La sentenza della Corte Internazionale di Giustizia sul “plausibile genocidio” a Gaza: una vittoria incompleta

Jeff Halper

29 gennaio 2024 Counterpunch

Qualsiasi valutazione sulla sentenza della Corte Internazionale di Giustizia del 26 gennaio deve iniziare con un applauso per le sue delibere secondo cui (1) le azioni militari di Israele a Gaza rientrano nelle definizioni della Convenzione sul Genocidio; (2) che i palestinesi sono effettivamente un gruppo distinto che si trova a subire il crimine di genocidio e (3) che l’affermazione del Sudafrica sul coinvolgimento israeliano in un “plausibile genocidio” è valida, il che significa che la Corte inizierà a processare Israele per genocidio. Si tratta di un processo che richiederà diversi anni ma è estremamente importante.

Gli stessi atti del processo avranno un effetto immenso su quella che in realtà è la Corte Mondiale, la Corte dell’Opinione Pubblica, fornendo sostegno legale, politico e morale alla lotta per i diritti dei palestinesi e alla fine del genocidio e dell’apartheid israeliani. Potrebbe anche favorire il perseguimento di funzionari e personale militare israeliani per crimini di guerra presso la Corte Penale Internazionale, nonché iniziare a ritenere responsabili i complici dei crimini di Israele.

Se Israele alla fine verrà condannato per genocidio, i Paesi che ne hanno sostenuto le politiche o lo hanno armato potrebbero essere processati per complicità ai sensi della Convenzione sul Genocidio. A livello locale, cause come quella di Defense for Children International-Palestine et al. contro Biden et al. in cui il presidente Biden, il segretario di Stato Blinken e il segretario alla Difesa sono stati citati in giudizio in un tribunale distrettuale della California per “mancata prevenzione e complicità nel genocidio in corso contro Gaza”, potrebbero avere maggiori possibilità di successo.

La giornata di oggi segna una vittoria decisiva per lo stato del diritto internazionale e una pietra miliare significativa nella ricerca di giustizia per il popolo palestinese”, ha affermato il Ministero degli Esteri sudafricano. “Non esiste alcuna base credibile perché Israele continui a sostenere che le sue azioni militari sarebbero nel pieno rispetto del diritto internazionale, inclusa la Convenzione sul Genocidio, vista la sentenza della Corte”.

La CIG dovrebbe essere elogiata anche per le sei misure provvisorie che ha imposto a Israele, vale a dire:

– Adottare tutte le misure per garantire che a Gaza non abbiano luogo atti considerati genocidari ai sensi della Convenzione sul Genocidio

– Garantire che i suoi militari non commettano atti di genocidio

– Prevenire e punire l’incitamento al genocidio

– Consentire e facilitare la fornitura di servizi di base e assistenza umanitaria alla popolazione di Gaza

– Prevenire la distruzione e preservare le prove del genocidio nelle operazioni militari

– Riferire alla Corte sulla sua ottemperanza entro un mese.

Tutte queste misure, oltre alla spiegazione dettagliata della Corte del motivo per cui Israele è di fatto coinvolto in un genocidio “plausibile” e in corso, ci danno tutto il sostegno legale per fare pressione per una fine effettiva del genocidio israeliano, più immediatamente a Gaza ma senza dimenticare il genocidio in corso commesso contro l’intero popolo palestinese sia nella Palestina storica che nel contesto della persistente esistenza di palestinesi rifugiati.

I punti deboli della sentenza

La sentenza della Corte Internazionale di Giustizia è quindi forte e importante nel prosieguo della lotta per i diritti dei palestinesi. Guardando la situazione, tuttavia, dalla prospettiva dell’immediata necessità di proteggere gli abitanti di Gaza dall’effettivo genocidio che stanno vivendo in questo momento – l’ordine urgente di imporre un cessate il fuoco chiesto dai sudafricani – dobbiamo unirci ai palestinesi nel deplorare la decisione della Corte di non aver emanato tale misura provvisoria. Il divieto di ogni atto di genocidio può assicurarsi il rispetto di Israele solo se rafforzato dall’imposizione di un cessate il fuoco. Ordinare semplicemente a Israele “di adottare tutte le misure in suo potere per non violare le disposizioni della Convenzione di Ginevra” e per garantire che le sue forze militari non la violino è, sul campo, poco effettivo e inefficace.

Finché Israele si astiene da atti apertamente genocidari – che ha già commesso e che ora potrebbe moderare – gli ordini possono ben poco per impedire l’effettivo scopo dei crimini di guerra, dei crimini contro l’umanità e, sì, del genocidio, che le operazioni militari in corso perpetuano. B’tselem, la principale organizzazione israeliana per i diritti umani, è d’accordo. “L’unico modo per attuare gli ordini emessi oggi dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia”, si legge in una nota diffusa, “è con un cessate il fuoco immediato. È impossibile proteggere la vita dei civili finché continuano i combattimenti”.

Molti difensori della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia, inclusa l’organizzazione palestinese per i diritti umani Al-Haq, sostengono che l’obbligo per Israele di porre fine o ridurre le sue operazioni militari è contenuto nella sentenza sul genocidio e nell’ordine delle misure provvisorie, dal momento che molte delle disposizioni – porre fine agli atti di genocidio, ad esempio, o consentire gli aiuti umanitari – non può essere realizzato senza un cessate il fuoco de facto.

