisico e mentale e mancanza cronica di sonno.Si ammassano in scuole, ospedali e moschee, in quartieri di tende che sono spuntati dentro e attorno a Rafah, in alloggi che ospitano decine di famiglie di sfollati. Decine di migliaia di loro sono feriti, alcuni con arti amputati per gli attacchi dell’esercito o le operazioni chirurgiche che ne sono conseguite. Hanno tutti parenti o amici, bambini, neonati e genitori anziani, che sono stati uccisi negli ultimi 4 mesi.

Una delle tante tende di fortuna eretta a Rafah nel sud della Striscia. Foto: Ibraheem Abu Mustafa / Reuters

Le case della maggior parte di loro sono state distrutte o gravemente danneggiate. Tutto ciò che possedevano è andato perso. Il loro denaro è stato speso a causa del prezzo esorbitante del cibo. Molti sono sfuggiti alla morte solo per caso e hanno assistito a scene spaventose di cadaveri. Non hanno ancora pianto i morti perché il trauma continua. Insieme alle dimostrazioni di appoggio e solidarietà ci sono state anche discussioni e scontri. Alcuni hanno perso la memoria e la salute mentale per tutto quello che hanno subito. Come è stato fatto in altre zone della Striscia, per mantenere l’effetto sorpresa, l’IDF diffonderà un avvertimento circa due ore prima di un’invasione di terra a Rafah. Quel giorno ciò lascerà un lasso di tempo di qualche ora per evacuare la città. Immaginate questa carovana di sfollati e il panico di massa delle persone che scappano verso Al-Mawasi a ovest. Pensate agli anziani, ai malati, ai disabili e ai feriti che saranno “fortunati” ad essere trasportati su carri trainati da asini o da carretti improvvisati e in macchine che viaggiano con olio da cucina. Tutti gli altri, malati o sani, dovranno andarsene a piedi. Probabilmente dovranno lasciarsi dietro il poco che sono riusciti a raccogliere e portare con sé nei precedenti spostamenti, come coperte e teli di plastica come riparo, vestiti pesanti, un po’ di cibo e oggetti indispensabili come piccoli fornelli.

Distruzione a Rafah giovedì 8 febbraio 2024 a Rafah. Foto: Ibraheem Abu Mustafa / Reuters

Questa fuga forzata probabilmente attraverserà le rovine di alcuni edifici bombardati da Israele non molto tempo fa, o i crateri creati sulla strada dagli attacchi. Tutto il convoglio allora si fermerà ancora finché non avrà trovato una deviazione.Alcuni inciamperanno, un carretto rimarrà impantanato. E tutti,affamati e assetati, terrorizzati dall’imminente attacco o dal bombardamento incombente dei carrarmati, continuerà ad andare avanti. Bambini piangeranno e verranno persi. Persone si sentiranno male. Squadre mediche lotteranno per raggiungere chiunque abbia bisogno di cure. Solo 4 km separano Rafah da Al-Mawasi, ma ci vorranno ore per arrivarci. Le persone in marcia verranno tagliate fuori da ogni possibilità di comunicare, anche solo a causa della quantità di gente in marcia e del sovraffollamento. Nella zona dovranno lottare per trovare lo spazio dove sistemare una tenda. Dovranno lottare con chi riesce a stare più vicino possibile a un edificio o a un pozzo per l’acqua. Sveniranno per la sete e la fame. Questa immagine si ripeterà svariate volte nei prossimi giorni: una marcia di palestinesi affamati e terrorizzati inizia a scappare nel panico ogni volta che l’IDF annuncia un’altra zona i cui abitanti dovrebbero evacuare, mentre carrarmati e truppe di fanteria avanzano verso di loro. Il bombardamento e le truppe di terra saranno più vicini agli ospedali che stanno ancora funzionando. Carrarmati li accerchieranno e a tutti i pazienti e al personale medico verrà chiesto di andarsene nell’affollata zona di Al-Mawasi.

