Dichiarazione su Gaza di funzionari pubblici delle due sponde dell’Atlantico: È nostro dovere far sentire la nostra voce quando le politiche dei nostri governi sono sbagliate

Rilasciata il 2 febbraio 2024

Versione originale

Dichiarazione dei funzionari pubblici riguardo a Gaza.

Ricordando che:

  • Abbiamo il dovere di rispettare, proteggere e tutelare le nostre costituzioni e i vincoli giuridici internazionali e nazionali a cui ci hanno impegnati i nostri governi democraticamente eletti;

  • In quanto funzionari pubblici, ci si aspetta da noi che rispettiamo, serviamo e difendiamo le leggi quando mettiamo in pratica le politiche, indipendentemente dai partiti politici che sono al potere, cosa che abbiamo fatto durante tutta la nostra carriera;

  • Siamo stati assunti per servire, informare e consigliare i nostri governi/istituzioni e abbiamo dimostrato professionalità, competenza ed esperienza su cui i nostri governi hanno contato durante decenni di servizio;

  • Abbiamo manifestato all’interno [delle pubbliche amministrazioni] le nostre preoccupazioni che le politiche dei nostri governi/istituzioni non soddisfino gli interessi comuni e abbiamo chiesto alternative che sarebbero più utili alla sicurezza, democrazia e libertà nazionali e internazionali, rifletterebbero i principi fondamentali della politica estera occidentale e recepirebbero quanto abbiamo imparato;

  • Le nostre preoccupazioni professionali sono state ignorate in base a considerazioni di carattere politico e ideologico;

  • Siamo obbligati a fare tutto quanto in nostro potere a favore dei nostri Paesi e di noi stessi per non essere complici di una delle peggiori catastrofi umanitarie di questo secolo;

  • Abbiamo l’obbligo di mettere in guardia le opinioni pubbliche dei nostri Paesi, per le quali prestiamo servizio, e di agire di concerto con i nostri colleghi a livello internazionale.

Ribadiamo pubblicamente le nostre preoccupazioni riguardo al fatto che:

  • Israele non ha dimostrato alcun limite nelle sue operazioni militari a Gaza, che hanno hanno quindi causato decine di migliaia di evitabili morti civili, e il deliberato blocco degli aiuti da parte di Israele ha portato a una catastrofe umanitaria, mettendo a rischio di carestia e di una morte lenta migliaia di civili;

  • Le operazioni militari di Israele non hanno contribuito all’obiettivo del rilascio di tutti gli ostaggi e stanno mettendo a rischio il loro benessere, le loro vite e il loro rilascio;

  • Le operazioni militari israeliane hanno ignorato ogni importante lezione sull’antiterrorismo appresa dall’11 settembre e l’operazione [militare] non ha contribuito all’obiettivo israeliano di sconfiggere Hamas. ma al contrario ha rafforzato la popolarità di Hamas, Hezbollah e di altri attori negativi;

  • L’operazione militare in corso sarà dannosa non solo per la stessa sicurezza di Israele, ma anche per la stabilità regionale. Il rischio di guerre più ampie sta influendo negativamente anche sugli obiettivi di sicurezza dichiarati dai nostri governi;

  • I nostri governi hanno fornito alle operazioni militari israeliane un appoggio pubblico, diplomatico e militare. Questo supporto è stato fornito in modo incondizionato e senza nessuna responsabilizzazione. Quando sono stati messi di fronte a una catastrofe umanitaria i nostri governi non hanno chiesto un immeditato cessate il fuoco e la fine del blocco di cibo, acqua e medicinali indispensabili a Gaza;

  • Le attuali politiche dei nostri governi hanno indebolito la loro posizione etica e minacciano la loro possibilità di difendere libertà, giustizia e diritti umani a livello globale e indeboliscono i nostri tentativi di mobilitare il sostegno internazionale per l’Ucraina e contrastare le azioni malvage di Russia, Cina ed Iran;

  • C’è il ragionevole rischio che le politiche dei nostri governi stiano contribuendo a gravi violazioni delle leggi umanitarie internazionali, a crimini di guerra e persino a pulizia etnica o genocidio.

Pertanto chiediamo ai nostri governi/istituzioni di:

  • Smettere di dire all’opinione pubblica che dietro all’operazione militare israeliana c’è una motivazione strategica e giustificabile e che appoggiarla è nell’interesse dei nostri Paesi;

  • Ritenere Israele, come a tutti gli attori, responsabile in base agli stessi livelli umanitari e di diritti umani internazionali applicati altrove e rispondere obbligatoriamente degli attacchi contro i civili, come abbiamo fatto nel nostro sostegno al popolo ucraino. Ciò include la richiesta di una immediata e totale messa in pratica della recente ordinanza della Corte Internazionale di Giustizia;

  • Ricorrere ad ogni forma di pressione disponibile, compresa l’interruzione degli aiuti militari, per garantire un cessate il fuoco permanente, il pieno accesso umanitario a Gaza e un rilascio sicuro di tutti gli ostaggi;

  • Definire una strategia per una pace durevole che includa uno Stato palestinese sicuro e garanzie per la sicurezza di Israele, in modo che non si ripeta mai più un attacco come quello del 7 ottobre né un’offensiva contro Gaza.

Coordinata da funzionari pubblici di:

  • Enti e istituzioni dell’Unione Europea

  • Olanda

  • Stati Uniti

Appoggiata anche da funzionari pubblici di:

  • Belgio

  • Danimarca

  • Finlandia

  • Francia

  • Germania

  • Italia

  • Spagna

  • Svezia

  • Svizzera

  • Regno Unito

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La sentenza della Corte Internazionale di Giustizia sul “plausibile genocidio” a Gaza: una vittoria incompleta

Jeff Halper

29 gennaio 2024 Counterpunch

Qualsiasi valutazione sulla sentenza della Corte Internazionale di Giustizia del 26 gennaio deve iniziare con un applauso per le sue delibere secondo cui (1) le azioni militari di Israele a Gaza rientrano nelle definizioni della Convenzione sul Genocidio; (2) che i palestinesi sono effettivamente un gruppo distinto che si trova a subire il crimine di genocidio e (3) che l’affermazione del Sudafrica sul coinvolgimento israeliano in un “plausibile genocidio” è valida, il che significa che la Corte inizierà a processare Israele per genocidio. Si tratta di un processo che richiederà diversi anni ma è estremamente importante.

Gli stessi atti del processo avranno un effetto immenso su quella che in realtà è la Corte Mondiale, la Corte dell’Opinione Pubblica, fornendo sostegno legale, politico e morale alla lotta per i diritti dei palestinesi e alla fine del genocidio e dell’apartheid israeliani. Potrebbe anche favorire il perseguimento di funzionari e personale militare israeliani per crimini di guerra presso la Corte Penale Internazionale, nonché iniziare a ritenere responsabili i complici dei crimini di Israele.

Se Israele alla fine verrà condannato per genocidio, i Paesi che ne hanno sostenuto le politiche o lo hanno armato potrebbero essere processati per complicità ai sensi della Convenzione sul Genocidio. A livello locale, cause come quella di Defense for Children International-Palestine et al. contro Biden et al. in cui il presidente Biden, il segretario di Stato Blinken e il segretario alla Difesa sono stati citati in giudizio in un tribunale distrettuale della California per “mancata prevenzione e complicità nel genocidio in corso contro Gaza”, potrebbero avere maggiori possibilità di successo.

La giornata di oggi segna una vittoria decisiva per lo stato del diritto internazionale e una pietra miliare significativa nella ricerca di giustizia per il popolo palestinese”, ha affermato il Ministero degli Esteri sudafricano. “Non esiste alcuna base credibile perché Israele continui a sostenere che le sue azioni militari sarebbero nel pieno rispetto del diritto internazionale, inclusa la Convenzione sul Genocidio, vista la sentenza della Corte”.

La CIG dovrebbe essere elogiata anche per le sei misure provvisorie che ha imposto a Israele, vale a dire:

– Adottare tutte le misure per garantire che a Gaza non abbiano luogo atti considerati genocidari ai sensi della Convenzione sul Genocidio

– Garantire che i suoi militari non commettano atti di genocidio

– Prevenire e punire l’incitamento al genocidio

– Consentire e facilitare la fornitura di servizi di base e assistenza umanitaria alla popolazione di Gaza

– Prevenire la distruzione e preservare le prove del genocidio nelle operazioni militari

– Riferire alla Corte sulla sua ottemperanza entro un mese.

Tutte queste misure, oltre alla spiegazione dettagliata della Corte del motivo per cui Israele è di fatto coinvolto in un genocidio “plausibile” e in corso, ci danno tutto il sostegno legale per fare pressione per una fine effettiva del genocidio israeliano, più immediatamente a Gaza ma senza dimenticare il genocidio in corso commesso contro l’intero popolo palestinese sia nella Palestina storica che nel contesto della persistente esistenza di palestinesi rifugiati.

I punti deboli della sentenza

La sentenza della Corte Internazionale di Giustizia è quindi forte e importante nel prosieguo della lotta per i diritti dei palestinesi. Guardando la situazione, tuttavia, dalla prospettiva dell’immediata necessità di proteggere gli abitanti di Gaza dall’effettivo genocidio che stanno vivendo in questo momento – l’ordine urgente di imporre un cessate il fuoco chiesto dai sudafricani – dobbiamo unirci ai palestinesi nel deplorare la decisione della Corte di non aver emanato tale misura provvisoria. Il divieto di ogni atto di genocidio può assicurarsi il rispetto di Israele solo se rafforzato dall’imposizione di un cessate il fuoco. Ordinare semplicemente a Israele “di adottare tutte le misure in suo potere per non violare le disposizioni della Convenzione di Ginevra” e per garantire che le sue forze militari non la violino è, sul campo, poco effettivo e inefficace.

Finché Israele si astiene da atti apertamente genocidari – che ha già commesso e che ora potrebbe moderare – gli ordini possono ben poco per impedire l’effettivo scopo dei crimini di guerra, dei crimini contro l’umanità e, sì, del genocidio, che le operazioni militari in corso perpetuano. B’tselem, la principale organizzazione israeliana per i diritti umani, è d’accordo. “L’unico modo per attuare gli ordini emessi oggi dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia”, si legge in una nota diffusa, “è con un cessate il fuoco immediato. È impossibile proteggere la vita dei civili finché continuano i combattimenti”.

Molti difensori della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia, inclusa l’organizzazione palestinese per i diritti umani Al-Haq, sostengono che l’obbligo per Israele di porre fine o ridurre le sue operazioni militari è contenuto nella sentenza sul genocidio e nell’ordine delle misure provvisorie, dal momento che molte delle disposizioni – porre fine agli atti di genocidio, ad esempio, o consentire gli aiuti umanitari – non può essere realizzato senza un cessate il fuoco de facto.

Scrive l’avvocato per i diritti umani Robert Herbst: “All’interno della decisione sul genocidio e dell’ordine di misure provvisorie c’è, sub silentio, la richiesta che Israele interrompa o riduca le sue operazioni militari. Ciò potrebbe anche non equivalere ad un ‘cessate il fuoco’, ma potrebbe probabilmente realizzare in concreto la fine di tutti gli omicidi e i ferimenti di massa causati dal genocidio e della distruzione delle infrastrutture rimaste, e il massiccio ingresso di assistenza umanitaria che ripristinerebbe in certa misura la vita civile a Gaza”.

Mi permetto di dissentire. Quali azioni violino effettivamente le misure provvisorie è difficile da dire visto che per loro natura sono vaghe e manipolabili. Contro l’accusa che un atto sia genocida, ad esempio, Israele può invocare l’autodifesa. In effetti, è la loro incertezza che ha impedito alla Corte Internazionale di Giustizia di emettere l’ordine di cessate il fuoco. Affinché un “plausibile genocidio” possa essere effettivamente impedito, le sei misure provvisorie che vietano a Israele di continuare le sue azioni genocide devono essere emanate insieme a un cessate il fuoco immediato.

Stabilire che si tratta di genocidio prevede un processo a lungo termine volto a distruggere un popolo, in tutto o in parte (come nel caso del violento sfollamento dei palestinesi dalle loro terre e dalla loro patria da parte di Israele a partire dal 1948, o l’intento apertamente genocida del sionismo di sostituire la popolazione palestinese di Palestina con gli ebrei e trasformare un paese arabo in uno ebraico) o atti grossolanamente palesi di uccisione e distruzione (come Israele ha commesso a Gaza fino ad oggi).

Ma essere avvisato dalla Corte che sta esaminando specifici atti di genocidio consentirà a Israele di ridurre le operazioni militari in modo da astenersi apparentemente dal commettere atti specifici ritenuti genocidari senza, tuttavia, ridurre di fatto la letalità e la distruttività della sua guerra in corso. Così secondo la Corte l’uccisione di (finora) 27.000 palestinesi, la stragrande maggioranza dei quali civili, equivale ad un plausibile genocidio. Ma senza un ordine di cessate il fuoco e riducendo il comportamento genocida ad “atti”, Israele può affermare che ogni omicidio è uno sfortunato “danno collaterale” o un tragico errore.

La foresta del genocidio si perde a favore degli alberi delle azioni individuali. Israele ha già distrutto il 70% di Gaza e provocato lo sfollamento di oltre due milioni dei suoi abitanti. Può permettersi di andare avanti con più “attenzione”, mantenendo le sue operazioni militari al livello di “semplici” crimini di guerra e crimini contro l’umanità, il che significa che senza un cessate il fuoco le sei misure provvisorie non avranno alcun impatto sulle effettive operazioni militari.

Potrei sembrare troppo severo, ma in pratica il sottotesto della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia sembra essere: Ti diamo, Israele, il permesso di continuare la tua campagna militare a Gaza (con le sue conseguenze genocide, anche se non saranno commessi nuovi atti genocidari) purché d’ora in poi vi asteniate da atti che possano essere interpretati come genocidi. È vero, la Corte Internazionale di Giustizia potrebbe rivedere la sua decisione in futuro, ma si può sentire il collettivo sospiro di sollievo di Israele fino all’Aja.

L’esame arriverà tra un altro mese, quando Israele presenterà il suo rapporto alla CIG su come stia rispettando le misure. La Corte potrebbe quindi valutare i suoi sforzi e, se ritenuti significativamente carenti (ciò che a mio avviso avverrà, malgrado tutto), emettere un ordine di cessate il fuoco. Questo resta da vedere. Proprio mentre scrivo, il giorno dopo la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia Israele ha lanciato un grande attacco all’interno di Khan Yunis, circondando migliaia di civili intrappolati all’interno e iniziando la sua avanzata a sud verso Rafah, anche se “con attenzione”. Non vi è alcun indizio che la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia abbia influenzato in qualche modo le operazioni militari. In effetti, le azioni odierne di Israele potrebbero essere viste come una “risposta sionista” alla Corte Internazionale di Giustizia. È proprio la preoccupazione che la sentenza della CIG abbia scarso effetto immediato su ciò che i palestinesi stanno effettivamente vivendo che ha provocato la delusione per il rifiuto della Corte Internazionale di ordinare un cessate il fuoco.

