Come la Corte Suprema di Israele consente la tortura dei prigionieri palestinesi

10 marzo 2023 – Middle East Eye

Mentre gli israeliani protestano contro la guerra alla magistratura da parte di Netanyahu e Ben-Gvir l’Alta Corte di Israele autorizza l’uso della tortura da parte dello Stato contro i prigionieri palestinesi

Prima della guerra dell’attuale governo di estrema destra contro la magistratura circolava una notizia poco diffusa sulla Corte Suprema israeliana.

Il 29 dicembre 2022 l’alta corte ha nuovamente capitolato di fronte alle richieste dello Stato in merito alla questione delle condizioni carcerarie e in particolare delle dimensioni delle celle. Ha accolto la richiesta dello Stato e prorogato, per la terza volta, il termine per l’ampliamento dello spazio abitativo dei detenuti fino al 31 dicembre 2027.

In risposta a una petizione da parte di organizzazioni israeliane per i diritti umani, tra cui l’Associazione per i diritti civili (ACRI), nel giugno 2017 la Corte Suprema ha emesso un’ordinanza per l’estensione dello spazio vitale dei detenuti a 4,5 mq, assegnando inizialmente al Servizio carcerario israeliano un termine esecutivo di nove mesi (HCJ 1892/14 ACRI contro Ministro della Pubblica Sicurezza).

Nella maggior parte dei Paesi occidentali la dimensione standard delle celle varia dai 6 ai 12 mq, mentre in Israele è inferiore a 3 mq.

La sentenza sembrava riconoscere le condizioni di vita crudeli, umilianti e disumane dei prigionieri. Nella dichiarazione di apertura dell’ordinanza il giudice Yitzhak Amit scriveva che “la società viene valutata … attraverso il trattamento dei prigionieri”. Sottolineava che privarli della libertà attraverso la reclusione non significa privarli del diritto alla dignità, che scaturisce dal diritto del detenuto a determinare lo spazio minimo abitativo”.

Tuttavia, nonostante questa dichiarazione, la corte ha approvato il mantenimento di tali condizioni per ulteriori cinque anni che, dopo la sentenza iniziale, sono poi diventati dieci.

“Inadatte agli esseri umani”

Nel 2014, ACRI, Physicians for Human Rights [Medici per i Diritti Umani, ndt.] (PHR-I) e altre organizzazioni hanno presentato una petizione alla Corte Suprema per affrontare il problema del sovraffollamento nelle celle e nei penitenziari israeliani e costringere lo Stato ad ampliare immediatamente la superficie abitabile dei detenuti a un minimo di 4,5 mq come soluzione temporanea fino a quando non venisse ulteriormente estesa come parte di un piano a lungo termine.

La petizione affermava che i detenuti sono costretti a trascorrere ore della loro giornata a letto, senza la possibilità di muoversi o stare in piedi, e coloro che condividono una cella non sono in grado di stare in piedi o camminare allo stesso tempo a causa dello spazio limitato.

Di conseguenza i detenuti sono spesso costretti a svolgere a letto l’intera routine quotidiana, compresa l’alimentazione. Sosteneva inoltre che il sovraffollamento crea nelle celle mancanza d’aria, danneggia la salute dei prigionieri e provoca un aumento dei conflitti reciproci.

Si è ben lontani dalle dimensioni accettabili in Paesi considerati democratici (8,8 mq) e dal minimo adottato dalle istituzioni internazionali per garantire quelle condizioni di vita ragionevolmente adeguate menzionate in un rapporto del 2012 pubblicato dal Comitato internazionale della Croce Rossa.

Sfortunatamente la situazione nelle carceri israeliane è la stessa da decenni, ma lo Stato non ha fatto nulla per offrire soluzioni o apportare modifiche. Nel suo rapporto annuale 2019-2020 l’amministrazione per la difesa d’ufficio israeliana ha avvertito del sovraffollamento delle carceri e delle violazioni dei diritti dei prigionieri. Il rapporto descrive le attuali condizioni carcerarie come una “grave violazione della dignità umana”. Critica le dimensioni della cella carceraria ridotte a 2,5 mq, affermando che è “troppo piccola anche per un solo recluso”.

Il rapporto ribadisce precedenti appelli a interrompere immediatamente la detenzione di prigionieri in queste celle, sostenendo che sono “inadatte agli esseri umani”. Osserva inoltre che lo spazio di una cella carceraria oggi è meno della metà del minimo approvato dal Servizio penitenziario israeliano, la principale autorità carceraria che ha indicato nella misura di 6 mq uno spazio ragionevole.

Il rapporto dell’amministrazione per la difesa d’ufficio afferma inoltre che questa questione non riguarda solo i diritti dei detenuti, ma viola anche l’obbligo dello Stato di astenersi da punizioni crudeli, disumane e degradanti, uno standard fondamentale del diritto internazionale.

Mancato rispetto

Il 13 giugno 2017 la Corte Suprema ha ordinato allo Stato di aumentare la superficie abitabile carceraria. Per facilitare l’attuazione di queste riforme l’alta corte ha diviso il processo in due fasi: la prima concederebbe allo Stato nove mesi per estendere la superficie abitabile dei detenuti a 3 mq (esclusi servizi igienici e docce). La seconda fase consisterebbe in un ulteriore incremento della superficie abitabile a 4,5 mq entro nove mesi dall’ordinanza del tribunale.