L’operazione di terra

È difficile sapere quanti di loro decideranno di non andarsene. Come abbiamo imparato da quello che è successo nei distretti settentrionali di Gaza e di Khan Younis, un numero significativo di abitanti preferisce rimanere in una zona che è destinata a un’operazione di terra. Tra loro ci saranno decine di migliaia di sfollati, gazawi malati e gravemente feriti che sono stati ricoverati negli ospedali, donne incinte e altri che decideranno di rimanere nelle proprie case e in quelle di parenti o nelle scuole trasformate in rifugi. Le poche informazioni che avranno dalle zone di concentrazione di Al-Mawasi saranno sufficienti a scoraggiarli dal raggiungerle. Soldati e comandanti dell’IDF, tuttavia, interpretano l’ordine di evacuazione in modo diverso: chiunque rimanga nella zona destinata all’invasione di terranon è considerato un civile innocente, non è considerato “non coinvolto”. Chiunque rimanga nella propria casa ed esca per prendere l’acqua da una struttura della città che stia ancora funzionando o da un pozzo privato, personale medico chiamato per curare un paziente, una donna incinta che cammina verso un ospedale vicino per partorire, tutti, come abbiamo visto durante la guerra e le scorse campagne militari, sono considerati criminali agli occhi dei soldati. Sparare e ucciderli segue le regole di ingaggio dell’IDF. Secondo l’esercito questi attacchi avvengono rispettando le leggi internazionali perché tali individui sono stati avvertiti che dovevano andarsene. Persino quando i soldati fanno irruzione in case durante i combattimenti i gazawi, per lo più uomini, rischiano la morte colpiti da armi da fuoco. Un soldato che spara a qualcuno perché si sente minacciato o segue gli ordini, non importa. È successo a Gaza City e può avvenire a Rafah. Così come le squadre di soccorso non sono autorizzate o non sono in grado di raggiungere il nord della Striscia di Gaza per distribuire cibo, non potranno distribuirlo nelle zone dei combattimenti a Rafah. Il poco cibo che gli abitanti sono riusciti a conservare gradualmente finirà. Chi rimane nella propria casa sarà obbligato a scegliere il minore tra due mali:o esce e rischia di essere colpito dal fuoco israeliano o muore di fame in casa. La maggior parte già soffre per la grave carenza nutrizionale. In molte famiglie gli adulti rinunciano al cibo in modo che i figli possano essere nutriti. C’è il concreto pericolo che molti muoiano di fame mentre sono a casa propria quando fuori i combattimenti infuriano.

I bombardamenti

Da quando è iniziata la guerra l’esercito ha bombardato edifici residenziali, zone aperte e auto di passaggio in ogni luogo che aveva definito come “sicuro” (ai cui abitanti non era stato chiesto di andarsene). Non importa se gli attacchi hanno preso di mira strutture di Hamas, i miliziani dell’organizzazione o altri membri che sono rimasti con le loro famiglie o che erano usciti dai nascondigli per andarli a trovare, i civili sono quasi sempre uccisi.I bombardamenti non sono ancora neppure finiti a Rafah. Giovedì notte due case sono state bombardate nel quartiere occidentale di Rafah, Tel al-Sultan a Rafah. Secondo fonti palestinesi 14 persone, tra cui 5 minori, sono state uccise.

Una scena di dolore per la morte di un bambino ucciso in un bombardamento a Rafah l’8 febbraio. Foto: Ibraheem Abu Mustafa / Reuters

Le fonti hanno anche affermato che il 7 febbraio una madre e la figlia sono state uccise in un attacco israeliano contro una casa nel nord di Rafah e che il giorno prima un giornalista è stato ucciso insieme a madre e sorella nella parte occidentale di Rafah. Sempre il 6 febbraio, secondo le fonti, sei poliziotti palestinesi sono stati uccisi in un attacco israeliano mentre stavano proteggendo un camion di aiuti nell’est di Rafah.Questi attacchi segnalano che i calcoli sui cosiddetti danni collaterali approvati dagli esperti giuridici dell’IDF e dall’ufficio del procuratore generale sono estremamente permissivi. Il numero di palestinesi non coinvolti che è “permesso” uccidere per colpire un bersaglio dell’esercito è più alto che in qualunque altra guerra. La gente di Rafah teme che l’IDF applicherà questi criteri permissivi anche ad Al-Mawasi e attaccherà anche là se nella zona c’è un obiettivo tra le centinaia di migliaia che vi si rifugeranno. È così che un riparo annunciato come sicuro diventerà una trappola mortale per centinaia di migliaia di persone.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




la giapponese Itochu interrompe i rapporti con la israeliana Elbit Systems a seguito della sentenza della CIG

Redazione CNN Business

6 febbraio 2024 – CNN Business

In seguito alle proteste l’azienda giapponese ha posto termine alla cooperazione con la più grande impresa nel settore della difesa di Israele che rifornisce l’esercito in guerra a Gaza

Una delle più grandi aziende del Giappone, la Itochu, ha deciso di interrompere la sua collaborazione con un’importante impresa del settore della difesa israeliana a causa della perdurante guerra di Israele contro Gaza.

