Come la guerra di propaganda israeliana riduce l’Europa al silenzio

Gideon Levy

6 luglio 2020 – Middle East Eye

l diluvio di accuse esagerate di antisemitismo, a volte senza alcun fondamento, si è rivelato di dubbia efficacia.

La Segretaria di Stato all’Educazione del governo ombra del partito laburista britannico, Rebecca Long-Bailey, è stata recentemente dimissionata per aver diffuso sulle reti sociali un articolo in cui affermava, tra le altre cose, che Israele aveva addestrato la polizia americana ad utilizzare la tecnica del soffocamento consistente nel premere un ginocchio sul collo, praticata su George Floyd [afroamericano ucciso per soffocamento dalla polizia di Minneapolis, la cui morte ha dato inizio a molte proteste negli USA e nel mondo, ndtr.].

Nelle ultime settimane questa affermazione è circolata ampiamente nell’ambito della sinistra mondiale. Il segretario del partito Laburista inglese Keir Starmer ha accusato Long-Bailey di aver postato un articolo contenente una “teoria cospirazionista antisemita”. Evidentemente dopo le dimissioni di Jeremy Corbin il vento del cambiamento ha soffiato sul partito laburista britannico– e questo cambiamento non prelude a niente di buono. 

Osare criticare Israele

Il 25 giugno Middle East Eye ha pubblicato delle informazioni contenute nell’articolo in discussione sottoponendole a ‘fact-checking’ [verifica dei fatti, ndtr.]. L’accusa secondo cui Israele ha insegnato alla polizia americana il metodo di soffocamento che ha causato la morte di Floyd è infondata. Da decenni la polizia degli Stati Uniti ha il grilletto terribilmente facile quando sono coinvolti dei cittadini neri – ben prima che lo Stato d’Israele e la sua polizia venissero creati.

La polizia americana non ha certo bisogno della consulenza israeliana per essere capace di uccidere in gran numero civili neri innocenti.

Resta il fatto che l’inquietante velocità con cui Long-Bailey è stata sostituita nel governo ombra dovrebbe preoccupare i partigiani dei diritti umani ben più della credibilità di qualunque articolo che lei ha condiviso su internet. Long-Bailey è stata silurata per il solo motivo che ha osato condividere un articolo che criticava Israele, non perché ha osato pubblicare un articolo carente di basi fattuali.

Starmer non si preoccupa certo allo stesso modo dell’attendibilità degli articoli diffusi dai membri del suo partito. Si inquieta di più per l’immagine antisemita, non sempre giustificata, che si affibbia al suo partito.

Anche se le accuse dell’articolo fossero state inventate e senza alcun fondamento, resta molto improbabile che Long-Bailey sarebbe stata liquidata in questo modo se avesse postato false accuse contro qualunque altro Paese al mondo. In Europa, quando si tratta di critiche a Israele, le regole del gioco sono diverse. C’è Israele da una parte e il resto del mondo dall’altra.

Efficace propaganda sionista

In questi ultimi anni la propaganda israeliana è stata coronata da buon esito in Europa. Il licenziamento di Long-Bailey è solo un successo tra tanti altri. Ultimamente, sotto la direzione di un Ministero degli Affari Strategici relativamente nuovo nel governo israeliano – e con la cooperazione dell’establishment sionista nel resto del mondo – la propaganda sionista ha adottato una nuova strategia, che si rivela di un’efficacia senza precedenti.

Israele e l’establishment sionista in molti Paesi hanno iniziato a definire come antisemita ogni critica a Israele. Questo ha ridotto al silenzio gli europei. I propagandisti di Israele sfruttano cinicamente il senso di colpa dell’Europa che permane ancora riguardo al passato, spesso a ragione – e le accuse hanno raggiunto il proprio obbiettivo.

Continua ad essere difficile criticare Israele, l’occupazione, i crimini di guerra che l’accompagnano, le violazioni del diritto internazionale o il trattamento dei palestinesi da parte di Israele; tutto questo è etichettato come antisemitismo e sparisce immediatamente dal dibattito. Oltre a questa campagna di catalogazione, la maggior parte delle Nazioni occidentali, in particolare gli Stati Uniti, hanno adottato delle leggi che mirano a dichiarare guerra al movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) – del tutto legittimo -, tentativo che ha lo scopo di penalizzare le sue attività e i suoi attivisti.

È incredibile che questa lotta contro un’occupazione e la sua infrastruttura legale sia oggetto di una delegittimazione e di una criminalizzazione intense. Provate a immaginare se un altro tipo di lotta condotta, per esempio, contro le fabbriche dove si sfrutta la miseria nel sud-est asiatico, contro la produzione di carne su scala industriale o i grandi campi di concentramento in Cina, fosse definita “criminale” in Occidente. Difficile da immaginare.

