Israele non può più nascondere le prove della sua occupazione

Zena Agha

3 agosto 2020 – Foreign Policy

Per più di 20 anni un’oscura legge USA ha tenuto nascoste le immagini satellitari delle attività di Israele nei territori occupati. In seguito a un brusco capovolgimento, la tecnologia satellitare ora può essere utilizzata per difendere i diritti umani dei palestinesi.

Negli ultimi 20 anni c’è stato un generale, e per lo più indiscusso, accordo in base al quale le immagini satellitari dei territori israeliani, palestinesi e siriani occupati da Israele rimanessero riservate. Ciò in seguito a una normativa USA del 1996, nota come il Kyl-Bingaman Amendment [Emendamento Kyl-Bingaman] (KBA), che ha limitato la qualità e la disponibilità di immagini satellitari ad alta risoluzione fornite da imprese USA che riguardano Israele (e, per implicita estensione, i territori palestinesi e delle Alture del Golan occupati). Il risultato è che immagini disponibili a tutti su piattaforme come Google Earth sono state deliberatamente sgranate e sfuocate.

Il 25 giugno, in seguito a due anni di forti pressioni da parte delle istituzioni accademiche e della società civile, il KBA, composto da 97 parole, è stato inaspettatamente modificato, rendendo legalmente accessibili e facilmente disponibili a tutti immagini satellitari ad alta risoluzione. La notizia, benché positiva, solleva alcune domande: in primo luogo, quali sono stati gli effetti del KBA? Secondo, dato che nei 24 anni da quando esso è stato approvato le immagini satellitari sono migliorate in modo significativo sia come scala che definizione, perché ci è voluto così tanto per questa modifica?

Il KBA è stato un sottoprodotto della fine della Guerra Fredda, quando l’industria delle immagini satellitari era ancora agli inizi. Il presidente Bill Clinton cercò di rimettere mano alla tecnologia utilizzata in precedenza per lo spionaggio a favore di un suo uso commerciale più ampio. Si attivò anche per declassificare immagini dei satelliti spia USA degli anni ‘60 e ’70.

La combinazione di attività commerciali e declassificazione fece suonare un campanello d’ allarme in alcuni ambienti. Israele, spinto dalla volontà di segretezza della Guerra Fredda, fece pressione sul Congresso per una regolamentazione più stringente, che portò all’approvazione del KBA: l’unica censura del governo USA sulle immagini di qualunque parte del mondo.

La legge, messa in atto con il pretesto di proteggere la sicurezza nazionale di Israele, fu in effetti più che altro un atto di censura. Dopotutto, immagini satellitari ad alta risoluzione consentono ai ricercatori di comprendere, identificare e documentare i cambiamenti del territorio. La National Oceanic and Atmospheric Administration [Amministrazione Nazionale degli Oceani e dell’Atmosfera] (NOAA) all’interno del Dipartimento del Commercio USA è responsabile di mettere in pratica le norme riguardanti il rilevamento a distanza. Dato che il KBA non specificava la definizione consentita, la norma venne fissata a 2 metri per pixel.

Al contrario, le immagini commerciali disponibili oggi sono più frequentemente tra i 0,25 e i 0,6 metri per pixel. È la differenza tra vedere il contorno complessivo di un grande edificio e poter vedere i singoli veicoli parcheggiati all’esterno. Entro il limite di 2 metri è possibile identificare sostanziali cambiamenti nell’uso del territorio (per esempio, gli edifici di colonie delle dimensioni di una città oppure la distruzione con i bulldozer di strutture palestinesi), ma cambiamenti meno percettibili, come la crescita di un avamposto di una colonia o piccole installazioni militari, sono più difficili da individuare. Per 24 anni la legge ha oscurato i dannosi effetti dell’occupazione israeliana nascondendoli letteralmente alla vista.

La censura su Israele e i territori occupati ha avuto implicazioni negative dal punto di vista archeologico, geografico e umanitario. Presumibilmente i più eclatanti sono stati gli effetti sul monitoraggio della pluridecennale occupazione israeliana, compresa la documentazione della demolizione di case, di dispute territoriali e della crescita delle colonie. Le immagini a bassa risoluzione hanno impedito i tentativi di bloccare e verificare violazioni dei diritti umani, soprattutto in zone difficili da raggiungere come la Striscia di Gaza, che è sotto assedio dal 2007. Per esempio, immagini satellitari ad alta risoluzione potrebbero essere utilizzate da gruppi di ricercatori come “Forensic Architecture” [organizzazione di architetti che monitora le violazioni dei diritti umani in Palestina e altrove, ndtr.], per identificare il punto esatto da cui è stato sparato un colpo letale contro manifestanti disarmati.

Benché la legge KBA si applicasse solo alle imprese USA, i maggiori attori sul mercato globale – imprese come Maxar e Planet, e punti di accesso libero in rete come Google e Bing – sono americani. Anche se negli anni 2010 imprese straniere hanno iniziato a produrre immagini ad alta definizione, la predominanza USA ha comportato che, in realtà, il KBA di fatto è stato applicato su scala globale.

Nonostante esempi di resistenza silenziosa nel corso degli anni al limite di due metri da parte di giganti della tecnologia come Google Earth e Bing Maps, così come richieste di cancellazione del KBA, ci sono stati fino a poco tempo fa pochi tentativi di modifica. La censura sulle immagini satellitari di Israele e dei territori occupati è diventata una di quelle eccezioni apparentemente immutabili che caratterizzano il conflitto israelo-palestinese.

Il KBA ha avuto anche un impatto negativo sulla ricerca scientifica. Le immagini satellitari sono uno strumento fondamentale di controllo e monitoraggio, e immagini a bassa risoluzione non hanno il livello di dettaglio necessario per una disciplina come l’archeologia per rilevare le modifiche a siti archeologici o scavi da parte di ladri. Allo stesso modo analisi di cambiamenti climatici spesso si basano su dati derivati da immagini satellitari, che non sono state disponibili nonostante i pericoli posti alla regione dai cambiamenti climatici.

Presi insieme questi effetti rappresentano una zona d’ombra deliberata creata dal KBA, che ha direttamente impedito l’insostituibile lavoro di ricercatori, accademici e operatori per i diritti umani.

Il KBA è stato generalmente vago, ma ha stabilito che le limitazioni sulle immagini satellitari su Israele si applicassero solo finché le immagini satellitari ad alta definizione non fossero facili da ottenere da imprese non statunitensi. Se aziende straniere avessero iniziato a rendere pubbliche immagini più dettagliate, le restrizioni imposte dal KBA alla risoluzione [delle immagini] sarebbero state modificate continuamente nel tempo perché corrispondessero alla qualità di quelle prodotte da imprese non statunitensi. Ma non è stato così.

Il problema è diventato evidente quando un certo numero di aziende non USA – a cominciare dalla francese Airbus nel 2011 – si sono messe a produrre e a vendere immagini satellitari ad alta risoluzione di Israele e dei territori occupati. Di fatto lo stesso Israele fornisce immagini aeree gratuite ad alta risoluzione dei territori che controlla, rendendo nel contempo inutile il KBA e contraddicendo l’affermazione secondo cui esso garantisse gli interessi della sicurezza nazionale di Israele.

Questi progressi hanno reso anacronistico e obsoleto il KBA per quasi un decennio. E benché esso avrebbe dovuto essere periodicamente rinnovato, non c’è stata alcuna revisione formale fino al 2017, con il risultato che la tecnologia ha superato la politica e le imprese USA sono state svantaggiate.

Questa contraddizione sta al cuore della richiesta di annullare il KBA. Gli archeologi dell’università di Oxford che hanno identificato questa mancata modifica, Michael Fradley e il defunto Andrea Zerbini, nel 2018 hanno pubblicato un documento rivoluzionario chiedendo la sua modifica.

Le loro ricerche hanno esplicitamente dimostrato che esso è obsoleto, dato che una serie di imprese non statunitensi hanno prodotto immagini che avrebbero dovuto provocare la riforma e la ridefinizione dei limiti della legge.

Questi dati hanno portato a una pressione durata due anni sulla NOAA, sul dipartimento del Commercio e sul Congresso. La richiesta era semplice: consentire alle imprese USA di produrre e distribuire immagini ad alta risoluzione di Israele e dei territori palestinesi occupati oppure dichiarare superato il KBA.

Poi, improvvisamente, durante la riunione dell’Advisory Council of Commercial Remote Sensing [Comitato Consultivo del Rilevamento Commerciale a Distanza] alla fine di giugno, è stato annunciato che la NOAA aveva finalmente riconosciuto che da parte di fonti non statunitensi erano disponibili immagini con una risoluzione maggiore ai due metri per pixel, fino ad una risoluzione massima di 0,4 metri per pixel, che sarebbe diventata il nuovo punto di riferimento per le restrizioni; quando alla fine di quest’anno Airbus lancerà la sua nuova generazione di satelliti, potrebbe essere richiesto alla NOAA di scendere fino a 0,3 metri.

Le implicazioni di questo cambiamento sono ad ampio raggio. Quella più evidente è che le imprese tecnologiche USA saranno più competitive rispetto a quelle straniere. Da un punto di vista scientifico, la riforma darà come risultato un significativo miglioramento delle possibilità di monitorare da remoto questa regione fragile dal punto di vista ambientale. Riguardo ai mutamenti climatici, le immagini ad alta definizione consentiranno il rilevamento più accurato di cambiamenti della vegetazione, delle condizioni delle coltivazioni, dell’ulteriore diffusione della desertificazione (un impatto fondamentale del cambiamento climatico nella regione), mutamenti nella distribuzione delle acque, l’abuso di fertilizzanti e le discariche inquinanti – modificazioni che sono notevolmente più difficili da individuare e registrare con immagini satellitari a bassa risoluzione. Per discipline come l’archeologia ciò contribuirà a identificare siti e monitorare i danni.

Significativamente il cambiamento potenzia le associazioni per i diritti umani che lavorano per rendere responsabile Israele delle sue violazioni del diritto internazionale, comprese le uccisioni illegali e la costruzione di colonie (che, in base alla Quarta Convenzione di Ginevra, costituisce un crimine di guerra). Forse è per questa ragione che la cancellazione del KBA ha già provocato qualche inquietudine negli ambienti militari israeliani. Essa ha anche ripercussioni geopolitiche. Le immagini satellitari delle zone di confine di Giordania, Siria, Libano ed Egitto sono state finora sia poco definite che scarsamente rilevate (con molti operatori prudenti nel riprendere qualunque parte del territorio israeliano). Il cambiamento legislativo fornirà immagini non censurate di quelle zone e consentirà che vengano controllate e indagate, soprattutto riguardo a problemi ambientali come lo sfruttamento idrico.

Infine, in prospettiva della giustizia storica e della responsabilizzazione, immagini non censurate e ad alta definizione consentono ai palestinesi di elencare accuratamente i resti dei villaggi e cittadine distrutti durante gli avvenimenti del 1948 e successivi. Il potere di democratizzazione della riforma consentirà ai palestinesi di utilizzare la tecnologia per riscoprire un passato cancellato e per immaginare un futuro alternativo.