L’unità di aviazione della Itochu Corp interromperà la sua collaborazione strategica con la Elbit Systems israeliana entro la fine del mese, dopo che la Corte Internazionale di Giustizia ha ordinato a Israele di impedire atti di genocidio contro i palestinesi e di fare di più per aiutare i civili.

Itochu Aviation, Elbit Systems e Nippon Aircraft Supply (NAS) nel marzo dello scorso anno avevano firmato un protocollo d’intesa (MOU) di collaborazione strategica.

Tenendo conto dell’ordine della Corte Internazionale di Giustizia del 26 gennaio e del fatto che il governo giapponese sostiene il lavoro della Corte, abbiamo già sospeso le nuove attività collegate al MOU e stiamo pianificando di sospendere il MOU entro la fine di febbraio”, ha dichiarato il responsabile del settore finanziario, Tsuyoshi Hachimura.

Martedì un portavoce della Itochu ha detto alla CNN che l’azienda giapponese aveva chiesto indicazioni al Ministero degli Affari Esteri del Giappone, che aveva detto all’azienda di rispettare le conclusioni della CIG “in buona fede”. 

La CIG ha ordinato a Israele di “prendere tutte le misure” per limitare le morti e le distruzioni provocate da una delle più sanguinose campagne militari di questo secolo, impedire e punire l’incitamento al genocidio proveniente da pubblici funzionari israeliani e garantire l’accesso agli aiuti umanitari.

Hachimura, il responsabile finanziario dell’azienda, ha dato l’annuncio lunedì durante una presentazione degli utili.

La Itochu, che nel 2023 ha conseguito utili per 104 miliardi di dollari, è stata bersaglio di proteste studentesche a Tokyo per il suo accordo di collaborazione con il “mercante di morte” Elbit Systems.

Appelli al boicottaggio di Itochu

A novembre l’amministratore delegato di Elbit Bezhalel Machlis ha detto che l’azienda aveva aumentato la produzione con l’intento di sostenere l’esercito israeliano, che usufruisce “ampiamente” dei suoi servizi.

A gennaio i manifestanti giapponesi si sono radunati di fronte alla sede centrale di Itochu con cartelli che recavano scritto: “Itochu fa soldi uccidendo! Imperdonabile!” e “Itochu è complice del massacro!”.

Il mese scorso i manifestanti hanno consegnato a mano una petizione, firmata da più di 25.000 persone, direttamente a Itochu, chiedendo all’azienda di interrompere la collaborazione con Elbit.

Un manifestante di fronte alla sede centrale dell’azienda giapponese ha detto che Itochu è coinvolta in una collaborazione con “un’impresa che appoggia il sistema razzista e genocida di Israele.”

Interrompere questa collaborazione manderebbe un messaggio dal Giappone a Israele e al mondo che non tollererà soluzioni violente”, ha aggiunto il manifestante.

Anche una delle filiali di Itochu in Malesia, la FamilyMart, è stata costretta a emanare un comunicato secondo cui “non contribuisce, non fa donazioni né affari con Israele” in seguito agli appelli al boicottaggio dell’azienda.

McDonald’s e Starbucks hanno visto i loro profitti subire un duro colpo a causa del conflitto a Gaza, che le aziende imputano al boicottaggio delle loro posizioni considerate filoisraeliane.