Eppure la lotta contro l’apartheid israeliana – e non c’è lotta più incontestabilmente morale – oggi è considerata criminale. Al di là del coronavirus, provate oggi a prenotare un grande spazio pubblico da qualche parte in Europa per un evento di solidarietà con i palestinesi. Provate a pubblicare un articolo contro l’occupazione israeliana sugli organi di stampa tradizionali. L’occhiuta macchina della propaganda israeliana vi scoverà immediatamente, vi accuserà di antisemitismo e vi ridurrà al silenzio.

Sostenere la libertà di espressione

Ridurre al silenzio: non c’è un’altra espressione per descrivere la situazione. Ciò significa che questo problema non può riguardare solo coloro che si occupano della causa palestinese, deve diventare una preoccupazione urgente per chiunque sostenga la libertà di espressione.

Israele non potrà certo beneficiare a lungo della sua campagna aggressiva, quasi violenta, che potrebbe ritorcersi sia contro lo Stato israeliano che contro gli ebrei in generale, suscitando l’opposizione, addirittura la repulsione, tra i sostenitori della libertà di espressione. Per una ragione sconosciuta ciò non si è – ancora – verificato, l’Europa ha piegato la testa e si è arresa senza condizioni di fronte a questa pioggia di accuse eccessive di antisemitismo, a volte del tutto infondate. L’Europa è stata ridotta al silenzio.

Sicuramente bisogna combattere l’antisemitismo. Esso esiste, continua a mostrare i denti, riaccende i ricordi del passato. Ma la critica necessaria e legittima dell’occupazione israeliana o anche del sionismo non può essere associata all’antisemitismo.

Se Israele compie crimini di guerra bisogna opporvisi e condannarli. È più che un diritto; è un dovere. Come accidenti potrebbe trattarsi di antisemitismo? Come ha fatto una lotta di coscienza a diventare un tabù?

Se Israele evoca l’annessione di territori occupati e la trasformazione di Israele in uno Stato di apartheid non solo de facto, ma de jure, è un dovere opporvisi e denunciare le intenzioni di Israele. Se Israele bombarda i civili indifesi a Gaza, come si fa a non opporsi? Tuttavia questo è diventato quasi impossibile in Europa e negli Stati Uniti.

Confusione sistemica

Ormai da quasi un secolo i palestinesi sono privati del loro Paese. In questi ultimi 53 anni hanno anche vissuto sotto occupazione militare senza diritti, senza un presente né un futuro, le loro terre violate e la loro libertà annientata, la loro vita e la loro dignità considerate senza valore – e improvvisamente la lotta contro tutto questo viene proibita.

Vi è una confusione sistemica sconcertante: l’occupante ha il diritto di difendersi e chiunque lotti contro l’occupazione si trova tra gli accusati. Invece di denunciare l’occupazione israeliana, di attaccarla e infine cominciare a farle pagare un costo sanzionando il Paese responsabile – cosa che l’Europa ha fatto molto giustamente nei giorni seguenti l’annessione della Crimea da parte della Russia -, invece di definire apartheid l’apartheid israeliana, perché non vi è altra parola per descriverla, i suoi detrattori sono ridotti al silenzio.

È disgustoso, immorale e ingiusto. L’Europa non può, e non deve, continuare a restare in silenzio riguardo a questo, anche se il prezzo da pagare è di essere definiti antisemiti.

Queste accuse non devono continuare a ridurre al silenzio l’Europa. Gli ebrei e i sionisti israeliani formulano false accuse, e allora?

Long-Bailey ha condiviso un articolo online, che forse non meritava di essere diffuso. Dimissionarla è un problema ben più grave.

Gideon Levy è un giornalista e membro del comitato di redazione del quotidiano Haaretz. E’entrato a Haaretz nel 1982 ed è stato per quattro anni vice caporedattore del giornale. Ha vinto il premio Euro-Med Journalist nel 2008, il premio Leipzig Freedom nel 2001, il premio Israeli Journalists’Union [Unione dei Giornalisti Israeliani] nel 1997 ed il premio dell’Associazione dei Diritti Umani di Israele nel 1996. Il suo ultimo libro, ‘La punizione di Gaza’, è stato pubblicato dalle edizioni Verso nel 2010.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solo l’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Per chi critica Michelle Alexander, i palestinesi non meritano diritti civili

Amjad Iraqi

23 gennaio 2019, +972

Lo scandalo da parte di personaggi dell’establishment ebraico in merito all’editoriale di Alexander sul New York Times a sostegno dei diritti dei palestinesi ricorda le reazioni degli americani bianchi al movimento per i diritti civili decenni fa.

