Saranno la legge o le considerazioni politiche a influenzare i giudici della Corte Internazionale di Giustizia?

Muhammad Jamil

16 gennaio 2024, Middle East Monitor

Nessuna sentenza però, per quanto giusta, potrà mai ripristinare lo status quo precedente al 1948.

Nessuna causa legale potrà mai abbracciare tutti i dettagli del genocidio al quale il popolo palestinese è sottoposto da più di cento anni. Tutto ebbe inizio con la famigerata Dichiarazione Balfour del 1917, seguita dalla tristemente nota era del mandato britannico, fino alla Nakba del 1948 e alla Naksa del 1967 [letteralmente “la ricaduta”, la seconda diaspora palestinese successiva alla guerra del 1967, ndt.]. Continua ancora oggi con gli eventi nella Striscia di Gaza assediata e bombardata, nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme. Tuttavia, la comparizione di Israele, figlio coloniale e viziato dell’Occidente, per la prima volta davanti al più alto organo giudiziario internazionale come responsabile di almeno alcuni dei suoi crimini, è una vittoria contro l’impunità con cui gli è permesso di agire.

Le migliaia di palestinesi uccisi da Israele nel corso di molti decenni non torneranno mai più in vita; chi è stato reso disabile dovrà conviverci per il resto dei suoi giorni e la Striscia di Gaza avrà bisogno di molti anni, e di miliardi di dollari, per essere di nuovo abitabile.

La causa intentata dal Sudafrica il 29 dicembre presso la Corte Internazionale di Giustizia (CIG), pur rappresentando un’anteprima storica, si è concentrata su quello che viene descritto da molti come il genocidio commesso da Israele contro il popolo palestinese nella Striscia di Gaza a partire dal 7 ottobre. Il team legale sudafricano ha fornito una sintesi degli atti criminali di Israele punibili ai sensi della Convenzione sul Genocidio del 1948.

La CIG ha aperto il dibattito l’11 gennaio per decidere se imporre o meno le misure provvisorie richieste dal Sudafrica prima di decidere sul genocidio vero e proprio. Il Sudafrica ha chiesto nove misure provvisorie, sostanzialmente la sospensione delle operazioni militari e la protezione dei civili dalle continue uccisioni, dagli abusi fisici e psicologici e dalle torture e il rifornimento di forniture mediche, cibo e carburante. Le questioni urgenti non possono essere rinviate fino a quando il caso non sarà concluso poiché potrebbero volerci anni, durante i quali Israele avrà completato la sua missione di espellere ogni palestinese dalla Striscia di Gaza.

L’approccio della CIG non richiede una decisione sulla giurisdizione della Corte in merito al contenuto della richiesta. È sufficiente che il Tribunale si assicuri di avere una giurisdizione apparentemente ragionevole, che i requisiti dell’articolo 9 della Convenzione sul Genocidio [che prevede che le controversie siano sottoposte alla Corte su richiesta di una delle parti, ndt.] siano applicati ad entrambe le parti in causa, e che esista una relazione tra le misure provvisorie e il diritto ad essere protetti.

Il primo requisito è soddisfatto poiché il Sud Africa e Israele hanno sottoscritto la Convenzione sul Genocidio e nessuno dei due ha una riserva valida sull’articolo 9, il quale prevede che la Corte Internazionale di Giustizia sia l’autorità che dirime qualsiasi controversia derivante dall’interpretazione, applicazione, o attuazione delle sue disposizioni.

Quanto al secondo requisito, l’articolo 9 prevede che affinché possa essere stabilita la giurisdizione deve esserci una chiara controversia tra le due parti in causa riguardo all’interpretazione, applicazione o attuazione dell’accordo. La controversia deve essere risolta entro la data di registrazione della causa presso la cancelleria del tribunale.

Malcolm Shaw, membro della difesa israeliana, ha cercato di dimostrare che non esisterebbe una controversia tra lo Stato del Sud Africa e Israele, sostenendo che il Sud Africa non ha avviato una corrispondenza bilaterale con Israele esprimendo le sue preoccupazioni per gli atti commessi da Israele ottemperando così alle disposizioni della Convenzione sul Genocidio.