Secondo CNBC [rete televisiva finanziaria, ndtr.] le azioni McDonald’s lunedì sono scese di quasi il 4%, in seguito a notizie che una caduta delle vendite in Medio Oriente aveva contribuito alle mancate entrate del quarto trimestre.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




La sentenza della Corte Internazionale di Giustizia sul “plausibile genocidio” a Gaza: una vittoria incompleta

Jeff Halper

29 gennaio 2024 Counterpunch

Qualsiasi valutazione sulla sentenza della Corte Internazionale di Giustizia del 26 gennaio deve iniziare con un applauso per le sue delibere secondo cui (1) le azioni militari di Israele a Gaza rientrano nelle definizioni della Convenzione sul Genocidio; (2) che i palestinesi sono effettivamente un gruppo distinto che si trova a subire il crimine di genocidio e (3) che l’affermazione del Sudafrica sul coinvolgimento israeliano in un “plausibile genocidio” è valida, il che significa che la Corte inizierà a processare Israele per genocidio. Si tratta di un processo che richiederà diversi anni ma è estremamente importante.

Gli stessi atti del processo avranno un effetto immenso su quella che in realtà è la Corte Mondiale, la Corte dell’Opinione Pubblica, fornendo sostegno legale, politico e morale alla lotta per i diritti dei palestinesi e alla fine del genocidio e dell’apartheid israeliani. Potrebbe anche favorire il perseguimento di funzionari e personale militare israeliani per crimini di guerra presso la Corte Penale Internazionale, nonché iniziare a ritenere responsabili i complici dei crimini di Israele.

Se Israele alla fine verrà condannato per genocidio, i Paesi che ne hanno sostenuto le politiche o lo hanno armato potrebbero essere processati per complicità ai sensi della Convenzione sul Genocidio. A livello locale, cause come quella di Defense for Children International-Palestine et al. contro Biden et al. in cui il presidente Biden, il segretario di Stato Blinken e il segretario alla Difesa sono stati citati in giudizio in un tribunale distrettuale della California per “mancata prevenzione e complicità nel genocidio in corso contro Gaza”, potrebbero avere maggiori possibilità di successo.

La giornata di oggi segna una vittoria decisiva per lo stato del diritto internazionale e una pietra miliare significativa nella ricerca di giustizia per il popolo palestinese”, ha affermato il Ministero degli Esteri sudafricano. “Non esiste alcuna base credibile perché Israele continui a sostenere che le sue azioni militari sarebbero nel pieno rispetto del diritto internazionale, inclusa la Convenzione sul Genocidio, vista la sentenza della Corte”.

La CIG dovrebbe essere elogiata anche per le sei misure provvisorie che ha imposto a Israele, vale a dire:

– Adottare tutte le misure per garantire che a Gaza non abbiano luogo atti considerati genocidari ai sensi della Convenzione sul Genocidio

– Garantire che i suoi militari non commettano atti di genocidio

– Prevenire e punire l’incitamento al genocidio

– Consentire e facilitare la fornitura di servizi di base e assistenza umanitaria alla popolazione di Gaza

– Prevenire la distruzione e preservare le prove del genocidio nelle operazioni militari

– Riferire alla Corte sulla sua ottemperanza entro un mese.

Tutte queste misure, oltre alla spiegazione dettagliata della Corte del motivo per cui Israele è di fatto coinvolto in un genocidio “plausibile” e in corso, ci danno tutto il sostegno legale per fare pressione per una fine effettiva del genocidio israeliano, più immediatamente a Gaza ma senza dimenticare il genocidio in corso commesso contro l’intero popolo palestinese sia nella Palestina storica che nel contesto della persistente esistenza di palestinesi rifugiati.

I punti deboli della sentenza

La sentenza della Corte Internazionale di Giustizia è quindi forte e importante nel prosieguo della lotta per i diritti dei palestinesi. Guardando la situazione, tuttavia, dalla prospettiva dell’immediata necessità di proteggere gli abitanti di Gaza dall’effettivo genocidio che stanno vivendo in questo momento – l’ordine urgente di imporre un cessate il fuoco chiesto dai sudafricani – dobbiamo unirci ai palestinesi nel deplorare la decisione della Corte di non aver emanato tale misura provvisoria. Il divieto di ogni atto di genocidio può assicurarsi il rispetto di Israele solo se rafforzato dall’imposizione di un cessate il fuoco. Ordinare semplicemente a Israele “di adottare tutte le misure in suo potere per non violare le disposizioni della Convenzione di Ginevra” e per garantire che le sue forze militari non la violino è, sul campo, poco effettivo e inefficace.