Tuttavia, il 5 marzo 2018, una settimana prima della scadenza del termine per la prima fase delle modifiche, lo Stato ha presentato al tribunale una richiesta di rinvio dell’attuazione di 10 anni dalla sentenza iniziale, al 2027. Lo Stato sosteneva che il rispetto del termine stabilito dal tribunale avrebbe richiesto unascarcerazione di massa” dei prigionieri e “avrebbe messo in pericolo” la popolazione.

I firmatari hanno respinto queste affermazioni sostenendo che lo Stato non avesse intrapreso alcuna azione per costruire nuovi centri di detenzione e riaffermando l’osservazione dell’Alta corte sull’inadeguatezza delle strutture, molte delle quali costruite durante il mandato britannico. Si sono inoltre opposti alle allusioni ad una questione di pubblica sicurezza, definendo queste “oziose minacce volte a intimidire il tribunale”.

La Corte ha criticato aspramente le azioni dello Stato respingendone inizialmente la richiesta. Ciò ha costretto lo Stato a presentare un piano per la costruzione di nuovi bracci per centinaia di prigionieri e per un incremento della scarcerazione di persone in custodia amministrativa che avrebbe comportato l’evacuazione di circa 1000 spazi di reclusione.

Nel giugno 2018 lo Stato ha aggiornato il tribunale sulla sua intenzione di utilizzare la prigione di Saharonim nel deserto del Negev come centro di detenzione per immigrati come parte della prima fase della riforma.

Per quanto riguarda la seconda fase della sentenza – garantire uno spazio abitativo minimo di 4,5 mq per ogni detenuto entro dicembre 2018 – lo Stato non ha compiuto alcun progresso in materia, portando le organizzazioni per i diritti umani a chiedere al tribunale di costringerlo ad aderire alla lettera della sua sentenza.

Una scappatoia per la tortura

In un avviso emesso il 29 luglio 2018 lo Stato ha informato il tribunale del suo piano per istituire entro il 2026 nuovi centri per ospitare i prigionieri sotto interrogatorio dallo Shin Bet, il servizio di sicurezza israeliano. Ha anche annunciato la sua intenzione di presentare una petizione all’alta corte per modificare la sua sentenza al fine di esentare le strutture dello Shin Bet dall’ampliamento dello spazio vitale per i prigionieri fino al 2027. Attualmente, la dimensione delle celle dello Shin Bet è di 2 mq o meno.

I firmatari, che rappresentano varie associazioni per i diritti umani, si sono opposti alla richiesta dello Stato sostenendo che questa popolazione dovrebbe in realtà avere la precedenza negli sforzi per adattare le condizioni carcerarie alla sentenza della corte e che il rinvio della data di esecuzione della sentenza di almeno otto anni è irragionevole.

Lo Stato ha quindi sostenuto che l’espansione dello spazio vitale dei prigionieri danneggerebbe la capacità dello Shin Bet di ottenere informazioni e contemporaneamente influirebbe fortemente sul numero di indagini avviate.

Paradossalmente, la sua giustificazione si basava sul pieno riconoscimento che lo spazio abitativo dei detenuti, al di sotto della superficie minima, costituisce chiaramente uno strumento di tortura e pressione per “ottenere informazioni” o confessioni dai detenuti palestinesi.

La maggior parte delle cosiddette indagini di sicurezza prendono di mira i palestinesi, sottoponendoli a condizioni che violano la Convenzione contro la tortura di cui Israele è firmatario.

Nel 2022 una commissione del parlamento israeliano ha approvato per due volte all’unanimità un disegno di legge per modificare il codice penale (Poteri di arresto, Spazio vitale nei centri di detenzione dello Shin Bet), che esonera tra l’altro i centri di detenzione dello Shin Bet dall’ampliamento dello spazio vitale dei detenuti come ordinato dalla Corte Suprema.

A peggiorare le cose, il progetto di legge suggerisce l’implementazione di norme segrete da parte di un funzionario e del direttore dello Shin Bet. Le organizzazioni per i diritti umani hanno espresso preoccupazione per il fatto che queste “norme” non consentirebbero la protezione dei diritti dei prigionieri i quali sarebbero sottoposti a condizioni di tortura in violazione del diritto internazionale.

Come affermato nei chiarimenti sul disegno di legge, la determinazione delle norme e delle leggi riguardanti lo spazio abitativo dei detenuti viene effettuata dal primo ministro, con l’approvazione del ministro della giustizia e del comitato ministeriale dello Shin Bet, nonché l’approvazione di un comitato speciale congiunto delle commissioni per gli affari esteri e per la difesa e la commissione giudiziaria della Knesset [parlamento israeliano, ndt].