Scrive l’avvocato per i diritti umani Robert Herbst: “All’interno della decisione sul genocidio e dell’ordine di misure provvisorie c’è, sub silentio, la richiesta che Israele interrompa o riduca le sue operazioni militari. Ciò potrebbe anche non equivalere ad un ‘cessate il fuoco’, ma potrebbe probabilmente realizzare in concreto la fine di tutti gli omicidi e i ferimenti di massa causati dal genocidio e della distruzione delle infrastrutture rimaste, e il massiccio ingresso di assistenza umanitaria che ripristinerebbe in certa misura la vita civile a Gaza”.

Mi permetto di dissentire. Quali azioni violino effettivamente le misure provvisorie è difficile da dire visto che per loro natura sono vaghe e manipolabili. Contro l’accusa che un atto sia genocida, ad esempio, Israele può invocare l’autodifesa. In effetti, è la loro incertezza che ha impedito alla Corte Internazionale di Giustizia di emettere l’ordine di cessate il fuoco. Affinché un “plausibile genocidio” possa essere effettivamente impedito, le sei misure provvisorie che vietano a Israele di continuare le sue azioni genocide devono essere emanate insieme a un cessate il fuoco immediato.

Stabilire che si tratta di genocidio prevede un processo a lungo termine volto a distruggere un popolo, in tutto o in parte (come nel caso del violento sfollamento dei palestinesi dalle loro terre e dalla loro patria da parte di Israele a partire dal 1948, o l’intento apertamente genocida del sionismo di sostituire la popolazione palestinese di Palestina con gli ebrei e trasformare un paese arabo in uno ebraico) o atti grossolanamente palesi di uccisione e distruzione (come Israele ha commesso a Gaza fino ad oggi).

Ma essere avvisato dalla Corte che sta esaminando specifici atti di genocidio consentirà a Israele di ridurre le operazioni militari in modo da astenersi apparentemente dal commettere atti specifici ritenuti genocidari senza, tuttavia, ridurre di fatto la letalità e la distruttività della sua guerra in corso. Così secondo la Corte l’uccisione di (finora) 27.000 palestinesi, la stragrande maggioranza dei quali civili, equivale ad un plausibile genocidio. Ma senza un ordine di cessate il fuoco e riducendo il comportamento genocida ad “atti”, Israele può affermare che ogni omicidio è uno sfortunato “danno collaterale” o un tragico errore.

La foresta del genocidio si perde a favore degli alberi delle azioni individuali. Israele ha già distrutto il 70% di Gaza e provocato lo sfollamento di oltre due milioni dei suoi abitanti. Può permettersi di andare avanti con più “attenzione”, mantenendo le sue operazioni militari al livello di “semplici” crimini di guerra e crimini contro l’umanità, il che significa che senza un cessate il fuoco le sei misure provvisorie non avranno alcun impatto sulle effettive operazioni militari.

Potrei sembrare troppo severo, ma in pratica il sottotesto della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia sembra essere: Ti diamo, Israele, il permesso di continuare la tua campagna militare a Gaza (con le sue conseguenze genocide, anche se non saranno commessi nuovi atti genocidari) purché d’ora in poi vi asteniate da atti che possano essere interpretati come genocidi. È vero, la Corte Internazionale di Giustizia potrebbe rivedere la sua decisione in futuro, ma si può sentire il collettivo sospiro di sollievo di Israele fino all’Aja.

L’esame arriverà tra un altro mese, quando Israele presenterà il suo rapporto alla CIG su come stia rispettando le misure. La Corte potrebbe quindi valutare i suoi sforzi e, se ritenuti significativamente carenti (ciò che a mio avviso avverrà, malgrado tutto), emettere un ordine di cessate il fuoco. Questo resta da vedere. Proprio mentre scrivo, il giorno dopo la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia Israele ha lanciato un grande attacco all’interno di Khan Yunis, circondando migliaia di civili intrappolati all’interno e iniziando la sua avanzata a sud verso Rafah, anche se “con attenzione”. Non vi è alcun indizio che la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia abbia influenzato in qualche modo le operazioni militari. In effetti, le azioni odierne di Israele potrebbero essere viste come una “risposta sionista” alla Corte Internazionale di Giustizia. È proprio la preoccupazione che la sentenza della CIG abbia scarso effetto immediato su ciò che i palestinesi stanno effettivamente vivendo che ha provocato la delusione per il rifiuto della Corte Internazionale di ordinare un cessate il fuoco.

La palla è nel nostro campo

La sentenza della Corte Internazionale di Giustizia evidenzia il difetto fatale del sistema giuridico internazionale: accordi e leggi meravigliose, ponderate e potenti come la Carta delle Nazioni Unite, la Convenzione sul Genocidio e la Quarta Convenzione di Ginevra – ognuna delle quali, se effettivamente applicata, avrebbe causato il crollo dell’occupazione illegale di Israele, protetto il popolo palestinese e fornito gli strumenti per smantellare il regime coloniale israeliano. Invece, abbiamo una struttura legale gravata da un sistema di adempimento estremamente debole che sostanzialmente annulla le leggi stesse.