L’argomentazione di Shaw è debole e priva di fondamento, poiché lo Stato del Sud Africa ha svolto un ruolo pionieristico in testa a tutti i Paesi rivelando il profondo conflitto tra Sud Africa e Israele. Oltre alla corrispondenza bilaterale sugli atti di genocidio, ha rilasciato dichiarazioni in cui denunciava i crimini di Israele e ha ritirato i suoi diplomatici da Tel Aviv, dichiarando che non può essere consentito un genocidio sotto il naso della comunità internazionale.

Inoltre, il Sudafrica, insieme a molti altri paesi, ha deferito i crimini commessi alla Corte Penale Internazionale e si è unito ai molti tentativi del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite per fermare i crimini che Israele sta commettendo. Le risultanti risoluzioni delle Nazioni Unite sono state criticate da Israele che ha sostenuto che sarebbero piene di odio e antisemite.

Dunque la controversia tra le due parti in causa è stata stabilita sulla base del riferimento della Corte Internazionale di Giustizia alla sua decisione sulle misure provvisorie nel caso Ucraina-Russia e nel caso Gambia-Myanmar. La Corte non si è basata solo sulla corrispondenza bilaterale, ma anche su dati giornalistici e sull’azione dello Stato a tutti i livelli, individualmente o con altri paesi, che hanno evidenziato la violazione delle disposizioni della Convenzione sul Genocidio.

Nella causa sul genocidio dei Rohingya, intentata dal Gambia contro il Myanmar, l’attenzione della Corte si è concentrata sul valore morale che ha spinto gli Stati a ratificare la Convenzione sul Genocidio e sull’impegno collettivo degli Stati a prevenire il genocidio. Pertanto, non è necessario che lo Stato che intenta la causa sia direttamente interessato dai presunti atti di genocidio. A questo proposito, la Corte ha affermato che le pertinenti disposizioni della Convenzione sul Genocidio sono definite come obblighi erga omnes, nel senso che qualsiasi Stato sottoscrittore della Convenzione sul genocidio, non solo lo Stato particolarmente colpito, può invocare la responsabilità di un altro Stato sottoscrittore allo scopo di verificare la presunta inadempienza dei suoi obblighi nei confronti di tutti e di porre fine a tale inadempienza.

La Corte ha debitamente concluso che il Gambia aveva prima facie la legittimazione a denunciare il conflitto con il Myanmar sulla base di presunte violazioni degli obblighi previsti dalla Convenzione sul Genocidio.

Per quanto riguarda l’ultimo requisito, cioè il collegamento tra le nove misure provvisorie richieste dal Sudafrica con i diritti da tutelare, la Corte ha potuto riscontrare che la maggior parte di questi diritti, per la loro natura, sono strettamente legati alle misure provvisorie, in particolare la sospensione delle operazioni di combattimento e il contrasto a qualsiasi atto di genocidio. Logicamente ciò significa che per fermare le uccisioni, la distruzione, gli abusi fisici o psicologici dei membri del gruppo e gli sfollamenti, e consentire il flusso di tutti i tipi di aiuti, è necessario fermare l’azione militare.

Per quanto riguarda l’elemento intenzionale che costituisce il reato di genocidio, quando viene commesso uno qualsiasi degli atti criminalizzati dalla Convenzione sul genocidio “deve esserci una provata intenzione da parte degli autori di distruggere fisicamente un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso” in tutto o in parte – clausola nota come “intento speciale” che è solitamente difficile da dimostrare. Nei reati ordinari il pubblico ministero deve scavare nella mente del criminale e nelle circostanze del reato per indagare su di esso e dimostrare l’intento previsto dall’accusa.

Sebbene l’intento non sia un elemento importante da dimostrare in questa fase, il Sudafrica ha presentato decine di dichiarazioni di personale militare, ministri e primo ministro israeliani dimostrando la loro tenacia e determinazione nel commettere il crimine di genocidio, rafforzato dalla massiccia quantità di omicidi e distruzione.