Il forte editoriale di Michelle Alexander sul “New York Times” di sabato (“E’ tempo di rompere il silenzio sulla Palestina”) prima del giorno della commemorazione di Martin Luther King Jr., è stato presumibilmente una pietra miliare per il movimento per la Palestina negli USA.

Primo, per chi l’ha scritto: Alexander, l’autrice del fondamentale libro “The New Jim Crow” [in riferimento alle leggi segregazioniste nel Sud degli Stati Uniti, ndtr.] è un’illustre avvocatessa e un’intellettuale stimata per il suo attivismo e la sua erudizione sul razzismo negli USA, che non può facilmente essere liquidata come “marginale”.

Secondo, per dove è stato scritto: in un importantissimo giornale, che ospita più frequentemente editoriali di sostenitori di Israele come Bari Weiss, Matti Friedman, Bret Stephens, Shmuel Rosner, persino ministri come Naftali Bennett [attuale ministro dell’Educazione di Israele e dirigente del partito di estrema destra dei coloni, ndtr.].

Terzo, per quando è stato scritto: Alexander è l’ultima importante afro-americana negli ultimi mesi ad aver espresso a voce – e ad essere presa di mira per questo – la sua solidarietà con il popolo palestinese, dopo che altri, come Tamika Mallory [attivista della Marcia delle Donne, ndtr.], Marc Lamont Hill [accademico, scrittore, attivista e personaggio televisivo, ndtr] e Angela Davis [storica dirigente del movimento per i diritti degli afro-americani e accademica, ndtr], hanno affrontato pubblicamente insulti e sconfessioni.

E quarto, perché è stato scritto: per sfidare il diffuso timore delle conseguenze, da parte di molti americani progressisti, di criticare pubblicamente Israele e parlare a favore dei diritti dei palestinesi.

Lo scandalo per l’editoriale di Alexander è arrivato rapidamente da gruppi e personalità dell’establishment ebraico. Alcuni di essi vale la pena leggerli per intero, se non altro per testimoniare l’isteria e la chutzpah [termine hiddish per arroganza, ndtr], di dire a una donna nera come commemorare uno dei più importanti leader afro-americani della storia, o come interpretare la sua consapevolezza dell’ingiustizia:

  • L’Anti-Defamation League [Lega contro la Diffamazione, uno dei principali gruppi della lobby filoisraeliana negli USA, ndtr.] (ADL): “Abbiamo un grande rispetto per Michelle Alexander e per il suo lavoro innovativo sui diritti civili, ma il suo articolo sul complesso conflitto israelo-palestinese è pericolosamente errato, ignora avvenimenti fondamentali, la storia e le responsabilità condivise di entrambe le parti per la sua soluzione.”

  • L’American Jewish Congress [Congresso Ebraico Americano, altro potente gruppo filo-israeliano, ndtr.] (AJC): “La memoria di Martin Luther King non è una clava morale da brandire contro ogni causa o Paese che uno disapprova. L’editoriale di Michelle Alexander è una vergognosa usurpazione. Tutti noi abbiamo da fare un lungo cammino per raggiungere la cima della collina [riferimento al famoso discorso di Martin Luther King “Ho un sogno”, ndtr.]. Non c’è bisogno di prendersela con il democratico Israele.”

  • David Harris, presidente dell’AJC: “L’articolo di Michelle Alexander: in sintesi chiede la fine di Israele/ cita con approvazione gli estremisti/ invoca l’appoggio di Martin Luther King senza basi concrete/ ignora: la ricerca della pace da parte di Israele dal ’48; la natura di Hamas; il terrorismo; i rifugiati ebrei dai Paesi arabi.”

  • David Friedman, ambasciatore USA in Israele. “Michelle Alexander ha torto sul NYT di oggi. Se Martin Luther King oggi fosse vivo penso che sarebbe molto orgoglioso del suo solido appoggio allo Stato di Israele. Un arabo in Medio Oriente che sia gay, donna, cristiano o desideri istruzione e miglioramento personale non potrebbe fare niente di meglio che vivere sotto (la bandiera israeliana).”

  • Michael Oren, deputato alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] di Kulanu [partito di centro israeliano, ndtr.] ed ex-ambasciatore israeliano negli USA: “L’ambasciatore Friedman ha ragione, ma Israele deve intraprendere passi seri per difendersi. Mettendo sullo stesso piano l’appoggio nei confronti di Israele con quello alla guerra del Vietnam e l’opposizione a Martin Luther King Alexander ci delegittimizza pericolosamente. È una minaccia strategica e Israele deve trattarla come tale.”

Prevedibilmente queste personalità dell’establishment stanno cercando di potenziare i parametri del discorso “accettabile” sul conflitto. Per quanto li riguarda, non esiste alcuna posizione eticamente legittima a sostegno dei diritti dei palestinesi. L’unica cosa che i palestinesi producono sono razzi e razzismo, chiunque sia associato alla loro causa è in errore o è antisemita.