La CIG ci ha se non altro fornito una forte motivazione legale e morale per portare avanti la nostra campagna contro il genocidio a Gaza. Tuttavia, in termini di protezione effettiva del popolo di Gaza e del ritenere Israele responsabile del suo crimine di genocidio, la CIG ci ha passato la palla. Evidentemente la palla dovrebbe passare nel campo dei nostri governi. Sono loro ad avere la responsabilità di far rispettare il diritto internazionale – una responsabilità che non hanno mai veramente assunto e che violano impunemente.

Sta a noi accettare il giudizio della Corte secondo cui il genocidio è stato plausibilmente condotto davanti ai nostri occhi e fare ciò che la Corte Internazionale di Giustizia avrebbe potuto fare e non ha fatto: costringere i nostri governi a imporre un cessate il fuoco immediato. Dobbiamo essere i cani da guardia che denunciano non solo il crimine di genocidio che è l’assalto di Israele a Gaza, ma tutti i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità che Israele continuerà a commettere e che sono connaturati al processo stesso di una pacificazione militare. Dobbiamo creare pressione pubblica sui nostri governi – in particolare su Stati Uniti e Germania – affinché interrompano i loro massicci trasferimenti di armi e impongano sanzioni economiche a Israele.

E dobbiamo essere consapevoli che il genocidio è in corso. Oltre a chiedere un cessate il fuoco, oltre a chiedere la fine del genocidio israeliano, dobbiamo ritenere Israele responsabile della situazione genocida che sta costruendo, e che continuerà anche dopo la fine delle ostilità.

Fermate subito il genocidio israeliano!

Immediato cessate il fuoco a Gaza!

Liberate tutti gli ostaggi israeliani e i prigionieri politici palestinesi

Jeff Halper è un antropologo israeliano anticoloniale, capo del Comitato Israeliano Contro le Demolizioni di Case (ICAHD) e membro fondatore della campagna One Democratic State. È l’autore di War Against the People: Israel, the Palestinians and Global Pacification (Guerra contro il popolo: Israele, i palestinesi e la pacificazione globale, Londra: Pluto Press 2015). Il suo ultimo libro è Decolonizing Israel, Liberating Palestine: Zionism, Settler Colonialism and the Case for One Democratic State (Decolonizzare Israele, liberare la Palestina: sionismo, colonialismo di insediamento e il progetto di un unico Stato democratico, Londra: Pluto Press 2021). Può essere contattato all’indirizzo jeffhalper@gmail.com.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Una lettera a Biden su Gaza

Sara Roy

21 maggio 2021 – Counterpunch

Caro Presidente Biden,

Le voglio scrivere di Gaza, un luogo su cui negli ultimi 35 anni ho studiato e scritto, un luogo che considero una seconda casa, piena delle persone più gentili e generose che si possano mai incontrare – c’è mai stato? Ma sto scrivendo non solo come studiosa della regione, ma come ebrea e come una [delle persone] i cui genitori sono sopravvissuti ad Auschwitz.

Ho una domanda per lei, Signor Presidente: quando è accettabile la morte di un bambino? O forse dovrei porre la domanda in questo modo: quando diventa inaccettabile la morte di un bambino palestinese? Lei ha vissuto l’indicibile perdita di una figlia [nel 1972 la prima moglie di Biden e la figlia più piccola, di 13 mesi, sono morte in seguito ad un incidente d’auto, ndtr.], quindi si trova in una posizione migliore della maggioranza delle persone per rispondere alle mie domande.

La scorsa settimana, dopo che a Gaza 87 palestinesi sono stati uccisi e oltre 500 feriti, lei ha affermato di non aver riscontrato una “risposta significativamente sproporzionata” da parte di Israele agli attacchi missilistici di Hamas. In quel momento tra i morti c’erano 18 bambini. Non conoscevo nessuno di loro, ma conosco persone che li conoscevano. Mi aiuterebbe per favore a spiegare ai miei amici perché la morte di questi 18 bambini non costituisce una risposta sproporzionata? Ciò fa sorgere un’altra domanda che ho per lei, Signor Presidente: quanti bambini dovranno morire a Gaza prima che lei consideri sproporzionata la risposta di Israele, soprattutto dal momento che ha posto i diritti umani al centro della sua politica estera? Ho bisogno di saperlo in modo da poterlo spiegare ai miei amici. Mentre le scrivo oltre 60 bambini palestinesi sono stati uccisi dal governo di Israele. È sufficiente per poter dare una risposta?

Conosco persone all’interno del nostro governo che lavorano intorno al tema del conflitto israelo-palestinese. Devo dirle qualcosa che ho sentito da uno di loro sulla morte dei bambini di Gaza. Questo individuo riteneva che alcuni dei morti fossero probabilmente figli di funzionari di Hamas, quindi che la loro morte non avesse molta importanza, che fosse quindi accettabile. È questa la risposta alla mia prima domanda? Dovrebbe essere questo il modo in cui spiegarlo ai miei amici? Per favore mi aiuti.

È tragico che dopo più di tre decenni di ricerche e di libri, debba trovare ancora la necessità di discutere a favore dell’umanità dei palestinesi, persino con lei.