Shaw ha cercato piuttosto banalmente di dare poca importanza a queste affermazioni e ne ha data una diversa interpretazione. Tuttavia le azioni, le parole che le hanno supportate e le loro conseguenze dimostrano l’intenzione di Israele di commettere il genocidio.

In generale, quando la Corte considera i fatti e le prove supportati da schiaccianti statistiche, immagini, video e resoconti internazionali, si sentirà titolata rispetto all’esistenza di una sua giurisdizione di principio che le consenta di imporre misure preventive, e la Corte ne garantirà l’attuazione attraverso le misure che impone. Ciò include l’obbligo per Israele di presentare un rapporto entro una settimana dalla data della sentenza in cui spieghi quali azioni ha intrapreso per attuare quelle misure, e poi di presentare rapporti periodici entro un periodo specificato (ad esempio ogni tre mesi) per tutta la durata dell’udienza della causa originale.

Gli argomenti presentati dalla difesa israeliana ignorano e negano i fatti sul campo. Si è trattato semplicemente di una ripetizione delle falsità che abbiamo sentito durante gli oltre 100 giorni di offensiva militare israeliana contro i palestinesi a Gaza. I civili palestinesi e le infrastrutture civili sarebbero tutti militarizzati, compresi ospedali, luoghi di culto, scuole dell’UNRWA e giornalisti. Questo incolpare le vittime dell’aggressione israeliana sostanzialmente contraddice il fatto che la maggior parte dei palestinesi uccisi e feriti da Israele sono bambini e donne. Anche solo questo suggerisce con forza l’esistenza di un piano di sterminio in cui i civili vengono presi di mira deliberatamente.

Sarebbe sufficiente che i giudici valutassero i fatti a loro presentati e verificassero la presenza dei tre requisiti necessari per respingere le richieste di Israele di cancellare il caso dagli atti pubblici e per sostenere l’imposizione di tutte o della maggior parte delle misure provvisorie. Ciò accadrebbe solo se le misure dell’intesa fossero in teoria implementate e se i giudici agissero in modo indipendente senza alcuna influenza da parte dei rispettivi governi – che nominano i giudici della Corte Internazionale di Giustizia – qualunque sia la loro posizione. In altre parole, saranno la legge o le considerazioni politiche a influenzare i giudici?

Resta anche la questione se Israele attuerà la decisione dei giudici se andasse contro gli interessi percepiti dello Stato sionista. Che Israele sia comparso davanti alla Corte e abbia presentato la sua difesa significa che ha riconosciuto l’autorità della Corte Internazionale di Giustizia ed espresso la propria volontà di attenersi alla sua decisione. Per esperienza, però, sappiamo che Israele è abile nell’eludere e manipolare tali decisioni. Non ha remore a violare il diritto internazionale e a trattarlo con disprezzo.

Sembra che coloro che hanno sostenuto Israele nella sua offensiva genocida continueranno a farlo. Sia gli Stati Uniti che la Gran Bretagna hanno criticato la denuncia del Sudafrica alla Corte Internazionale di Giustizia. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato che nella causa la Germania starà dalla parte di Israele. Non sarebbe sorprendente se gli Stati Uniti e il Regno Unito si unissero alla difesa di Israele. Un simile passo aumenterebbe il numero degli imputati responsabili di aver commesso il genocidio, poiché se il genocidio fosse dimostrato questi paesi sarebbero considerati complici.

Altri paesi potrebbero ora essere spinti ad unirsi al Sudafrica e presentare richieste che obblighino gli alleati di Israele a cessare il loro sostegno al genocidio. La Namibia lo ha già fatto, vittima del primo genocidio del XX secolo commesso dalla Germania nel 1904.

La storia verrebbe riscritta per far luce sull’eredità coloniale degli Stati Uniti e dell’Europa, in cui il genocidio delle popolazioni indigene ha avuto un ruolo di rilievo e le cui prove sono schiaccianti e non possono essere negate.