La palla è nel nostro campo

La sentenza della Corte Internazionale di Giustizia evidenzia il difetto fatale del sistema giuridico internazionale: accordi e leggi meravigliose, ponderate e potenti come la Carta delle Nazioni Unite, la Convenzione sul Genocidio e la Quarta Convenzione di Ginevra – ognuna delle quali, se effettivamente applicata, avrebbe causato il crollo dell’occupazione illegale di Israele, protetto il popolo palestinese e fornito gli strumenti per smantellare il regime coloniale israeliano. Invece, abbiamo una struttura legale gravata da un sistema di adempimento estremamente debole che sostanzialmente annulla le leggi stesse.

La CIG ci ha se non altro fornito una forte motivazione legale e morale per portare avanti la nostra campagna contro il genocidio a Gaza. Tuttavia, in termini di protezione effettiva del popolo di Gaza e del ritenere Israele responsabile del suo crimine di genocidio, la CIG ci ha passato la palla. Evidentemente la palla dovrebbe passare nel campo dei nostri governi. Sono loro ad avere la responsabilità di far rispettare il diritto internazionale – una responsabilità che non hanno mai veramente assunto e che violano impunemente.

Sta a noi accettare il giudizio della Corte secondo cui il genocidio è stato plausibilmente condotto davanti ai nostri occhi e fare ciò che la Corte Internazionale di Giustizia avrebbe potuto fare e non ha fatto: costringere i nostri governi a imporre un cessate il fuoco immediato. Dobbiamo essere i cani da guardia che denunciano non solo il crimine di genocidio che è l’assalto di Israele a Gaza, ma tutti i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità che Israele continuerà a commettere e che sono connaturati al processo stesso di una pacificazione militare. Dobbiamo creare pressione pubblica sui nostri governi – in particolare su Stati Uniti e Germania – affinché interrompano i loro massicci trasferimenti di armi e impongano sanzioni economiche a Israele.

E dobbiamo essere consapevoli che il genocidio è in corso. Oltre a chiedere un cessate il fuoco, oltre a chiedere la fine del genocidio israeliano, dobbiamo ritenere Israele responsabile della situazione genocida che sta costruendo, e che continuerà anche dopo la fine delle ostilità.

Fermate subito il genocidio israeliano!

Immediato cessate il fuoco a Gaza!

Liberate tutti gli ostaggi israeliani e i prigionieri politici palestinesi

Jeff Halper è un antropologo israeliano anticoloniale, capo del Comitato Israeliano Contro le Demolizioni di Case (ICAHD) e membro fondatore della campagna One Democratic State. È l’autore di War Against the People: Israel, the Palestinians and Global Pacification (Guerra contro il popolo: Israele, i palestinesi e la pacificazione globale, Londra: Pluto Press 2015). Il suo ultimo libro è Decolonizing Israel, Liberating Palestine: Zionism, Settler Colonialism and the Case for One Democratic State (Decolonizzare Israele, liberare la Palestina: sionismo, colonialismo di insediamento e il progetto di un unico Stato democratico, Londra: Pluto Press 2021). Può essere contattato all’indirizzo jeffhalper@gmail.com.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Il voto per espellere il deputato della Knesset Cassif perché ha appoggiato la richiesta alla Corte Internazionale di Giustizia contro Israele è una persecuzione politica

Editoriale di Haaretz

30 gennaio 2024 – Haaretz

Con la decisione della Commissione parlamentare di espellere il deputato Ofer Cassif ([della lista di sinistra] Hadash-Ta’al) a causa del suo sostegno alla richiesta presentata dal Sudafrica contro Israele presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, la Knesset e lo Stato toccano il fondo in modo inaudito.

In quella denuncia il Sudafrica ha sostenuto che Israele è colpevole di genocidio nella Striscia di Gaza. La legge fondamentale della Knesset le consente di espellere un parlamentare sia per razzismo che per il sostegno alla lotta armata contro Israele. Ma niente di quello che Cassif ha affermato rientra in questa definizione.

La decisione della commissione di cacciare Cassif emana un puzzo di persecuzione politica. Se la Knesset fosse davvero decisa a espellere i razzisti al suo interno non ci sarebbero stati abbastanza parlamentari per formare l’attuale governo di Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich.

Il parlamentare Oded Forer ([del partito di estrema destra laica, ndt.] Yisrael Beiteinu), che ha guidato la corsa per espellere Cassif, ha messo in luce la logica contorta che lo ha spinto: “Si può considerare la denuncia all’Aia come se fosse stata presentata dallo stesso Cassif,” ha affermato. “E se ciò fosse stato ottenuto avrebbe minacciato la sicurezza di Israele.” Perché? Perché l’obiettivo di Cassif è stato “fermare i combattimenti,” ha continuato Forer, e poi “Hamas si sarebbe ripreso,” il che avrebbe dato come risultato “un danno per i nostri soldati.”

Dei 120 membri della Knesset 85 hanno firmato la richiesta di espellere Cassif, tutti meno i deputati del partito Laburista e dei partiti arabi. E martedì hanno votato per cacciarlo 14 dei 16 membri della commissione del parlamento.

Le anime illuminate che vogliono liberarsi di Cassif includono Moshe Saada (del Likud), che non molto tempo fa ha affermato: “E’ chiaro a chiunque che dobbiamo distruggere Gaza,” e Tzvika Foghel ([del partito di estrema destra religiosa] Otzma Yehudit), che un mese fa ha affermato che “prima sconfiggeremo Hamas ed Hezbollah, e per completare il tutto metteremo a posto la Corte Suprema.” Ma persino Matan Kahana e Zeev Elkin del centrista Partito dell’Unità Nazionale e Naor Shiri del partito di opposizione Yesh Atid hanno appoggiato l’espulsione.

Cassif ha tutto il diritto di pensare che Israele stia commettendo crimini di guerra. In effetti all’Aia i giudici più importanti del mondo hanno accettato di discutere di questa stessa questione. Ma la legge che consente l’estromissione [dei parlamentari, ndt.] è stata fin dall’inizio promulgata per liberarsi dei rappresentanti arabi alla Knesset, che intendono fare di Israele una vera democrazia e si identificano con la lotta dei palestinesi per liberarsi dall’occupazione. Questi deputati non appoggiano il terrorismo e sicuramente non l’attacco di Hamas del 7 ottobre, come ha ripetuto ancora una volta Cassif.

È piuttosto paradossale che la Knesset trovi qualcuno che a suo parere merita di essere cacciato solo qualche giorno dopo che a Israele è stato consegnato un ordine internazionale perché punisca gli istigatori e i razzisti che lo hanno portato davanti all’Aia e due giorni dopo una conferenza al Centro Congressi Internazionali di Gerusalemme in cui ministri e parlamentari hanno invocato il trasferimento di 2,3 milioni di gazawi.

L’approvazione dell’espulsione da parte della commissione non è la fine del percorso. Ci sono altre due fermate lungo il cammino: primo, l’approvazione da parte di tutta la Knesset, in cui 90 dei 120 deputati dovrebbero appoggiarla, e poi la Corte Suprema, se Cassif decidesse di presentare ricorso contro la pronuncia. Là presumibilmente i giudici rimedieranno al disastro della Knesset, come in genere fanno, e ribalteranno la decisione. Ma la macchia sulla democrazia israeliana non sarà cancellata facilmente.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Giustiziati nel sonno: come le forze israeliane hanno assassinato tre palestinesi durante un’incursione in un ospedale della Cisgiordania

SHATHA HANAYSHA

30 gennaio 2024 – Mondoweiss

Le forze israeliane travestite da operatori ospedalieri e civili sono entrate nell’ospedale Ibn Sina di Jenin e hanno assassinato tre palestinesi mentre dormivano. Questo sfrontato omicidio segna un’escalation senza precedenti nella guerra di Israele contro i palestinesi in Cisgiordania.

Abeer Al-Ghazawi è andata a dormire la scorsa notte sentendosi rassicurata, sapendo che suo figlio, Basel, era in un letto dell’ospedale Ibn Sina di Jenin, accompagnato da suo fratello Mohammed. Per lei l’ospedale rappresentava il posto più sicuro nella loro città natale, Jenin. Per mesi, l’esercito israeliano ha intensificato le sue operazioni nella città settentrionale della Cisgiordania e nel suo campo profughi, conducendo violenti raid e attacchi di droni che hanno ucciso decine di persone.

Basel, 19 anni, era in cura per un grave infortunio subito lo scorso ottobre quando un attacco di droni israeliani lo ha reso paraplegico, costretto su una sedia a rotelle. Ad accompagnarlo in ospedale c’erano il fratello maggiore Mohammed, 24 anni, e il loro amico Mohammed Jalamneh, 28 anni. Secondo testimoni, nelle prime ore del mattino di martedì 30 gennaio, i tre giovani dormivano nella stanza d’ospedale di Basel quando un’unità sotto copertura delle forze speciali israeliane è entrata nella loro stanza al terzo piano dell’ospedale e li ha giustiziati a bruciapelo, con armi da fuoco silenziate.

Una decina di membri delle forze speciali israeliane travestiti da operatori ospedalieri e civili palestinesi – tra cui soldati vestiti da donne palestinesi velate, uno con un marsupio per infanti e lavoratori dell’ospedale, e un altro travestito da paziente su sedia a rotelle – si sono infiltrati nell’unità di terapia intensiva dell’ospedale, aggredendo l’infermiera di turno.

Ripresi dalle telecamere a circuito chiuso, i soldati israeliani travestiti possono essere visti muoversi nel reparto ospedaliero con i fucili d’assalto spianati. Mentre alcuni soldati depongono i loro marsupi e altri travestimenti, si può vedere almeno un soldato che tiene sotto tiro un civile. Il civile è in ginocchio con le mani dietro la testa. Il soldato israeliano toglie la giacca all’uomo e poi gliela mette in testa.

Fuori dall’inquadratura delle riprese della telecamera di sorveglianza diffuse dall’ospedale Ibn Sina le forze speciali si sono fatte strada verso la stanza di Basel. Lì sono entrate nella stanza dove dormivano i tre giovani. I soldati hanno sparato cinque colpi, uccidendo Basel, suo fratello Mohammed e il loro amico Mohammed mentre dormivano. Nel giro di 10 minuti le forze si sono ritirate dalla scena.

Un testimone oculare e paziente dell’ospedale, che ha chiesto l’anonimato, ha informato Mondoweiss di aver sentito delle urla nel corridoio, di essere uscito e di aver visto tre persone armate davanti a lui. Uno dei soldati, ha raccontato il testimone, tratteneva l’infermiera di turno e “la picchiava continuamente sulla testa”.

I soldati hanno urlato all’uomo di tornare nella sua stanza. Ha detto a Mondoweiss che quando ha tentato di uscire di nuovo dalla sua stanza per vedere cosa stava succedendo i soldati hanno sparato verso la sua stanza.

Ha continuato affermando che, dopo che i soldati si erano ritirati, si è precipitato nella stanza in cui erano entrati solo per trovare i tre martiri “che giacevano nei loro letti, con il sangue che scorreva dalle loro teste”. Ha detto che l’operazione all’interno della stanza non è durata più di tre minuti e che si è reso conto, quando li ha sentiti parlare ebraico, che le persone che ha visto erano “musta’ribeen”, il termine arabo per le unità speciali delle forze israeliane che si travestono da palestinesi per effettuare rapimenti e omicidi nei territori palestinesi occupati.

Il testimone ha descritto quello che ha visto come “la scena più straziante” a cui aveva assistito in vita sua. Quando ha cercato di sdraiarsi e riposare dopo l’attacco ha detto che non riusciva a dormire, perché la scena orribile dei letti d’ospedale insanguinati gli scorreva nella mente.

Mondoweiss ha visitato la scena dell’assassinio poche ore dopo che ha avuto luogo. Il letto accessibile ai disabili dove dormiva Basel era macchiato di sangue. Il cuscino su cui giaceva era insanguinato e coperto di frammenti di cervello e cranio.

Accanto al letto di Basel c’erano i resti del suo ultimo pasto.

Inoltre il sangue di suo fratello e del loro amico era schizzato sulle pareti e sul pavimento della stanza dove dormivano.

Lo Shin Bet (Shabak), l’agenzia di intelligence interna israeliana, e l’esercito israeliano hanno riconosciuto in una dichiarazione congiunta di essere coinvolti nell’operazione all’interno dell’ospedale. Hanno dichiarato di aver “bloccato un gruppo di militanti di Hamas che si nascondevano nell’ospedale Ibn Sina nella città di Jenin mentre pianificavano di lanciare un attacco a breve”.

Mohammed Jalamneh è stato rivendicato da Hamas come un suo membro e i due fratelli, Basel e Mohammed, sono stati rivendicati come membri dal gruppo palestinese della Jihad islamica. Si dice che tutti e tre i giovani fossero combattenti della Brigata Jenin, un gruppo di resistenza palestinese all’interno di Jenin e nel campo profughi di Jenin che comprende più fazioni della resistenza.

Mentre Basel era effettivamente disabile e relegato su una sedia a rotelle, né lui né suo fratello o l’amico erano attivamente impegnati in un combattimento armato quando sono stati colpiti alla testa. Secondo l’ospedale quando sono stati assassinati i tre stavano dormendo.

Tuttavia, nonostante le gravi accuse secondo cui l’assassinio costituisce un crimine di guerra, i responsabili israeliani hanno festeggiato l’operazione.

“Mi congratulo vivamente con i commando della marina della polizia israeliana per la loro impressionante operazione di ieri sera in collaborazione con l’IDF e lo Shin Bet nel campo profughi di Jenin che ha portato all’eliminazione di tre terroristi”, ha dichiarato il Ministro della Sicurezza Nazionale israeliano Itamar Ben Gvir nel corso del video su X (ex Twitter).

Walid Jalamneh, padre del martire Mohammed, ha respinto e denunciato la dichiarazione ufficiale dell’esercito israeliano esprimendo il suo sgomento per l’intrusione nell’ospedale e la violazione della sacralità delle strutture mediche. Ha affermato che l’attacco è stato un “crimine evidente e una violazione delle leggi internazionali”.

Ha detto: “Sì, è vero che mio figlio è ricercato dagli occupanti [israeliani], ma l’irruzione nell’ospedale in questo modo mentre era in compagnia del suo amico e il suo fratello malato è un crimine

La Brigata Jenin, l’ala militare del Movimento della Jihad islamica, ha denunciato in un comunicato l’assassinio dei tre martiri all’interno dell’ospedale.

Il gruppo ha promesso di rispondere e ha affermato il proprio impegno a “continuare il cammino aperto dai martiri con il loro sangue puro”, sostenendo che questi omicidi non indeboliranno la loro determinazione.