Ancora una cosa prima di terminare questa lettera, se mi permette. Riguarda mia madre. Quando è stata imprigionata nel ghetto di Lodz [in Polonia, ndtr.] durante l’Olocausto, ha rischiato la vita nascondendo i bambini che erano stati scelti per essere deportati ad Auschwitz e in altri campi di sterminio. Alla fine i nazisti trovarono i bambini e li mandarono a morire. Ma mia madre ha cercato di salvarli anche se sapeva che non ci sarebbe riuscita. E posso assicurarle che, conoscendola e imparando da lei come ho fatto per tutta la vita, avrebbe fatto lo stesso per qualsiasi bambino, ebreo o cristiano o musulmano, fosse in pericolo. Sarebbe stata inorridita dall’assassinio di bambini in questo terribile conflitto, sia palestinesi che israeliani, e avrebbe inveito contro l’ingiustizia di tutto ciò. E questa è la mia ultima domanda per lei: perché non si è comportato nello stesso modo?

Cordiali saluti,

Dott.ssa Sara Roy

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)




L’albero dei soldi americani: la storia mai raccontata degli aiuti statunitensi ad Israele

Ramzy Baroud

1 gennaio 2021 – Counterpunch

Il 21 dicembre scorso il Congresso USA ha approvato il Pacchetto di Aiuti per il Covid 19, come parte di una misura più ampia del valore di $2.3 trilioni [1.870 miliardi di euro, ndtr.] che coprirà la spesa per il resto dell’anno finanziario. Come al solito i rappresentanti USA hanno destinato una massiccia somma di denaro ad Israele.

Proprio mentre disoccupazione e povertà stanno raggiungendo livelli record in seguito ai ripetuti lockdown, gli USA ritengono essenziale fornire ad Israele $3.3 miliardi [2,69 miliardi di euro, ndtr.] in “assistenza alla sicurezza” e $500 milioni [407 milioni di euro, ndtr.] per la cooperazione USA-israeliana nella difesa missilistica.

Mentre un misero aiuto di 600 dollari [490 euro, ndtr.] alle famiglie americane in difficoltà è stato per mesi al centro di intensi dibattiti, non si è discusso molto fra i politici americani sui grandi fondi elargiti ad Israele, che non hanno alcun ritorno.

Il sostegno ad Israele è considerato una priorità bipartisan e da decenni viene visto come l’elemento più stabile dell’agenda della politica estera USA. Sollevare semplicemente la questione di come Israele utilizzi quei fondi – se gli aiuti militari siano usati attivamente per sostenere l’occupazione illegale della Palestina, per finanziare le colonie ebraiche e l’annessione di terre palestinesi o per violare i diritti umani dei palestinesi – è assolutamente tabù.

Uno dei pochi membri del Congresso a chiedere che gli aiuti ad Israele siano condizionati al rispetto dei diritti umani è il senatore Democratico del Vermont Bernie Sanders, che è stato anche uno dei principali candidati presidenziali del Partito Democratico. “Non possiamo dare carta bianca al governo israeliano…Abbiamo il diritto di esigere il rispetto dei diritti umani e della democrazia”, aveva detto Sanders nell’ottobre 2019.

Il suo rivale Democratico, l’attuale Presidente eletto Joe Biden, ha subito replicato: “L’idea che io ritiri, come è stato suggerito da altri, gli aiuti militari ad Israele, è bizzarro”.

Non è certo un segreto che Israele sia il maggiore beneficiario al mondo degli aiuti USA dai tempi della II Guerra mondiale. Secondo dati del Servizio Ricerca del Congresso, Israele ha ricevuto ben 146 miliardi di dollari [119 miliardi di euro, ndtr.] dei contribuenti americani a partire dal novembre 2020.

Gran parte dei fondi ricevuti dagli USA fra il 1971 e il 2007 si sono rivelati fondamentali perché Israele si desse una solida base economica. Da allora in avanti gran parte del denaro è stato destinato ad attività militari, compresa la sicurezza delle colonie illegali israeliane.

Nonostante la crisi finanziaria USA del 2008, i soldi americani hanno continuato a fluire verso Israele, la cui economia è passata quasi indenne attraverso la recessione globale.

Nel 2016 gli USA hanno promesso addirittura di aumentare il flusso. L’amministrazione Democratica di Barack Obama, che viene spesso – seppure a torto – considerata ostile nei confronti di Israele, aveva aumentato significativamente i fondi USA ad Israele. Nel Memorandum di Intesa decennale, infatti, Washington e Tel Aviv hanno concluso un accordo che garantisce ad Israele $38 miliardi [31 miliardi di euro, ndtr.] in aiuti militari USA per gli esercizi finanziari 2019-2028. Questo rappresenta l’esorbitante cifra di $8 miliardi [6,50 miliardi di euro, ndtr.] in più rispetto al precedente accordo decennale che scadeva alla fine del 2018.

I nuovi fondi statunitensi sono divisi in due categorie: $ 33 miliardi [27 miliardi di euro, ndtr.] in contributi militari ed altri $ 5 miliardi [4 miliardi di euro, ndtr.] in difesa missilistica.

La generosità USA viene tradizionalmente attribuita all’incommensurabile influenza dei gruppi pro-israeliani, AIPAC (American Israel Public Affairs Committee) in testa, ma negli ultimi quattro anni questi gruppi non hanno dovuto sforzarsi più di tanto, perché sono stati pezzi potenti all’interno dell’Amministrazione stessa ad agire come sostenitori di primo piano di Israele.