Questa proposta è stata accolta con forte opposizione da parte delle organizzazioni per i diritti umani e alcune di esse – il Comitato contro la tortura, il Centro per la difesa dell’individuo (HaMoked) e Medici per i diritti umani – hanno presentato l’8 febbraio 2020 le loro osservazioni sulla proposta di legge al consigliere giudiziario in carica. Hanno affermato che la proposta tenta di eludere la decisione del tribunale e sopratutto continua a violare irragionevolmente i diritti dei detenuti e a discriminare in particolare questi ultimi [quelli detenuti dallo Shin Bet, ndt].

Hanno anche rilevato che qualsiasi legge deve essere soggetta a standard giuridici e che la proposta contravviene a quanto approvato nella Legge fondamentale israeliana: Dignità umana e libertà.

Hanno sottolineato che queste sedi speciali dello Shin Bet dovrebbero ricevere maggiore attenzione per quanto riguarda la garanzia di uno spazio abitativo, poiché nella maggior parte dei casi sono nascoste agli occhi del pubblico e persino alla supervisione ufficiale. Inoltre in queste strutture ai detenuti è generalmente vietato incontrare avvocati.

La richiesta dello Stato di ritardare l’attuazione dei nuovi requisiti di spazio ha messo in difficoltà la corte. Sebbene essa abbia il potere di prorogare le scadenze, può farlo solo in rare occasioni.

Come rilevato nella decisione del tribunale, “la proroga dei termini, a sua volta, potrebbe portare a una situazione in cui l’illegittimità esistente continuerebbe a ledere le aspettative delle parti nell’affidarsi alla corte e a nuocere alla chiusura dell’arbitrato. Inoltre, le proroghe in casi non necessari porteranno a ledere il principio dello stato di diritto”.

Questa decisione significa che i detenuti e i prigionieri delle carceri israeliane continueranno a vivere in condizioni dure e disumane per altri cinque anni.

Secondo il rapporto dell’amministrazione per la difesa dufficio, tali condizioni “sono considerate un grave abuso dei diritti dei detenuti, della loro dignità, della loro salute e della loro privacy, aggravato dalle dure condizioni di vita”.

La cosa preoccupante è che queste dure condizioni, sommate al trattamento disumano, equivalgono a torture, specialmente nei centri di detenzione dello Shin Bet – esentati dall’ordinanza del tribunale – dove prevalgono freddo intenso, rumore assordante, privazione del sonno, restrizioni di movimento, divieto di uscire nel cortile, cibo scadente, mancanza di letti e coperte, scarsa igiene e altre condizioni di tortura.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Janan Abdu è un’avvocata e attivista per i diritti umani che vive ad Haifa. È impegnata nella sensibilizzazione e nella mobilitazione del sostegno internazionale per i prigionieri politici palestinesi. I suoi articoli sono apparsi sul Journal of Palestine Studies; il trimestrale del Women’s Studies Center della Birzeit University; al-Ra’ida (AUB); The Other Front (Centro di informazione alternativo); Jadal (Mada al-Carmel). Tra le sue pubblicazioni, Palestine Women and Feminist Organizations in 1948 Areas (Mada al-Carmel, 2008).

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




**La Corte Suprema emette una sentenza contraria a rivelare il ruolo di Israele nel genocidio in Bosnia

John Brown* (Tradotto da Tal Haran)

5 dicembre 2016 – +972 Magazine

Evocando un potenziale danno alla politica estera di Israele, la Corte Suprema respinge una petizione che chiede di rivelare dettagli sulle esportazioni di armi da parte del governo all’esercito serbo durante il genocidio in Bosnia.

**Nota redazionale: nonostante si tratti di un articolo che risale al dicembre 2016, riteniamo interessante tradurre questo articolo perché smentisce la rappresentazione ed autorappresentazione di sé di Israele come Stato etico e nato dal rifiuto di crimini contro l’umanità, e in particolare dell’Olocausto. Si tratta di un impegno selettivo, come dimostrano questo ed altri episodi. Ciò è ancora più significato oggi, nel momento in cui Israele e i suoi sostenitori utilizzano in modo strumentale e sempre più spudorato l’antisemitismo e l’antirazzismo per attaccare i palestinesi e chi ne sostiene la causa.

Il mese scorso la Corte Suprema israeliana ha respinto una petizione che chiedeva di rivelare i dettagli delle esportazioni israeliane per la difesa all’ex Jugoslavia durante il genocidio in Bosnia negli anni ’90. La Corte ha deliberato che rivelare il coinvolgimento israeliano nel genocidio avrebbe danneggiato la politica estera del Paese ad un punto tale da prevalere sull’interesse pubblico a conoscere quelle informazioni e la possibile incriminazione dei soggetti coinvolti.

I ricorrenti, l’avvocato Itay Mack e il professor Yair Oron, hanno presentato alla Corte prove concrete delle esportazioni della difesa israeliana alle forze serbe a quell’epoca, inclusi addestramento, munizioni e fucili. Tra le altre cose, hanno presentato il diario personale del generale Ratko Mladic, attualmente sotto processo presso la Corte Internazionale di Giustizia per aver commesso crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. Il diario di Mladic menziona in modo esplicito le vaste connessioni relative ad armamenti con Israele a quel tempo.