Il Ministero della Sanità palestinese ha rilasciato una dichiarazione in cui invita urgentemente l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, le istituzioni internazionali e le organizzazioni per i diritti umani a porre tempestivamente fine alla “serie quotidiana di crimini commessi dall’occupazione contro le persone e i centri sanitari nella Striscia di Gaza” e in Cisgiordania” e ad offrire la “protezione necessaria alle strutture e al personale medico”.

La dichiarazione sottolinea inoltre che questo crimine è “parte di una serie di decine di crimini commessi dalle forze di occupazione contro strutture e personale medico” e ricorda che il diritto internazionale prevede una protezione generale e specifica per i luoghi civili, compresi gli ospedali, come stipulato nella Quarta Convenzione di Ginevra e Primo e Secondo Protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 1977, nonché dalla Convenzione dell’Aja del 1954.

Wesam Sbeihat, direttore del Ministero della Salute a Jenin, ha dichiarato a Mondoweiss: “L’intrusione nei reparti e nelle stanze dell’ospedale, così come l’esecuzione e l’assassinio all’interno dell’ospedale di un paziente e dei suoi compagni è un crimine che viene documentato e aggiunto all’elenco dei crimini dell’occupazione contro le équipe mediche e gli ospedali. L’occupazione deve essere ritenuta responsabile dei suoi crimini”.

Sbeihat ha proseguito: “Abbiamo anche il referto medico del paziente assassinato oggi; è stato sottoposto a riabilitazione medica per mesi contrariamente a quanto affermato dagli occupanti secondo cui si nascondeva all’interno dell’ospedale”.

Dal 2022 Israele tenta di eliminare la resistenza nel campo e nella città di Jenin attraverso vari mezzi, tra cui bombardamenti aerei, omicidi ed esecuzioni di militanti. Tuttavia questa è la prima volta che gli occupanti hanno invaso un ospedale ed effettuato un’operazione di assassinio al suo interno.

Questo fatto è anche successo pochi giorni dopo che la Corte Internazionale di Giustizia ha stabilito che l’accusa di genocidio avanzata dal Sudafrica contro Israele era “plausibile”, ordinando a Israele di “prevenire atti di genocidio” a Gaza.

Dall’inizio della campagna militare israeliana nella Striscia di Gaza il 7 ottobre l’esercito e il governo israeliani hanno continuato a perpetuare la narrazione secondo cui i gruppi militanti palestinesi utilizzano gli ospedali per le loro operazioni. Nonostante la mancanza di prove concrete dell’esistenza di “centri di comando” di Hamas all’interno o sotto gli ospedali di Gaza, Israele ha continuato ad attaccare gli ospedali di Gaza mentre le sue forze di terra si facevano strada attraverso la Striscia.

Il capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, Herzi Halevi, ha commentato l’assassinio avvenuto in ospedale, sostenendo che i tre giovani erano “coinvolti in una cellula terroristica che pianificava un grave attacco contro civili israeliani”. Halevi ha affermato che l’esercito israeliano “non permetterà che gli ospedali diventino una copertura per il terrorismo”.

Ha continuato: “Non vogliamo trasformare gli ospedali in campi di battaglia. Ma siamo ancora più determinati a non permettere che gli ospedali a Gaza, in Giudea e Samaria [così chiamano la Cisgiordania, ndtr.], in Libano, in superficie o nei cunicoli dei tunnel e nei tunnel sotto gli ospedali, diventino un luogo che funge da copertura per il terrorismo e che consente ai terroristi di nascondere armi, riposarsi, uscire per sferrare un attacco”.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Immagini e video satellitari rivelano che a Gaza almeno 16 cimiteri sono stati profanati dalle forze israeliane

Jeremy Diamond, Muhammad Darwish, Abeer Salman, Benjamin Brown e Gianluca Mezzofiore

20 gennaio 2024 – CNN

Un’indagine della CNN ha rivelato che nella sua offensiva di terra a Gaza lesercito israeliano ha profanato almeno 16 cimiteri distruggendo lapidi, devastando la terra e, in alcuni casi, abbandonando corpi dissotterrati.

A Khan Younis, nel sud di Gaza, dove allinizio di questa settimana i combattimenti si sono intensificati, le forze israeliane hanno distrutto un cimitero e riesumato i cadaveri nel corso di ciò che le forze di difesa israeliane (IDF) hanno definito in una dichiarazione alla CNN parte di una ricerca dei resti degli ostaggi sequestrati da Hamas durante gli attacchi terroristici del 7 ottobre.

La CNN ha esaminato le immagini satellitari e i filmati dei social media che mostrano la distruzione dei cimiteri che ha verificato direttamente nel corso di un viaggio in un convoglio delle IDF. Nel complesso le prove rivelano una pratica attuata sistematicamente dalle forze di terra israeliane nel corso della loro avanzata attraverso la Striscia.

La distruzione intenzionale di siti religiosi, come i cimiteri, viola il diritto internazionale, tranne in circostanze limitate relative al fatto che quel sito diventi un obiettivo militare, ed esperti di diritto hanno detto alla CNN che le azioni di Israele potrebbero costituire crimini di guerra.

Un portavoce delle IDF non è stato in grado di spiegare la distruzione dei 16 cimiteri dei quali la CNN ha fornito le coordinate, ma ha detto che lesercito a volte non ha altra scelta” se non quella di prendere di mira i cimiteri che, ha sostenuto, Hamas utilizzerebbe per scopi militari.

L’esercito ha affermato che il salvataggio degli ostaggi, il ritrovamento e la restituzione dei loro corpi è una delle sue missioni chiave a Gaza, motivo per cui dei corpi sarebbero stati rimossi da alcune tombe.

Il processo di identificazione degli ostaggi, condotto in un luogo diverso e sicuro, garantisce condizioni professionali ottimali e rispetto per il defunto”, ha detto un portavoce dellesercito alla CNN, aggiungendo che i corpi non ritenuti appartenere ad ostaggi sarebbero restituiti con dignità e rispetto”.

Ma in altri casi sembra che lesercito israeliano abbia utilizzato i cimiteri come avamposti militari. Lanalisi da parte della CNN delle immagini e dei video satellitari ha mostrato che i bulldozer israeliani hanno trasformato numerosi cimiteri in aree di sosta militari, livellando ampi spazi ed erigendo terrapieni per fortificare le posizioni.

Nel quartiere Shajaiya di Gaza City, dove un tempo sorgeva il cimitero, si potevano vedere veicoli militari israeliani circondati da terrapieni su tutti i lati. Secondo quanto riportato dai media locali la parte centrale del cimitero di Shajaiya è stata sgomberata prima della guerra. Ma le immagini satellitari hanno mostrato che altre parti sono state demolite più recentemente e che è visibile la presenza delle IDF dal 10 dicembre.

Il 18 dicembre l’esercito israeliano ha pubblicato una foto non datata di quello che ha affermato essere la conseguenza dell’impatto sul terreno del cimitero di Shajaiya di un razzo lanciato da Hamas. La CNN non ha potuto verificare in modo indipendente quando o dove sia stata scattata la foto.

È stato possibile vedere un’analoga scena di distruzione nel cimitero di Bani Suheila, a est di Khan Younis, dove le immagini satellitari hanno rivelato la deliberata e progressiva demolizione del cimitero e la creazione di fortificazioni difensive nel corso di almeno due settimane tra la fine di dicembre e linizio di gennaio.

Nel cimitero di Al Falouja nel quartiere di Jabalya, a nord di Gaza City, in quello di Al-Tuffah, a est di Gaza City, e in un cimitero nel quartiere di Sheikh Ijlin di Gaza City, lapidi distrutte e marcate impronte di pneumatici indicavano il passaggio sopra le tombe di veicoli pesantemente blindati o di carri armati.

La settimana scorsa il veicolo corazzato che trasportava una squadra della CNN ha attraversato direttamente il cimitero di New Bureij ad Al-Bureij, un campo profughi palestinese nel centro di Gaza, mentre usciva dalla Striscia. Su uno schermo all’interno del veicolo che mostrava delle riprese in tempo reale attraverso la sua telecamera anteriore erano visibili tombe su entrambi i lati della strada sterrata appena demolita. La CNN ha confermato l’ubicazione del cimitero geolocalizzando le riprese fatte quel giorno all’interno di Gaza e confrontandole con le immagini satellitari.

Altri cimiteri presi in esame dalla CNN nelle immagini satellitari hanno mostrato pochi o nessun segno di distruzione o di fortificazioni militari: tra questi due cimiteri dove sono sepolti i caduti della prima e della seconda guerra mondiale, tra cui cristiani e alcuni ebrei.

Il portavoce dellIDF non ha spiegato perché ampie aree di cimiteri siano state demolite con i bulldozer per convertirle in avamposti militari o perché dove un tempo c’erano le tombe si trovassero dei veicoli militari. Abbiamo un serio obbligo di rispettare i morti e non esiste alcuna prassi di convertire i cimiteri in postazioni militari”, ha detto il portavoce alla CNN.

Secondo le immagini satellitari, i video esaminati e le geolocalizzazioni della CNN, le forze israeliane hanno gravemente danneggiato il cimitero di Khan Younis tra lunedì notte e mercoledì mattina, mentre si muovevano nell’area circostante il complesso dell’ospedale Al Nasser e un ospedale da campo giordano.

Lesercito ha dichiarato alla CNN che quando vengono ricevute importanti informazioni d’intelligence o operative”, fanno seguitooperazioni precise di salvataggio di ostaggi nei luoghi specifici in cui sulla base delle informazioni potrebbero essere localizzati i loro corpi”.

Israele ha affermato che durante gli attacchi terroristici di Hamas del 7 ottobre sono state prese in ostaggio 253 persone e ritiene che 132 ostaggi, di cui 105 vivi e 27 morti, si trovino ancora a Gaza.

Non sono riuscito a trovare la sua tomba”

Dina, la figlia di Munther al Hayek, è stata uccisa nella guerra contro Gaza del 2014. Allinizio di gennaio Munther ha visitato la tomba di Dina nel cimitero di Sheikh Radwan a Gaza City ma lei non c’era. Ha cercato la tomba di sua nonna. Non c’era neanche quella.

Le forze di occupazione le hanno distrutte e demolite”, ha detto alla CNN Hayek, portavoce dell’organizzazione di opposizione palestinese Fatah a Gaza. Le scene sono orribili. Vogliamo che il mondo intervenga per proteggere i civili palestinesi”.

Anche Mosab Abu Toha, un poeta di Gaza le cui opere sono state pubblicate sul New York Times e sul New Yorker, ha appreso che il cimitero dove sono sepolti suo fratello minore e suo nonno è stato gravemente danneggiato dall’esercito israeliano.

Ora al sicuro al Cairo, Abu Toha ha raccontato alla CNN come il 26 dicembre suo fratello lo abbia chiamato dal cimitero di Beit Lahia, nel nord di Gaza, mentre cercava i suoi cari senza riuscire a trovarli.

In una registrazione della loro videochiamata, vista dalla CNN, le macerie ricoprono il terreno dove un tempo sorgeva il cimitero. Nelle immagini satellitari il cimitero è solcato in lungo e in largo da impronte di pneumatici di veicoli militari pesanti.

Il bilancio delle vittime a Gaza cresce di giorno in giorno. Secondo il Ministero della Sanità di Gaza controllato da Hamas più di 24.000 palestinesi sono stati uccisi negli attacchi israeliani. Le sepolture spesso avvengono rapidamente secondo la pratica islamica e, dall’inizio della guerra, i morti sono stati spesso sepolti in fosse comuni.

Alla fine di dicembre Israele ha restituito le salme di 80 palestinesi uccisi nel corso della guerra, affermando di aver verificato che non si trattava di ostaggi israeliani catturati da Hamas. I resoconti dei media palestinesi di quel periodo affermavano che i cadaveri restituiti non erano identificabili. La CNN non può verificare in modo indipendente tali affermazioni.

Rispettare i morti

Esperti di diritto internazionale affermano che la profanazione dei cimiteri viola lo Statuto di Roma, il trattato del 1998 che ha istituito e regola la Corte Penale Internazionale (CPI) per giudicare crimini di guerra, genocidi, crimini contro lumanità e crimini di aggressione. Israele, che originariamente aveva sostenuto la creazione della Corte, non ha ratificato lo Statuto di Roma.

I cimiteri sono tutelati in quantobeni civili” ai sensi del diritto internazionale e vengono loro concesse protezioni speciali, con limitate eccezioni.

I cimiteri possono essere attaccati o distrutti solo se laltra parte in guerra li utilizzi per scopi militari o se ciò sia ritenuto una necessità militare e il vantaggio militare ottenuto sovrasti il danno ai beni civili.

Janina Dill, co-direttrice presso lIstituto di Etica, Diritto e Conflitti Armati dellUniversità di Oxford, ha detto alla CNN: La natura civile del cimitero rimane in una certa misura intatta. Quindi chi vuole attaccare un cimitero deve comunque tenere conto della caratteristica di uso civile delle tombe e dellimportanza civile del cimitero, e deve ridurre al minimo i danni alla funzione civile del cimitero”.

Il Sudafrica ha sollevato la questione della distruzione dei cimiteri di Gaza da parte delle IDF come parte della sua denuncia davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, sostenendo che Israele sta commettendo un genocidio. Israele nega laccusa, ma Dill afferma che, sebbene la sola distruzione dei cimiteri non equivalga a un genocidio, può tuttavia contribuire a dimostrare le intenzioni di Israele.

C’è un profondo significato simbolico nellidea che nemmeno i morti siano lasciati in pace”, dice Dill. Il diritto internazionale umanitario protegge la dignità di chi è estraneo al combattimento come di chi combatte, e tale protezione non termina con la morte”.

Ma in almeno due casi è chiaro che si è fatto di tutto per rispettare i morti – nei cimiteri dove i palestinesi non sono sepolti.

A nemmeno un chilometro di distanza dal cimitero distrutto di Al-Tuffah, a est di Gaza City, si trova in gran parte intatto un cimitero che conserva i corpi di soldati, per lo più britannici e australiani, morti durante la prima e la seconda guerra mondiale. Un cratere sul luogo di sepoltura appare nelle immagini satellitari tra l’8 e il 15 ottobre, ma per il resto non è stato toccato dalla guerra.

Un secondo cimitero amministrato dalla Commissione delle Tombe di Guerra del Commonwealth nel centro di Gaza offre un esempio ancora più evidente. Relitti di veicoli dilaniati e strade distrutte circondano il cimitero. Ma il cimitero in sé, che contiene soprattutto tombe di cristiani e di alcuni soldati ebrei della prima guerra mondiale, è intatto.

Dei soldati israeliani hanno persino posato con una bandiera israeliana accanto alla tomba di un soldato ebreo sepolto lì e unaltra immagine pubblicata sui social media mostra un carro armato fermarsi al confine del cimitero – rispettando la sacralità di quel terreno consacrato.