Oltre agli infiniti “omaggi politici” che l’Amministrazione Trump ha elargito negli ultimi anni ad Israele, ora essa sta pure prendendo in considerazione la possibilità di accelerare la procedura di assegnazione dei fondi rimanenti secondo l’ultimo Memorandum di Intesa, che attualmente ammontano a $26,4 miliardi [21,5 miliardi di euro, ndtr.]. Secondo documenti ufficiali del Congresso, gli USA “potrebbero anche approvare ulteriori vendite di F-35 e velocizzare la consegna degli KC-46A, aerei militari per il rifornimento in volo e trasporto strategico, ad Israele.

Questi non sono che una parte dei fondi e benefici ricevuti da Israele. Gran parte di essi passano inosservati, in quanto fluiscono attraverso canali indiretti oppure vengono propagandati sotto il termine flessibile di “cooperazione”.

Per esempio, fra il 1973 e il 1991 la imponente cifra di $460 milioni [375 milioni di euro, ndtr.] di fondi USA è andata a finanziare l’emigrazione ebraica verso Israele. Molti di questi nuovi immigranti sono gli stessi militanti israeliani che occupano attualmente le colonie illegali in Cisgiordania. In questo caso particolare il denaro va all’organizzazione benefica United Israel Appeal, che a sua volta lo passa all’Agenzia Ebraica, la stessa Agenzia che nel 1948 ha avuto un ruolo centrale nella fondazione di Israele sulle rovine delle città e villaggi palestinesi.

Decine di milioni di dollari mascherati da donazioni benefiche vengono regolarmente inviati in Israele sotto forma di “elargizioni deducibili dalle tasse per le colonie ebraiche in Cisgiordania e Gerusalemme Est,” ha scritto il New York Times. Gran parte dei soldi, propagandati come donazioni per finalità educative e religiose, spesso finiscono col finanziare e comprare abitazioni per i coloni illegali, “oltre a cani da guardia, giubbotti antiproiettile, cannocchiali da puntamento e veicoli per proteggere avamposti (ebraici illegali) all’interno delle zone occupate (palestinesi).”

Molto spesso il denaro USA finisce nei forzieri statali israeliani con pretesti ingannevoli. Per esempio l’ultimo Pacchetto di Incentivi comprende $50 milioni [41 milioni di euro, ndtr.] di fondi destinati al Nita M. Lowey Middle East Partnership for Peace Funds, che in teoria fornisce investimenti in “scambi interpersonali e cooperazione economica…fra israeliani e palestinesi al fine di sostenere la soluzione negoziata e sostenibile dei due Stati.”

Questi soldi invece non sono funzionali ad alcuno scopo particolare, dal momento che Washington e Tel Aviv sono impegnati per garantire il fallimento di un accordo di pace negoziato e lavorano fianco a fianco per uccidere la ormai defunta soluzione dei due Stati.

La lista potrebbe continuare all’infinito, anche se gran parte dei soldi non sono inclusi nei pacchetti di aiuti ufficiali da USA ad Israele. Proprio per questo essi raramente vengono esaminati e tanto meno sono sottoposti a copertura mediatica.

E’ dal febbraio 2019 che gli USA hanno ritirato ogni finanziamento all’Autorità Palestinese in Cisgiordania, inoltre hanno tagliato gli aiuti all’Agenzia ONU per i Profughi palestinesi (UNRWA), l’ultima salvaguardia rimasta per assicurare istruzione di base e assistenza sanitaria a milioni di profughi palestinesi.

A giudicare dalla sua tradizione di continuo sostegno nei confronti della macchina militare israeliana e della incessante espansione coloniale in Cisgiordania, Washington insiste nel ricoprire il ruolo di principale benefattore – se non partner diretto – di Israele mentre respinge del tutto i palestinesi.

Aspettarsi che gli USA giochino un ruolo costruttivo nel conseguimento di una pace giusta in Palestina non riflette solo un’insostenibile ingenuità, ma pure caparbia ignoranza.

Ramzy Baroud è giornalista e curatore di The Palestine Chronicle. E’ autore di cinque libri, l’ultimo dei quali è “These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons(Clarity Press, Atlanta). Il dott. Baroud è ricercatore presso il Centro per gli Affari Islamici e Globali (CIGA) della Istanbul Zaim University (IZU). Il suo website è www.ramzybaroud.net

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




Un affronto alla Storia: il Giro d’Italia usato per nascondere l’apartheid israeliana.

Ramzy Baroud

17 maggio 2018, Counterpunch.org

Per la prima volta dal suo debutto nel 1909, il 4 maggio [di quest’anno, n.d.t.] il Giro d’Italia, leggendaria gara ciclistica italiana, è iniziato fuori dall’Europa e, stranamente, dalla città di Gerusalemme.

Le contraddizioni che questa decisione porta con sé sono inevitabili. L’Italia è un Paese che sa bene cosa sia una crudele occupazione straniera e che è stato devastato dal fascismo e dalla guerra. È terrificante che oggi abbia un ruolo nei continui tentativi di Israele di “nascondere con un’imbiancata” o, in questo caso, di “nascondere con lo sport” l’occupazione militare e la violenza quotidiana contro il popolo palestinese.

Tutti i tentativi di convincere gli organizzatori della gara a non essere parte della propaganda politica israeliana sono falliti. A quanto pare, i milioni di dollari pagati agli organizzatori del Giro d’Italia, RCS Sport, sono stati molto più convincenti delle esperienze culturali condivise, della solidarietà, dei diritti umani e del diritto internazionale.