Le esportazioni sono avvenute molto tempo dopo che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU aveva posto un embargo sulle armi in varie parti della ex Jugoslavia, e dopo la pubblicazione di una serie di testimonianze che hanno rivelato il genocidio e la creazione di campi di concentramento.

La risposta del Procuratore di Stato israeliano e il respingimento del ricorso da parte della Corte sono un’ammissione de facto da parte di Israele di aver cooperato con il genocidio bosniaco: se il governo non avesse avuto niente da nascondere, i documenti in questione non avrebbero rappresentato nessuna minaccia per la politica estera.

I più tremendi atti di crudeltà dopo l’Olocausto

Tra il 1991 e il 1995 la ex Jugoslavia si dissolse, passando da una repubblica multi-nazionale ad un insieme di Nazioni in conflitto tra di loro in una sanguinosa guerra civile che incluse massacri e infine il genocidio.

I serbi combatterono una guerra contro la Croazia dal 1991 al 1992 e contro la Bosnia dal 1992 al 1995. In entrambe le guerre commisero genocidio e pulizia etnica dei musulmani nelle zone che occupavano, portando alla morte di 250.000 persone. Decine di migliaia di altre furono ferite e affamate, moltissime donne stuprate e molte persone incarcerate in campi di concentramento. Anche altre parti in conflitto commisero crimini di guerra, ma il ricorso si concentra sulla collaborazione di Israele con le forze serbe. Gli atti orribilmente crudeli in Jugoslavia sono stati la cosa peggiore che l’Europa abbia visto dopo l’Olocausto.

Uno dei massacri più noti fu perpetrato dai soldati agli ordini del generale serbo Ratko Mladic intorno alla città di Srebrenica nel luglio 1995. Le forze serbe comandate dal generale uccisero circa 8.000 bosniaci e li seppellirono in fosse comuni durante una campagna di pulizia etnica che stavano conducendo contro i musulmani in quella zona. Pur se la città doveva essere sotto la protezione delle Nazioni Unite, quando iniziò il massacro le truppe ONU non intervennero. Nel 2012 Mladic venne estradato alla Corte Internazionale di Giustizia all’Aja ed è tuttora sotto processo.

A quel tempo importanti organizzazioni ebraiche fecero appello per una immediata fine del genocidio e lo smantellamento dei campi di morte. Non così fece lo Stato di Israele. Esteriormente condannò il massacro, ma dietro le quinte stava fornendo armi ai massacratori e addestrando le loro truppe.

L’avvocato Mack e il professor Oron hanno raccolto molte testimonianze sulla fornitura di armi da Israele alla Serbia, che hanno presentato nel loro ricorso. Hanno fornito prove che tali esportazioni hanno avuto luogo molto dopo che l’embargo del Consiglio di Sicurezza ONU era entrato in vigore nel settembre 1991. Le testimonianze sono state sottoposte a verifiche incrociate e vengono qui riportate così come presentate nel ricorso, con le necessarie abbreviazioni.

Nel 1992 un’ex alta dirigente del Ministero della Difesa serbo pubblicò un libro, ‘The Serbian Army’ [L’esercito serbo], in cui scrisse dell’accordo sulle armi tra Israele e la Serbia, firmato circa un mese dopo l’embargo: “Uno dei più ampi accordi fu concluso nell’ottobre 1991. Per ovvi motivi l’accordo con gli ebrei non fu reso pubblico in quel momento.”

Un israeliano che al tempo era volontario in un’organizzazione umanitaria in Bosnia ha testimoniato che nel 1994 un dirigente dell’ONU gli chiese di vedere i resti di una granata da 120 mm – con sopra scritte in ebraico – che era esplosa sulla pista di atterraggio dell’aeroporto di Sarajevo. Ha anche testimoniato di aver visto dei serbi che giravano per la Bosnia muniti di fucili Uzi fabbricati in Israele.

Nel 1995 fu riferito che trafficanti d’armi israeliani in collaborazione coi francesi strinsero un accordo per fornire alla Serbia missili LAW. Secondo rapporti del 1992, una delegazione del Ministero della Difesa israeliano si recò a Belgrado e firmò un accordo per la fornitura di granate.

Lo stesso generale Mladic, che è attualmente incriminato per crimini di guerra e genocidio, scrisse nel suo diario che “da Israele hanno proposto di unirsi alla lotta contro gli estremisti islamici. Si sono offerti di addestrare i nostri uomini in Grecia e di fornirci gratis fucili di precisione.” Un rapporto stilato su richiesta del governo olandese durante l’inchiesta sugli eventi di Srebrenica contiene quanto segue: “Belgrado considerava Israele, la Russia e la Grecia come i suoi migliori amici. Nell’autunno 1991 la Serbia strinse un accordo segreto sulle armi con Israele.”

Nel 1995 fu riferito che trafficanti di armi israeliani fornirono armi al VRS – l’esercito della ‘Republika Srpska’, l’esercito serbo bosniaco. Questa fornitura deve essere stata eseguita con il benestare del governo israeliano.