Vorrei esortare tutti i paesi a capire che hanno il dovere di sostenere la causa del Sudafrica con tutti i mezzi possibili. Gli Stati sottoscrittori della Convenzione sulla Prevenzione del Genocidio che non hanno una riserva sull’articolo 9 devono unirsi alla causa per ampliarne la portata e includere tutti i territori palestinesi occupati, poiché anche i crimini commessi dall’occupazione israeliana in Cisgiordania e Gerusalemme devono essere affrontati in base alla Convenzione sul Genocidio.

La priorità, tuttavia, resta quella di fermare con ogni mezzo la barbara aggressione di Israele. Dopo più di 100 giorni, non è più accettabile che 152 paesi dell’ONU siano incapaci di fare qualcosa per affrontare e fermare Israele e i suoi alleati. I Paesi arabi e islamici possono guidare questi tentativi e esserne referenti per salvare ciò che resta della Striscia di Gaza, ma devono smettere di temerne le conseguenze e abbandonare la propria debolezza. Solo allora ci riusciranno.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Un comitato dell’ONU pubblica un esaustivo studio sulla legalità dell’occupazione di Israele 

Jeff Wright

4 settembre 2023,  Mondoweiss

Lo studio è la più esaustiva e persuasiva analisi del perché l’occupazione di Israele è ora diventata illegale”, afferma l’ex Relatore Speciale dell’ONU Michael Lynk. “Sarà a lungo il punto di riferimento intellettuale e politico sulla Palestina e il diritto internazionale.”

La settimana scorsa il Comitato ONU per l’Esercizio dei Diritti Inalienabili del Popolo Palestinese (CEIRPP) ha pubblicato uno studio durato due anni: ‘La legalità dell’occupazione israeliana dei territori occupati, compresa Gerusalemme est.’

Il Presidente del Comitato ambasciatore Cheikh Niang ha presentato lo studio commissionato dal CEIRPP ed elaborato dal Centro Irlandese per i Diritti Umani dell’Università Nazionale di Irlanda a Galway. Niang ha detto: “L’importanza e l’urgenza di questo studio non possono essere sovrastimate…E’ un obbligo per noi, comunità internazionale, approfondire la nostra comprensione delle questioni giuridiche sollevate da questa prolungata occupazione e dal suo forte impatto sui diritti umani, la pace e la stabilità nella regione.”

Su invito del Comitato ONU l’ex Relatore Speciale per l’ONU sulla Palestina Michael Link ha fatto delle riflessioni sullo studio. Ha evidenziato molte delle sue conclusioni e lo ha descritto come “la più esaustiva, dettagliata, accurata documentazione che affronta le questioni che l’Assemblea Generale dell’ONU ha posto di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia per il suo parere consultivo sulla legalità dell’occupazione della Palestina da parte di Israele, che dura ormai da più di 56 anni.”

Il rapporto di 106 pagine è uno studio esaustivo (ricco di oltre 700 note a margine) che conclude che la condotta di Israele incorre in “due chiari presupposti del diritto internazionale che stabiliscono quando un’occupazione belligerante può essere definita illegale.” (Un’occupazione belligerante, il termine più spesso usato nel diritto internazionale, è chiamata più comunemente occupazione militare ed è definita come il controllo militare da parte di una potenza dominante su un territorio al di fuori del territorio sovrano di tale potenza).

Lo studio conduce il lettore nei meandri del diritto internazionale: le definizioni; i casi in cui un’occupazione permessa ai sensi del diritto internazionale può essere considerata illegale; casi analoghi portati davanti alla Corte Internazionale di Giustizia (ICJ); un’analisi – e confutazione – delle politiche e delle posizioni di Israele relativamente alla sua amministrazione del territorio palestinese; la presentazione della prova che l’occupazione belligerante è diventata illegale; un esame della responsabilità – in base al diritto internazionale – per la comunità internazionale di agire per porre termine all’occupazione.

E lo studio giuridico è accessibile a lettori profani. Coloro che sono ben informati sulla perdurante situazione in Palestina/Israele potranno corroborare le proprie conoscenze attraverso le tante risorse e conclusioni rivelate dallo studio.

Mentre riconosce che “la sede più appropriata per esaminare la legalità dell’occupazione è la Corte Internazionale di Giustizia”, lo studio, come si legge, “fornisce la base concreta per sostenere la conclusione che l’occupazione di Israele è illegale.”