Finché Israele si astiene da atti apertamente genocidari – che ha già commesso e che ora potrebbe moderare – gli ordini possono ben poco per impedire l’effettivo scopo dei crimini di guerra, dei crimini contro l’umanità e, sì, del genocidio, che le operazioni militari in corso perpetuano. B’tselem, la principale organizzazione israeliana per i diritti umani, è d’accordo. “L’unico modo per attuare gli ordini emessi oggi dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia”, si legge in una nota diffusa, “è con un cessate il fuoco immediato. È impossibile proteggere la vita dei civili finché continuano i combattimenti”.

Molti difensori della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia, inclusa l’organizzazione palestinese per i diritti umani Al-Haq, sostengono che l’obbligo per Israele di porre fine o ridurre le sue operazioni militari è contenuto nella sentenza sul genocidio e nell’ordine delle misure provvisorie, dal momento che molte delle disposizioni – porre fine agli atti di genocidio, ad esempio, o consentire gli aiuti umanitari – non può essere realizzato senza un cessate il fuoco de facto.

Scrive l’avvocato per i diritti umani Robert Herbst: “All’interno della decisione sul genocidio e dell’ordine di misure provvisorie c’è, sub silentio, la richiesta che Israele interrompa o riduca le sue operazioni militari. Ciò potrebbe anche non equivalere ad un ‘cessate il fuoco’, ma potrebbe probabilmente realizzare in concreto la fine di tutti gli omicidi e i ferimenti di massa causati dal genocidio e della distruzione delle infrastrutture rimaste, e il massiccio ingresso di assistenza umanitaria che ripristinerebbe in certa misura la vita civile a Gaza”.

Mi permetto di dissentire. Quali azioni violino effettivamente le misure provvisorie è difficile da dire visto che per loro natura sono vaghe e manipolabili. Contro l’accusa che un atto sia genocida, ad esempio, Israele può invocare l’autodifesa. In effetti, è la loro incertezza che ha impedito alla Corte Internazionale di Giustizia di emettere l’ordine di cessate il fuoco. Affinché un “plausibile genocidio” possa essere effettivamente impedito, le sei misure provvisorie che vietano a Israele di continuare le sue azioni genocide devono essere emanate insieme a un cessate il fuoco immediato.

Stabilire che si tratta di genocidio prevede un processo a lungo termine volto a distruggere un popolo, in tutto o in parte (come nel caso del violento sfollamento dei palestinesi dalle loro terre e dalla loro patria da parte di Israele a partire dal 1948, o l’intento apertamente genocida del sionismo di sostituire la popolazione palestinese di Palestina con gli ebrei e trasformare un paese arabo in uno ebraico) o atti grossolanamente palesi di uccisione e distruzione (come Israele ha commesso a Gaza fino ad oggi).

Ma essere avvisato dalla Corte che sta esaminando specifici atti di genocidio consentirà a Israele di ridurre le operazioni militari in modo da astenersi apparentemente dal commettere atti specifici ritenuti genocidari senza, tuttavia, ridurre di fatto la letalità e la distruttività della sua guerra in corso. Così secondo la Corte l’uccisione di (finora) 27.000 palestinesi, la stragrande maggioranza dei quali civili, equivale ad un plausibile genocidio. Ma senza un ordine di cessate il fuoco e riducendo il comportamento genocida ad “atti”, Israele può affermare che ogni omicidio è uno sfortunato “danno collaterale” o un tragico errore.

La foresta del genocidio si perde a favore degli alberi delle azioni individuali. Israele ha già distrutto il 70% di Gaza e provocato lo sfollamento di oltre due milioni dei suoi abitanti. Può permettersi di andare avanti con più “attenzione”, mantenendo le sue operazioni militari al livello di “semplici” crimini di guerra e crimini contro l’umanità, il che significa che senza un cessate il fuoco le sei misure provvisorie non avranno alcun impatto sulle effettive operazioni militari.

Potrei sembrare troppo severo, ma in pratica il sottotesto della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia sembra essere: Ti diamo, Israele, il permesso di continuare la tua campagna militare a Gaza (con le sue conseguenze genocide, anche se non saranno commessi nuovi atti genocidari) purché d’ora in poi vi asteniate da atti che possano essere interpretati come genocidi. È vero, la Corte Internazionale di Giustizia potrebbe rivedere la sua decisione in futuro, ma si può sentire il collettivo sospiro di sollievo di Israele fino all’Aja.