I serbi non erano gli unici in questa guerra a cui i trafficanti di armi israeliani cercarono di vendere armi. In base ai rapporti, ci fu anche un tentativo di fare un accordo con il regime antisemita della Croazia, che alla fine andò in fumo. Il ricorso ha anche presentato rapporti di attivisti per i diritti umani sull’addestramento israeliano all’esercito serbo, e sul fatto che l’accordo sulle armi con i serbi consentì agli ebrei di lasciare Sarajevo, che era sotto assedio.

Mentre tutto ciò avveniva in relativa segretezza, pubblicamente il governo israeliano esprimeva in modo poco convincente la sua apprensione per la situazione, come se si trattasse di cause di forza maggiore e non di una carneficina per mano di uomini. Nel luglio 1994 l’allora capo della Commissione Relazioni Estere e Difesa del parlamento israeliano, deputato Ori Or, si recò a Belgrado e disse: “La nostra memoria è viva. Sappiamo cosa significa vivere sotto boicottaggio. Ogni Risoluzione dell’ONU contro di noi è stata decisa con la maggioranza di due terzi.” In quell’anno l’allora vice presidente degli Stati Uniti Al Gore convocò l’ambasciatore israeliano e intimò ad Israele di sospendere questa collaborazione.

Tra parentesi, nel 2013 Israele non si è fatto problemi ad estradare in Bosnia-Erzegovina un cittadino immigrato in Israele sette anni prima, che era ricercato per sospetto coinvolgimento in un massacro in Bosnia nel 1995. In altri termini, ad un certo punto lo Stato stesso ha riconosciuto la gravità della questione.

La Corte Suprema al servizio dei crimini di guerra

L’udienza della Corte Suprema in merito alla risposta dello Stato al ricorso si è svolta ex parte, cioè ai ricorrenti non è stato permesso di assistere. I giudici Danziger, Mazouz e Fogelman hanno respinto il ricorso ed hanno accettato la posizione dello Stato secondo cui rivelare i dettagli delle esportazioni della difesa israeliana alla Serbia durante il genocidio avrebbe danneggiato le relazioni estere e la sicurezza di Israele, e questo danno potenziale era prevalente rispetto all’interesse pubblico alla rivelazione di quanto accadde.

Questa sentenza è pericolosa per diverse ragioni. In primo luogo, l’accettazione della Corte della certezza dello Stato sul grave danno che sarebbe stato arrecato alle relazioni estere di Israele lascia perplessi. All’inizio di quest’anno la stessa Corte Suprema ha respinto un’accusa simile relativa alle esportazioni della difesa durante il genocidio del Rwanda, però un mese dopo lo Stato ha dichiarato che le esportazioni sono state sospese sei giorni dopo l’inizio del massacro. Se persino lo Stato non vede nessun pericolo nel rivelare – almeno parzialmente – queste informazioni riguardo al Rwanda, perché un mese prima è stata imposta una stretta riservatezza sulla questione? Perché i giudici della Corte Suprema hanno sottovalutato questo inganno, arrivando a rifiutare di accettarlo come prova come richiesto dai ricorrenti? Dopotutto, lo Stato ha ovviamente esagerato nel sostenere che questa informazione avrebbe danneggiato la politica estere.

In secondo luogo, è veramente di pubblico interesse rivelare il coinvolgimento dello Stato in un genocidio, per di più attraverso trafficanti d’armi, in particolare in quanto Stato fondato sulla devastazione del suo popolo in seguito all’Olocausto. È per questo motivo che Israele, per esempio, ha voluto disconoscere la sovranità dell’Argentina quando ha rapito Eichmann e lo ha portato in tribunale nel proprio territorio. È nell’interesse non solo degli israeliani, ma anche di coloro che sono state vittime dell’Olocausto. Quando la Corte si occupa dei crimini di guerra, è corretto che prenda in considerazione anche il loro interesse.

Quando la Corte sentenzia, in casi di genocidio, che il danno alla sicurezza dello Stato – cosa che resta tutta da provare – prevale sul perseguimento della giustizia per le vittime di tali crimini, manda un chiaro messaggio: che il diritto dello Stato alla sicurezza, reale o presunta, è assoluto e ha precedenza rispetto ai diritti dei suoi cittadini e di altri.

La sentenza della Corte Suprema potrebbe portare alla conclusione che più grave è il crimine, più facile è occultarlo. Più armi sono state vendute e più sono stati i massacratori addestrati, maggiore sarebbe il danno per le relazioni estere e per la sicurezza dello Stato se questi crimini venissero divulgati, ed il peso di un tale presunto danno prevarrà necessariamente sull’interesse pubblico. Questo è inaccettabile. Trasforma i giudici – come hanno detto i ricorrenti – in complici. In questo modo i giudici rendono anche un’ inconsapevole popolazione israeliana complice di crimini di guerra e le negano il diritto democratico di discutere nel merito.

Lo Stato deve affrontare simili ricorsi relativamente alla sua collaborazione con gli assassini della giunta argentina, del regime di Pinochet in Cile e dello Sri Lanka. L’avvocato Mack ha intenzione di presentare ulteriori casi entro la fine dell’anno. Anche se fosse interesse dello Stato respingere questi ricorsi, la Corte Suprema deve smettere di aiutare a coprire questi crimini – se non per il desiderio di perseguire gli autori delle atrocità del passato, almeno per fermarli nel tempo presente.