La riforma del KBA potrebbe aver vinto la battaglia sulla commercializzazione, ma la declassificazione rimane nel complesso una battaglia a sé. La prossima frontiera è garantire che vengano rese pubbliche al livello corretto di risoluzione le immagini satellitari di Israele e dei territori occupati archiviate – infatti fu in primo luogo un’immagine declassificata del reattore di Dimona (un’istallazione nucleare israeliana situata nel deserto del Negev) sui mezzi di informazione israeliani che innescò la spinta che portò al KBA. La declassificazione di fotografie della Palestina prese dall’aviazione britannica tra il 1944 e il 1948 ha già mostrato gli enormi cambiamenti del paesaggio da allora; immagini declassificate USA dell’ultima metà del XX secolo potrebbero rivelare molto di più.

Il ruolo che possono giocare le innovazioni tecnologiche nella protezione dei diritti umani deve ancora essere definito. Che controllino la persecuzione degli uiguri nei cosiddetti campi di rieducazione cinesi, la pulizia etnica dei rohingia e di altre minoranze in Myanmar o gli attacchi con i droni da parte degli USA in Somalia, le immagini satellitari sono state usate per molto tempo da gruppi di difesa internazionali, ricercatori, giornalisti e comuni cittadini per documentare e monitorare atrocità e crimini di guerra.

Lo stravolgimento del KBA dopo 24 anni ha messo tutti allo stesso livello e fornito uno strumento fondamentale a quanti lavorano per la libertà, la giustizia e l’uguaglianza. Tuttavia di per sé il monitoraggio può arrivare solo fino a un certo punto. Le immagini satellitari ad alta risoluzione rimangono un mezzo – non il risultato finale – perché si possa ottenere che i responsabili di violazioni ne paghino le conseguenze.

Zena Agha è una giornalista e politologa di Al-Shabaka, la rete politica palestinese.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




‘Un regime illegittimo’: un’importante organizzazione per i diritti umani svela i miti israeliani e riconosce l’esistenza dell’apartheid

Amjad Iraqi

9 luglio 2020 – +972 Magazine

Nel corso di un’intervista approfondita, Michael Sfard, avvocato per i diritti umani, spiega cosa abbia portato Yesh Din ad accusare Israele del crimine di apartheid in Cisgiordania

Vent’anni fa, quando Michael Sfard era un promettente avvocato per i diritti umani, si era energicamente opposto alla parola “apartheid” per descrivere il dominio militare di Israele su Cisgiordania e Striscia di Gaza. Sebbene fosse un critico feroce dell’occupazione che ha dedicato la carriera a difendere i diritti dei palestinesi, aveva detto a se stesso che “le parole contano,” e che l’occupazione, seppure profondamente ingiusta, era una struttura solo temporanea che poteva essere ribaltata con il contributo del diritto

Anni dopo, Sfard — ora un famoso avvocato — ha radicalmente cambiato opinione.

In quello che potrebbe passare alla storia come un momento significativo del dibattito pubblico israeliano, giovedì Yesh Din [“C’è la legge”, associazione israeliana che intende difendere i diritti dei palestinesi nei territori occupati, ndtr.], un’ONG per i diritti umani,   ha diffuso un dettagliato parere legale, stilato principalmente da Sfard, consulente legale dell’organizzazione, che afferma che l’occupazione della Cisgiordania da parte di Israele, che dura da 53 anni, costituisce un “regime di apartheid.”

Esaminandone lo sviluppo, dal dominio della minoranza bianca in Sudafrica alla sua definizione contenuta nello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, si asserisce che Israele sta commettendo il crimine internazionale di apartheid tramite “oppressione e dominazione sistematiche” di un gruppo su un altro nel territorio “con l’intenzione di mantenere quel regime.”

Yesh Din avrebbe detto fino ad ora che alcune politiche specifiche sono illegali o persino che sono crimini di guerra, ma adesso stiamo dicendo che il regime è illegittimo,” ha detto Sfard in un’intervista esclusiva a +972. Egli sostiene che lo scopo del parere giuridico “è di cambiare il dibattito interno in Israele e di non parlare più della nostra presenza in Cisgiordania come di un’occupazione temporanea, ma come di un crimine illegale.”

Anche se l’analisi si concentra principalmente sulla Cisgiordania, Yesh Din sottolinea che con ciò non esclude affatto la tesi secondo cui “il crimine di apartheid sia commesso solo in Cisgiordania. Che il regime israeliano nel suo complesso sia un regime di apartheid. Che Israele sia uno Stato in cui vige l’apartheid.”

Questo cambiamento radicale è rappresentativo di un’opinione che sta crescendo fra gli ebrei-israeliani critici di quello che i palestinesi hanno da tempo diagnosticato a proposito della loro oppressione. Sebbene la recente spinta del governo israeliano verso un’annessione formale abbia consolidato la discussione internazionale circa l’apartheid israeliano, Sfard dice che il parere legale fa parte di un processo più lungo per riconoscere che “la bestia che stiamo affrontando deve essere descritta per quello che è,” a prescindere dall’annessione.

L’intervista è stata modificata e abbreviata per renderla più chiara.

Cominciamo con delle domande ovvie: Perché adesso? Qual è stato il processo mentale che ha portato al parere giuridico?

Le mie riflessioni personali sull’argomento sono cominciate alcuni anni fa quando sono andato a New York per scrivere il mio libro [The Wall and the Gate: Israel, Palestine and the Legal Battle for Human Rights,  Metropolitan Books, 2018, ndtr.]. Una delle cose con cui mi trovavo alle prese era la sensazione che il paradigma di “occupazione” non potesse sostenere tutto il peso della realtà sul terreno. Anche se ovviamente esiste un’occupazione, e il concetto legale di occupazione belligerante spiega alcune delle cose che vediamo, c’è molto di più che non spiega.

Yesh Din opera in Cisgiordania da 15 anni e ha imparato a conoscere molto profondamente le caratteristiche del governo in quella zona in tutte le sue sfaccettature — il quadro giuridico, le politiche, le pratiche, le cose fatte ma non dette.

La nostra sensazione era che ci fosse bisogno di dare un nome alla ‘bestia’ che ci troviamo di fronte, che deve essere descritta per quello che è. L’apartheid come concetto giuridico è, per ragioni ovvie, la prima scelta, sebbene ci sia voluto un po’ prima che avessimo tempo e risorse per condurre l’analisi. Questa è una discussione che noi non abbiamo né iniziato né finito, ma è una voce in più che si spera dica cose che arricchiranno la discussione.

Personalmente, io ho sentito per la prima volta il concetto di “apartheid” in riferimento alla presenza israeliana in Cisgiordania, e al conflitto in generale, nei primi anni del 2000 durante la Seconda Intifada e la costruzione del muro di separazione. Devo dire che la mia reazione iniziale è stata di totale opposizione all’uso della parola — non ogni omicidio è un genocidio e non ogni discriminazione istituzionale è apartheid.

Ma nel mio intimo non ero così sicuro di me: l’attrazione verso l’uso del concetto mi tormentava. Così ho iniziato a studiare l’apartheid nei suoi diversi aspetti, incluso quello legale, e a visitare il Sudafrica. 

Yesh Din sembra avere un approccio diverso da quello dell’ONG B’Tselem: nel 2016, B’Tselem ha dichiarato che avrebbe smesso di sporgere denunce alle autorità militari israeliane perché facesse delle indagini, il che sembra dare loro una parziale maggiore libertà nell’essere più espliciti circa la natura dell’occupazione.

Anche se Yesh Din accetta molte delle critiche di B’Tselem, voi avete ancora dei procedimenti pendenti in tribunali israeliani e non interromperete le vostre azioni legali. Che influsso ha la posizione di Yesh Din riguardo all’apartheid sul vostro lavoro legale? Vi aspettate delle conseguenze da parte delle autorità, inclusi i tribunali?

Le autorità israeliane non hanno bisogno che noi diciamo cose radicali per dare il via a delle ritorsioni contro di noi — è qualcosa che viene fatto anche quando noi abbassiamo i toni. Anzi io ho la sensazione che sia vero il contrario: noi stiamo dicendo quella che pensiamo sia la verità in modo ragionato con una relazione esauriente. Si può essere d’accordo o no, ma presenta le argomentazioni e costruisce il caso basandosi sui dati, i precedenti e l’analisi giuridica.

Se alcune parti del sistema giudiziario si offenderanno ci sarà almeno un po’ di rispetto per il modo professionale in cui conduciamo la nostra lotta. Io non penso che un singolo caso legale (presentato da Yesh Din) sarà danneggiato dal fatto che noi stiamo dicendo cose che sono sgradevoli da sentire. Se ci sono funzionari e giudici le cui decisioni ne saranno influenzate, si tratterà di critiche secondarie. Quindi ciò non ci preoccupa affatto.

Non dimentichiamo che questo non è un rapporto sulla magistratura o sui giudici, ma sul sistema che si è creato durante gli anni. La “musica” del rapporto è che noi [israeliani] siamo tutti responsabili dell’apartheid, che io sono responsabile. Questa è una sfumatura importante. Non lo sto guardando dal di fuori, e tutte le mie controparti nell’ufficio del Procuratore Generale, nel Ministero della Giustizia o fra i giudici sanno che questa è la mia identità e coloro che sono onesti la rispetteranno.

Detto ciò, stiamo discutendo di qualcosa che ha enormi implicazioni. Fino ad ora, Yesh Din ha detto che politiche specifiche sono illegali o persino che sono crimini di guerra, ma ora noi parliamo di un regime che è illegittimo.

E così la domanda che ci si ritorce contro è questa: cosa fare se è un regime di apartheid? Continuare a stare all’“opposizione” — qualcuno che si oppone alle politiche del regime — o diventare “dissidenti” — qualcuno che si oppone al regime stesso? E seguire il cammino della “giustizia” che il regime illegittimo ci offre?

Per rispondere devo ricorrere ai miei “antenati” in Sudafrica. Gli avvocati nel regime di apartheid in Sudafrica non smisero mai di andare in tribunale perché i neri chiedevano loro di andarci. La decisione di andare in tribunale o di boicottarlo non sta a me, ma ai palestinesi. Fino a quando i palestinesi vogliono che noi li rappresentiamo, noi non abbiamo il diritto di rifiutare basandoci sull’affermazione che “noi ne sappiamo di più.”

Va certamente bene ammettere che gli avvocati e le ONG non possono guidare la lotta. Detto ciò, c’è ancora un dilemma davanti a cui si trovano persino le organizzazioni palestinesi, cioè che talvolta possono sentirsi colpevoli per aver detto ai clienti palestinesi che hanno una possibilità, seppure piccola, di vincere.

Come trova il confine fra l’identificare l’occupazione come un regime di apartheid, e perciò senza aspettarsi di ottenere nulla di quello che spera, e tuttavia andare avanti?

Niente ha cambiato le prospettive di vittoria o successo (che sono due cose diverse) da quando ho scritto la relazione. Era lo stesso regime anche prima. Nei miei rapporti con i clienti, io cerco di essere chiaro suIla montagna che stiamo scalando e quello che ci si può, o non può, aspettare.

Allo stesso tempo, si deve riconoscere il fatto che i palestinesi non vanno via dal tribunale completamente a mani vuote. I tribunali sono un’istituzione in cui i palestinesi talvolta ottengono risarcimenti — di solito non con decisioni favolose, ma piuttosto nel processo che li trasforma da individui completamente trasparenti e senza importanza in soggetti di un contenzioso. Solo quando “si rivolgono a un avvocato” e vanno in tribunale diventano “qualcuno” (agli occhi delle autorità).