A seguito della rilevazione di illegalità, lo studio conclude che, secondo il diritto internazionale, la conseguenza dovrebbe essere l’immediato, incondizionato e totale ritiro delle forze militari di Israele; l’allontanamento dei coloni; lo smantellamento del regime amministrativo militare, con chiare indicazioni che l’annullamento della violazione di un atto illecito a livello internazionale non è soggetto a negoziato. Dovrebbero essere accordate piene e proporzionate riparazioni a singoli individui, corporazioni ed enti palestinesi coinvolti, per il danno generazionale causato dalle appropriazioni di terra e proprietà da parte di Israele, dalle demolizioni di case, spoliazione di risorse naturali, negazione del ritorno ed altri crimini di guerra contro l’umanità organizzati per gli obbiettivi di colonizzazione e di annessione di un occupante illegale.

Si prevedono discussioni all’Aja la prossima primavera da parte della ICJ sulla legalità dell’occupazione israeliana e sulle conseguenze legali spettanti alla comunità internazionale.

Mondoweiss ha intervistato telefonicamente il professor Lynk, ora in pensione, dopo la riunione del comitato.

Mondoweiss: come è nato lo studio, perché il Centro Irlandese per i Diritti Umani?

Michael Lynk: L’idea dello studio è nata tramite il Comitato ONU sull’Esercizio dei Diritti Inalienabili del Popolo Palestinese e la Divisione per i Diritti dei Palestinesi. Hanno individuato la necessità di uno studio ad ampio raggio, sia per la formazione pubblica che per promuovere i passi diplomatici per l’autodeterminazione palestinese.

Per molte ragioni aveva senso contattare il Centro Irlandese. Anzitutto perché l’Irlanda, tra tutti gli Stati europei, ha assunto una posizione molto buona relativamente alle iniquità collegate all’occupazione. In secondo luogo, il Centro ha formato parecchi studiosi di legge che hanno continuato a scrivere molto sulla Palestina. Molti sono andati a lavorare con organizzazioni in Palestina ed Israele su questioni riguardanti l’occupazione e il diritto internazionale. Perciò il Centro aveva la disponibilità, la conoscenza dell’occupazione e la competenza giuridica per essere in grado di condurre lo studio.

Lasciatemi dire che sono una persona profondamente impegnata ad occuparsi di diritto internazionale e di Palestina. Eppure ho imparato moltissimo dallo studio. Vi sono molte fonti e molte conclusioni e molte, molte argomentazioni che non mi erano consuete. E’ rivoluzionario. Nel prossimo periodo sarà il punto di riferimento intellettuale e politico sulla Palestina e il diritto internazionale.

Quali sono alcune delle caratteristiche importanti dello studio?

Una è la visione in gran parte del nord globale – USA, Canada e molti Paesi europei: “Si, ci possono essere illegalità o atti illegittimi da parte di Israele nella gestione dell’occupazione: le colonie, l’annessione di Gerusalemme est, il muro.” Ma complessivamente questi Paesi hanno sempre ritenuto che l’occupazione fosse legale. Dicono: “Stiamo solo aspettando la giusta…magica salsa diplomatica per mettere insieme le parti a negoziare la fine di questo.”

Lo studio dice che non solo ci sono significative illegalità correlate all’occupazione, ma l’occupazione stessa è oggi illegale…

Tutto quel che dovete fare è ascoltare i commenti dei nuovi leader israeliani per capire che l’occupazione non finirà grazie a Israele. Naftali Bennet, quando era Primo Ministro due anni fa, disse: “Sono contrario ad uno Stato palestinese e sto rendendo impossibile condurre negoziati diplomatici che possano portare ad uno Stato palestinese.” Benjamin Netanyahu ha detto – e sto parafrasando: “Il massimo che possiamo offrire ai palestinesi è un non-Stato. Cioè avranno il potere di raccogliere la loro immondizia, pulire le loro strade e gestire il loro servizio idrico. Per il resto, noi controlliamo il territorio dal Mediterraneo al Giordano.”