Il famoso scrittore italiano Dino Buzzati, negli anni ‘40, ha scritto sui giornali italiani diversi racconti in cui descriveva il simbolismo della gara nel contesto di una nazione malridotta che risorgeva dalle ceneri di una gigantesca distruzione.

Subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, gli organizzatori del Giro d’Italia si trovarono di fronte al compito apparentemente impossibile di organizzare una gara con poche biciclette e ancor meno atleti. Le strade erano state completamente distrutte durante la guerra, ma era più forte la determinazione a farcela.

Il Giro d’Italia del 1946, e soprattutto la leggendaria rivalità tra Fausto Coppi e Gino Bartali, divennero la metafora di un Paese che si rialzava dopo gli orrori della guerra, ridando vita alla propria identità nazionale, rappresentata dallo scontro finale tra atleti eroici che pedalavano tra tortuose strade di montagna per raggiungere il traguardo.

Conoscendo questa storia, Israele l’ha sfruttata in ogni modo possibile. Il governo israeliano, infatti, ha recentemente concesso al compianto Gino Bartali la cittadinanza onoraria, come riconoscimento del retaggio anti-nazista dell’atleta. L’ironia, ovviamente, è che il trattamento che gli israeliani riservano ai palestinesi – occupazione militare, razzismo, apartheid e violenze aberranti – ricorda proprio quella realtà che Bartali e altri milioni di italiani hanno combattuto per anni.

Quando, lo scorso settembre, i dirigenti israeliani hanno annunciato che il Giro d’Italia sarebbe partito da Gerusalemme, si sono dati da fare per collegare l’evento alle celebrazioni israeliane per i 70 anni di indipendenza.

Sono passati 70 anni anche da quando i palestinesi vennero cacciati dalle loro terre da milizie sioniste, il che ha portato alla Nakba, distruzione catastrofica della Palestina, e alla nascita di Israele come Stato ebraico. È allora che Gerusalemme Ovest divenne parte di Israele, mentre il resto della Città Santa, Gerusalemme Est, venne conquistata con la guerra del 1967, prima dell’annessione, ufficiale ma illegale, del 1981, a dispetto del diritto internazionale.

RCS Sport non può dire di non sapere quando si parla di come la decisione di collaborare e avvalorare l’apartheid israeliana segnerà per sempre la storia della gara. Quando hanno annunciato sul sito che la competizione sarebbe partita da “Gerusalemme Ovest”, la risposta israeliana è stata immediata e furente. Il Ministro dello Sport israeliano, Miri Regev, e quello del Turismo, Yariv Levi, hanno minacciato di interrompere la collaborazione, lamentando che “a Gerusalemme, la capitale di Israele, non ci sono Est o Ovest. Esiste solo un’unica Gerusalemme”.

Purtroppo, gli organizzatori del Giro d’Italia hanno chiesto scusa pubblicamente e hanno rimosso la parola “Ovest” dal sito e dai comunicati stampa.

Secondo il diritto internazionale, Gerusalemme Est è una città palestinese occupata. Questo fatto è stato ripetutamente ribadito da risoluzioni ONU, tra cui la più recente, la Risoluzione 2334 del 23 dicembre 2016, che condanna la costruzione di insediamenti illegali israeliani nei Territori occupati, inclusa Gerusalemme Est.

La realtà dei fatti contraddice palesemente le argomentazioni degli organizzatori del Giro d’Italia, secondo cui la gara sarebbe una celebrazione della pace. In realtà, è un modo di avallare l’apartheid, la violenza e i crimini di guerra.

Il fatto che la gara si sia svolta secondo il programma, nonostante fosse in corso l’assassinio di manifestanti palestinesi a Gaza, dimostra anche il livello di corruzione morale di chi sta dietro tutto questo. Oltre 50 palestinesi disarmati sono stati uccisi dal 30 marzo, dall’inizio cioè delle manifestazioni pacifiche al confine di Gaza, note come ”Grande Marcia del Ritorno”. Secondo il Ministero palestinese per la Gioventù e lo Sport, sono oltre 7.000 i feriti, e tra loro 30 atleti.

Uno dei feriti è Alaa al-Dali, 21 anni, ciclista, a cui è stata amputata una gamba, colpita da un proiettile il primo giorno delle proteste.

Sylvan Adams, filantropo ebreo canadese e uno dei maggiori finanziatori della gara, ha sostenuto che il proprio contributo sia motivato dal desiderio di promuovere Israele e sostenere il ciclismo come ”ponte tra i popoli”.

I palestinesi come Alaa, la cui carriera ciclistica è finita, sono, ovviamente, esclusi da questa sublime e selettiva definizione. I 12 milioni di dollari che gli organizzatori hanno ricevuto da Israele e dai suoi sostenitori sono stati un prezzo sufficiente per ignorare la sofferenza dei palestinesi e per agevolare la normalizzazione dei crimini israeliani contro il popolo palestinese?

Purtroppo, nel caso di RCS Sport, la risposta è sì.

Molte persone in Italia e ancor più nel mondo, ovviamente, non sono d’accordo. Nonostante il ruolo dei media nello “sport-washing” israeliano, centinaia di italiani hanno protestato durante le varie tappe della gara.

La quarta tappa del Giro d’Italia, a Catania, in Sicilia, è stata ritardata dalla protesta contro una competizione ”sporca di sangue palestinese”, secondo le parole dell’attivista Alfonso Di Stefano.