Ci sono anche delle vittorie, come nel recente caso sollevato a proposito della Legge per la Regolarizzazione (che cerca di legalizzare tantissimi insediamenti israeliani e “avamposti” e annullata lo scorso mese dalla Corte Suprema).

Avevamo un grosso dilemma quando alcuni anni fa abbiamo presentato la denuncia. C’erano delle persone che ci hanno detto: “Non presentate alcuna petizione… lasciate che il governo ne paghi le conseguenze.” Ma secondo me c’erano decine di migliaia di persone che stavano per perdere le loro terre e volevano che noi li rappresentassimo. Così, avendo una possibilità di vincere per loro, non ho detto di no per ottenere un vantaggio ipotetico. E per come va il mondo oggi, mi chiedo quale contromossa avrebbe tirato fuori il governo per mettere in pratica la Legge per la Regolarizzazione.

Dopo la nostra conclusione che questo è un regime di apartheid non sarà più “tutto come prima”. L’analisi sull’apartheid finirà nelle nostre memorie giudiziarie e cause. È nostra intenzione cambiare il dibattito interno israeliano e non parlare più della nostra presenza in Cisgiordania come di un’occupazione temporanea, ma piuttosto di un crimine di illegittimità.

Questo rispecchia il dibattito sull’uso della “legge dell’oppressore,” un dibattito che anche i sudafricani hanno avuto. Quali altre lezioni ha ricavato dagli avvocati sudafricani su come sfidare l’apartheid?

Noi (in Israele-Palestina) siamo in una posizione peggiore rispetto al movimento anti-apartheid in Sudafrica.

Primo, noi qui abbiamo due movimenti separati per porre fine all’apartheid in Israele: uno israeliano, l’altro palestinese. In Sudafrica c’era un movimento ed era guidato dagli oppressi. Questo è un grosso problema, perché gli israeliani hanno più potere, più privilegi, più diritti e sono molto meno vulnerabili rispetto ai palestinesi.

Secondo, c’è la posizione internazionale israeliana rispetto a quella del Sudafrica. Ma negli ultimi dieci anni abbiamo visto quasi una rivoluzione nella società civile internazionale a proposito del conflitto. Persino negli Stati Uniti, persino nella comunità ebraica americana si può vedere questo cambiamento. La nostra relazione e la nostra campagna di sensibilizzazione mirano ad accelerare questo cambiamento, per contribuire a far capire alla comunità internazionale che deve far pressione su Israele per fermare l’apartheid.

Per anni molti avvocati, ONG e attivisti palestinesi hanno offerto un’ampia analisi, professionale e legale, accusando Israele del crimine di apartheid, inclusa la recente denuncia alla Corte Penale Internazionale.

Tuttavia è probabile che l’opinione di Yesh Din riceverà molta più attenzione perché questa è un’organizzazione israeliana e forse verrà presa più seriamente nei circoli che contano all’estero. Ai palestinesi potrebbe sembrare provocatorio perché, anche se noi siamo spesso felici che escano tali rapporti, c’è anche una strana sensazione quando si vede che il nostro lavoro è valutato in modo così diverso.

Lei prima ha parlato di un suo rifiuto iniziale per il termine apartheid: pensa che sia lo stesso per altri avvocati e organizzazioni ebraico-israeliane? Perché pensa che ci sia voluto così tanto ad essere d’accordo con quello che molti palestinesi hanno detto?

Si tratta di negazionismo. Ma è anche importante notare che noi israeliani viviamo in condizioni di totale lavaggio del cervello a causa del dibattito, dei leader e dei media. E mentre noi (israeliani di sinistra) mettiamo in discussione molte cose e abbiamo una nostra identità in quanto critici, siamo pur sempre nati in questo contesto.

Io stesso sono nato a Gerusalemme Ovest nel 1972 e l’ebraico è la mia lingua madre. Sono cresciuto con il sistema scolastico israeliano e sono andato sotto le armi fino a quando non sono diventato un refusenik [chi rifiuta di prestare servizio nei territori occupati, ndtr.]. Ho assorbito il punto di vista israeliano per tutta la mia vita e cosi hanno fatto i miei amici e colleghi.

Noi siamo stati accecati dalla narrazione israeliana e c’è voluto del tempo per renderci conto che gli argomenti che ogni israeliano ripete — come “noi non vogliamo controllare i palestinesi,” o “noi vogliamo che siano padroni del proprio destino,” o “noi faremo un accordo quando avremo una controparte nei negoziati” — sono tutte menzogne. Il mito particolarmente potente durante gli anni di Oslo era che gli israeliani volevano porre fine al “dominio non voluto” sui palestinesi. Ci vuole del tempo per rendersi conto che non è vero — che questo fa tutto parte di un’impresa di dominazione, e per interiorizzare la nostra supremazia.

Anche la sinistra israeliana, per quanto piccola, è cambiata, in parte perché oggi include molti palestinesi. Alle superiori io ero un attivista di sinistra, ma non ho mai lavorato al fianco dei palestinesi, neppure con i palestinesi (cittadini) israeliani.

Oggi non è possibile lavorare su questo tema senza i palestinesi. La loro comprensione del conflitto ha arricchito noi attivisti ebrei, inclusi quelli di gruppi come Yesh Din e B’Tselem. Io non vedrò mai la realtà come la vedete voi, posso solo cercare di capire meglio cosa vedete voi, e viceversa.

La relazione non esclude la possibilità di identificare l’apartheid in altre parti della realtà dello Stato di Israele. Eppure, ciò afferma che i regimi in Cisgiordania e dentro Israele possono ancora essere visti come distinti, e forse in un “processo di unificazione.”

Comunque, le basi dell’occupazione non derivano solo dalle leggi principali di Israele, ma erano state presenti fin dall’inizio dentro lo Stato in quanto governo militare imposto ai cittadini palestinesi di Israele dal 1948 al 1966. Quindi il regime del ’67 può essere considerato separato da quello del ’48 o ne è piuttosto un’estensione o una continuazione?

Quando ho cominciato a studiare il crimine di apartheid a livello internazionale, mi ha immediatamente colpito che sia un crimine di regime. Ma il diritto internazionale non definisce cosa sia un regime, per cui ci si deve rivolgere ad altre discipline per scoprirlo.

Con mio grande stupore, “regime” è una nozione dotata di flessibilità. È la totalità delle autorità pubbliche che hanno poteri, leggi e regolamenti normativi, politiche, prassi, e così via. Guardando ad una certa area geografica con lenti diverse e usando decisioni diverse, si possono trovare regimi diversi.

Per esempio, possiamo guardare a tutta la zona fra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo con una bassa risoluzione e vedere che c’è un potere politico che crea e porta avanti le proprie decisioni. Ma si può anche guardarlo con un’alta risoluzione, e scoprire che, all’interno di quel territorio, ci sono nuclei distinti di autorità, politiche e pratiche pubbliche nelle diverse zone.

Quando si guarda con una lente di ingrandimento l’occupazione militare in Cisgiordania è un regime distinto. Non esclude un’analisi diversa da un punto di osservazione posto più in alto, ma ci sono complessità (dentro Israele) che non si trovano in Cisgiordania.

Per esempio, il regime può essere classificato come di apartheid quando il gruppo inferiore ha il diritto politico di votare e di candidarsi al governo (come i cittadini palestinesi in Israele)? Io penso che si possa se quei diritti sono completamente diluiti e resi privi di significato. Non so se in Israele sono tali, ma in merito ci sono molte opinioni legittime.

Noi di Yesh Din abbiamo fatto la scelta di concentrarci sulla Cisgiordania come nostra area di competenza e di cui ci occupiamo. Ma per noi è importante dire che ciò non esclude altre analisi che possono essere condotte in parallelo. Noi ci rendiamo conto che c’è un costo o rischio guardando solo a un segmento della politica israeliana, quindi il nostro modo di affrontare quel rischio è di riconoscerlo e dirlo con chiarezza.

C’è una sezione del documento che dice: “sebbene l’origine [dell’apartheid] sia storicamente connessa al regime razzista in Sudafrica, ora è un concetto legale indipendente con una sua propria vita che può esistere senza essere basato su un’ideologia razzista.”

Devo confessare che, leggendolo, il mio primo pensiero è stato che, almeno non intenzionalmente, si dissociasse l’obiettivo politico della supremazia ebraica — o per essere franchi, del sionismo — dalle strutture istituzionali israeliane. Può chiarire la riflessione che sta dietro quella affermazione?

Uno dei problemi che ho incontrato quando ho sottoposto le mie idee a degli israeliani è che l’apartheid, per quelli che sanno cos’è, è visto come parte di un’ideologia razzista come quella dei nazisti: che alcuni hanno tratti biologici o genetici che scientificamente li rendono inferiori agli altri.

Dato che la Convenzione contro l‘apartheid e lo Statuto di Roma definiscono l’apartheid usando le parole “gruppi razziali,” l’interpretazione è controintuitiva. Non si tratta dell’assunzione biologica di razza, ma piutttosto di gruppi sociali e politici in cui membri di una certa Nazione hanno privilegi come gruppo.

Non stavo cercando di dire che non c’è un’ideologia di supremazia che mette il principio di preferenza ebraica al di sopra di quello dei palestinesi; naturalmente c’è una cosa simile (e il rapporto lo menziona ). Quello che volevo dire era che non si tratta della stessa argomentazione scientifica che una razza è migliore di un’altra.

In conclusione, si può commettere il crimine di apartheid indipendentemente da quale sia la motivazione. L’apartheid, per esempio, potrebbe essere economico — l’intero progetto potrebbe riguardare il profitto e continuerebbe ad essere apartheid. Nel nostro caso, noi abbiamo un conflitto nazionale. In altri posti potrebbe trattarsi di etnia, casta o altro; non deve essere per forza basato su un’ideologia razzista.

Sembra che lei stia cercando di universalizzare ulteriormente il quadro dell’apartheid.

Certamente. Ai sensi del diritto internazionale il divieto di apartheid costituisce il valore fondamentale che il mondo ha adottato dopo la seconda guerra mondiale: noi condividiamo un’umanità e un regime che viola in maniera diretta e sistematica quel principio affermando che ci sono alcuni che hanno più diritti di altri — questa è la cosa che si sta cercando prevenire.

Il diritto e le convenzioni internazionali che identificano il crimine di apartheid e le sue caratteristiche in Israele-Palestina esistono da decenni. Ma a differenza del Sudafrica, il mondo sembra fare un’eccezione con Israele sull’apartheid. Perché dovrebbe fare eccezione e dove pensate che il dibattito debba andare per porvi fine?

Primo, sono passati solo 70 anni dal più grande crimine mai commesso contro l’umanità. Io sono il nipote di sopravvissuti all’Olocausto. C’è una riluttanza, comprensibile, ma inaccettabile, a confrontarsi con questo crimine da parte delle “vittime per eccellenza.” 

Si può vedere come le potenze europee camminino sulle uova quando si tratta di Israele, e Israele è riuscito a mobilitare nel mondo occidentale questo senso di colpa collettivo e giustificato a proprio favore. Se c’è una lezione da imparare dalla storia del genocidio e dell’antisemitismo, è che non si dovrebbe restare in silenzio davanti al male e alla persecuzione di comunità.

Secondo, Israele è visto, tavolta correttamente, in pericolo esistenziale dato che i suoi vicini cercano di distruggerlo. Anche se queste dichiarazioni hanno pochissimo significato o sono solo propaganda, e anche se Israele è la maggiore potenza in Medio Oriente alleata con una superpotenza, queste affermazioni danno a Israele molto spazio di manovra. C’è anche la questione della posizione di Israele quale avamposto dell’America in Medio Oriente. Ma penso che tutto ciò stia cambiando.