Il rispetto di alcuni morti, ma non di altri, è in violazione del diritto internazionale, ha detto alla CNN Muna Haddad, avvocatessa per i diritti umani e studiosa del culto dei morti, aggiungendo: Ciò che sta accadendo è una chiara violazione di queste regole fondamentali e ‘commettere oltraggio alla dignità personale’ è considerato un crimine di guerra ai sensi dello Statuto di Roma”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




I palestinesi lottano per ricostruire le loro vite dopo i pogrom dei coloni in Cisgiordania

Yuval Abraham

18 gennaio 2024 – +972 Magazine

Unondata di violenze da parte dei coloni a partire dal 7 ottobre ha sottratto le terre e i mezzi di sussistenza a numerose comunità palestinesi che ora non sanno dove andare.

I figli sono tutto ciò che resta a Naama Abiyat. Incontro la ventinovenne madre di cinque figli all’interno di una tenda dalle pareti sottili dove vive nella Cisgiordania meridionale occupata; la tenda è quasi vuota, fatta eccezione per una coperta ricevuta da alcuni passanti e pochi ceppi di legno. I figli interrompono di tanto in tanto la nostra conversazione reclamando la sua attenzione e facendole capire che hanno freddo.

Fino a due mesi fa Abiyat aveva la sua stanza, una casa, un giardino e un uliveto ad Al-Qanoub, un piccolo villaggio di 40 abitanti a conduzione familiare situato a nord di Hebron. Tra l’11 ottobre e il primo di novembre, però, l’intera comunità è fuggita in seguito ad una serie di pogrom da parte di coloni israeliani provenienti dal vicino insediamento coloniale di Asfar e dall’adiacente avamposto di Pnei Kedem. I coloni hanno incendiato le case, aizzato i cani contro gli animali della fattoria e, sotto la minaccia delle armi, ordinato ai residenti di andarsene, altrimenti sarebbero stati uccisi.

Da allora Abiyat e i suoi figli vagano, senza terra e senza casa. Insieme ad altre quattro famiglie sfollate da Al-Qanoub hanno allestito tende provvisorie alla periferia della città di Shuyukh, più vicino a Hebron.

Il giorno dell’espulsione i coloni si sono rifiutati di consentire loro di portare via qualsiasi cosa dal villaggio in fiamme: la carta d’identità di suo marito, veicoli, materassi, cellulari, sacchi di olive, chiavi – “e i miei vestiti”, aggiunge uno dei figli. Tutto è stato abbandonato e in gran parte rubato. Il figlio maggiore di Abiyat, che ha 11 anni, non può più andare alla scuola vicina al villaggio perché non c’è nessuno che possa accompagnarlo.

Nei giorni precedenti la decisione della sua famiglia di fuggire dal villaggio Abiyat dormiva fuori con i suoi figli, temendo che i coloni dessero fuoco alla loro casa mentre dormivano, come era successo a uno dei suoi vicini. “Di notte chiudevamo la casa, spegnevamo le luci e poi andavamo a dormire tra gli ulivi, sotto il cielo”, dice.

Ora Abiyat è impegnata a cercare di ottenere del denaro sufficiente per comprare legna da ardere per linverno. “Sto parlando con te e tutto il mio corpo sta per esplodere”, dice. Qui è pieno di scorpioni e serpenti. I bambini si trovano in uno stato mentale difficile. Non li emoziona più niente nella vita.”

Con il pretesto della guerra, in Cisgiordania un totale di 16 villaggi palestinesi che ospitavano complessivamente oltre 1.000 persone sono stati completamente spopolati a seguito di unondata di violenza da parte dei coloni e di pogrom contro le comunità di pastori palestinesi. Separate dalle loro comunità e costrette a vivere in tende su terreni appartenenti ad altri palestinesi, le famiglie sfollate chiedono tutte la stessa cosa: poter tornare a casa.

Ci hanno detto che avevamo unora per andare via

Prima dellinizio della guerra il villaggio di Southern a-Nassariyah, nella Valle del Giordano, ospitava cinque famiglie, per un totale di 25 persone. Il 13 ottobre sono tutti fuggiti dalle loro case sotto le violente minacce dei coloni israeliani. Attualmente vivono in tende vicino al villaggio di Fasayil, su un terreno di proprietà di un abitante del luogo che ha permesso loro di restare a condizione che vadano via entro aprile. Le famiglie sfollate non sanno dove andranno dopo.

Ci hanno ridotto a fare i braccianti. Dio santo, ci hanno ridotto a fare i braccianti,dice Musa Mleihat, posando una tazza di tè su uno sgabello fuori dalla tenda divenuta la sua casa. Il giorno della sua espulsione ha perso la terra, il che ha significato perdere il sostentamento: non potendo più far pascolare il gregge, è stato costretto a vendere la maggior parte delle pecore e delle capre della famiglia.

Alcuni degli altri abitanti del villaggio hanno iniziato a lavorare come braccianti agricoli negli insediamenti coloniali vicini. Linsediamento di Tomer, ad esempio, è noto per i suoi datteri e gli ananas, e assume lavoratori palestinesi pagandoli illegalmente al disotto del minimo salariale. Molti degli sfollati dai villaggi affermano che diventare braccianti fa parte del costo dellessere costretti ad abbandonare la propria terra.

A sud-est di Ramallah anche i 180 residenti del villaggio di Wadi al-Siq sono stati espulsi con la forza a seguito di un pogrom da parte di coloni. Il 12 ottobre coloni e soldati hanno fatto irruzione nel villaggio, hanno sparato e scacciato donne e bambini prima di rapire tre uomini, ammanettarli, spogliarli, urinare su di loro, picchiarli fino a farli sanguinare e abusare sessualmente di loro.

Dopo averci bendato ci hanno detto che avevamo unora per lasciare il villaggio, dopodiché chiunque fosse rimasto sarebbe stato ucciso, racconta Abd el-Rahman Kaabna, il capo del villaggio. Tre mesi dopo lespulsione sta ancora combattendo per accettare la violenza subita, che ha traumatizzato profondamente i suoi figli, tanto che da allora continuano a bagnare il letto.

Kaabna spiega che in seguito all’espulsione tutta la sua vita è cambiata. La comunità di Wadi al-Siq è stata completamente smembrata: la maggior parte degli abitanti, compreso Kaabna, sono sparsi in tende a est e a sud della città di Ramun, mentre altri si trovano vicino alla città di Taybeh, nei pressi di Ramallah. Vivono tutti sulla terra di altri.

“Ci sentiamo estranei qui”, dice. Non abbiamo le case in cui vivevamo, con campi e pascoli aperti. Oggi vivo in un uliveto e il proprietario continua a chiedermi quanto resteremo”.

Dopo l’espulsione i figli di Kaabna, di 6 e 8 anni, non hanno ripreso a frequentare la scuola. A Wadi al-Siq cera una scuola per gli studenti fino allottava classe [in Palestina l’istruzione obbligatoria comprende dieci anni, ndt.], ma dopo che i residenti se ne sono andati, i coloni hanno rubato tutto allinterno, compresi i libri per bambini. Un mese fa hanno portato un trattore e hanno demolito tutte le nostre case”.

Il villaggio era pieno di ricordi

I coloni hanno distrutto o incendiato le case in molti dei villaggi che i palestinesi sono stati costretti ad abbandonare negli ultimi mesi, rendendo impossibile il ritorno degli ex abitanti. In questo modo, i coloni stanno completando l’intervento della politica del governo israeliano che per anni ha cercato di costringere i palestinesi a lasciare lArea C [parte della Cisgiordania occupata sotto totale controllo israeliano, ndt.]: rifiutando di riconoscere i loro villaggi, impedendo loro di accedere allacqua e allelettricità e demolendo le loro case. Secondo i dati forniti dallAmministrazione Civile, il braccio burocratico delloccupazione, allONG israeliana per i diritti di pianificazione Bimkom, tra il 2016 e il 2020 il governo ha rilasciato 348 volte più permessi di costruzione ai coloni israeliani rispetto ai palestinesi che vivono nellArea C.

Il villaggio di Zanuta, sulle colline a sud di Hebron, che prima dellinizio della guerra contava 250 residenti, è il più grande villaggio ad aver subito negli ultimi mesi la pulizia etnica da parte dei coloni. I coloni hanno successivamente distrutto la scuola del villaggio, insieme a 10 edifici residenziali. Quando gli abitanti di Zanuta hanno tentato di ritornare, un ispettore dellAmministrazione Civile ha detto loro che se avessero montato una sola tenda lesercito lavrebbe considerata una nuova costruzionee lavrebbe abbattuta.

Dopo essere fuggiti dalle loro case gli abitanti di Zanuta sono andati dispersi in sei luoghi diversi: alcuni vivono attualmente vicino al checkpoint di Meitar, all’estremità meridionale della Cisgiordania, alcuni vicino all’insediamento coloniale di Tene Omarim e altri hanno preso in affitto terreni ovunque siano riusciti a trovarne. Ci manchiamo l’un l’altro, mi dice Fayez al-Tal, un ex abitante del villaggio. “Dal giorno in cui abbiamo lasciato Zanuta non ci siamo più visti.”

Non solo gli abitanti hanno perso la maggior parte dei loro pascoli ma sono stati anche costretti a vendere la maggior parte delle loro greggi a causa delle ingenti tasse 70.000 shekel (circa 17.000 euro) a famiglia richieste per il trasporto di tutte le loro proprietà dal villaggio distrutto, lacquisto di nuove tende e baracche e del cibo per le pecore e le capre rimaste che non possono più pascolare.

Nei primi giorni della guerra gli 85 abitanti di Ein al-Rashash, un villaggio di pastori vicino a Ramallah, hanno raccolto le loro cose e sono fuggiti. “Il villaggio era pieno di ricordi della nostra infanzia”, dice uno degli abitanti. Oggi vivono in tende e baracche di alluminio che hanno costruito su un terreno roccioso vicino alla città di Duma. Non sanno cosa faranno in seguito.

Qui non ci sono coloni, ma ci sono altri problemi: lAmministrazione Civile, spiega Awdai, che viveva a Ein Rashash. Dopo che lui e altri hanno iniziato a montare le tende, un drone dell’Amministrazione Civile è arrivato e li ha fotografati. A breve potrebbe seguire un ordine di demolizione.

Il governo sostiene i coloni

Negli ultimi anni nellarea C della Cisgiordania sono stati realizzati decine di avamposti coloniali di allevamento di bestiame e sono diventati una forza trainante per l’incremento delle violenze contro i palestinesi. Tuttavia per molti ex abitanti di villaggi spopolati la paura dei coloni teppisti” non è lunica ragione del loro sfollamento, né ciò che impedisce loro di tornare a casa. Il problema più grave è rappresentato dal sostegno che i coloni ricevono dallesercito e dalla polizia israeliani.

Sappiamo come proteggerci, dice al-Tal, di Zanuta. Ma se lo facciamo i soldati ci sparano o finiamo in prigione. Il governo sostiene i coloni. In passato, racconta, quando i soldati o la polizia arrivavano nel villaggio durante un raid dei coloni arrestavano i palestinesi. Gli abitanti di ciascuno dei villaggi sfollati ripetono la stessa cosa: l’esercito protegge gli aggressori e arresta coloro che vengono aggrediti.

Il 3 gennaio si è tenuta un’udienza presso la Corte Suprema israeliana in merito ad un ricorso presentato a nome degli abitanti di Zanuta e di altri villaggi rimasti completamente o parzialmente spopolati. Lappello chiedeva allo Stato di specificare quale fosse il suo impegno rivolto a proteggere tali comunità dai coloni e chiedeva alle autorità di creare condizioni sul campo che consentissero alle comunità sfollate di tornare nelle loro terre.

Qamar Mashraki-Assad e Netta Amar-Shiff, che rappresentavano i palestinesi, hanno detto ai giudici che la polizia ignora sistematicamente le denunce sulla violenza dei coloni rifiutandosi di raccogliere prove sul campo. Inoltre lesercito non agisce in conformità con lobbligo previsto dal diritto internazionale di proteggere la popolazione occupata.

Durante ludienza, Roey Zweig, un ufficiale del Comando Centrale dellesercito, responsabile delle unità che operano in Cisgiordania e delle costruzioni nellArea C, ha affermato assurdamente che negli ultimi tempi la violenza dei coloni sarebbe in realtà diminuita grazie a misure che l’esercito avrebbe iniziato ad attuare. Nel corso delle sue osservazioni, Zweig che nel 2022, mentre prestava servizio come comandante della Brigata Samaria, aveva affermato che [il progetto di] insediamento coloniale e lesercito sono una cosa sola” – ha definito i villaggi spopolati avamposti palestinesi, ricorrendo al termine utilizzato per le comunità israeliane sulle colline della Cisgiordania che sono palesemente illegali secondo la stessa legge israeliana.

Gli abitanti di ciascuno dei villaggi spopolati conoscono i nomi dei coloni che li hanno terrorizzati e gli insediamenti o avamposti coloniali di cui fanno parte. Per mesi, se non anni, questi coloni hanno fatto di tutto per espellerli, impossessarsi delle loro terre e minacciarli violentemente.

Tuttavia, secondo un funzionario della sicurezza che ha parlato con +972 Magazine e Local Call, occuparsi delle violenze dei coloni e dellespulsione delle comunità palestinesi non rientra nel mandatodellAmministrazione Civile. Le accuse di discriminazione nei permessi di costruzione o nell’applicazione delle norme, ha detto il funzionario, dovrebbero essere “dirette altrove” perché l’Amministrazione Civile è “solo un organo esecutivo”, non “politico”.

Yuval Abraham è un giornalista e attivista che vive a Gerusalemme.

(traduzione dall’Inglese di Aldo Lotta)




Un ‘genocidio culturale’: quali sono i siti storici distrutti a Gaza?

Indlieb Farazi Saber

14 gennaio 2023 – Al Jazeera

Negli ultimi 100 giorni circa 200 siti di importanza storica sono stati distrutti o danneggiati dai raid aerei israeliani contro l’enclave palestinese.

Secondo un’ong che documenta i danni di guerra ai siti storici un porto antico datato all’800 a.C., una moschea che conserva rari manoscritti e uno dei più antichi monasteri cristiani del mondo sono solo alcuni degli oltre 195 siti distrutti o danneggiati dal 7 ottobre quando è iniziata la guerra di Israele contro Gaza.

Spazzare via il patrimonio culturale di un popolo è uno dei molti crimini di guerra che il Sudafrica cita nella causa intentata contro Israele esaminata la scorsa settimana dalla Corte Internazionale di Giustizia. In essa si legge: “Israele ha danneggiato e distrutto numerosi centri di studio e cultura palestinesi”, fra cui biblioteche, luoghi religiosi e importanti siti storici antichi.

Secondo gli storici Gaza, una delle aree del mondo abitate da più tempo, è stata patria di una mescolanza di popoli almeno fin dal XV secolo a.C.

Gli imperi dell’antico Egitto, degli assiri e dei romani sono andati e venuti, dominando in momenti diversi la terra dei Cananei, gli antenati dei palestinesi, lasciando reperti del proprio patrimonio culturale. Nel corso dei secoli anche greci, ebrei, persiani e nabatei sono vissuti in questa striscia costiera.