Renzo Ulivieri, presidente dell’Associazione Italiana Allenatori, è stato una delle prime voci italiane importanti a contestare la decisione di tenere la gara in Israele. “Avrei potuto rimanere indifferente, ma temo che sarei stato disprezzato dalle persone che stimo. Viva il popolo palestinese, libero sulla sua terra”, ha scritto in un post su Facebook.

RCS Sport ha causato al Giro, al ciclismo e agli italiani un danno imperdonabile in cambio di pochi milioni di dollari. Accettando di far partire la gara da un Paese colpevole di pratiche di apartheid e prolungata occupazione militare, [gli organizzatori, ndt.] hanno marchiato a vita la competizione.

Comunque, la generale ondata di indignazione provocata da questa decisione irresponsabile pare indicare che gli sforzi israeliani per normalizzare i propri crimini contro i palestinesi non stiano riuscendo a cambiare l’opinione pubblica e la percezione di Israele come potenza occupante, che merita di essere boicottata, non accettata.

  • Romana Rubeo, scrittrice italiana, ha contribuito a questo articolo.


Il Dr. Ramzy Barud scrive di Medio Oriente da oltre vent’anni. Editorialista di livello internazionale, esperto in comunicazione, è autore di diversi libri e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è ”My father was a freedom fighter: Gaza’s Untold Story (Pluto Press, Londra). Sito web: ramzybaroud.net

(Traduzione di Elena Bellini)

 

 




Perché i palestinesi combattono: la logica della vita e della morte a Gaza

Aspettarsi che Gaza non resista è un invito a Israele perché completi l’umiliazione del popolo palestinese, per utilizzare la Striscia per guadagni di carattere economico e per trasformare uomini, donne e bambini in manodopera a basso costo, che cerca di sbarcare il lunario garantendosi solo la sopravvivenza.

 – Nenanews

di Ramzi Baroud – Counterpunch

Si sta preparando un altro scontro tra Israele e il movimento di resistenza palestinese Hamas a proposito della liberazione di Avraham Mengitsu, un cittadino israeliano che, secondo fonti militari israeliane, “è entrato a Gaza” il 7 settembre 2014. Le circostanze dell’ingresso di Menghitsu a Gaza rimangono dubbie, soprattutto da quando il leader politico di Hamas Khaled Meshaal ha negato che l’ala militare di Hamas stia tenendo in ostaggio il cittadino israeliano.