Quale spera sarà l’impatto dello studio?

Dovrebbe essere una pietra miliare nel pensiero diplomatico riguardo a come affrontare e come porre fine all’occupazione israeliana, obbiettivo dichiarato da tutti gli Stati del mondo, a parte Israele. Se l’occupazione stessa è illegale, questo alza l’asticella della responsabilità in capo alla comunità internazionale, in particolare il nord globale, di ammettere finalmente che l’occupazione non finirà da sola. Non finirà ripetendo il mantra dei “negoziati per una soluzione a due Stati”, quando non viene fatto niente da parte del nord globale per imporre un costo diplomatico… un costo economico ad Israele che sta facendo il possibile per scrivere il necrologio dell’autodeterminazione palestinese.

Quanto all’udienza che si terrà davanti alla ICJ, quale conclusione pratica, concreta possiamo prevedere?

A dicembre dello scorso anno l’ONU ha adottato una risoluzione che chiedeva alla Corte Internazionale di Giustizia un parere consultivo su una serie di questioni – se la prolungata occupazione è sempre illegale, quali sono le conseguenze giuridiche che emergono dall’adozione da parte di Israele delle relative misure discriminatorie, quali sono le conseguenze giuridiche per la comunità internazionale e per le Nazioni Unite. Ricorderete che l’ICJ è la più alta istanza giuridica nel sistema delle Nazioni Unite. Nel 2004 emise un parere consultivo che stabilì che il muro di separazione israeliano era illegale.

Ora, molti Paesi – in primis del sud globale – hanno inviato dichiarazioni scritte alla ICJ, sostenendo che l’occupazione è divenuta illegale e che deve finire immediatamente. Alcuni hanno argomentato che Israele ha violato le norme fondamentali del diritto internazionale istituendo l’apartheid. Solo un piccolo gruppo di Stati – che comprende gli Stati Uniti, Israele, il Regno Unito e il Canada – ha inviato dichiarazioni in cui si chiede che la ICJ non risponda alla richiesta dell’Assemblea Generale di un parere consultivo, sostenendo che tutto dovrebbe invece essere posto ad un tavolo negoziale.

Il solo modo in cui i palestinesi possono mai sperare di trattare veramente ad un tavolo negoziale è se la comunità internazionale insistesse che qualunque negoziato tra Israele e Palestina sia condotto totalmente in un quadro basato sui diritti, con la richiesta centrale che Israele ponga completamente fine all’occupazione, immediatamente e senza condizioni. E che Israele sia responsabile delle riparazioni verso i palestinesi per ciò che è accaduto negli ultimi decenni.

Qualche riflessione personale sul suo lavoro?

Considero un onore nella mia vita l’aver ricoperto il ruolo di Relatore Speciale dell’ONU per sei anni (2016-2022). Prima della mia nomina avevo svolto una notevole quantità di lavoro su Palestina e Israele, avevo vissuto nei territori occupati e lavorato alle Nazioni Unite, avevo fatto ampie letture sulla Palestina. Ma l’opportunità come Relatore Speciale di parlare a livello internazionale sul peggioramento della situazione dei diritti umani, di incontrare le coraggiosissime organizzazioni palestinesi, israeliane e internazionali per i diritti umani che hanno fatto un enorme lavoro su questa questione, è stata la più significativa esperienza della mia carriera giuridica.

Aggiungerò questo: quei sei anni hanno segnato un importante punto di svolta. All’improvviso potevi iniziare a vedere l’enorme cambiamento di direzione. Nel 2016 era un’eresia pronunciare la parola apartheid. Al momento in cui me ne sono andato nel 2022 il termine apartheid era stato adottato da tutte le importanti organizzazioni per i diritti umani internazionali e regionali per descrivere ciò che avveniva nei territori occupati…oltre a ciò che è accaduto dopo il mio periodo in carica: l’avvento di questo nuovo governo israeliano estremista, l’inasprimento dell’atteggiamento internazionale verso l’occupazione. Penso che l’atteggiamento internazionale stia cambiando, e cambiando rapidamente. Non sarebbe cambiato senza tutte queste organizzazioni per i diritti umani che agiscono sul campo in Palestina ed Israele, che hanno fatto un lavoro così eroico per cambiare il vocabolario, per cambiare la consapevolezza di ciò che sta accadendo.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