È particolarmente ironico che quelli che accusano Alexander di manipolare l’eredità di King sono anche noti per sostenere, tra le altre cose, che utilizzare tattiche non violente come il boicottaggio contro Israele è razzista, discriminatorio, provocatore, e/o dannoso. King, e il movimento dei diritti civili nel suo complesso, vennero accusati delle stesse cose durante le loro campagne di disobbedienza civile negli anni ’50 e ’60.

Come ha raccontato Jeanne Theoharis sul “Time” [importante periodico USA, ndtr.] di questo mese, il governo USA, l’FBI e le forze di polizia locali utilizzarono una pesante sorveglianza, la forza brutale e denunce penali per sabotare King e altri dirigenti neri, vedendo le loro attività come “pericolose”, “demagogiche” e “sovversive”. Dati di sondaggi e risposte ai media dell’epoca mostrano ulteriormente che, lungi dall’essere rispettato, il movimento dei Diritti Civili era di fatto “profondamente impopolare” tra la maggioranza dei bianchi americani sia nel Sud che nel Nord:

La maggioranza degli americani pensava che esso (il movimento) stesse andando troppo lontano e gli attivisti del movimento stessero diventando troppo estremisti. Alcuni pensavano che i loro obiettivi fossero sbagliati; altri che gli attivisti stessero prendendo la strada sbagliata – e la maggioranza dei bianchi americani era soddisfatta dello status quo così com’era. E quindi, criticavano, controllavano, demonizzavano e a volte criminalizzavano quelli che sfidavano il modo in cui stavano le cose, rendendo il dissenso molto oneroso.”

Ciò descrive precisamente le condizioni del movimento per la Palestina di oggi. Non solo nel discorso pubblico americano le richieste di diritti per i palestinesi sono spesso viste come estremiste (soprattutto il diritto al ritorno), ma l’opposizione alle politiche israeliane deve affrontare una struttura politica e legale aggressiva finalizzata a reprimerla. Questo include le nuove leggi federali e statali che hanno lo scopo di criminalizzare il movimento BDS e di confondere le critiche ad Israele con l’antisemitismo.

Inoltre il fatto di descrivere frequentemente Israele come una vittima dell’oppressione palestinese, o che entrambe le parti condividano alla pari le responsabilità è un inganno che nasconde l’evidente asimmetria del conflitto. Spiegando perché era disonesto dire ai neri americani di fare di più per superare la diseguaglianza a loro danno, una volta King disse a un giornalista: “È una beffa crudele dire a un uomo senza scarpe che deve risollevarsi da solo con le sue forze.” È in mala fede proprio come dire che i palestinesi hanno da rimboccarsi le maniche mentre sono sottoposti all’esilio, all’occupazione, al blocco, alla discriminazione e alla repressione del dissenso.

Come ha notato Alexander, all’epoca King era un sostenitore esplicito di Israele e del sionismo. Tuttavia divenne sempre più difficile per lui conciliare quella posizione con i valori universali che propugnava. Oggi è persino ancora più chiaro che il fatto di credere nella giustizia, nell’uguaglianza e nel risarcimento per i popoli oppressi – richieste che sono al cuore della causa palestinese – sia all’antitesi dell’obiettivo di Israele di conservare la superiorità ebraica e della sua visione della non violenza palestinese come equivalente alla violenza.

È questa consapevolezza che ha portato oggi molti attivisti afro-americani – che hanno seguito, si sono basati sulla e trasformato l’eredità di King – a includere i diritti dei palestinesi nella loro lotta per la giustizia globale. Come ha scritto Alexander, le pratiche israeliane sono diventate inevitabilmente “un richiamo all’apartheid in Sud Africa e alla segregazione “Jim Crow” negli Stati Uniti,” e come tali richiedono che i progressisti siano coerenti con i valori che affermano di sostenere. Il fatto che una persona come Alexander abbia aggiunto la sua voce a questo crescente movimento potrebbe ulteriormente allargare la porta perché altri facciano lo stesso.

Benché sia impossibile sapere quello che King avrebbe creduto oggi, si può immaginare che sarebbe rimasto sconcertato da quanto siano simili le reazioni alla causa palestinese a quelle degli americani bianchi alla sua causa. Nonostante quanto sostengono i critici di Alexander, il vero tradimento dell’eredità di King è pensare che i palestinesi debbano rimanere sottomessi alle pretese suprematiste di Israele, come se non meritassero gli stessi diritti per i quali King lottò affinché li ottenesse il suo stesso popolo.

(traduzione di Amedeo Rossi)