*John Brown è lo pseudonimo di un accademico e blogger israeliano. Questo articolo è comparso per la prima volta in ebraico su ‘Local Call’, di cui egli è un blogger.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




La comunità internazionale è complice delle torture di Israele ai palestinesi

Ramona Wadi

2 ottobre 2019 – Middle East Monitor

Le torture subite dal prigioniero palestinese Samer Arabeed da parte degli agenti israeliani dello Shin Bet [servizi segreti interni, ndtr.] che lo interrogavano hanno dimostrato, ancora una volta, che il divieto di tale trattamento, sancito dalla Quarta Convenzione di Ginevra, dallo Statuto di Roma e dalla Convenzione ONU contro la Tortura, è poco più di una serie di punti di riferimento utilizzati dalle associazioni per i diritti umani come monito per i torturatori.

Arabeed è stato trasferito all’ospedale Hadassah in seguito a pesanti torture dopo essere stato arrestato per la sua presunta partecipazione in agosto ad un attacco con una bomba. Una dichiarazione dell’associazione di sostegno ai detenuti e per i diritti umani, Addameer, ha riferito che Israele ha ammesso di aver utilizzato “metodi estremi ed eccezionali durante gli interrogatori, che in realtà equivalgono a torture”.

Il ministero di Giustizia israeliano ha annunciato un’indagine per decidere se si debbano avviare procedimenti penali contro i funzionari dello Shin Bet. Le torture subite da Arabeed gli hanno provocato rottura delle costole e perdita di conoscenza. Ora la sua situazione lo mette in pericolo di vita e dipendente da un macchinario di supporto vitale. Il suo trasferimento dal carcere all’ospedale è stato comunicato in ritardo alla sua famiglia e al suo avvocato.

Lo scorso luglio il prigioniero palestinese Nasser Taqatqa è morto dopo essere stato torturato e interrogato dallo Shin Bet. Le testimonianze di ex prigionieri palestinesi confermano il fatto che negli interrogatori israeliani si utilizza sistematicamente la tortura. Nel 2013 Arafat Jaradat morì sotto tortura mentre era detenuto nel carcere di Megiddo.

Nel novembre 2018 la Corte Suprema israeliana ha emesso una sentenza favorevole alla tortura nel caso che il detenuto sia membro di “una organizzazione terroristica individuata come tale”, sia coinvolto nella resistenza armata o quando non esista altro mezzo per ottenere informazioni. Se Israele ha stabilito questa immunità, come si può sperare che il continuo riferimento alle leggi e alle convenzioni internazionali sia sufficiente per impedire la tortura dei prigionieri palestinesi?

Definendo i dettagli sulla proibizione della tortura, la comunità internazionale evitò la responsabilizzazione, allo scopo di garantire i diritti umani agli autori e un labirinto di vicoli ciechi senza uscita per le vittime. Tra questi due estremi, le organizzazioni per i diritti umani si sono fatte carico di difendere i principi al posto dei governi, ma per il loro limitato potere o, in alcuni casi, per i loro programmi parziali, non hanno potuto realizzare nessun sistema di giustizia praticabile.

Israele è assolutamente consapevole di questa discrasia e sfrutta la mancanza di responsabilizzazione per falsificare ciò che costituisce un metodo accettabile di tattiche di interrogatorio. La totale marginalizzazione dei palestinesi da parte della comunità internazionale relativamente ai loro diritti ha facilitato la costante normalizzazione della tortura da parte di Israele, in totale violazione del diritto internazionale, in assenza di una condanna collettiva.

Il risultato è una permanente separazione tra le informazioni diffuse e il tipo di azione legale che fornirebbe ai prigionieri palestinesi una possibilità di giustizia. Le organizzazioni per i diritti umani come Addameer si vedono costrette ad una collaborazione involontaria con la diplomazia, girando continuamente a vuoto per svegliare le coscienze, che è ciò che la comunità internazionale voleva in primo luogo quando non ha potuto mantenere l’assunzione di responsabilità.

Chiedere la liberazione di Arabeed non significherà la fine della feroce violenza di Israele. E’ una mossa preventiva rispetto a nuove torture, ma dietro a questa storia ve ne sono altre che sono sfuggite alla scarsa attenzione dei media che sbatte i nomi delle vittime in prima pagina, anche se per breve tempo. Addameer da sola non può ottenere giustizia per i prigionieri palestinesi. Come minimo, dovrebbe esserci un’attenzione globale collettiva per mostrare la complicità della comunità internazionale nella tortura e la sua agenda ingannevole sui diritti umani.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

Ramona Wadi

Fa parte della redazione di Middle East Monitor.

(traduzione dallo spagnolo di Cristiana Cavagna)

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Inviato palestinese afferma che le demolizioni di case da parte di Israele sono un “crimine di guerra”

James Reinl

23 luglio 2019 – Al Jazeera

Israele accusato di “palese azione di pulizia etnica ed espulsione forzata” dopo la distruzione di case palestinesi.

Nazioni Unite – Martedì l’inviato palestinese Riyad Mansour ha detto che le ultime demolizioni di case palestinesi nei pressi di una barriera di separazione nei dintorni di Gerusalemme sono state “scioccanti e strazianti” e dovrebbero essere indagate in quanto crimine di guerra.