“Una svolta”: il Comitato delle Nazioni Unite vota per richiedere il parere della Corte Internazionale di Giustizia sull’occupazione israeliana

 

Redazione di MiddleEastEye

MEE 12 novembre 2022

I palestinesi accolgono con favore il voto come preludio alla “apertura di una nuova era in cui si dichiari Israele responsabile dei suoi crimini di guerra”

Venerdì il comitato per la decolonizzazione delle Nazioni Unite ha adottato una bozza palestinese di risoluzione che richiede il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) sull’occupazione israeliana delle terre palestinesi dal 1967.

La misura è stata accolta con favore dai palestinesi e respinta da Israele.

Il ministro degli Esteri palestinese Riyad al-Maliki ha dichiarato in un comunicato che 98 paesi hanno sostenuto la risoluzione, 52 si sono astenuti e 17 hanno votato contro.

I pareri della Corte Internazionale, che risolve le controversie tra Paesi, non sono vincolanti.

Al-Maliki ha accolto con favore il voto e ha descritto la risoluzione come una “svolta diplomatica e legale” che “aprirebbe una nuova era per dichiarare Israele responsabile dei suoi crimini di guerra”.

La risoluzione passerà ora all’Assemblea Generale di 193 membri per il voto finale prima della fine dell’anno.

La risoluzione, approvata presso la sede delle Nazioni Unite a New York, chiede alla Corte di intervenire “urgentemente” sulla “prolungata occupazione, colonizzazione e annessione del territorio palestinese” da parte di Israele, che viola il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione. La risoluzione si riferisce alle terre palestinesi occupate da Israele dalla guerra del 1967: Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est.

Vi si fa anche riferimento a politiche volte a “alterare la composizione demografica, il carattere e lo status della città santa di Gerusalemme”. La risoluzione chiede alla Corte un parere su come queste politiche e pratiche israeliane “influenzino lo status legale dell’occupazione, e quali siano le conseguenze legali che derivano per tutti gli Stati e per le Nazioni Unite da questa situazione”.

Nel 2004 la Corte aveva ritenuto che il muro costruito da Israele principalmente all’interno della Cisgiordania occupata e di Gerusalemme Est fosse “contrario al diritto internazionale”.

“Questa occupazione dovrà finire”

Dopo il voto l’ambasciatore palestinese alle Nazioni Unite Riyad Mansour ha citato il discorso del presidente palestinese Mahmoud Abbas all’incontro annuale dell’Assemblea Generale di settembre, che ha sollecitato la mobilitazione di “tutte le componenti del nostro ordine internazionale basato sul diritto, compresa la giustizia internazionale”.

Mansour ha ringraziato i Paesi che hanno sostenuto la risoluzione e ha affermato che “nulla giustifica il sostegno all’occupazione e all’annessione israeliane, alla rimozione e l’espropriazione del nostro popolo”.

“Il nostro popolo ha diritto alla libertà”, ha detto. “Questa occupazione dovrà finire”.

“Verrà un giorno, un giorno in cui il nostro popolo porterà la bandiera della Palestina sulle chiese di Gerusalemme e nelle moschee di Gerusalemme e Haram al-Sharif”, ha aggiunto Mansour.

Contemporaneamente l’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite Gilad Erdan si è opposto al voto, affermando che con l’invito a coinvolgere la Corte “i palestinesi stanno distruggendo ogni possibilità di riconciliazione”.

“I palestinesi hanno rifiutato ogni iniziativa di pace, e ora coinvolgono un organismo esterno con la scusa che il conflitto non è stato risolto?” ha detto rivolgendosi al Forum.

Nella riunione del comitato di giovedì, il vice rappresentante degli Stati Uniti, che ha votato contro la risoluzione, ha affermato che un parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia è “controproducente e allontanerà solo le parti dall’obiettivo che tutti condividiamo di un negoziato per una soluzione a due Stati”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)