L’esame arriverà tra un altro mese, quando Israele presenterà il suo rapporto alla CIG su come stia rispettando le misure. La Corte potrebbe quindi valutare i suoi sforzi e, se ritenuti significativamente carenti (ciò che a mio avviso avverrà, malgrado tutto), emettere un ordine di cessate il fuoco. Questo resta da vedere. Proprio mentre scrivo, il giorno dopo la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia Israele ha lanciato un grande attacco all’interno di Khan Yunis, circondando migliaia di civili intrappolati all’interno e iniziando la sua avanzata a sud verso Rafah, anche se “con attenzione”. Non vi è alcun indizio che la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia abbia influenzato in qualche modo le operazioni militari. In effetti, le azioni odierne di Israele potrebbero essere viste come una “risposta sionista” alla Corte Internazionale di Giustizia. È proprio la preoccupazione che la sentenza della CIG abbia scarso effetto immediato su ciò che i palestinesi stanno effettivamente vivendo che ha provocato la delusione per il rifiuto della Corte Internazionale di ordinare un cessate il fuoco.

La palla è nel nostro campo

La sentenza della Corte Internazionale di Giustizia evidenzia il difetto fatale del sistema giuridico internazionale: accordi e leggi meravigliose, ponderate e potenti come la Carta delle Nazioni Unite, la Convenzione sul Genocidio e la Quarta Convenzione di Ginevra – ognuna delle quali, se effettivamente applicata, avrebbe causato il crollo dell’occupazione illegale di Israele, protetto il popolo palestinese e fornito gli strumenti per smantellare il regime coloniale israeliano. Invece, abbiamo una struttura legale gravata da un sistema di adempimento estremamente debole che sostanzialmente annulla le leggi stesse.

La CIG ci ha se non altro fornito una forte motivazione legale e morale per portare avanti la nostra campagna contro il genocidio a Gaza. Tuttavia, in termini di protezione effettiva del popolo di Gaza e del ritenere Israele responsabile del suo crimine di genocidio, la CIG ci ha passato la palla. Evidentemente la palla dovrebbe passare nel campo dei nostri governi. Sono loro ad avere la responsabilità di far rispettare il diritto internazionale – una responsabilità che non hanno mai veramente assunto e che violano impunemente.

Sta a noi accettare il giudizio della Corte secondo cui il genocidio è stato plausibilmente condotto davanti ai nostri occhi e fare ciò che la Corte Internazionale di Giustizia avrebbe potuto fare e non ha fatto: costringere i nostri governi a imporre un cessate il fuoco immediato. Dobbiamo essere i cani da guardia che denunciano non solo il crimine di genocidio che è l’assalto di Israele a Gaza, ma tutti i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità che Israele continuerà a commettere e che sono connaturati al processo stesso di una pacificazione militare. Dobbiamo creare pressione pubblica sui nostri governi – in particolare su Stati Uniti e Germania – affinché interrompano i loro massicci trasferimenti di armi e impongano sanzioni economiche a Israele.

E dobbiamo essere consapevoli che il genocidio è in corso. Oltre a chiedere un cessate il fuoco, oltre a chiedere la fine del genocidio israeliano, dobbiamo ritenere Israele responsabile della situazione genocida che sta costruendo, e che continuerà anche dopo la fine delle ostilità.

Fermate subito il genocidio israeliano!

Immediato cessate il fuoco a Gaza!

Liberate tutti gli ostaggi israeliani e i prigionieri politici palestinesi

Jeff Halper è un antropologo israeliano anticoloniale, capo del Comitato Israeliano Contro le Demolizioni di Case (ICAHD) e membro fondatore della campagna One Democratic State. È l’autore di War Against the People: Israel, the Palestinians and Global Pacification (Guerra contro il popolo: Israele, i palestinesi e la pacificazione globale, Londra: Pluto Press 2015). Il suo ultimo libro è Decolonizing Israel, Liberating Palestine: Zionism, Settler Colonialism and the Case for One Democratic State (Decolonizzare Israele, liberare la Palestina: sionismo, colonialismo di insediamento e il progetto di un unico Stato democratico, Londra: Pluto Press 2021). Può essere contattato all’indirizzo jeffhalper@gmail.com.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Il voto per espellere il deputato della Knesset Cassif perché ha appoggiato la richiesta alla Corte Internazionale di Giustizia contro Israele è una persecuzione politica

Editoriale di Haaretz

30 gennaio 2024 – Haaretz

Con la decisione della Commissione parlamentare di espellere il deputato Ofer Cassif ([della lista di sinistra] Hadash-Ta’al) a causa del suo sostegno alla richiesta presentata dal Sudafrica contro Israele presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, la Knesset e lo Stato toccano il fondo in modo inaudito.