Rivolgendosi al Consiglio di Sicurezza dell’ONU a New York Mansour ha mostrato foto di bulldozer, della polizia e di soldati israeliani che il giorno prima hanno attaccato la comunità di Sur Baher mentre famiglie palestinesi guardavano come le loro case venivano demolite.

Nelle prime ore di lunedì un gran numero di soldati israeliani è entrato nelle case delle famiglie che vi risiedevano obbligandole a lasciare le proprie case prima di procedere a distruggerle utilizzando bulldozer militari e grandi quantità di dinamite,” ha detto Mansour.

Le scene sono state scioccanti e strazianti…questo è un palese atto di pulizia etnica e di espulsione forzata, rappresenta un crimine di guerra e deve essere totalmente condannato e perseguito in quanto tale.”

Secondo Mansour la demolizione di circa 10 edifici abitativi, la maggior parte dei quali ancora in costruzione, ha lasciato 17 persone senza casa, compresi 11 bambini. Anche altri 350 palestinesi attendono l’imminente arrivo di bulldozer davanti a casa, ha aggiunto. L’esercito israeliano considera le case, che si trovano vicino a un muro di separazione israeliano che attraversa la Cisgiordania occupata, un rischio “per la sicurezza”.

Legge e ordine”

A giugno la Corte Suprema israeliana ha emesso una sentenza a favore dell’esercito, ponendo fine a una battaglia legale durata sette anni, ed ha fissato lunedì come termine massimo per demolire le case.

Prima dell’incontro di martedì l’ambasciatore israeliano all’ONU Danny Danon fuori dall’aula del Consiglio ha detto ai giornalisti: “Noi crediamo nella legge e nell’ordine. Se costruisci senza permesso, la tua casa non rimarrà in piedi.”

Ciò è quanto avviene alle case degli ebrei e a quelle degli arabi…Non è piacevole. Abbiamo visto quelle foto, non è facile demolire case. Ma questa è la legge in Israele.” Israele attribuisce al muro di separazione – progettato per essere lungo 720 km quando sarà terminato – il merito di aver arginato gli attacchi suicidi dei palestinesi che hanno raggiunto un picco nei primi anni 2000.

I palestinesi accusano Israele di aver utilizzato la sicurezza come pretesto per cacciarli dalla zona come parte di tentativi di lungo termine per espandere le colonie. Ogni colonia sulla terra palestinese occupata è illegale in base alle leggi internazionali.

Rosemary DiCarlo, capo del Dipartimento per gli Affari Politici e la Pacificazione dell’ONU, ha affermato che le demolizioni violano le norme internazionali ed hanno colpito le condizioni di vita di circa 300 palestinesi del luogo.

La politica israeliana di distruzione delle proprietà palestinesi non è compatibile con i suoi obblighi in base alle leggi umanitarie internazionali e contribuisce al rischio di trasferimento forzato che minaccia molti palestinesi in Cisgiordania,” ha affermato DiCarlo.

Particolarmente eclatanti”

Parlando a nome dell’Unione Europea, l’inviata della Gran Bretagna all’ONU Karen Pierce ha detto che le demolizioni sono state “particolarmente eclatanti” in quanto sono avvenute in zone che, in base al trattato di pace del 1993 noto come accordi di Oslo, dovrebbero essere sottoposte alla giurisdizione palestinese.

Il villaggio sparso sul terrotorio di Sur Baher si trova a cavallo tra Gerusalemme est occupata e la Cisgiordania occupata. È stato preso e occupato da Israele nella guerra del 1967.

Le demolizioni sono parte dell’ultimo episodio della lunga disputa sul futuro di Gerusalemme, in cui risiedono più di 500.000 israeliani e 300.000 palestinesi.

L’inviato di pace degli Stati Uniti Jason Greenblatt ha affermato che i palestinesi otterranno poco ripetendo “un trito discorso” e facendo appello alle leggi internazionali o a risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU “pesantemente scritte”.

Il muro di Israele ha portato la sicurezza?

Al contrario, i dirigenti palestinesi dovrebbero rivedere il proprio rifiuto a impegnarsi nel tentativo di pace guidato dagli USA, che include un piano di sviluppo economico da 500 milioni di dollari per i palestinesi, la Giordania, l’Egitto e il Libano, ha detto Greenblatt.

I dirigenti palestinesi dovrebbero “mettere da parte rifiuti generalizzati di un piano che non hanno neppure visto, e mostrare la volontà di impegnarsi in buona fede, in un dialogo sensato con Israele,” ha detto al Consiglio.

Il presidente USA Donald Trump deciderà presto quando rendere pubblica la “parte politica del piano” a lungo attesa, ha aggiunto Grennblatt.

Il progetto per la pace che pensiamo di presentare non sarà ambiguo, a differenza di molte risoluzioni che sono state approvate in questa aula,” ha detto.