Situata strategicamente sulla costa orientale del Mediterraneo, Gaza è sempre stata in una posizione eccellente sulle vie commerciali fra Eurasia verso l’Africa. I suoi porti l’hanno resa un polo regionale per commerci e cultura. Almeno dal 1300 a.C. la Via Maris che da Eliopolis, nell’antico Egitto, tagliava la costa occidentale di Gaza e poi entrava in Siria era il principale passaggio per i viaggiatori diretti a Damasco.

Il crimine di prendere di mira e distruggere siti archeologi dovrebbe spronare il mondo e l’UNESCO ad agire per conservare questa grande civiltà e il suo patrimonio culturale,” ha detto il ministero per il Turismo e le Antichità di Gaza dopo la distruzione della grande moschea di Omari nel corso di un attacco aereo israeliano l’8 dicembre.

Come conseguenza di quel particolare attacco, un’antica collezione di manoscritti conservata nella moschea potrebbe essere andata persa per sempre. “La collezione di manoscritti resta nelle vicinanze della moschea e al momento inaccessibile perché il conflitto è ancora in corso,” ha detto ad Al Jazeera subito dopo l’attacco padre Columba Stewart, direttore esecutivo dell’Hill Museum and Manuscript Library (HMML).

Secondo la convenzione dell’Aja del 1954, ratificata sia da palestinesi che da israeliani, si dovrebbero difendere i monumenti dalle devastazioni della guerra. Isber Sabrine, presidente di un’ong internazionale che documenta il patrimonio culturale, ha spiegato che i crimini che riguardano il patrimonio culturale fanno parte “dei danni collaterali del genocidio”.

Le biblioteche fungono da contenitori di cultura e un attacco contro di esse è un attacco contro il patrimonio culturale. Ciò che sta accadendo ora è un crimine di guerra. Contravviene alla prima convenzione dell’Aja,” dice Sabrine. “Israele sta tentando di cancellare il legame del popolo con la propria terra. È molto chiaro e intenzionale. L’eredità di Gaza fa parte del suo popolo, è la sua storia e il suo legame.”

Se il genocidio culturale cancella il patrimonio tangibile come musei, chiese e moschee, quello immateriale include costumi, cultura e manufatti. Anche questi sono stati danneggiati, come [la sede del] sindacato degli artisti palestinesi in Jalaa Street a Gaza City e i famosi vasi di argilla prodotti un tempo nel quartiere di al-Fawakhir.

In una dichiarazione ad Al Jazeera l’UNESCO ha detto: “Se la priorità è giustamente data alla situazione umanitaria, anche la protezione del patrimonio culturale in tutte le sue forme deve essere tenuta in conto. Secondo il suo mandato l’UNESCO fa appello a tutti gli attori coinvolti a rispettare rigorosamente il diritto internazionale. Un bene culturale non dovrebbe essere preso di mira o usato a scopi militari in quanto è considerato una infrastruttura civile.”

Ecco un elenco di alcuni dei siti che sono stati distrutti o danneggiati:

Musei

Ci sono quattro musei a Gaza e due sono stati spianati, come confermato ad Al Jazeera dall’International Council of Museums-Arab (ICOM-Arab).

Il Museo Rafah aveva completato un progetto trentennale di curatela di una collezione di monete antiche, piatti di rame e gioielli che ne faceva il principale museo di Gaza del patrimonio palestinese. È stato una delle prime vittime della guerra, distrutto in un attacco aereo l’undici ottobre.

Il museo Al Qarara (anche noto come il Museo Khan Younis), più ad oriente e una volta situato in cima a una collina, fu aperto nel 2016 dai coniugi Mohamed e Najla Abu Lahia che volevano conservare per le generazioni future la storia del territorio e del patrimonio di Gaza.

La collezione consisteva di circa 3.000 manufatti risalenti ai Cananei, la civiltà dell’età del Bronzo che visse a Gaza e in gran parte del Levante nel secondo secolo a.C.

Ora tutto ciò che resta del museo sono frammenti di ceramica e vetri rotti che sono schizzati fuori dalle vetrine durante un attacco aereo in ottobre.

ICOM-Arab ha detto ad Al Jazeera che a questo museo era stato dato un preavviso dalle forze israeliane di svuotarlo del suo contenuto ed evacuarlo nel sud di Gaza.

Il Mathaf al-Funduq, un piccolo museo aperto nel 2008 e ospitato nel Mathaf Hotel a Gaza nord, è stato danneggiato da bombardamenti il 3 novembre.

A Gaza City Qasr Al-Basha, o Palazzo del Pasha, del XIII secolo, fu trasformato in un museo nel 2010 dal ministero del Turismo palestinese e in mostra c’era una collezione di oggetti di periodi diversi della storia di Gaza. L’undici dicembre è stato colpito da un attacco aereo israeliano che ha danneggiato i muri, il cortile e i giardini.

Come molti degli edifici storici di Gaza, ha cambiato proprietà e funzioni parecchie volte nella sua vita. Il forte a due piani, costruito dal sultano mamelucco Zahir Baybars a metà del XIII secolo, fu un tempo sede del potere, costruito per difendersi dalle armate crociate e mongole. Durante il XVII secolo venne usato dagli Ottomani e ci abitò il comandante dell’armata francese Napoleone Bonaparte nel 1799 quando entrò a Gaza per cercare di prevenire l’incombente invasione ottomana dell’Egitto, dove i francesi avevano il quartier generale.

Prima della Nakba del 1948, quando centinaia di migliaia di palestinesi divennero rifugiati nel corso della creazione di Israele e molti fuggirono a Gaza, il palazzo servì come stazione di polizia per gli inglesi che governavano l’area e poi divenne una scuola femminile palestinese.

Biblioteche

Durante una pausa di una settimana nei bombardamenti israeliani iniziata il 24 novembre, i palestinesi hanno potuto ispezionare velocemente la vastità dei danni alla propria patria. È diventato rapidamente chiaro che molti edifici pubblici erano stati distrutti, incluso il Centro culturale Rashad El Shawa a Gaza City, un tempo sede dei colloqui di pace fra il leader dell’OLP Yasser Arafat e il presidente americano Bill Clinton negli anni ‘90. Anche la libreria comunitaria Samir Mansour, accuratamente restaurata dopo i bombardamenti israeliani del 2021, è stata gravemente danneggiata.

La biblioteca della Grande moschea Omari a Gaza City era un tempo ricolma di manoscritti rari, fra cui antiche copie del Corano, biografie del profeta Maometto e antichi tomi di filosofia, medicina e del misticismo sufi. La biblioteca, fondata dal sultano Zahir Baybars e aperta nel 1277 vantava una volta una collezione di 20.000 libri e manoscritti.

Molti dei libri e manoscritti rari là conservati andarono perduti o distrutti durante le Crociate e la prima guerra mondiale, lasciando solo 62 libri, anche questi ora distrutti in un attacco l’8 dicembre.

Un progetto di digitalizzazione di questi libri è stato completato lo scorso anno dall’Hill Museum and Manuscript Library e dalla British Library e sono ora accessibili online su HMML Reading Room.

Moschee

Il Ministero del Turismo e delle Antichità di Gaza stima che dall’inizio dell’attacco israeliano ben 104 moschee siano state danneggiate o distrutte. Sono incluse la moschea Othman bin Qashqar a Gaza City nel quartiere di Zeitoun, costruita nel 1220 sul sito dove si crede sia sepolto il bisnonno del profeta Maometto. È stata gravemente danneggiata in un attacco aereo il 7 dicembre.

La moschea Sayed al-Hashim, costruita nel XII e ricostruita nel 1850 ‘ stata danneggiata in un attacco aereo in ottobre. Questo edificio costruito di solido calcare nella città vecchia di Gaza è di grande importanza per i musulmani perché si dice che ospiti la tomba di un altro bisnonno del profeta Maometto, Hashim bin Abd Manaf. Secondo tradizioni locali sarebbe stato un mercante che si ammalò e morì nel viaggio di ritorno in Siria dalla Mecca e sia quindi sepolto in quello che ora è il sobborgo di Daraj.

La Moschea Hashim bin Abd Manaf. Foto: Abdelhakim Abu Riash/Al Jazeera

Alla costruzione della moschea fece seguito un breve intervallo di dominio crociato prima che si insediassero al potere i Mamelucchi che la ricostruirono. Fu in seguito restaurata nel 1850 sotto la guida del sultano ottomano Abdul Majide e di nuovo dopo i danni nel 1917 durante la prima guerra mondiale.

Agli inizi del presente conflitto la moschea ha preso fuoco durante un attacco aereo israeliano che ne ha danneggiato i muri e i soffitti.

La Grande moschea Omari è stata luogo di venerazione religiosa in forme diverse per circa due millenni.

Conosciuta in arabo come Al-Masjid al-Omari al-Kabir, si pensa sia stata la prima moschea costruita nella Striscia di Gaza 1.400 anni fa. L’otto dicembre è stata distrutta da un attacco aereo israeliano.

Costruita di arenaria locale per accogliere 5.000 fedeli per momenti di preghiera collettiva, tutto quello che ne rimane è il minareto dell’era mamelucca, spezzato e danneggiato.

Per la comunità era più di una moschea,” dice Sabrine. “Un signore mi ha detto che si sentiva più addolorato per la distruzione della moschea che della propria casa.”

Chiamata così dal secondo califfo islamico, Omar bin Khattab, fu costruita nel VII secolo sopra le rovine di una chiesa antica costruita nel 406, essa stessa sorta sulle fondamenta di un tempio pagano del dio cananaico della fertilità, Dagon.

Come molti siti storici che sopravvivono ai popoli che li costruirono, nasconde storie diverse. Secondo una versione Sansone, un guerriero israelita citato nell’Antico Testamento, noto perché la sua forza risiedeva nei capelli, finì sepolto fra le rovine della struttura che cadde su di lui dopo che aveva abbattuto i muri del tempio pagano. Altri dicono che il tempio cadde dopo che i Bizantini diedero alle fiamme tutti i siti pagani quando presero il potere a Gaza dal 390.

Il conquistatore ayyubita Salah al-Din riportò l’edificio al ruolo di moschea dopo che i Crociati l’avevano convertito nella cattedrale di San Giovanni Battista.

La moschea è stata usata come luogo di preghiera dalla comunità musulmana locale fin dal 1291 ed è stata il punto focale di riunioni e attività culturali.

L’anno scorso, in collaborazione con il programma per gli archivi a rischio della British Library Endangered Archives, HMML ha digitalizzato una selezione di copie uniche antiche della biblioteca della moschea che non sono disponibili “in nessun altro posto al mondo”, come ha detto ad Al Jazeera un consulente di HMML. Le opere includono un libro di poesia sufi del XIV secolo di Ibn-Zokaa e tomi di famosi giuristi gazawi, come Sheikh Skaike.

L’attacco di dicembre non è stato il primo subito dalla moschea, che era stata colpita anche il 19 ottobre e danneggiata durante la Prima Guerra Mondiale e di nuovo nell’attacco israeliano contro Gaza nel 2014.

Chiese

Il pavimento della chiesa bizantina di Jabalia, costruita nel 444, era un tempo decorato con mosaici colorati rappresentanti animali, scene di caccia e palme. I suoi muri erano adornati da 16 testi religiosi scritti in greco antico datati all’era dell’imperatore Teodosio II, che governò Bisanzio dal 408 al 450.

Il ministero per il Turismo e le Antichità palestinesi riaprì la chiesa agli inizi del 2022 dopo un restauro durato tre anni in collaborazione con l’ente francese Premiere Urgence Internationale e il British Council.

All’epoca il ministro Nariman Khella disse: “La chiesa fu scoperta nel pavimentare Salah al-Din Street e la prima cosa rinvenuta furono due tombe, una di una persona anziana e l’altra di un bambino piccolo.” Quello stesso anno un contadino scoprì nelle vicinanze una serie di mosaici con motivi intricati. Le condizioni delle tombe e dei mosaici restano incerte.

Per quanto riguarda l’antica chiesa stessa, è stata distrutta in un attacco aereo israeliano in ottobre.

Il monastero di Sant’Ilarione a Tell Umm Amer nel villaggio di Nuseirat, sulla costa, data circa al 340, durante il dominio romano della regione. Un “tell” è una collinetta dalla sommità piatta che spesso segna la posizione di una città antica.

Per ritirarsi dalla vita mondana e immergersi nella ricerca spirituale Sant’Ilarione, un cristiano che si dice sia stato il fondatore del monachesimo, costruì per sé una stanza piccola e semplice in quello che pensava fosse un angolo remoto dell’odierna città di Deir el-Balah, nella zona centrale della Striscia di Gaza. Nonostante il suo desiderio di solitudine, i pellegrini lo cercavano per la cura di malattie e come guida spirituale. Nel corso degli anni gli edifici intorno alla sua semplice stanza si espansero per poi diventare il più grande monastero del Medio Oriente.

Sui 10 ettari del santuario sorsero cinque chiese, un cimitero, una fonte battesimale e terme antiche. Mosaici e lastre in calcare decoravano i pavimenti e i muri ad accogliere i pellegrini che viaggiavano lungo la Via Maris dall’Egitto a Damasco.

Danneggiato dal terremoto del 614, il sito rimase abbandonato fino a che gli archeologi palestinesi iniziarono gli scavi alla fine degli anni ‘90. Il sito, che nel 2012 l’UNESCO ha aggiunto alla sua lista propositiva dei candidati al Patrimonio Mondiale, è stato danneggiato dai bombardamenti israeliani.

La chiesa greco-ortodossa di San Porfirio, rimasta in piedi a Zeitoun per 16 secoli, è stata colpita e danneggiata il 19 ottobre.

Considerata la terza chiesa più antica al mondo, San Porfirio fu costruita nel 425 sulle fondamenta di un antico sito pagano e chiamata con il nome del santo bizantino, che rese sua la missione di chiudere i templi pagani. Si pensa che egli sia stato seppellito all’interno della chiesa.

Come altri siti significativi, questa chiesa fu trasformata in moschea nel Settimo secolo, per poi tornare ad essere chiesa negli anni ’50 del XII con i crociati. Restaurata nel 1856, è rimasta un luogo di preghiera per la comunità cristiana di Gaza e per cercare riparo in tempo di guerra.

Nei bombardamenti israeliani del 19 ottobre 17 persone sono rimaste uccise nel crollo del tetto della chiesa. Il Patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme ha detto che prendere di mira la chiesa “costituisce un crimine di guerra”. La vicina moschea in stile ottomano di Katib al-Wilaya, costruita nel XV secolo, è stata danneggiata nello stesso attacco.

La chiesa della Sacra Famiglla, costruita nel 1974, è l’unica chiesa cattolica romana a Gaza e un rifugio per la comunità locale. È stata colpita in un raid aereo il 4 novembre. Una scuola all’interno del complesso ecclesiale è stata parzialmente distrutta.