Per il dopo, come ho già detto, io ci vado molto attento con le parole. “Apartheid” è una parola che ha molto peso e non la userei con leggerezza. Se questa accusa sarà qualcosa da discutere più seriamente — non come una parolaccia ma come qualcosa di valido — nel caso in cui ci si confronti con un regime di apartheid, l’obbligo in ogni Paese è di porvi fine.

Ciò è molto diverso dall’occupazione. Per esempio, l’Europa ha raggiunto la conclusione che si deve attenere a una politica di differenziazione per garantire che non un centesimo dei suoi soldi vada alle colonie. Se si arriva alla conclusione che Israele è un regime di apartheid, ciò avrà un enorme impatto su quello che è obbligata a fare per legge, non solo rifiutando di assistere quel regime, ma di fare pressioni affinché esso finisca.

In conclusione la gente dovrebbe chiedersi qual è lo scopo finale delle politiche di Israele. Vent’anni fa la maggior parte della gente avrebbe detto che era di avere due Stati — ma oggi non sono sicuro della loro risposta. E se neanche uno Stato democratico binationale è la risposta, allora non c’è via alternativa all’apartheid.

In pratica affermando che non ci sia una soluzione si accetta automaticamente l’apartheid.

Giusto. Quando ho cominciato a scrivere il documento, a prova delle sue intentioni di perpetuare la dominazione avevo solo le azioni di Israele sul terreno. Per 50 anni il governo di Israele ha detto la “cosa giusta” — che l’occupazione è temporanea fino a che gli accordi di pace non sostituiranno gli accordi di cessate il fuoco.

Ma poi il divario fra le dichiarazioni di Israele e le sue azioni è scomparso. Con le loro stesse parole i governanti israeliani hanno distrutto il proprio alibi — un pessimo alibi che comunque non riusciva a nascondere le loro azioni. Oggi il mio lavoro è molto più facile.

Amjad Iraqi è redattore e autore di +972 magazine. È anche analista politico di Al-Shabaka e in precedenza è stato un coordinatore della difesa di “Adalah” [Centro legale per i diritti delle minoranze arabe in Israele, ndtr.]. È un cittadino palestinese di Israele, attualmente residente ad Haifa.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




L’inchiesta della CPI renderà giustizia alla Palestina?

Romana Rubeo, Ramzy Baroud

9 luglio 2020 – Chronicle de Palestine

In passato ci sono stati numerosi tentativi di obbligare i criminali di guerra israeliani a rispondere del proprio operato.

Il caso dell’ex primo ministro israeliano Ariel Sharon (noto, tra l’altro, con il soprannome di “macellaio di Sabra e Shatila”), è particolarmente significativo, in quanto nel 2002 le sue vittime tentarono di farlo comparire davanti a un tribunale belga.

Come ogni altra iniziativa, la possibilità di un processo in Belgio è stata abbandonata in seguito a pressioni americane. La storia sembra ripetersi.

Il 20 dicembre la procuratrice generale della Corte Penale Internazionale (CPI), Fatou Bensouda, ha deciso di aver raccolto elementi sufficientemente solidi per avviare un’inchiesta per presunti crimini di guerra commessi nella Cisgiordania occupata, a Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza. La decisione senza precedenti della CPI concludeva che non c’era “nessuna ragione sostanziale per credere che un’inchiesta non fosse al servizio degli interessi della giustizia.”

Da quando Bensouda, benché con molto ritardo, ha preso la decisione, l’amministrazione americana ha rapidamente preso misure per bloccare il tentativo della Corte di far sì che i responsabili israeliani rispondano del proprio operato. L’11 giugno il presidente americano Donald Trump ha firmato un decreto che impone sanzioni contro i membri dell’organo giudiziario internazionale, in riferimento alle inchieste della CPI sui crimini di guerra americani in Afghanistan e quelli israeliani in Palestina.

Gli Stati Uniti riusciranno ancora una volta a bloccare un’indagine internazionale?

Il 19 giugno abbiamo parlato con il dottor Triestino Mariniello, membro del gruppo di giuristi che rappresenta le vittime di Gaza davanti alla CPI. Mariniello è anche docente all’università John Moore di Liverpool, nel Regno Unito.

Ci sono molti dubbi sulla serietà, la volontà o la capacità della CPI di arrivare a questo processo. A un certo punto sono state poste questioni tecniche per sapere se la giurisdizione della CPI si estendesse alla Palestina occupata. Questi dubbi sono stati superati?

Lo scorso dicembre la procuratrice ha deciso di porre la seguente domanda alla Camera preliminare: “La CPI è competente, cioè, in base allo Statuto di Roma, la Palestina è uno Stato, non in generale in base al diritto internazionale, ma almeno secondo lo Statuto istitutivo della CPI? E, in caso affermativo, qual è la competenza territoriale della Corte?”

La procuratrice ha sostenuto che la Corte è competente per i crimini commessi in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, e a Gaza. Questa richiesta alla Camera preliminare non era necessaria per una ragione molto semplice: la domanda è stata presentata dallo Stato di Palestina. Così, quando uno Stato (che faccia parte della CPI) deferisce una situazione alla procura, questa non ha bisogno dell’autorizzazione della Camera preliminare. Ma analizziamo le cose in un contesto più ampio.

L’impegno ufficiale dello Stato di Palestina con la CPI è iniziato nel 2009, in seguito alla guerra di Gaza (l’operazione “Piombo fuso”). All’epoca la Palestina aveva già accettato la giurisdizione della CPI. Al precedente procuratore ci sono voluti più di due anni per decidere se la Palestina fosse o meno uno Stato. Dopo tre anni ha dichiarato: “Non sappiamo se la Palestina è uno Stato, quindi non sappiamo se possiamo riconoscere la giurisdizione della CPI.” In seguito questa questione è stata sollevata davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e all’assemblea degli Stati Membri. In altri termini, hanno delegato la risposta a degli organi politici e non alla Camera preliminare.

Questa indagine non c’è mai stata e non abbiamo mai ottenuto giustizia per le vittime di quella guerra.

Nel 2015 la Palestina ha accettato la giurisdizione della Corte ed è anche diventata uno Stato Membro. Tuttavia la Camera preliminare ha deciso di coinvolgere un certo numero di Stati, organizzazioni della società civile, Ong, accademici ed esperti per porre loro la domanda: in base allo Statuto di Roma la Palestina è uno Stato? La risposta è stata la seguente: la Camera preliminare si pronuncerà su questa questione dopo aver ricevuto le opinioni delle vittime, degli Stati, delle organizzazioni della società civile… e si pronuncerà nelle prossime settimane o nei prossimi mesi.

Oltre all’amministrazione Trump, altri Paesi occidentali, come la Germania e l’Australia, fanno pressione sulla CPI perché abbandoni l’inchiesta. Ci riusciranno?

Ci sono almeno otto Paesi che sono apertamente contrari a un’indagine sulla situazione palestinese. La Germania è una di essi. Certi altri Paesi, ad essere onesti, ci hanno sorpresi perché almeno quattro di essi, l’Uganda, il Brasile, la Repubblica Ceca e l’Ungheria, avevano esplicitamente riconosciuto che la Palestina è uno Stato di diritto internazionale, e tuttavia ora presentano dichiarazioni davanti alla Camera preliminare della CPI in cui sostengono che non lo è più.

Naturalmente la questione è un po’ più complessa, ma in fondo questi Paesi sollevano davanti alla CPI argomenti politici che non hanno alcuna base giuridica. È sorprendente che questi Stati da una parte sostengano di essere favorevoli a una Corte Penale Internazionale indipendente, ma da un’altra cerchino di esercitare una pressione politica (su questo stesso organo giudiziario).

L’11 giugno Trump ha firmato un decreto in cui impone sanzioni alle persone legate alla CPI. Gli Stati Uniti e i loro alleati possono bloccare l’inchiesta della CPI?

La risposta è no. L’amministrazione Trump fa pressione sulla CPI. Per “pressione” intendo principalmente riguardo alla situazione in Afghanistan, ma anche a quella israelo-palestinese. Così ogni volta che c’è una dichiarazione di Trump o del segretario di Stato Mike Pompeo riguardo alla CPI, non dimenticano mai di citare la questione dell’Afghanistan.

In effetti la procuratrice sta facendo un’indagine anche su presunti crimini di guerra commessi da membri della CIA e soldati americani. Finora questa pressione non è stata particolarmente efficace. Nel caso dell’Afghanistan la Corte d’appello ha direttamente autorizzato la procuratrice ad aprire un’inchiesta, modificando una decisione presa dalla Camera preliminare.

Le successive amministrazioni americane non sono mai state molto favorevoli alla CPI e il principale problema a Roma durante la redazione dello Statuto nel 1998 riguardava proprio il ruolo del Procuratore. Fin dall’inizio gli Stati Uniti si sono opposti a un ruolo indipendente del Procuratore, o che egli potesse aprire un’inchiesta senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Questa opposizione risale alle amministrazioni Clinton, Bush, Obama e Trump.

Tuttavia oggi assistiamo a una situazione totalmente nuova, in quanto l’amministrazione americana è pronta ad imporre sanzioni economiche e restrizioni al rilascio di visti al personale legato alla CPI e forse anche ad altre organizzazioni.

L’articolo 5 dello Statuto di Roma – il documento che ha fondato la CPI – presenta una definizione allargata di ciò che costituisce “crimini gravi”, cioè crimini di genocidio, contro l’umanità, di guerra e di aggressione. Si potrebbe quindi sostenere che Israele dovrebbe essere considerato responsabile di tutti questi “crimini gravi”. Tuttavia la CPI ha scelto quello che si chiama il “campo di applicazione ristretto”, per cui l’indagine riguarderà solo la componente dei crimini di guerra. Perché?

Se esaminiamo la richiesta della procuratrice alla Camera preliminare, in particolare il paragrafo 94, è sorprendente constatare che la portata dell’inchiesta è piuttosto ridotta, e le vittime lo sanno. Non include (nel quadro della sua inchiesta sui crimini di guerra) che alcuni avvenimenti legati alla guerra di Gaza del 2014, crimini commessi nel contesto della “Grande Marcia del Ritorno” e le colonie ebraiche (illegali).

È sorprendente che non ci sia nessun riferimento alle presunte azioni di “crimini contro l’umanità” che, come dicono le vittime, sono ampiamente documentate. Non c’è alcun riferimento agli attacchi sistematici condotti dalle autorità israeliane contro la popolazione civile in Cisgiordania, a Gerusalemme est o a Gaza. L’ “ambito di applicazione ridotto”, che esclude i crimini contro l’umanità, è un elemento sul quale la procuratrice dovrebbe riflettere. La situazione generale a Gaza è ampiamente ignorata; non c’è alcun riferimento all’assedio che dura da 14 anni; non c’è alcun riferimento all’insieme delle vittime della guerra contro Gaza nel 2014.

Ciò detto, il campo d’indagine non è vincolante per il futuro. La procuratrice può decidere, in qualunque momento, di includere altri crimini. Speriamo che ciò avvenga, perché in caso contrario molte vittime non otterranno mai giustizia.

Ma perché la Striscia di Gaza viene esclusa? È a causa del modo in cui i palestinesi hanno presentato la loro causa o di come la CPI ha interpretato il caso palestinese?