In quella denuncia il Sudafrica ha sostenuto che Israele è colpevole di genocidio nella Striscia di Gaza. La legge fondamentale della Knesset le consente di espellere un parlamentare sia per razzismo che per il sostegno alla lotta armata contro Israele. Ma niente di quello che Cassif ha affermato rientra in questa definizione.

La decisione della commissione di cacciare Cassif emana un puzzo di persecuzione politica. Se la Knesset fosse davvero decisa a espellere i razzisti al suo interno non ci sarebbero stati abbastanza parlamentari per formare l’attuale governo di Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich.

Il parlamentare Oded Forer ([del partito di estrema destra laica, ndt.] Yisrael Beiteinu), che ha guidato la corsa per espellere Cassif, ha messo in luce la logica contorta che lo ha spinto: “Si può considerare la denuncia all’Aia come se fosse stata presentata dallo stesso Cassif,” ha affermato. “E se ciò fosse stato ottenuto avrebbe minacciato la sicurezza di Israele.” Perché? Perché l’obiettivo di Cassif è stato “fermare i combattimenti,” ha continuato Forer, e poi “Hamas si sarebbe ripreso,” il che avrebbe dato come risultato “un danno per i nostri soldati.”

Dei 120 membri della Knesset 85 hanno firmato la richiesta di espellere Cassif, tutti meno i deputati del partito Laburista e dei partiti arabi. E martedì hanno votato per cacciarlo 14 dei 16 membri della commissione del parlamento.

Le anime illuminate che vogliono liberarsi di Cassif includono Moshe Saada (del Likud), che non molto tempo fa ha affermato: “E’ chiaro a chiunque che dobbiamo distruggere Gaza,” e Tzvika Foghel ([del partito di estrema destra religiosa] Otzma Yehudit), che un mese fa ha affermato che “prima sconfiggeremo Hamas ed Hezbollah, e per completare il tutto metteremo a posto la Corte Suprema.” Ma persino Matan Kahana e Zeev Elkin del centrista Partito dell’Unità Nazionale e Naor Shiri del partito di opposizione Yesh Atid hanno appoggiato l’espulsione.

Cassif ha tutto il diritto di pensare che Israele stia commettendo crimini di guerra. In effetti all’Aia i giudici più importanti del mondo hanno accettato di discutere di questa stessa questione. Ma la legge che consente l’estromissione [dei parlamentari, ndt.] è stata fin dall’inizio promulgata per liberarsi dei rappresentanti arabi alla Knesset, che intendono fare di Israele una vera democrazia e si identificano con la lotta dei palestinesi per liberarsi dall’occupazione. Questi deputati non appoggiano il terrorismo e sicuramente non l’attacco di Hamas del 7 ottobre, come ha ripetuto ancora una volta Cassif.

È piuttosto paradossale che la Knesset trovi qualcuno che a suo parere merita di essere cacciato solo qualche giorno dopo che a Israele è stato consegnato un ordine internazionale perché punisca gli istigatori e i razzisti che lo hanno portato davanti all’Aia e due giorni dopo una conferenza al Centro Congressi Internazionali di Gerusalemme in cui ministri e parlamentari hanno invocato il trasferimento di 2,3 milioni di gazawi.

L’approvazione dell’espulsione da parte della commissione non è la fine del percorso. Ci sono altre due fermate lungo il cammino: primo, l’approvazione da parte di tutta la Knesset, in cui 90 dei 120 deputati dovrebbero appoggiarla, e poi la Corte Suprema, se Cassif decidesse di presentare ricorso contro la pronuncia. Là presumibilmente i giudici rimedieranno al disastro della Knesset, come in genere fanno, e ribalteranno la decisione. Ma la macchia sulla democrazia israeliana non sarà cancellata facilmente.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)