Il Patriarca Latino di Gerusalemme conferma che schegge di proiettili degli attacchi dell’esercito israeliano contro gli edifici accanto alla chiesa della Sacra Famiglia hanno distrutto cisterne dell’acqua e pannelli solari sul suo tetto.

Altri siti antichi

Ard-al-Moharbeen, la necropoli romana, è stata riportata alla luce l’anno scorso da archeologi palestinesi e francesi dopo il ritrovamento di tombe nel corso della costruzione di nuove case.

Almeno 134 tombe romane datate tra il 200 a.C. e il 200 d.C. con scheletri ancora intatti sono state trovate in quella che si pensa sia una necropoli romana.

Sono stati scoperti due sarcofagi di piombo con decorazioni intricate, uno con motivi di vendemmia e l’altro con delfini.

Fadel Alatel, un archeologo di Gaza e parte della rete Heritage for Peace, ha lavorato in questo scavo prima del 7 ottobre. Ha detto ad Al Jazeera di aver paura di quello che potrebbe essere successo a queste rare tombe.

Sono in un’area in cui sono state lanciate bombe al fosforo bianco. I danni al sito non sono noti,” dice. “Inoltre a causa dei rigori dell’inverno e delle intense piogge questi rari ritrovamenti potrebbero andare distrutti.”

Alatel ha lavorato per conservare il patrimonio e l’archeologia di Gaza durante innumerevoli raid aerei israeliani, ma ha detto che questa volta la situazione è molto peggiore e non ha potuto ritornare al sito per prendere visione dell’entità del danno.

Forensic Architecture (FA), un’agenzia di giornalismo investigativo con sede presso la Goldsmiths University di Londra, ha documentato la distruzione al patrimonio culturale di Gaza nella sua indagine “Living Archaeology”. L’otto ottobre, il giorno dopo l’attacco di Hamas contro Israele che ha dato inizio alla guerra, i ricercatori dell’agenzia, usando tecnologia satellitare, hanno trovato la prova di 3 ampi crateri nel sito archeologico provocati dai missili israeliani.

In una relazione FA dichiara: “Questo disprezzo per il patrimonio culturale palestinese e la sua distruzione sminuiscono le rivendicazioni palestinesi a uno Stato e negano ai palestinesi il diritto fondamentale all’accesso e alla conservazione del proprio retaggio.”

Il destino di un altro sito antico, un porto, è noto. È stato distrutto.

Situato nella zona nord occidentale di Gaza, il primo porto marittimo conosciuto dell’enclave, Anthedon, noto anche come Balakhiyah o Tida, fu abitato dall’800 a.C. al 1100 d.C. o dall’era micenea agli inizi dell’epoca bizantina. Diventò una città indipendente durante il periodo ellenistico.

Dopo la scoperta delle rovine di un tempio romano e mosaici pavimentali sui 2 ettari del sito archeologico, nel 2012 fu posto dall’UNESCO nella lista propositiva dei candidati al Patrimonio Mondiale.

Altri resti datano alla fine dell’età del Ferro e ai periodi persiano, ellenistico, romano e bizantino.

L’hammam al-Sammara, o bagno turco dei samaritani, è stato distrutto l’8 dicembre. Precedente all’Islam, venne probabilmente costruito dai samaritani, una setta religiosa di etnia ebraica che visse nella zona di Zeitoun, anche noto come il quartiere ebraico. L’area aveva una fiorente comunità ebraica fino al dominio crociato nel XII secolo. L’ultima famiglia ebrea palestinese visse nel quartiere fino agli anni ‘60.

L’unica altra reliquia della storia ebraica a Gaza era il mosaico del re Davide che data al 508. Fu scoperto presso i resti di una sinagoga del VI e rappresenta il re Davide che suona un’arpa. Fu trasferito all’Israel Museum a Gerusalemme dopo la conquista israeliana di Gaza durante la guerra dei Sei Giorni nel 1967.

C’è stato un periodo in cui a Gaza City c’erano 38 bagni turchi. Molti andarono perduti durante guerre e occupazioni perché non c’erano le risorse per conservarli.

L’Hammam al-Sammara .Foto: Ahmed Jadallah/Reuters

L’hammam al-Sammara era l’ultimo rimasto. Una volta un cartello all’ingresso diceva che era stato restaurato nel 1320 dal governatore mamelucco Sangar ibn Abdullah.

Era un luogo d’incontro popolare dei gazawi per socializzare e curarsi sotto gli storici soffitti a volta. Dai pavimenti in lastre di marmo con intarsi intricati l’hammam era ancora riscaldato con le tradizionali stufe a legna e condutture.

Situata a nord est di Nuseirat, la città fortifcata di Tell el-Ajjul, o Collina dei vitelli, si trova tra il mar Mediterraneo e Wadi Gaza. Fondata tra il 2000 e il 1800 a.C., è stata danneggiata dai bombardamenti israeliani.

L’egittologo inglese William Matthew Flinders Petrie scoprì il sito negli anni ’30 dopo essersi trasferito ad oriente in Palestina dopo gli scavi della grande piramide di Giza. Qui scoprì gioielli in oro e antiche monete usate da hyksos, romani e bizantini.

Molte delle sue scoperte fatte tra il 1930 e il 1934, quando Gaza era sotto il Mandato britannico, ora si trovano a Londra nell’Istituto di Archeologia del British Museum. Altri ritrovamenti includono ceramiche importate da Cipro, bottiglie e scarabei, con molti pezzi risalenti all’età del Bronzo, circa 3.600 anni fa. i manufatti suggeriscono anche che Tell el-Ajjul fosse un tempo un polo commerciale.

Condizioni sconosciute

Le condizioni di molti altri siti storici di Gaza restano sconosciute. Secondo Alatel è difficile restare aggiornati sulla situazione sul terreno perché essa “cambia ogni cinque minuti”. A causa della pericolosità della situazione i fotografi locali non sono riusciti a ritornare in molti siti per valutare i danni.

Ecco alcuni dei siti di cui non si conoscono ancora le condizioni

Risalente al XIV secolo, il caravanserraglio Khan Younis fu costruito per soddisfare le necessità dei viaggiatori lungo la Via Maris.

Prendendo il suo nome dal suo fondatore mamelucco, Younis al-Nuruzi, il khanato, o khan, era un tipo di albergo popolare nella regione circa dal X secolo, dove i viaggiatori potevano riposare e fare una pausa durante i viaggi. Questo, costruito nel 1387, ha una moschea, un ufficio postale e magazzini.

Durante gli scavi archeologici dal 1972 al 1982 presso il cimitero di Deir el-Balah fu scoperta una collezione di bare di argilla antropomorfe uniche, datate alla tarda età del Bronzo (1550-1200 a.C.).

Situata nel quartiere Daraj, la moschea sufi di Ahmadiyyah Zawiya fu fondata nel 1336 dai seguaci dello sceicco Ahmad al-Badawi, un famoso studioso sufi del XII secolo che viveva a Gaza.

Fedeli sufi si riunivano qui per la preghiera comune i lunedì e giovedì. Ci sono state sparatorie nell’area, dice Alatel, ma non si sa ancora cosa sia successo al luogo sacro.

Tutti i nostri siti storici sono contrassegnati chiaramente, eppure gli attacchi dell’esercito israeliano con carri armati e bulldozer continuano,” dice l’archeologo. “Ma ho fiducia che tutto questo finirà. Anche se cercano di distruggere il nostro passato noi ricostruiremo il futuro di Gaza.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




100 avvocati cileni presentano denuncia alla CPI contro Netanyahu per crimini di guerra a Gaza

Redazione di Palestine Chronicle

9 gennaio 2024, Palestine Chronicle

I ricorrenti, in maggioranza di ascendenza palestinese, chiedono che sia emesso un mandato di arresto contro Netanyahu.

Circa 100 avvocati cileni hanno sporto denuncia presso la Corte Penale Internazionale (CPI) contro il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, accusandolo di commettere crimini contro l’umanità, genocidio e crimini di guerra a Gaza.

Il Middle East Monitor, citando la Quds Press, ha riferito che la denuncia, presentata all’Aja il 22 dicembre, è stata diretta dall’ex ambasciatore Nelson Hadad.

I querelanti, per la maggior parte di ascendenza palestinese, chiedono che sia spiccato un mandato di arresto contro Netanyahu ed altre persone responsabili di questi presunti crimini, riferisce MEMO.

Hanno evidenziato i bombardamenti indiscriminati di Gaza dal 7 ottobre e la distruzione di interi quartieri residenziali senza far distinzione tra civili e combattenti.

Tutti i Paesi devono denunciare i criminali di guerra, assicurando che vengano ritenuti responsabili, assumano le proprie responsabilità, affrontino la punizione conformemente alle sanzioni dello Statuto di Roma e offrano riparazioni alle vittime”, avrebbe affermato Hadad.

L’obbiettivo dell’istanza è provare che a Gaza si stanno perpetrando genocidio, espulsione forzata, crimini di guerra e violazioni del diritto umanitario internazionale, conclude il rapporto.

A dicembre il Sudafrica ha presentato alla CIG tutta la documentazione necessaria, formulando accuse di crimini di guerra contro Israele per la sua guerra genocida a Gaza.

Come Sudafrica, insieme a molti altri Paesi del mondo, abbiamo concordemente ritenuto opportuno deferire questa azione dell’intero governo israeliano davanti alla CIG. Abbiamo promosso il deferimento perché riteniamo che là si stiano commettendo crimini di guerra”, ha detto il Presidente del Sudafrica Cyril Ramaphosa.

Ramaphosa ha definito “totalmente inaccettabile” che Israele “si sia fatto giustizia da solo”.

Secondo il Ministero della Sanità di Gaza sono stati uccisi 23.210 palestinesi e feriti 59.167 nel corso del perdurante genocidio israeliano a Gaza iniziato il 7 ottobre.

Stime palestinesi e internazionali dicono che la maggioranza delle vittime e dei feriti sono donne e bambini.

(PC, MEMO) (Palestine Chronicle, Middle East Monitor)

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




ESCLUSIVA: LA CENSURA MILITARE ISRAELIANA VIETA DI RIFERIRE SU QUESTI OTTO ARGOMENTI

Ken Klippenstein, Daniel Boguslaw

23 dicembre 2023, The Intercept

Un insolito ordine in lingua inglese sulla guerra di Gaza rompe la segretezza e l’informalità con cui normalmente funziona la censura dell’Esercito israeliano.

Armi usate dalle forze di difesa israeliane, fughe di notizie dal gabinetto di sicurezza, storie di persone tenute in ostaggio da Hamas… sono alcuni degli otto argomenti di cui, secondo un documento ottenuto da The Intercept, in Israele ai media è vietato parlare.

Il documento, un ordine di censura indirizzato ai media dall’esercito israeliano come parte della guerra contro Hamas, non era stato segnalato in precedenza. Il promemoria, scritto in inglese, è stata una mossa insolita per la censura dell’IDF che fa parte dell’esercito israeliano da più di settant’anni.

“Non ho mai visto istruzioni come queste inviate dalla censura, a parte avvisi generali che invitavano i media a conformarsi, e anche allora erano inviati solo a determinate persone”, ha detto Michael Omer-Man, ex redattore capo della rivista israeliana +972 Magazine e oggi direttore della ricerca su Israele-Palestina presso Democracy in the Arab World Now, o DAWN, un gruppo di pressione statunitense.

Intitolato “Direttiva del Capo Israeliano della censura ai media per l’Operazione ‘Spade di Ferro’”, l’ordine non è datato ma il suo riferimento all’Operazione Spade di Ferro – il nome dell’attuale operazione militare israeliana a Gaza – chiarisce che è stato emesso qualche tempo dopo l’attacco di Hamas contro Israele il 7 ottobre. L’ordine è firmato dal capo censore delle forze di difesa israeliane, Generale di Brigata Kobi Mandelblit. (Il censore militare israeliano non ha risposto a una richiesta di commento sul promemoria.)

Il documento è stato fornito a The Intercept da una fonte che ne ha avuto una copia dall’esercito israeliano. Un documento identico appare sul sito web del governo israeliano.

“Alla luce dell’attuale situazione di sicurezza e dell’intensa copertura mediatica, desideriamo incoraggiarvi a sottoporre alla censura tutto il materiale riguardante le attività delle Forze di difesa israeliane (IDF) e delle forze di sicurezza israeliane prima che sia reso pubblico”, dice l’ordine. “Si prega di informare il proprio staff sul contenuto di questa lettera, con particolare attenzione alla redazione e ai giornalisti sul campo.”

L’ordine elenca otto argomenti di cui è vietato ai media riferire senza previa approvazione da parte della censura militare israeliana. Alcuni degli argomenti toccano questioni politiche scottanti in Israele e a livello internazionale, come rivelazioni potenzialmente imbarazzanti sulle armi usate da Israele o catturate da Hamas, discussioni sulle riunioni del gabinetto di sicurezza e sugli ostaggi israeliani a Gaza – una questione per la cui cattiva gestione il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è stato ampiamente criticato.

La nota vieta inoltre di riferire su dettagli di operazioni militari, intelligence israeliana, attacchi missilistici che abbiano colpito luoghi sensibili in Israele, attacchi informatici e visite di alti ufficiali militari sul campo di battaglia.

Le preoccupazioni circa una politicizzazione della censura militare non sono meramente ipotetiche. Il mese scorso, secondo quanto riferito, il censore israeliano si è lamentato del fatto che Netanyahu gli stesse facendo pressione affinché reprimesse alcuni media senza una ragione legittima. Netanyahu ha negato l’accusa.

Autocensura e segretezza

La Censura Militare Israeliana è un’unità situata all’interno della Direzione dell’Intelligence Militare dell’IDF. L’unità è comandata dal capo censore, un ufficiale militare nominato dal Ministro della Difesa.

Guy Lurie, ricercatore presso l’Israel Democracy Institute con sede a Gerusalemme, ha detto a The Intercept che da quando è iniziata la guerra di Israele contro Hamas più di 6.500 nuovi articoli sono stati completamente o parzialmente censurati dal governo israeliano.

Per contestualizzare la cifra, Lurie ha affermato che si tratta di circa quattro volte in più rispetto a prima della guerra, citando un articolo del quotidiano israeliano Shakuf sulle richieste di libertà di informazione. Il numero di contributi sottoposti alla censura, tuttavia, è significativamente più alto in questo momento di intenso conflitto, e Lurie ha osservato che le notizie sono sottoposte a un normale livello di censura considerando il totale dei contributi.

Il numero effettivo di nuovi articoli sottoposti a censura, tuttavia, non potrà mai essere quantificato. A causa di un sistema di strette relazioni e di una certa consapevolezza su cosa aspettarsi, i giornalisti israeliani finiscono per autocensurarsi.

“Le persone si autocensurano, non provano nemmeno a riferire le storie che sanno che non passeranno”, ha detto Omer-Man. “E questo è dimostrato proprio adesso da quanto poco i comuni israeliani sappiano dalla stampa ciò che sta accadendo a Gaza ai palestinesi”.