Non penso che si debba dare la colpa ai palestinesi, perché le organizzazioni palestinesi hanno presentato (una grande quantità di) prove. Penso che si tratti di una strategia di perseguimento giudiziario a questo stadio e speriamo che ciò cambi in futuro, in particolare riguardo alla situazione a Gaza, dove è stato ignorato persino il numero totale di vittime. Più di 1.600 civili, tra cui donne e minori, sono stati uccisi.

A mio parere ci sono parecchi riferimenti al concetto stesso di conflitto. La parola “conflitto” si basa sul presupposto che ci siano due parti che si affrontano allo stesso livello e che l’occupazione israeliana in sé non sia oggetto di un’attenzione sufficiente.

Inoltre sono stati esclusi tutti i crimini commessi contro i prigionieri palestinesi, come la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. Non è stato incluso neppure l’apartheid in quanto crimine contro l’umanità. Ancora una volta, ci sono prove schiaccianti che questi crimini vengono commessi contro i palestinesi. Speriamo che in futuro ci sarà un approccio diverso.

Quali sono secondo lei i diversi scenari e tempi che potrebbero risultare dall’inchiesta della CPI? Cosa dobbiamo aspettarci?

Penso che se esaminiamo i possibili scenari dal punto di vista dello Statuto di Roma, della legge vincolante, non credo che i giudici abbiano altra possibilità che confermare alla procura che in base allo Statuto di Roma la Palestina sia uno Stato e che la giurisdizione territoriale comprenda la Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza.

Mi sembrerebbe estremamente sorprendente se i giudici arrivassero ad una conclusione diversa. Lo Stato palestinese è stato ratificato nel 2015, e quindi non si può tornare dai palestinesi e dire loro: “No, voi non siete più membri.” Nel frattempo la Palestina ha partecipato all’assemblea degli Stati Membri, fa parte della commissione di sorveglianza della CPI ed ha preso parte a decisioni importanti.

È probabile che la procuratrice ottenga in via libera dalla Camera preliminare. Se ciò non avviene la procuratrice può (ancora) portare avanti l’inchiesta.

Gli altri possibili scenari non possono essere che negativi, perché impedirebbero alle vittime di ottenere giustizia. Se la questione viene portata davanti alla CPI è perché le vittime non hanno mai ottenuto giustizia davanti ai tribunali nazionali: lo Stato di Palestina non può giudicare i cittadini israeliani, mentre le autorità israeliane non vogliono giudicare le persone che hanno commesso dei crimini internazionali.

Se i giudici della CPI decidessero di non accettare la giurisdizione sui crimini di guerra commessi in Palestina, ciò priverebbe le vittime dell’unica possibilità di ottenere giustizia.

Uno scenario particolarmente pericoloso sarebbe la decisione dei giudici di confermare la competenza della CPI su certe parti del territorio palestinese escludendone altre, cosa che non ha alcun fondamento giuridico in base al diritto internazionale. Ciò sarebbe pericoloso, perché darebbe una legittimità internazionale a tutte le misure illegali che le autorità israeliane, ed ora anche l’amministrazione Trump, mettono in atto, compreso il piano di annessione, totalmente illegale (in base al diritto internazionale).

* Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e direttore di Palestine Chronicle. Il suo prossimo libro è “The Last Earth: A Palestinian Story” [L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press). Baroud ha un dottorato di studi sulla Palestina dell’università di Exeter ed è ricercatore associato al Centro Orfalea di studi mondiali e internazionali, università della California.

* Romana Rubeo è traduttrice freelance e vive in Italia. È titolare di un master in lingua e letteratura straniera ed è specializzata in traduzione audiovisiva e giornalistica. Lettrice accanita, si interessa di musica, politica e geopolitica.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Come la guerra di propaganda israeliana riduce l’Europa al silenzio

Gideon Levy

6 luglio 2020 – Middle East Eye

l diluvio di accuse esagerate di antisemitismo, a volte senza alcun fondamento, si è rivelato di dubbia efficacia.

La Segretaria di Stato all’Educazione del governo ombra del partito laburista britannico, Rebecca Long-Bailey, è stata recentemente dimissionata per aver diffuso sulle reti sociali un articolo in cui affermava, tra le altre cose, che Israele aveva addestrato la polizia americana ad utilizzare la tecnica del soffocamento consistente nel premere un ginocchio sul collo, praticata su George Floyd [afroamericano ucciso per soffocamento dalla polizia di Minneapolis, la cui morte ha dato inizio a molte proteste negli USA e nel mondo, ndtr.].

Nelle ultime settimane questa affermazione è circolata ampiamente nell’ambito della sinistra mondiale. Il segretario del partito Laburista inglese Keir Starmer ha accusato Long-Bailey di aver postato un articolo contenente una “teoria cospirazionista antisemita”. Evidentemente dopo le dimissioni di Jeremy Corbin il vento del cambiamento ha soffiato sul partito laburista britannico– e questo cambiamento non prelude a niente di buono. 

Osare criticare Israele

Il 25 giugno Middle East Eye ha pubblicato delle informazioni contenute nell’articolo in discussione sottoponendole a ‘fact-checking’ [verifica dei fatti, ndtr.]. L’accusa secondo cui Israele ha insegnato alla polizia americana il metodo di soffocamento che ha causato la morte di Floyd è infondata. Da decenni la polizia degli Stati Uniti ha il grilletto terribilmente facile quando sono coinvolti dei cittadini neri – ben prima che lo Stato d’Israele e la sua polizia venissero creati.

La polizia americana non ha certo bisogno della consulenza israeliana per essere capace di uccidere in gran numero civili neri innocenti.

Resta il fatto che l’inquietante velocità con cui Long-Bailey è stata sostituita nel governo ombra dovrebbe preoccupare i partigiani dei diritti umani ben più della credibilità di qualunque articolo che lei ha condiviso su internet. Long-Bailey è stata silurata per il solo motivo che ha osato condividere un articolo che criticava Israele, non perché ha osato pubblicare un articolo carente di basi fattuali.

Starmer non si preoccupa certo allo stesso modo dell’attendibilità degli articoli diffusi dai membri del suo partito. Si inquieta di più per l’immagine antisemita, non sempre giustificata, che si affibbia al suo partito.

Anche se le accuse dell’articolo fossero state inventate e senza alcun fondamento, resta molto improbabile che Long-Bailey sarebbe stata liquidata in questo modo se avesse postato false accuse contro qualunque altro Paese al mondo. In Europa, quando si tratta di critiche a Israele, le regole del gioco sono diverse. C’è Israele da una parte e il resto del mondo dall’altra.

Efficace propaganda sionista

In questi ultimi anni la propaganda israeliana è stata coronata da buon esito in Europa. Il licenziamento di Long-Bailey è solo un successo tra tanti altri. Ultimamente, sotto la direzione di un Ministero degli Affari Strategici relativamente nuovo nel governo israeliano – e con la cooperazione dell’establishment sionista nel resto del mondo – la propaganda sionista ha adottato una nuova strategia, che si rivela di un’efficacia senza precedenti.

Israele e l’establishment sionista in molti Paesi hanno iniziato a definire come antisemita ogni critica a Israele. Questo ha ridotto al silenzio gli europei. I propagandisti di Israele sfruttano cinicamente il senso di colpa dell’Europa che permane ancora riguardo al passato, spesso a ragione – e le accuse hanno raggiunto il proprio obbiettivo.

Continua ad essere difficile criticare Israele, l’occupazione, i crimini di guerra che l’accompagnano, le violazioni del diritto internazionale o il trattamento dei palestinesi da parte di Israele; tutto questo è etichettato come antisemitismo e sparisce immediatamente dal dibattito. Oltre a questa campagna di catalogazione, la maggior parte delle Nazioni occidentali, in particolare gli Stati Uniti, hanno adottato delle leggi che mirano a dichiarare guerra al movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) – del tutto legittimo -, tentativo che ha lo scopo di penalizzare le sue attività e i suoi attivisti.

È incredibile che questa lotta contro un’occupazione e la sua infrastruttura legale sia oggetto di una delegittimazione e di una criminalizzazione intense. Provate a immaginare se un altro tipo di lotta condotta, per esempio, contro le fabbriche dove si sfrutta la miseria nel sud-est asiatico, contro la produzione di carne su scala industriale o i grandi campi di concentramento in Cina, fosse definita “criminale” in Occidente. Difficile da immaginare.

Eppure la lotta contro l’apartheid israeliana – e non c’è lotta più incontestabilmente morale – oggi è considerata criminale. Al di là del coronavirus, provate oggi a prenotare un grande spazio pubblico da qualche parte in Europa per un evento di solidarietà con i palestinesi. Provate a pubblicare un articolo contro l’occupazione israeliana sugli organi di stampa tradizionali. L’occhiuta macchina della propaganda israeliana vi scoverà immediatamente, vi accuserà di antisemitismo e vi ridurrà al silenzio.

Sostenere la libertà di espressione

Ridurre al silenzio: non c’è un’altra espressione per descrivere la situazione. Ciò significa che questo problema non può riguardare solo coloro che si occupano della causa palestinese, deve diventare una preoccupazione urgente per chiunque sostenga la libertà di espressione.

Israele non potrà certo beneficiare a lungo della sua campagna aggressiva, quasi violenta, che potrebbe ritorcersi sia contro lo Stato israeliano che contro gli ebrei in generale, suscitando l’opposizione, addirittura la repulsione, tra i sostenitori della libertà di espressione. Per una ragione sconosciuta ciò non si è – ancora – verificato, l’Europa ha piegato la testa e si è arresa senza condizioni di fronte a questa pioggia di accuse eccessive di antisemitismo, a volte del tutto infondate. L’Europa è stata ridotta al silenzio.

Sicuramente bisogna combattere l’antisemitismo. Esso esiste, continua a mostrare i denti, riaccende i ricordi del passato. Ma la critica necessaria e legittima dell’occupazione israeliana o anche del sionismo non può essere associata all’antisemitismo.

Se Israele compie crimini di guerra bisogna opporvisi e condannarli. È più che un diritto; è un dovere. Come accidenti potrebbe trattarsi di antisemitismo? Come ha fatto una lotta di coscienza a diventare un tabù?

Se Israele evoca l’annessione di territori occupati e la trasformazione di Israele in uno Stato di apartheid non solo de facto, ma de jure, è un dovere opporvisi e denunciare le intenzioni di Israele. Se Israele bombarda i civili indifesi a Gaza, come si fa a non opporsi? Tuttavia questo è diventato quasi impossibile in Europa e negli Stati Uniti.

Confusione sistemica

Ormai da quasi un secolo i palestinesi sono privati del loro Paese. In questi ultimi 53 anni hanno anche vissuto sotto occupazione militare senza diritti, senza un presente né un futuro, le loro terre violate e la loro libertà annientata, la loro vita e la loro dignità considerate senza valore – e improvvisamente la lotta contro tutto questo viene proibita.

Vi è una confusione sistemica sconcertante: l’occupante ha il diritto di difendersi e chiunque lotti contro l’occupazione si trova tra gli accusati. Invece di denunciare l’occupazione israeliana, di attaccarla e infine cominciare a farle pagare un costo sanzionando il Paese responsabile – cosa che l’Europa ha fatto molto giustamente nei giorni seguenti l’annessione della Crimea da parte della Russia -, invece di definire apartheid l’apartheid israeliana, perché non vi è altra parola per descriverla, i suoi detrattori sono ridotti al silenzio.