Fornirà dettagli sufficienti in modo che la gente possa vedere quali compromessi saranno necessari per raggiungere una soluzione realistica, durevole e complessiva di questo conflitto.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




La corte israeliana autorizza la demolizione del villaggio palestinese di Khan al-Ahmar

MEE e agenzie

giovedì 24 maggio 2018, Middle East Eye

Ignorando le richieste di governi europei e di importanti politici statunitensi, giovedì la Corte Suprema israeliana ha emesso una sentenza in favore della demolizione di un villaggio palestinese nella Cisgiordania occupata.

Gli attivisti hanno detto che l’udienza è stata l’ultimo ricorso concesso al villaggio di Khan al-Ahmar, situato sulla strada principale che conduce al Mar Morto, circondato da diverse colonie illegali israeliane ad est di Gerusalemme.

Non è stato chiarito quando avrà luogo la demolizione del villaggio, che ospita 180 abitanti.

Negli anni scorsi la comunità, costituita da circa 35 famiglie appartenenti alla tribù beduina Jahalin, ha subito diverse volte la demolizione delle sue precarie case e scuole, per lo più fatte di lamiera ondulata e legno, da parte dell’esercito israeliano.

Israele vuole demolire il villaggio come parte del cosiddetto piano E 1, che consiste nella costruzione di centinaia di insediamenti per collegare le colonie di Kfar Adumim e Ma’ale Adumim con Gerusalemme est nell’area C [sotto totale ma temporaneo controllo israeliano in base agli accordi di Oslo, ndt.] della Cisgiordania controllata da Israele.

L’anno scorso gli abitanti del villaggio hanno detto a Middle East Eye che avrebbero opposto resistenza ad ogni tentativo di cacciarli dalle loro case.

“L’area C è stata costruita intorno a noi e alle nostre case, non viceversa”, ha detto a MEE Eid Abu Khamis, il portavoce delle comunità beduine nel distretto di Gerusalemme e residente a Khan al-Ahmar.

“Siamo venuti qui dopo che loro (Israele) ci hanno buttato fuori dalle nostre terre durante la Nakba e adesso vogliono cacciarci da questa terra, dove abbiamo vissuto per più di 60 anni.”

Nella sua sentenza la Corte ha affermato di non aver trovato “nessuna ragione per intervenire sulla decisione del ministro della Difesa di applicare gli ordini di demolizione emessi contro le strutture illegali a Khan al-Ahamar.”

Gli abitanti verranno spostati altrove, ha aggiunto, con un metodo che i critici assimilano ad una deportazione. Secondo precedenti piani del governo israeliano, è molto probabile che la comunità verrà trasferita in una zona vicina alla discarica di Abu Dis, una zona periferica degradata cisgiordana di Gerusalemme est.

La Corte ha sentenziato che il villaggio era stato costruito senza i relativi permessi di edificazione.

Per i palestinesi nelle aree della Cisgiordania controllate da Israele è quasi impossibile ottenere questi permessi.

La presidenza palestinese ha denunciato la sentenza della Corte di giovedì, definendola un tentativo razzista di “sradicare i legittimi cittadini palestinesi dalla loro terra per assumerne il controllo e rimpiazzarli con coloni.”

“Questa politica di pulizia etnica è considerata la peggior forma di discriminazione razziale, che è diventata la caratteristica principale delle prassi e delle decisioni del governo israeliano e dei suoi diversi strumenti”, ha affermato in un comunicato.

L’anno scorso 10 senatori democratici USA, guidati da Bernie Sanders e Dianne Feinstein, hanno scongiurato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di bloccare i piani di demolizione dei villaggi palestinesi della Cisgiordania, compreso Khan al-Ahmar.

“Abbiamo a lungo sostenuto la soluzione dei due Stati come un’equa soluzione del conflitto israelo-palestinese”, hanno scritto i senatori.

“Tuttavia i tentativi del vostro governo di trasferire forzatamente intere comunità palestinesi ed espandere le colonie in tutta la Cisgiordania non solo compromettono direttamente una soluzione a due Stati, ma crediamo che mettano anche a rischio il futuro di Israele come democrazia ebraica.”

Anche l’UE ha duramente criticato i piani di espulsione degli abitanti di Khan al-Ahmar.

L’anno scorso, quando era ambasciatore dell’UE in Israele, Lars Faaborg-Andersen ha detto: “L’adozione di misure coercitive come i trasferimenti forzati, le espulsioni, le demolizioni e le confische di case e strutture umanitarie (comprese quelle finanziate dall’UE) e il divieto di fornire assistenza umanitaria violano gli obblighi di Israele in base al diritto internazionale.”

Israele demolisce regolarmente case e scuole palestinesi in Cisgiordania, sostenendo che sono state costruite senza permesso. Ma Human Rights Watch sottolinea che “l’esercito israeliano rifiuta di concedere i permessi alla maggior parte delle nuove costruzioni palestinesi nel 60% della Cisgiordania, dove detiene il controllo esclusivo sulla pianificazione e sull’edilizia, mentre favorisce la costruzione di colonie.”

Nel 2016 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione di condanna di “tutte le misure finalizzate ad alterare la composizione demografica, il carattere e lo status del territorio palestinese occupato dal 1967, compresa Gerusalemme est.”



(Traduzione di Cristiana Cavagna)