Secondo il ministero della Difesa israeliano anche un altro israeliano è stato sequestrato a Gaza. Un divieto di parlare della sparizione di Mengitsu è appena stato revocato, ma un altro rimane in vigore a proposito dell’altro, supposto, detenuto israeliano. Secondo fonti ufficiali israeliane negoziati indiretti per il loro rilascio devono ancora iniziare. Per Hamas, che, secondo Meshaal, è stata contattata da Israele tramite interlocutori europei, nessuna discussione sarà possibile finché Israele non avrà liberato 71 palestinesi. Si tratta del numero di palestinesi che sono stati nuovamente arrestati poco dopo essere stati liberati nel 2011 in seguito allo scambio di prigionieri tra Hamas e Israele. All’epoca, uno scambio di prigionieri ha permesso la liberazione di 1.027 palestinesi (477 dei quali considerati membri di Hamas) e di Gilad Shalit, un soldato israeliano, catturato e tenuto prigioniero da combattenti di Hamas per 5 anni. La nuova prospettiva di negoziati permetterà ad Hamas di sollevare la questione della violazione dell’ultimo accordo per lo scambio di prigionieri da parte di Israele. Poiché ha arrestato di nuovo dei prigionieri liberati, il futuro accordo con Israele apparirebbe poco serio e come una misura temporanea per garantire gli immediati interessi di Israele, senza un totale e incondizionato impegno rispetto alla libertà dei prigionieri palestinesi appena liberati. Siccome il potere occupante ha accesso illimitato ai Territori Occupati palestinesi a Gerusalemme e in Cisgiordania, Israele può arrestare qualunque palestinese accusato di “terrorismo”, senza prove e senza un serio e giusto procedimento. Gli sforzi israeliani di stroncare qualunque forma di resistenza, armata o di qualunque altro genere, è ampiamente appoggiato dall’Autorità Nazionale Palestinese, i cui scagnozzi degli apparati di sicurezza sono totalmente addestrati ed equipaggiati per schiacciare ogni forma di dissenso in Cisgiordania. Una recente retata di arresti, che ha preso di mira principalmente simpatizzanti di Hamas ed altre voci dell’opposizione, ne è l’ultima prova. Molti scettici hanno messo in dubbio lo scambio di prigionieri del 2011. Qualcuno ha chiesto: “Che senso ha garantire la liberazione di centinaia di prigionieri se questi possono essere arrestati di nuovo da Israele quando gli pare?” I palestinesi si trovano a dover affrontare lo stesso dilemma di ogni movimento di liberazione moderno. Anche i nativi americani hanno dovuto fare i conti con lo stesso dilemma di fronte al genocidio e alla distruzione. Un intellettuale con le migliori intenzioni recentemente mi ha detto che i palestinesi dovrebbero lasciare le armi, smantellare le loro istituzioni e permettere a Israele di occupare Gaza, il che a sua volta metterebbe in chiaro che Israele deve rispettare le regole che riguardano i territori occupati. Ma Israele ha accolto gli impegni della Quarta Convenzione di Ginevra o qualunque altra legge internazionale riguardo ai diritti di una nazione occupata? Israele sta violando più risoluzioni dell’assemblea generale e del Consiglio di sicurezza ONU di qualunque altra nazione sulla terra, e preoccuparsi delle questioni relative alla popolazione civile occupata non è mai stata una priorità israeliana. La guerra di Israele contro Gaza di un anno fa ha causato più devastazioni che qualunque altra guerra in passato. Un rapporto dell’ONU recentemente pubblicato, mentre ha condannato Israele, ha anche denunciato i palestinesi per aver preso di mira i civili. Benché ci si aspettasse che il rapporto avrebbe condannato il lancio casuale di razzi artigianali su aree civili, la narrazione, nel suo complesso, mette sullo stesso piano Israele, un potente aggressore e occupante, e i palestinesi, che sono in una costante condizione di autodifesa. Eccetto il rapporto dell’ONU, insieme a pochi altri, così come il timido tentativo da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese di chiedere il coinvolgimento della Corte Penale Internazionale (CPI) per indagare sui crimini di guerra israeliani, ben poco è cambiato a Gaza. Le sofferenze abbondano, un aiuto insufficiente riesce ad entrare permettendo alla gente soltanto di sopravvivere, la ricostruzione è molto ridotta, i blackouts elettrici sono lunghi e frequenti, e l’assedio rimane in piedi, più feroce che mai. Oltretutto l’agenzia di aiuto dell’ONU, UNRWA, che si occupa del benessere dei palestinesi, ha un passivo di 101 milioni di dollari, e pochissimi donatori offrono fondi per salvarla. Il ragionamento vano, secondo cui “il mondo non sarebbe rimasto inerme a guardare la guerra israeliana di 51 giorni contro Gaza” (la cosiddetta operazione “Margine protettivo”), era solo quello, un ragionamento vano, simile a alla pia illusione che è seguita alla cosiddetta operazione “Piombo fuso” del 2008-09. Il prezzo di morte tra i palestinesi nelle due guerre è stato di 4.000 persone , per la maggior parte civili, un gran numero dei quali bambini. Ma le sofferenze, naturalmente, vanno oltre i 4.000 morti e il lutto delle loro famiglie, poiché decine di migliaia sono stati feriti o mutilati, le già misere infrastrutture della Striscia sono state distrutte e il trauma collettivo è senza precedenti. La giustificazione di Israele, secondo cui questa azione è stata motivata dalla necessità di proteggere i civili nelle zone di confine è quanto meno fragile, in quanto i 69 o 73 israeliani uccisi durante l’ultima guerra erano soldati, che sono stati uccisi mentre erano impegnati ad invadere la Striscia assediata. Ma è vero che, se i palestinesi non avessero resistito, Israele non avrebbe utilizzato così tanto potere di fuoco? E avrebbe forse trattato un po’ meglio i palestinesi? La resistenza armata ha raggiunto il suo minimo in Cisgiordania e a Gerusalemme, dove si trova la maggior parte dell’esercito israeliano e dove le colonie ebraiche, illegali e fortificate, sono in costante espansione. Persino chi lancia pietre e dimostranti disarmati vengono regolarmente uccisi e feriti dall’esercito e dai coloni ebraici. E mentre l’Autorità Nazionale Palestinese sta giocando un ruolo cruciale nel controllo della popolazione, Israele sta accumulando ricchezze grazie all’occupazione. Quella israeliana in Cisgiordania non solo è l’occupazione meno onerosa tra tutte quelle illegali in tempi moderni, è anche la più conveniente. Aspettarsi che Gaza non resista è un invito ad Israele per completare la sua umiliazione del popolo palestinese, per utilizzare la Striscia per ricavarne benefici economici (per esempio, il gas naturale sulle coste e impianti balneari segregati su base razziale, ecc.) e trasformare i suoi uomini, donne e bambini in manodopera a buon mercato, alla ricerca di un modo per sopravvivere. In effetti, così è stato per parecchi anni, dal 1967 fino al cosiddetto disimpegno nel 2005. Il fallimento della comunità internazionale nell’agire dopo l’ultimo episodio dei massacri a Gaza significa che i palestinesi sono soli, almeno per il momento. I loro fratelli arabi sono presi dalle loro disgrazie, o stanno apertamente tramando contro la sottile ma risoluta Striscia. Per cui, anche se i conti della resistenza non tornano -che si tratti di uno scambio di prigionieri non garantito o di un terrificante bilancio di morti – i palestinesi di Gaza continueranno a resistere. I loro “fedayn” (combattenti per la libertà) hanno fatto così, dalla sua nascita nel 1948 fino all’attuale generazione, che rimane vigile sui confini nel 2015. Non si tratta di una questione di strategia, ma un atto dominato da una semplice logica che essi seguono: o una vita dignitosa o una morte onorevole.

Il dottor Ramzy Baroud ha scritto per 20 anni sul Medio Oriente. E’ un editorialista quotato a livello internazionale, un consulente dei media, autore di parecchi libri e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo lavoro è “Mio padre era un combattente per la libertà: la storia non raccontata di Gaza (Pluto Press, London)”. Il suo sito web è: ramzybaroud.net .

(traduzione di Amedeo Rossi)