È disgustoso, immorale e ingiusto. L’Europa non può, e non deve, continuare a restare in silenzio riguardo a questo, anche se il prezzo da pagare è di essere definiti antisemiti.

Queste accuse non devono continuare a ridurre al silenzio l’Europa. Gli ebrei e i sionisti israeliani formulano false accuse, e allora?

Long-Bailey ha condiviso un articolo online, che forse non meritava di essere diffuso. Dimissionarla è un problema ben più grave.

Gideon Levy è un giornalista e membro del comitato di redazione del quotidiano Haaretz. E’entrato a Haaretz nel 1982 ed è stato per quattro anni vice caporedattore del giornale. Ha vinto il premio Euro-Med Journalist nel 2008, il premio Leipzig Freedom nel 2001, il premio Israeli Journalists’Union [Unione dei Giornalisti Israeliani] nel 1997 ed il premio dell’Associazione dei Diritti Umani di Israele nel 1996. Il suo ultimo libro, ‘La punizione di Gaza’, è stato pubblicato dalle edizioni Verso nel 2010.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solo l’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Un’israeliana ricercata per crimini di guerra riceve un premio tedesco per la pace

Ali Abunimah

17 giugno 2020 – Electronic Intifada

I difensori dei diritti umani stanno invitando il Brückepreis tedesco a ritirare l’assegnazione del premio del 2020 a Tzipi Livni, politica israeliana che si è vantata del suo ruolo in crimini di guerra contro i palestinesi.

La motivazione del Bridge Prize [premio Ponte], com’è conosciuto in inglese, afferma che Livni viene premiata per aver promosso “la libertà di pensiero, la democrazia, l’apertura e l’umanità” e per “la sua politica di pace orientata alla libertà”.

Il premio viene assegnato a personaggi che abbiano dedicato il proprio operato alla democrazia e a una comprensione pacifica tra i popoli ed è accompagnato da un premio in denaro pari a 2.800 dollari [circa 2.500 euro].

Ma, lungi dal promuovere la pace, Livni è accusata di essere coinvolta in “crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi nella Striscia di Gaza assediata” quando era ministra degli Esteri di Israele durante l’attacco del 2008-09 contro Gaza, come ha scritto martedì l’associazione per i diritti umani Euro-Med Monitor in una lettera al presidente del Brückepreis Willi Xylander.

Livni “durante l’operazione, condannata a livello internazionale, operò incessantemente per mascherare l’aggressione di Israele contro la popolazione civile di Gaza,” aggiunge la lettera, sottolineando che l’attacco israeliano costò la vita a 1.400 palestinesi, in grande maggioranza civili.

Vero teppismo”

Livni non si è neppure mai vergognata del suo ruolo e del suo appoggio al massacro di Gaza. Nel gennaio 2009 dichiarò ai media israeliani: “Come auspicavo, nel corso delle recenti operazioni Israele ha dimostrato un vero teppismo.”

Anche il rapporto Goldstone, la commissione d’inchiesta indipendente dell’ONU sull’attacco, cita le affermazioni di Livni: “Israele non è un Paese su cui puoi sparare missili senza che reagisca. È un Paese che, quando spari ai suoi cittadini, risponde scatenandosi, e ciò è positivo.”

E invece di promuovere la democrazia, Livni ha appoggiato la pulizia etnica dei cittadini palestinesi di Israele per rendere la popolazione di Israele ancor più esclusivamente ebraica. Ex-ministra della Giustizia, Livni ha anche detto ai negoziatori palestinesi: “Io sono contraria alle leggi – in particolare a quelle internazionali. Contro le leggi in generale.”

Non pare proprio che queste siano le credenziali di una persona che meriti riconoscimenti per aver contribuito alla pace e la comprensione a livello internazionale.

Perseguita per crimini di guerra

In parecchie occasioni Livni ha dovuto sfuggire all’arresto o agli interrogatori da parte di autorità giudiziarie che cercavano di inquisirla per crimini di guerra nel Regno Unito, in Svizzera e in Belgio.

Assegnare il Brückepreis a una politica israeliana accusata di crimini di guerra “contribuirebbe a ripulire l’immagine dei crimini dell’occupazione israeliana a danno dei palestinesi e incentiverebbe ulteriormente i politici israeliani ad accentuare le atrocità contro i palestinesi, sapendo che tali brutalità non danneggerebbero la loro posizione internazionale,” aggiunge Euro-Med Monitor.

Eppure tristemente in Germania la classe dirigente continua a credere che offrire un appoggio incondizionato a Israele indipendentemente da quali crimini commetta ed elogiare i criminali di guerra israeliani sia un modo per espiare l’uccisione da parte del governo tedesco di milioni di ebrei europei. La vera lezione da trarre dai crimini della Germania dovrebbe essere che nessuno possa sfuggire al dover rendere conto dei crimini di guerra, compresa Tzipi Livni.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La Corte Penale Internazionale (CPI) continuerà a investigare i crimini di guerra israeliani nonostante gli accordi di Oslo

9 giugno 2020 – Palestine Chronicle

Il pubblico ministero Fatou Bensouda della Corte Penale Internazionale (CPI) ha annunciato ieri che continuerà le sue indagini sulle politiche di Israele relative ai palestinesi, nonostante l’ininterrotta applicazione degli accordi di Oslo del 1993, 

Questa dichiarazione è la risposta alla richiesta, presentata il 27 maggio, della Camera per il processo preliminare del CPI di chiarire l’attuale situazione degli accordi di Oslo e del loro impatto sull’inchiesta sui crimini di guerra israeliani.

Alcuni hanno messo in dubbio se la Corte internazionale possa investigare tali crimini dato che gli accordi di Oslo prevedono che Israele abbia la giurisdizione in materia penale nella Cisgiordania occupata, dimostrando così che non esiste lo Stato di Palestina e che quindi essa non possa presentare il caso alla CPI, come spiega il Jerusalem Post.

L’ANP ha detto che non sarebbe più legata dagli accordi di Oslo nel caso Israele procedesse il mese prossimo con la pianificata annessione della Cisgiordania occupata.

Bensouda ha espresso un’ulteriore preoccupazione circa l’impatto dell’annessione israeliana e ha affermato che una tale mossa da parte di Israele non avrebbe valore legale.

Se Israele procede con l’annessione, una violazione sostanziale degli accordi fra le due parti, si annullerebbero di conseguenza ciò che resta degli accordi di Oslo e tutti gli altri patti,” ha detto Riyad Al-Maliki, il ministro degli esteri palestinese.

Lo Stato di Palestina continuerà a cooperare con le istituzioni di diritto internazionale, inclusa la CPI, per combattere i crimini e punire chi commette gravi delitti contro i palestinesi per ottenere giustizia,” ha aggiunto Maliki.

Israele ha tempo fino al 24 giugno per rispondere alle osservazioni del pubblico ministero, ma, secondo il Jerusalem Post, potrebbe scegliere di non farlo per non dare legittimità alla CPI.

In dicembre l’ufficio del procuratore della CPI ha terminato un’inchiesta preliminare durata cinque anni sulla “situazione nello Stato di Palestina”, concludendo che ci sono fondati motivi per credere che nella Cisgiordania occupata siano stati o siano ancora commessi crimini di guerra.

Il 30 aprile, Fatou Bensouda, procuratrice capo della CPI, ha ripetuto che la Palestina è uno Stato e perciò la Corte ha giurisdizione legale per pronunciarsi su presunti crimini di guerra là commessi.

La dichiarazione è stata una risposta decisa all’intensa pressione esercitata da Israele e dai suoi sostenitori, specialmente la Germania, per delegittimare del tutto il procedimento nel suo complesso.

Comunque, la palla è ora alla Camera per il processo preliminare della CPI, da cui nelle prossime settimane si attende una risposta sui dubbi circa la giurisdizione.

(traduzione di Mirella Alessio)




La crisi del NYT riguardo a Tom Cotton rievoca i suoi editoriali che giustificavano il massacro dei manifestanti a Gaza

Philip Weiss e James North

5 giugno 2020 – Mondoweiss

Nelle ultime 24 ore le reti sociali hanno dimostrato il proprio immenso potere nella generale condanna su Twitter della decisione del New York Times di pubblicare un editoriale del senatore dell’Arkansas Tom Cotton che chiedeva di schierare l’esercito USA per reprimere la rivolta diffusa in tutto il Paese. Migliaia di critiche hanno affermato che il Times ha violato la sua stessa politica di non pubblicare i sostenitori della violenza. Dopo parecchie ore il Times ha difeso la decisione in base alla libertà di parola, e il caporedattore ha persino affermato che gli editoriali sono “accurati approfondimenti in buona fede delle questioni del giorno,” ma poi il giornale ha cambiato idea ed ha affermato che probabilmente non avrebbe dovuto pubblicare l’articolo di Cotton. È stata un’incredibile retromarcia, inimmaginabile nei giorni in cui i lettori dovevano a scrivere lettere ai direttori dei giornali.

La débâcle dell’editoriale di Cotton, benché sia ovviamente una diretta conseguenza dell’uccisione da parte della polizia di George Floyd, sta anche riproponendo questioni riguardo a come il giornale informa su Israele. Ecco alcuni esempi. L’editorialista Bari Weiss ha difeso l’articolo di Cotton affermando su Twitter che un progressista della vecchia guardia del giornale era stato travolto da giovani “impegnati” dello staff spinti dalle emozioni (“il diritto delle persone a sentirsi sicuri dal punto di vista emozionale e psicologico prevale su quelli che in precedenza erano considerati fondamentali valori progressisti, come la libertà di parola”).

Weiss è stata derisa per questa affermazione in parte perché ha iniziato la sua carriera pubblica cercando di far tacere un dibattito sulla questione israeliana alla Columbia University, partecipando ad una campagna agghiacciante che chiedeva all’amministrazione di licenziare docenti filo-palestinesi. Come ha scritto Steven Salaita [accademico USA di origine araba, ndtr.]:

“A quelli di voi che sostengono Bari Weiss: non siate così dannatamente vaghi su questo argomento. Lei non stava cercando di far licenziare “i professori con cui non era d’accordo”. Stava tentando di far licenziare docenti ARABI E MUSULMANI perché è una fanatica filo-israeliana. Il nome del problema è: repressione sionista.”

Rula Jebreal [nota giornalista e scrittrice palestinese con cittadinanza israeliana e italiana che vive nelgi USA, ndtr.] ha scritto:

“Bari Weiss, che difende sistematicamente il razzismo e l’apartheid di Israele, ha condotto una campagna di odio per far tacere accademici arabi, ha denigrato i suoi colleghi neri, orripilati dall’idea di pubblicare un editoriale fascista durante la rivolta contro la violenza della polizia razzista, in quanto ‘per lo più giovani impegnati.’ Qualche alleato.”

L’editoriale di Cotton è anche un promemoria del fatto che sulle sue pagine di editoriali il New York Times ha pubblicato quattro difese del massacro da parte di Israele di manifestanti nonviolenti presso la barriera di Gaza nel 2018 e non ha mai fatto marcia indietro, benché sul nostro sito Donald Johnson abbia ripetutamente sollevato questa questione.