Sono questi modi di censura non ufficiale che danno potere alla censura in Israele, dicono gli esperti.

Nel 2022 un rapporto del Dipartimento di Stato sui diritti umani in Israele e nei territori palestinesi occupati ha affrontato la censura militare, selezionando due giornali in lingua araba nella Gerusalemme est occupata. Pur sottolineando che il censore dell’IDF non controllava gli articoli, il Dipartimento di Stato ha affermato: “I redattori e i giornalisti di quelle pubblicazioni, tuttavia, hanno riferito di essersi autocensurati per paura di ritorsioni da parte delle autorità israeliane”.

Un tempo la censura aveva un Comitato Editoriale composto da tre membri: uno della stampa, uno dell’esercito e un membro eletto pubblicamente che fungeva da presidente. Sebbene il Comitato Editoriale non esista più ufficialmente, un organismo simile, anche se informale, mantiene ancora una certa influenza.

Anche se la legge che istituisce la censura gli conferisce ampi poteri, il censore è rispettato in Israele perché è politicamente indipendente ed agisce con moderazione, soprattutto in confronto a altri paesi della regione.

“Se vedi la legge che governa la censura, è davvero draconiana in termini di autorità formali di cui dispone il censore”, ha detto Lurie a The Intercept. “Ma è mitigata da quell’accordo informale”.

Quasi tutto avviene in segreto: le discussioni del Comitato sono confidenziali, così come la maggior parte dei comunicati tra i media e la censura.

Alla domanda sul perché i procedimenti siano così segreti e perché anche le testate giornalistiche non ne parlino apertamente, un giornalista occidentale con sede in Israele e Palestina, che ha chiesto l’anonimato per evitare ritorsioni, ha dato una valutazione schietta: “Perché è imbarazzante”.

La stampa straniera e la censura

Il fatto che la nota di direttive per l’attuale guerra israeliana a Gaza sia in inglese suggerisce che sia destinato ai media occidentali. I giornalisti stranieri che lavorano in Israele devono ottenere il permesso del governo, inclusa una dichiarazione che rispetteranno la censura.

“Per ottenere un visto come giornalista devi ottenere l’approvazione del GPO (Ufficio stampa del governo) e quindi devi firmare un documento in cui dichiari che rispetterai la censura”, ha detto Omer-Man. “Questo è di per sé probabilmente contrario alle linee guida etiche di molti giornali.”

Nondimeno molti giornalisti firmano il documento. Mentre l’Associated Press, ad esempio, non ha risposto alla domanda di The Intercept sulla sua collaborazione con la censura militare, il News Wire in passato ha parlato della questione, ammettendo anche di attenersi alla direttiva.

“L’Associated Press ha accettato, come altre organizzazioni, di rispettare le regole della censura, che è una condizione per ricevere il permesso di operare come organizzazione di informazione in Israele”, ha scritto l’agenzia in un articolo del 2006. “Ci si aspetta che i giornalisti si censurino e non riportino alcun materiale proibito.”

Alla domanda se rispettasse le linee guida della censura militare israeliana e se la sua ottemperanza fosse cambiata dall’inizio della guerra, Azhar AlFadl Miranda, direttore delle comunicazioni del Washington Post, ha dichiarato a The Intercept in una e-mail: “Non possiamo condividere informazioni”, aggiungendo che “non discutiamo pubblicamente le nostre decisioni editoriali”.

Il New York Times ha dichiarato a The Intercept: “Il New York Times riporta in modo indipendente l’intero spettro di questo complicato conflitto. Non sottoponiamo le nostre corrispondenze alla censura militare israeliana”. (Reuters non ha risposto alle domande di The Intercept.)

La stampa estera che collabora con la censura è soggetta allo stesso sistema: molti articoli non passano attraverso la censura, ma alcuni argomenti prevedono che gli articoli vengano sottoposti.

“Sanno che devono trasmettere alla censura gli articoli su determinati argomenti che vogliono pubblicare “, ha detto Lurie. “Ci sono argomenti per cui i media sanno di dover ottenere l’approvazione della censura.”

Una delle cose che rende insolito l’ordine di censura scritto in lingua inglese, tuttavia, è il riferimento esplicito alla guerra con Hamas. “Non l’ho mai visto per una guerra specifica”, ha detto Lurie.

“Ci sono argomenti per cui i media sanno di dover ottenere l’approvazione della censura.”

Un argomento noto come sensibile in Israele è l’arsenale nucleare segreto del paese. Nel 2004, il giornalista della BBC Simon Wilson aveva intervistato Mordechai Vanunu, un informatore sul programma nucleare che era appena stato rilasciato dal carcere. La censura israeliana richiese copie dell’intervista, ma Wilson non accettò.

A Wilson è stato quindi impedito il rientro e il governo israeliano ha richiesto delle scuse. Inizialmente, la BBC si rifiutò di fornirne, ma alla fine il colosso mondiale dell’informazione cedette.

“[Wilson] Conferma che dopo l’intervista a Vanunu è stato contattato dalla censura e gli è stato chiesto di consegnare loro le cassette. Non lo ha fatto. Si rammarica delle difficoltà che ciò ha causato”, ha affermato la BBC nelle scuse. “Si impegna a rispettare le norme in futuro e comprende che qualsiasi ulteriore violazione comporterà la revoca del suo visto.”

Le scuse, come gran parte del lavoro della censura, sarebbero dovute rimanere segrete secondo un articolo del Guardian del 2005, ma la BBC le pubblicò accidentalmente sul suo sito web prima di rimuoverle rapidamente.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Israele: la fame utilizzata come arma di guerra a Gaza

Rapporto HRW

18 dicembre 2023 – Human Rights Watch

Ci sono prove che ai civili è deliberatamente negato l’accesso a cibo e acqua.

  • Nella Striscia di Gaza il governo israeliano sta utilizzando la fame dei civili come metodo di guerra, il che costituisce un crimine di guerra.

  • Governanti israeliani hanno fatto dichiarazioni pubbliche, che si riflettono nelle operazioni militari delle forze israeliane, in cui hanno manifestato la loro intenzione di privare i civili di Gaza di cibo, acqua e carburante.

  • Il governo israeliano dovrebbe smettere di attaccare beni necessari alla sopravvivenza della popolazione civile, togliere il blocco della Striscia di Gaza e riattivare [le forniture di] elettricità e acqua.

(Gerusalemme) – Oggi Human Rights Watch ha affermato che nella Striscia di Gaza occupata il governo israeliano sta affamando i civili come metodo di guerra. Le forze israeliane stanno deliberatamente bloccando l’erogazione di acqua, cibo e carburante impedendo nel contempo deliberatamente l’assistenza umanitaria, distruggendo chiaramente zone coltivate e privando la popolazione civile di beni indispensabili alla sopravvivenza.

Da quando combattenti di Hamas hanno attaccato Israele il 7 ottobre 2023 importanti dirigenti israeliani, tra cui il ministro della Difesa Yoav Gallant, il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben.Gvir e quello dell’Energia Israel Katz, hanno fatto dichiarazioni pubbliche che si riflettono nelle operazioni militari delle forze israeliane, manifestando l’intenzione di privare i civili di Gaza di cibo, acqua e carburante. Altri politici israeliani hanno pubblicamente affermato che l’aiuto umanitario a Gaza sarebbe stato condizionato o al rilascio degli ostaggi illegalmente detenuti da Hamas o alla distruzione di Hamas.

Per oltre due mesi Israele ha privato la popolazione di Gaza di cibo ed acqua, una politica incoraggiata o appoggiata da governanti israeliani di alto livello e che riflette l’intenzione di affamare i civili come metodo di guerra,” ha affermato Omar Shakir, direttore per Israele e la Palestina di Human Rights Watch. “I leader mondiali dovrebbero esprimersi contro questo abominevole crimine di guerra, che ha effetti devastanti sulla popolazione di Gaza.”

Human Rights Watch ha intervistato 11 profughi palestinesi di Gaza tra il 24 novembre e il 4 dicembre. Essi hanno descritto le loro gravissime difficoltà per garantirsi le necessità fondamentali. “Non abbiamo cibo, elettricità, internet, assolutamente niente,” ha detto un uomo che ha lasciato il nord di Gaza. “Non sappiamo come siamo riusciti a sopravvivere.”

Nel sud di Gaza gli intervistati hanno descritto la scarsità di acqua potabile, la mancanza di cibo che ha portato a negozi vuoti, lunghe code e prezzi esorbitanti. “Sei alla costante ricerca delle cose necessarie per sopravvivere,” ha detto il padre di due figli. Il 6 dicembre il Programma Alimentare Mondiale dell’ONU (WFP) ha informato che 9 su 10 nuclei familiari nel nord di Gaza e 2 su 3 nella parte meridionale di Gaza avevano passato almeno un giorno e una notte di seguito senza cibo.

Il diritto umanitario internazionale e la legislazione di guerra vietano di affamare i civili come metodo di guerra. Lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale prevede che affamare intenzionalmente civili “privandoli di beni indispensabili alla loro sopravvivenza, compreso l’impedimento intenzionale ai soccorsi” è un crimine di guerra. L’intenzione criminale non richiede l’ammissione da parte dell’aggressore, ma può anche essere dedotta dal complesso delle circostanze della campagna militare.

Inoltre il continuo blocco israeliano di Gaza, così come i più di 16 anni di assedio, rappresentano una punizione collettiva della popolazione civile, un crimine di guerra. In base alla Quarta Convenzione di Ginevra, come potenza occupante a Gaza Israele ha il dovere di garantire che la popolazione civile disponga di cibo e medicinali.

Il 17 novembre il WFP ha avvertito dell’“immediata possibilità” di carestia, evidenziando che l’approvvigionamento di cibo ed acqua era in pratica inesistente. Il 3 dicembre ha informato di un “grave rischio di carestia”, segnalando che il sistema alimentare di Gaza era sull’orlo del collasso. E il 6 dicembre ha dichiarato che il 48% dei nuclei famigliari nel nord di Gaza e il 38% delle persone sfollate nel sud aveva registrato “gravissimi livelli di carenza di cibo”.

Il 3 novembre il Consiglio Norvegese per i Rifugiati ha annunciato che Gaza era alle prese con “catastrofiche carenze di acqua, sanità e igiene.” Strutture per la sanificazione e desalinizzazione hanno chiuso le attività a metà ottobre a causa della mancanza di carburante ed elettricità, e secondo l’Autorità Palestinese per le Acque da allora sono rimaste inattive. Secondo l’ONU anche prima del 7 ottobre Gaza non aveva praticamente acqua potabile.

Prima dell’attuale conflitto si stimava che 1.2 milioni dei 2.2 milioni di abitanti di Gaza stessero affrontando una grave insicurezza alimentare, e oltre l’80% dipendeva dall’aiuto umanitario.

Israele mantiene un controllo complessivo su Gaza, anche sul movimento di persone e beni, sulle acque, sullo spazio aereo e sulle infrastrutture del territorio da cui Gaza dipende, così come sull’anagrafe. Ciò lascia la popolazione di Gaza, che Israele ha sottoposto per 16 anni a un blocco illegale, praticamente del tutto dipendente da Israele per l’accesso al carburante, all’elettricità, alle medicine, al cibo e a altre risorse essenziali.

Dopo l’imposizione di un “blocco totale” a Gaza il 9 ottobre, le autorità israeliane il 15 ottobre hanno ripristinato l’approvvigionamento idrico a zone del sud di Gaza e, il 21 ottobre hanno consentito l’arrivo di un ridotto aiuto umanitario attraverso il valico di Rafah con l’Egitto. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu il 18 ottobre ha detto che Israele non avrebbe consentito assistenza sanitaria “in forma di cibo e medicinali” a Gaza attraverso i suoi valichi “finché i nostri ostaggi non saranno riconsegnati.”

Il governo ha continuato a bloccare l’ingresso di carburante fino al 15 novembre, nonostante avvertimenti riguardo alle gravi conseguenze di ciò, che hanno portato alla chiusura di forni per il pane, ospedali, stazioni di pompaggio delle acque reflue, impianti di desalinizzazione e pozzi. Queste strutture, che sono state rese inutilizzabili, sono indispensabili per la sopravvivenza della popolazione civile. Benché in seguito sia stato consentito l’ingresso di limitate quantità di carburante, il 4 dicembre la Coordinatrice Umanitaria per i Territori Palestinesi Occupati dell’ONU Lynn Hastings le ha definite “assolutamente insufficienti”. Il 6 dicembre il gabinetto di guerra di Israele ha approvato un “minimo” incremento nelle forniture di carburante al sud di Gaza.

Il primo dicembre, immediatamente dopo il cessate il fuoco di sette giorni, l’esercito israeliano ha ripreso i bombardamenti contro Gaza ed ha esteso la sua offensiva di terra, affermando che le sue operazioni militari nel sud avrebbero comportato “altrettanta forza” che nel nord. Mentre politici degli Stati Uniti hanno affermato di aver sollecitato Israele a consentire l’ingresso a Gaza di carburante e aiuto umanitario allo stesso livello di quanto visto durante il cessate il fuoco, il Coordinatore delle Attività Governative del Ministero dell’Interno [israeliano] nei territori il primo dicembre ha affermato di aver bloccato ogni ingresso di aiuti. Il 2 dicembre la consegna di aiuti limitati è ripresa, ma sempre a livelli molto insufficienti, secondo l’ufficio per il coordinamento degli Affari Umanitari dell’ONU (OCHA).

Insieme al devastante blocco, gli estesi bombardamenti dell’esercito israeliano sulla Striscia hanno comportato vasti danni o distruzioni di beni necessari alla sopravvivenza della popolazione civile.

Il 16 novembre esperti dell’ONU hanno affermato che i gravi danni “minacciano di rendere impossibile la continuazione della vita dei palestinesi a Gaza”. Significativamente, come ha evidenziato l’OCHA, il bombardamento da parte delle forze israeliane il 15 novembre dell’ultimo mulino per cereali in funzione a Gaza ha fatto sì che nel prossimo futuro a Gaza non sarà reperibile la farina prodotta in loco. Inoltre l’ufficio dell’ONU per i Servizi di Progettazione (UNOPS) ha affermato che la distruzione della rete viaria ha reso ancora più difficile alle organizzazioni umanitarie distribuire aiuti a quanti ne hanno bisogno.

Forni per la panificazione e mulini, l’agricoltura e le strutture idriche e di depurazione sono stati distrutti, “ ha detto il 23 novembre alla Associated Press Scott Paul, un importante consigliere per le politiche umanitarie di Oxfam America.