Riguardo a Gaza Bret Stephens ha scritto che i palestinesi sono responsabili delle uccisioni e delle mutilazioni a causa di una “cultura della…violenza.” Shmuel Rosner ha fatto un discorso trumpianamente fascista: “A volte non c’è nessuna scelta migliore che essere chiari, essere fermi, tracciare una linea che non può essere attraversata da quanti ti vogliono danneggiare.” Matti Friedman ha affermato che “Israele ha avuto le mani legate e che forse avrebbe dovuto fare di più. Una risposta più aggressiva avrebbe impedito ulteriori azioni di questo tipo e salvato vite a lungo termine?” Thomas Friedman ha accusato i dirigenti palestinesi per “le morti tragiche e inutili di circa 60 gazawi (il 20 marzo) incoraggiando il loro corteo.”

Quell’anno Israele ha ucciso più di 200 manifestanti, di cui 59 il giorno in cui Trump ha spostato l’ambasciata USA a Gerusalemme, e ne ha mutilati migliaia in quelli che organizzazioni per i diritti civili hanno definito crimini di guerra.

Ieri almeno un commentatore su Twitter ha chiesto perché Bari Weiss e Bret Stephens lavorino nel giornale, visti i loro provati precedenti di incompetenza. La principale risposta è che da lungo tempo il quotidiano ha un legame stretto con il sionismo e lo zelo a favore di Israele è il valore fondamentale sia di Weiss che di Stephens.

Altri giornalisti del Times non hanno fatto mistero delle proprie passioni filo-sioniste. L’ex responsabile delle pagine editoriali Max Frankel ha rivelato di aver scritto di persona tutti gli editoriali su Israele: “Ero molto più profondamente fedele a Israele di quanto osassi affermare,” ha scritto nelle sue memorie. Thomas Friedman lo scorso anno ha detto che ogniqualvolta ciò sia necessario difenderà Israele: (“Israele mi aveva già convinto di primo acchito… In tempi di crisi so dove sarò. Quando lo Stato ebraico fosse minacciato!). David Brooks ha affermato di avere “un occhio di favore” per Israele e che i palestinesi sono da considerare responsabili del fatto che non ci sia pace. Il giornalista d’inchiesta Ronen Bergman recentemente ha lodato l’organizzazione lobbistica di destra AIPAC [principale organizzazione della lobby filoisraeliana negli USA, ndtr.] per aver appoggiato Israele. E durante un attacco israeliano contro Gaza l’ex-caporedattrice dell’ufficio di Gerusalemme Jodi Rudoren ha affermato che i palestinesi sembrano “un po’ troppo insistentemente noiosi” riguardo alle morti di membri della loro famiglia rispetto agli israeliani che sono “traumatizzati” dalla violenza.

Tuttavia Bari Weiss e Bret Stephens risaltano persino in mezzo a questa lista di filo-sionisti. Il sostegno ad Israele è sempre stato al centro della loro carriera giornalistica e si stenta a trovare un qualunque altro argomento che li appassioni allo stesso livello.

L’argomento della libertà di parola potrebbe essere più convincente se il Times avesse mai pubblicato editoriali antisionisti. Lo ha fatto molto di rado. Dove sono Rashid Khalidi e Ian Lustick, che ultimamente hanno entrambi pubblicato libri in cui sostengono che il paradigma dei due Stati è finito?

Le caratteristiche filo-sioniste del New York Times non sono una cospirazione. Il giornale è tradizionalmente solito appoggiare Israele e ovviamente assume persone che condividono il suo punto di vista. Sfortunatamente, e tristemente, questa tendenziosità non analizzata ha obbligato il maggior quotidiano americano a sostenere la violenta risposta alle richieste dei diritti umani da parte dei palestinesi.

In questi giorni l’unica cosa corretta da fare è chiedere se il giornale abbia una tendenziosità simile contro gli afroamericani.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La Corte Penale Internazionale non rappresenta una “minaccia strategica” per Israele

Ramona Wadi

19 maggio 2020. MiddleEastMonitor

Da quando la Corte Penale Internazionale (CPI) ha stabilito che la Palestina è uno Stato in cui svolgere indagini sui crimini di guerra commessi da Israele contro civili palestinesi, una nuova serie di minacce è stata mossa contro l’istituzione. Il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha messo in guardia dalle conseguenze di ciò che il suo governo ritiene costituisca uno Stato palestinese. “Gli Stati Uniti ribadiscono la loro continua obiezione a qualsiasi illegittima indagine della CPI. Se la Corte continuerà per la strada presa ne trarremo le dovute conseguenze” ha detto Pompeo.

L’opposizione degli Stati Uniti a uno Stato palestinese è stata ulteriormente ribadita dal cosiddetto “accordo del secolo”, che finge di sostenere uno Stato palestinese dando invece priorità all’agenda coloniale di Israele – in cui non cè spazio per la formazione di uno Stato palestinese. L’opposizione degli Stati Uniti alle indagini della CPI, dunque, è continua e convinta.

Intanto il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha bollato le possibili inchieste sui crimini di guerra come “minaccia strategica”. Intervenendo durante la prima riunione del governo e sostenendo di usare raramente l’aggettivo “strategico” che invece è la normale definizione quando si tratti dell’Iran o del movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), Netanyahu ha dichiarato: “Questa è una minaccia strategica per lo Stato di Israele – ai soldati dell’esercito, ai comandanti, ai ministri, ai governi, a tutto.”

Israele ha a lungo approfittato delle eccezioni per mantenere la sua colonizzazione della Palestina e rafforzare ulteriormente la sua occupazione militare. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha beneficiato Israele di unimpunità senza precedenti e dell’accettazione delle violazioni del diritto internazionale, al punto che, rafforzato anche dal tacito silenzio della comunità internazionale, Israele sta politicizzando le indagini della CPI allo scopo di mantenere lo stato di eccezione.

Le imminenti indagini sui crimini di guerra di Israele contro il popolo palestinese non sono una minaccia strategica, ma una risposta tardiva che potrebbe offuscare temporaneamente l’immagine di Israele. La collusione fra Israele e la comunità internazionale è un grave ostacolo: non bisogna dimenticare che a livello internazionale Israele gode di un tacito sostegno che gli permette di costituire lui stesso una minaccia strategica per i palestinesi.

La retorica di Netanyahu è un diversivo. Israele non è perseguitato dalla CPI; è possibile che i suoi funzionari siano perseguiti per crimini di guerra, che è la procedura standard. La violenza di Israele ne sostiene la politica coloniale – l’una non può esistere senza l’altra. I palestinesi hanno subìto questa minaccia strategica per decenni. Il tentativo di invertire i ruoli nonostante le prove dei crimini di guerra è una manovra politica che dovrebbe ritorcersi contro Israele se solo la comunità internazionale rimuovesse la sua faziosità pro-Israele e prendesse posizione a favore della decolonizzazione.

Mentre Netanyahu tenta di stringere alleanze contro la CPI, che cosa farà la comunità internazionale? Se la CPI ha stabilito che Israele ha commesso crimini di guerra, il minimo che la comunità internazionale possa fare è sbarazzarsi della retorica dei “presunti crimini di guerra” per sostenere il diritto internazionale e decostruire l’impunità che ha protetto Israele. Se ritenere prioritarie le richieste coloniali di Israele viene prima della legislazione che regola ciò che costituisce i crimini di guerra, la comunità internazionale renderà possibili ulteriori violazioni come nuovi piani di annessione e le prossime indagini saranno eclissate da una nuova ondata di impunità tale per cui ci potrebbero volere decenni prima che siano sottoposte ad attenzione giuridica.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Quello che c’è da sapere sull’indagine della Corte Penale Internazionale sui crimini di guerra israeliani nella Palestina occupata

Ramzy Baroud e Romana Rubeo

12 maggio 20202 – Palestine Chronicle

Fatou Bensouda, procuratrice capo della Corte Penale Internazionale (CPI), ha definitivamente risolto i dubbi sulla giurisdizione della Corte per indagare sui crimini di guerra commessi nella Palestina occupata.

Il 30 aprile Bensouda ha diffuso un documento di 60 pagine che stabilisce diligentemente le basi giuridiche per tale decisione, concludendo che “la Procura ha esaminato attentamente le osservazioni delle parti e rimane dell’opinione che la Corte abbia giurisdizione sul Territorio palestinese occupato”.

La spiegazione legale di Bensouda era di per sé una decisione preventiva, risalente al dicembre 2019, in quanto la procuratrice della CPI ha anticipato una reazione coordinata da Israele contro le indagini sui crimini di guerra commessi nei territori occupati.

Dopo anni di trattative, nel dicembre 2019 la CPI aveva deciso che “ai sensi dell’articolo 53 paragrafo 1 dello statuto [di Roma, che ha istituito la Corte, ndtr.] esiste una base ragionevole per procedere a un’indagine sulla situazione in Palestina.”

L’articolo 53, paragrafo 1, descrive semplicemente le fasi procedurali che in genere conducono, o non conducono, a un’indagine della Corte.

Tale articolo è soddisfatto quando la quantità di prove fornite alla Corte è così convincente da non lasciare alla CPI nessun’altra opzione se non quella di procedere con un’indagine.

Infatti Bensouda aveva già dichiarato alla fine dell’anno scorso di aver “accertato il fatto che “primo, i crimini di guerra siano stati commessi o siano in corso in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza; secondo, i casi potenziali derivanti dalla situazione sarebbero ammissibili; terzo, non vi sono motivi sostanziali per ritenere che un’indagine non sia utile agli interessi della giustizia”.

Naturalmente, Israele e il suo principale alleato occidentale, gli Stati Uniti, si sono infuriati. Israele non è mai stato ritenuto responsabile dalla comunità internazionale per crimini di guerra e altre violazioni dei diritti umani in Palestina. La decisione della CPI, specialmente se l’indagine andasse avanti, sarebbe un precedente storico. Ma, cosa avrebbero dovuto fare Israele e gli Stati Uniti, dato che nessuno dei due è uno Stato aderente alla CPI, e non hanno quindi alcuna effettiva influenza sul procedimento interno del tribunale? Bisognava trovare una soluzione.

Per ironia della storia, la Germania, che ha dovuto rispondere a numerosi crimini di guerra commessi dal regime nazista durante la seconda guerra mondiale, è intervenuta per fungere da principale difensore di Israele presso la CPI e per proteggere i criminali di guerra israeliani accusati della responsabilità legale e morale.

Il 14 febbraio la Germania ha presentato un ricorso alla CPI chiedendo che le fosse assegnato il ruolo di “amicus curiae”, che significa “amico della corte”. Ottenendo questo status speciale, la Germania ha potuto presentare obiezioni a sostegno di Israele contro la precedente decisione della CPI.

La Germania, tra gli altri argomenti, ha poi sostenuto che la CPI non aveva alcuna autorità legale per discutere i crimini di guerra israeliani nei territori occupati. Questi sforzi, tuttavia, alla fine non hanno prodotto alcun risultato.

La questione è ora di competenza della camera pre-processuale della CPI.

La camera pre-processuale è composta da giudici che autorizzano l’apertura di indagini. Solitamente, una volta che il procuratore decide di prendere in considerazione un’indagine, deve informare la Camera pre-processuale della sua decisione.

Secondo lo Statuto di Roma, articolo 56, lettera b), “la Camera pre-processuale può, su richiesta del procuratore, adottare le misure necessarie per garantire l’efficacia e la correttezza dei procedimenti e, in particolare, la tutela dei diritti della difesa”.

Il fatto che il caso palestinese sia stato portato fino a questo punto può e deve essere considerato una vittoria per le vittime palestinesi dell’occupazione israeliana. Tuttavia, se l’indagine della CPI procederà secondo il mandato originario richiesto da Bensouda, rimarranno gravi lacune legali e morali che scoraggiano chi chiede giustizia per la Palestina.

Per esempio, i rappresentanti legali delle vittime palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza hanno espresso la propria preoccupazione, a nome delle vittime, in merito “alla portata apparentemente limitata dell’indagine sui crimini subiti dalle vittime palestinesi che si trovano in questa situazione.”

La “portata limitata dell’indagine” ha finora escluso crimini gravi come i crimini contro l’umanità. Secondo l’equipe giuridica che si occupa di Gaza, l’uccisione di centinaia e il ferimento di migliaia di manifestanti disarmati che partecipano alla “Grande marcia del ritorno” è un crimine contro l’umanità che deve essere indagato.

La giurisdizione della CPI, naturalmente, va oltre la decisione di Bensouda di indagare solo i “crimini di guerra”.

L’articolo 5 dello Statuto di Roma, il documento istitutivo della CPI, estende la giurisdizione della Corte per indagare sui seguenti “reati gravi”: (a) crimine di genocidio; (b) crimini contro l’umanità; (c) crimini di guerra; (d) crimine di aggressione.

Non dovrebbe sorprendere che Israele sia indagato su tutti e quattro i punti e che la natura dei crimini israeliani contro i palestinesi tenda spesso a costituire un insieme di due o più di questi punti contemporaneamente.

L’ex relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani dei palestinesi (2008-2014), il prof. Richard Falk, ha scritto nel 2009, subito dopo una micidiale guerra israeliana contro la Striscia di Gaza assediata, che:

Israele ha avviato la campagna di Gaza senza un’adeguata base legale o una giusta causa, ed è stato responsabile della stragrande maggioranza delle devastazioni e della sofferenza dei civili nel suo complesso. Il fatto che Israele si sia basato su un approccio militare per sconfiggere o punire Gaza è stato intrinsecamente ‘criminale’ e come tale ha dimostrato sia violazioni della legge di guerra che la perpetrazione di crimini contro l’umanità”.

Oltre ai crimini di guerra e ai crimini contro l’umanità, Falk estese la sua argomentazione legale a una terza categoria. “C’è un altro elemento che rafforza l’accusa di aggressione. La popolazione di Gaza era stata sottoposta a un blocco punitivo per 18 mesi quando Israele ha lanciato i suoi attacchi”.

Che dire del crimine di apartheid? Rientra, ovunque sia commesso, nelle precedenti definizioni e nelle prerogative giurisdizionali della CPI?

La Convenzione internazionale del novembre 1973 sulla repressione e la punizione del crimine di apartheid lo definisce come “un crimine contro l’umanità, e gli atti disumani derivanti dalle politiche e pratiche di apartheid e politiche e pratiche analoghe in materia di segregazione razziale e discriminazione, come definite nell’articolo 2 della Convenzione, sono reati che violano i principi del diritto internazionale, in particolare gli scopi e i principi della Carta delle Nazioni Unite, e costituisce una grave minaccia per la pace e la sicurezza internazionale”.

La Convenzione è entrata in vigore nel luglio 1976, quando è stata ratificata da venti Paesi. Per lo più potenze occidentali, tra cui gli Stati Uniti e Israele, vi si opposero. Particolarmente importante riguardo alla definizione di apartheid, come enunciato nella Convenzione, è che il crimine di apartheid è stato svincolato dal contesto specifico sudafricano e reso applicabile a politiche razziali discriminatorie in qualsiasi Stato.

Nel giugno 1977 il Protocollo 1 aggiunto alle Convenzioni di Ginevra dichiarò l’apartheid “una grave violazione del Protocollo e un crimine di guerra”.

Ne consegue che esistono basi giuridiche per sostenere che il crimine di apartheid può essere considerato sia un crimine contro l’umanità che un crimine di guerra.

L’ex relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani dei palestinesi (2000-2006), il prof. John Dugard, lo ha affermato subito dopo l’adesione della Palestina alla CPI nel 2015:

Per sette anni, ho visitato il territorio palestinese due volte all’anno. Ho anche condotto una missione conoscitiva dopo l’operazione “Piombo Fuso” a Gaza nel 2008-09. Quindi ho familiarità con la situazione e con l’apartheid. Ero un avvocato per i diritti umani nel Sudafrica dell’apartheid. E io, come praticamente ogni sudafricano che visiti il territorio occupato, ho una terribile sensazione di déjà vu. Abbiamo già visto tutto questo, a parte il fatto che è infinitamente peggiore. Quello che è successo in Cisgiordania è che la creazione di un’impresa di colonizzazione si è tradotta in una situazione molto simile a quella dell’apartheid, in cui i coloni sono l’equivalente dei bianchi sudafricani. Godono di diritti superiori ai palestinesi, e li opprimono. Quindi si ha un sistema di apartheid nel territorio palestinese occupato. E potrei dire che l’apartheid è anch’esso un crimine di competenza del Tribunale Penale Internazionale”.

Considerando il numero di risoluzioni ONU che Israele ha violato nel corso degli anni, l’occupazione perpetua della Palestina, l’assedio di Gaza e l’elaborato sistema di apartheid imposto ai palestinesi attraverso un grande insieme di leggi razziste, (culminato nella cosiddetta legge dello Stato-Nazione del luglio 2018) dichiarare Israele colpevole di crimini di guerra, tra cui “crimini gravi”, dovrebbe essere una questione scontata.

Ma la CPI non è esclusivamente una piattaforma legale. È anche un’istituzione politica che è soggetta agli interessi e ai capricci dei suoi membri. L’intervento della Germania, a nome di Israele, per dissuadere la CPI dall’indagare i crimini di guerra di Tel Aviv è un esempio emblematico.

Il tempo dirà fino a che punto la CPI è disposta a spingersi nel suo tentativo storico e senza precedenti, volto finalmente a indagare sui numerosi crimini che sono stati commessi in Palestina senza ostacoli, senza conseguenze e senza senza doverne rispondere.

Per il popolo palestinese, la giustizia a lungo negata non arriverà mai troppo presto.

Ramzy Baroud è giornalista ed editore di The Palestine Chronicle. È autore di cinque libri. Il suo ultimo è “Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e sfida nelle carceri israeliane” (Clarity Press, Atlanta). Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA), Istanbul Zaim University (IZU).

Romana Rubeo è una giornalista italiana e caporedattrice di The Palestine Chronicle. I suoi articoli sono apparsi su molti giornali online e riviste accademiche. Ha conseguito un Master in Lingue e letterature straniere ed è specializzata nella traduzione audiovisiva e giornalistica.

Trad: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org




L’UE recede da una presa di posizione nei confronti di Israele sull’annessione della Cisgiordania

Ali Abunimah

23 aprile 2020 – Electronic Intifada

A quanto pare l’Unione europea ha receduto dalla sua minaccia di imporre delle misure nei confronti di Israele nel caso metta in atto ulteriori annessioni di territori della Cisgiordania occupata.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu e il leader del partito Blu e Bianco Benny Gantz, dopo un anno di stallo politico e tre elezioni generali, hanno raggiunto un accordo per formare una coalizione.

L’accordo di coalizione prevede l’impegno che da luglio il governo e il parlamento israeliani procedano alla votazione per l’annessione vaste aree della Cisgiordania.

Secondo il Times of Israel, tali misure probabilmente verrebbero approvate.

Giovedì, il responsabile della politica estera europea Josep Borrell ha ribadito la posizione del blocco delle 27 Nazioni secondo cui “qualsiasi annessione costituirebbe una grave violazione del diritto internazionale”.

“L’Unione Europea continuerà a monitorare attentamente la situazione e le sue più ampie implicazioni e agirà di conseguenza”, ha aggiunto Borrell.

Naturalmente “agire di conseguenza” potrebbe significare non fare nulla.

Un linguaggio annacquato

Considerando quanto i diplomatici dell’UE siano in sintonia con le sottigliezze linguistiche – e data la loro propensione a fare più o meno un copia-incolla di precedenti dichiarazioni – è degno di nota come Borrell non abbia ribadito una frase molto più incisiva di una dichiarazione fatta solo pochi mesi fa.

All’inizio di febbraio, Borrell ha reagito al piano del presidente Donald Trump, comunemente chiamato Accordo del Secolo, che sostiene l’annessione israeliana di gran parte della Cisgiordania, con un raro, se non inedito, avvertimento che Israele avrebbe dovuto affrontare delle conseguenze.

“Dei passi verso l’annessione, se attuati, non potrebbero passare incontrastati”, ha affermato Borrell nell’occasione.

Come avevo rilevato allora, ci sono poche possibilità che l’UE cambi effettivamente il suo approccio di lunga data di sostegno incondizionato a Israele, nonostante commetta violazioni su violazioni, crimini su crimini.

Avevo anche evidenziato come Israele avesse già annesso Gerusalemme est occupata nel 1967 e le alture del Golan in Siria nel 1981 – gravi violazioni del diritto internazionale che hanno avuto come unico riscontro decenni di elargizioni profuse dalla UE ad Israele.

Ciò è in netto contrasto con il modo in cui l’UE ha imposto sanzioni alla Russia per l’annessione della Crimea dall’Ucraina nel 2014. A gennaio l’UE ha aggiunto a tali misure punitive le sanzioni ai funzionari russi che hanno contribuito a organizzare le elezioni in Crimea.

Israele tiene regolarmente elezioni in Cisgiordania in cui possono votare solo i coloni israeliani. L’UE abitualmente elogia queste elezioni segregazioniste organizzate negli insediamenti coloniali costruiti illegalmente sui territorio occupato.

Borrell, recedendo dalla sua già debole dichiarazione di febbraio, ha inviato un altro segnale a Israele secondo cui non avrebbe nulla da temere da Bruxelles.

Nella sua ultima dichiarazione, Borrell promette che l’UE è “intenzionata a cooperare strettamente con il nuovo governo nella lotta contro il coronavirus”.

Aggiunge che “la cooperazione tecnica è in corso e sarà rafforzata su tutti gli aspetti della pandemia”.

Una “cooperazione” rafforzata con ogni probabilità significa maggiori elargizioni dell’UE all’industria bellica israeliana.

Semaforo verde di Washington

L’amministrazione Trump ha nel frattempo dato il via libera all’annessione.

Mercoledì il segretario di Stato Mike Pompeo ha confermato che gli Stati Uniti considerano la questione come una “decisione israeliana”.

Ciò rende particolarmente significativi i possibili passi da parte dell’UE per contrastare questo sostegno incondizionato degli Stati Uniti.

Ma l’UE, il principale partner commerciale di Israele, non ha la volontà e la credibilità per agire.

All’inizio di questa settimana è emerso che i funzionari dell’UE avevano avvertito Gantz di non sottoscrivere un accordo per un governo determinato a procedere all’annessione.

Secondo il Times of Israel, “si diceva che i funzionari avessero lanciato l’avvertimento che una tale mossa da parte di un potenziale governo di unità avrebbe danneggiato le relazioni di Israele con l’UE, suscitando una forte risposta”.

Gantz non gli ha dato retta, indubbiamente fiducioso che l’UE continuerà la sua politica di di sporadiche sfuriate riguardo alle azioni di Israele continuando a inondarla di regalini.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)