Le azioni militari israeliane a Gaza hanno avuto un effetto devastante anche sul settore agricolo. Secondo Oxfam i massicci bombardamenti, accompagnati dalla carenza di combustibile e acqua, insieme all’espulsione di oltre 1.6 milioni di persone verso il sud di Gaza, hanno reso praticamente impossibili le attività agricole. In un rapporto del 28 novembre l’OCHA ha affermato che nel nord il bestiame sta morendo di fame a causa della mancanza di foraggio e acqua, e che i campi sono sempre più abbandonati e danneggiati per la mancanza di carburante per pompare acqua per l’irrigazione. I problemi esistenti, come la scarsità di acqua e l’accesso ridotto alla coltivazione della terra nei pressi della barriera di confine, hanno aggravato le difficoltà che gli agricoltori locali, molti dei quali sono stati sfollati, dovevano già affrontare. Il 28 novembre l’Ufficio Centrale di Statistica palestinese ha affermato che Gaza sta soffrendo una perdita nella produzione agricola di almeno 1.6 milioni di dollari al giorno.

Il 28 novembre il Settore della Sicurezza Alimentare Palestinese, guidato dal WFP e dalla FAO, hanno informato che oltre un terzo dei terreni agricoli nel nord [di Gaza] è stato danneggiato dalle ostilità. Immagini satellitari esaminate da Human Rights Watch indicano che dall’inizio dell’offensiva di terra israeliana il 27 ottobre terreni agricoli, compresi orti, serre e coltivazioni nel nord di Gaza sono stati distrutti, a quanto pare dalle forze israeliane.

Il governo israeliano dovrebbe smettere immediatamente di affamare i civili come metodo di guerra, afferma Human Rights Watch. Dovrebbe attenersi al divieto di attacchi contro beni necessari alla sopravvivenza della popolazione civile e togliere il blocco della Striscia di Gaza. Il governo dovrebbe ripristinare l’accesso all’acqua e all’elettricità e consentire l’ingresso di cibo, medicinali e carburante disperatamente necessari a Gaza, anche attraverso il valico di Kerem Shalom.

I governi coinvolti dovrebbero chiedere a Israele di porre fine a queste violazioni. Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, il Canada, la Germania e altri Paesi dovrebbero anche sospendere l’assistenza militare e la vendita di armamenti a Israele finché le sue forze continueranno a commettere impunemente gravi e massicce violazioni che rappresentano crimini di guerra contro i civili.

Con l’uso crudele della mancanza di cibo come arma di guerra il governo israeliano sta aggravando la punizione collettiva dei civili palestinesi e il blocco degli aiuti umanitari,” ha affermato Shakir. “La crescente catastrofe umanitaria a Gaza richiede una risposta urgente e concreta da parte della comunità internazionale.”

Il contesto

Gli attacchi guidati da Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre hanno ucciso almeno 1.200 israeliani e cittadini di altri Paesi, e più di 200 persone sono state prese in ostaggio, azioni che rappresentano crimini di guerra. Il bombardamento e l’offensiva di terra di Israele che ne sono derivati hanno provocato, secondo le autorità di Gaza, più di 18.700 palestinesi uccisi, tra cui più di 7.700 minorenni.

L’OCHA ha informato che al 10 dicembre il bombardamento della Striscia di Gaza da parte dell’esercito israeliano ha distrutto più di metà delle infrastrutture civili, comprese più di 50.000 unità abitative, come affermato dal ministero dei Lavori Pubblici e dell’Edilizia a Gaza, così come ospedali, scuole, moschee, panetterie, reti idriche, fognarie ed elettriche. Secondo l’OCHA nella Striscia di Gaza solo il 4 e 5 novembre sette strutture idriche, tra cui serbatoi d’acqua a Gaza City, nel campo profughi di Jabalia e a Rafah, sono state direttamente colpite ed hanno subito gravissimi danni.

I ripetuti e palesemente illegali attacchi dell’esercito israeliano contro strutture, personale e trasporti sanitari hanno ulteriormente distrutto il settore medico-sanitario di Gaza, colpendo quindi la possibilità per la popolazione di accedere a cure salvavita, compresa la prevenzione di malattie, deperimento e morte legati alla malnutrizione, esacerbando le terribili conseguenze della mancanza di cibo. “Se non riusciamo a rimettere in piedi questo sistema sanitario vedremo più persone morire di malattie che per i bombardamenti,” ha affermato il 28 novembre Margareth Harris, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Conseguenze sul piano umanitario

Il 13 ottobre le autorità israeliane hanno emanato un ordine impossibile da rispettare di evacuazione dal nord di Gaza entro 24 ore a più di un milione di persone. Da allora, e mentre le condizioni nel nord peggioravano, centinaia di migliaia di persone sono state sfollate nei governatorati di Rafah e Khan Younis nel sud, dove è diventato sempre più difficile garantire i mezzi di sopravvivenza. In base alle leggi umanitarie internazionali l’evacuazione deve essere attuata in condizioni che garantiscano che gli sfollati abbiano accesso senza impedimenti all’aiuto umanitario, compresi cibo e lavoro sufficienti. In caso contrario ciò rappresenta un’espulsione forzata.

Le conseguenze umanitarie delle azioni militari di Israele a Gaza sono state molto gravi. Durante le prime otto settimane di ostilità il nord di Gaza è stato il centro dell’intensa offensiva di terra e aria dell’esercito israeliano. Salvo che durante il cessate il fuoco di sette giorni iniziato il 24 novembre, durante il quale convogli dell’ONU hanno portato ridotte quantità di farina e gallette ad alto contenuto energetico, l’arrivo degli aiuti al nord è stato in gran parte interrotto. Secondo l’OCHA tra il 7 novembre e almeno fino al 15 novembre nessuna dei forni per il pane del nord era in funzione a causa della mancanza di carburante, acqua, farina di frumento e per danni strutturali.

Secondo il WFP a Gaza c’è un grave rischio di carenza di cibo e di carestia. Funzionari dell’ONU hanno affermato che 1.9 milioni di persone, oltre l’85% della popolazione di Gaza, sono sfollati interni, aggiungendo che in una zona meridionale sempre più ridotta nella Striscia di Gaza le condizioni potrebbe diventare “persino più infernali”.

Il 5 dicembre il capo dei servizi umanitari dell’ONU Martin Griffiths ha affermato che la campagna dell’esercito israeliano nel sud di Gaza ha portato a condizioni “apocalittiche”, rendendo impossibili significativi interventi umanitari.

Il 6 dicembre l’unico impianto di desalinizzazione nel nord di Gaza ha smesso di funzionare e l’acquedotto che fornisce acqua al nord da Israele è rimasto chiuso, accentuando i rischi di disidratazione e di malattie trasmesse dall’acqua derivanti dal consumo di acqua da sorgenti non sicure. Il 14 dicembre gli ospedali sono stati particolarmente colpiti, con solo un ospedale su 24 nel nord di Gaza in funzione e in grado di accettare nuovi pazienti, anche se fornendo servizi limitati.

Dall’11 ottobre in tutta Gaza la crisi umanitaria si è aggravata con una persistente interruzione della corrente elettrica, così come con una serie di blocchi delle comunicazioni che ha impedito alle persone l’accesso ad affidabili informazioni sulla sicurezza, sui servizi medici d’urgenza e ha ostacolato gravemente le operazioni umanitarie. Il 18 novembre l’OCHA ha affermato che l’interruzione delle telecomunicazioni tra il 16 e il 18 novembre, il quarto dal 7 ottobre, “ha portato a un quasi totale blocco della già problematica distribuzione di assistenza umanitaria, compresa l’assistenza salvavita a persone ferite o intrappolate sotto le macerie in conseguenza degli attacchi aerei e degli scontri”. Il 14 dicembre c’è stato un’altra interruzione delle telecomunicazioni. “

Immagini satellitari visionate da Huma Rights Watch indicano che fin dall’inizio dell’offensiva di terra dell’esercito israeliano il 27 ottobre orti, serre e terreni coltivati sono stati distrutti, a quanto pare dalle forze israeliane, aggravando le preoccupazioni per la gravissima insicurezza alimentare e la perdita di mezzi di sussistenza. Immagini satellitari indicano che la distruzione di terreni agricoli è continuata nel nord di Gaza durante il cessate il fuoco di sette giorni iniziato il 24 novembre e terminato il 1 dicembre, quando l’esercito israeliano aveva il controllo diretto della zona.

Mentre durante il cessate il fuoco di 7 giorni terminato il primo dicembre per la prima volta dal 7 ottobre il governo israeliano ha consentito l’ingresso nella Striscia di Gaza di un continuo e leggermente maggiore afflusso di aiuti umanitari, compreso gas da cucina, aveva in precedenza deliberatamente impedito l’ingresso di generi di soccorso nelle quantità necessarie per oltre un mese, imponendo un assedio che ha colpito tutta la popolazione civile. Ciò ha contribuito a una situazione umanitaria catastrofica con conseguenze di vasta portata, con oltre l’80% della popolazione sfollata internamente, molta della quale ospitata in condizioni di sovraffollamento, malsane e insalubri nei rifugi dell’ONU nel sud. Gli aiuti che sono entrati durante il cessate il fuoco “sono stati a malapena percepiti rispetto alle enormi necessità di 1.7 milioni di sfollati,” ha detto il 27 novembre il portavoce dell’ONU Stephane Dujarric.

Durante il cessate il fuoco sono entrati a Gaza circa 200 camion al giorno, comprese quattro cisterne che trasportavano 130.000 litri di carburante e quattro di gas da cucina. In confronto prima del conflitto entrava a Gaza ogni giorno una media di 500 camion di cibo e prodotti e 600.000 litri di carburante al giorno, necessari solo per far funzionare gli impianti per l’acqua e la desalinizzazione. Come sono ripresi i bombardamenti e le forze israeliane sono avanzate verso sud, l’accesso agli aiuti è stato di nuovo seriamente ostacolato. Il 5 dicembre per il terzo giorno consecutivo l’OCHA ha informato che a Gaza solo il governatorato di Rafah aveva ricevuto una ridotta distribuzione di aiuti. Ha affermato che nel vicino governatorato di Khan Younis la distribuzione di aiuti è stata largamente interrotta a causa dell’intensità degli scontri.

Testimonianze di civili a Gaza

Human Rights Watch ha parlato con 11 civili sfollati dal nord di Gaza verso la presunta sicurezza nel sud a causa dei pesanti bombardamenti, del timore di imminenti attacchi aerei o perché Israele ha ordinato loro di andarsene. Molti affermano di essersi spostati varie volte prima di arrivare a sud, mentre lungo il loro viaggio hanno lottato per trovare un rifugio adeguato e sicuro. Nel sud hanno trovato rifugi sovraffollati, mercati vuoti, prezzi alle stelle e lunghe file per ridotte quantità di pane e acqua potabile. Per proteggere la loro identità in tutte le interviste Human Rights Watch utilizza pseudonimi.

Devo camminare per tre chilometri per avere 4 litri (di acqua)” dice il trentenne Marwan, scappato il 9 novembre a sud con la moglie incinta e due figli. “E non c’è cibo. Se lo trovassimo, sarebbe in scatola. Nessuno di noi sta mangiando bene.”

Quello che abbiamo è tutto troppo poco,” dice Hana, 36 anni, scappata dalla sua casa nel nord a Khan Younis, nel sud con suo padre, la moglie di lui e suo fratello l’11 ottobre. Dice che nel sud non sempre hanno accesso ad acqua potabile e sono obbligati a bere acqua non potabile e salata.

Lavarsi è diventato un lusso, afferma, a causa della mancanza di mezzi per scaldare l’acqua, per cui devono andare a cercare della legna. Nelle situazioni disperate, dice, finiscono persino col bruciare vecchi vestiti per cucinare. Il processo di preparazione del pane presenta delle difficoltà a causa della scarsità di ingredienti che non possono permettersi. “Facciamo del pane cattivo perché non abbiamo tutti gli ingredienti e non possiamo comprarli,” afferma.

Majed, 34 anni, scappato a sud con la moglie e quattro figli sopravvissuti verso il 10 di novembre dice che, mentre la situazione nel sud è disastrosa, è incomparabile con quello che lui e la sua famiglia hanno dovuto sopportare nel nord. Sono stati in una zona nei pressi dell’ospedale al-Shifa a Gaza City per oltre un mese dopo che il 13 ottobre la loro casa era stata bombardata uccidendo il figlio di sei anni di Majed:

In quei 33 giorni non abbiamo mangiato pane perché non c’era farina,” afferma. “Non c’era acqua, a volte compravamo acqua per 10 (dollari) a tazza. Non sempre era potabile. A volte (l’acqua che abbiamo bevuto) era del bagno e altre del mare. I mercati della zona erano vuoti. Non c’era neppure cibo in scatola.”

Taher, 32 anni, scappato con la sua famiglia l’11 novembre, descrive condizioni simili a Gaza City nelle prime settimane di novembre: “La città era priva di ogni cosa, di cibo e acqua,” dice. “Se trovavi cibo in scatola i prezzi erano altissimi. Abbiamo deciso di mangiare solo una volta al giorno per sopravvivere. Abbiamo finito i soldi. Abbiamo deciso di avere solo l’indispensabile, di avere meno di tutto.”

Standard internazionali e le prove di azioni deliberate

Affamare i civili come metodo di guerra è vietato in base all’articolo 54 (1) del Primo Protocollo Aggiuntivo della Convenzione di Ginevra (Protocollo I) e dell’articolo 14 del Secondo Protocollo Aggiuntivo della Convenzione di Ginevra (Protocollo II). Benché Israele non abbia aderito ai protocolli I e II, il divieto viene riconosciuto come riflesso del diritto umanitario consuetudinario internazionale sia in conflitti internazionali che non internazionali. Le parti di un conflitto non devono “provocare deliberatamente (una carestia)” o provocare deliberatamente “il fatto che la popolazione soffra la fame, in particolare privandola delle fonti o dei rifornimenti di cibo.”

Alle parti in guerra è vietato anche attaccare i beni indispensabili per la sopravvivenza della popolazione civile, come cibo e medicinali, zone agricole e impianti dell’acqua potabile. Sono obbligate a fornire assistenza umanitaria rapida e senza restrizioni a tutti i civili in stato di necessità e a non bloccare deliberatamente gli aiuti umanitari o limitare la libertà di movimento del personale dell’assistenza umanitaria. In ognuna delle precedenti quattro guerre a Gaza dal 2008 Israele ha garantito il flusso di acqua potabile ed elettricità a Gaza ed ha aperto i valichi israeliani per la distribuzione di aiuti umanitari.

Le prove dell’intenzione di utilizzare deliberatamente la mancanza di cibo come metodo di guerra possono essere rintracciate nelle affermazioni pubbliche di politici coinvolti nelle operazioni militari. Ci si può aspettare che i seguenti politici israeliani di alto livello possano aver giocato un ruolo significativo nel definire le politiche rispetto a consentire o bloccare il cibo e altri beni di prima necessità per la popolazione civile.

Il 9 ottobre il ministro della Difesa Yoav Gallant ha detto: “Stiamo imponendo un assedio totale contro (Gaza). Niente elettricità, niente cibo, niente acqua, niente carburante, tutto chiuso. Stiamo combattendo contro animali umani e dobbiamo agire di conseguenza.”

Il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir il 17 ottobre ha detto in un tweet: “Finché Hamas non rilascerà gli ostaggi, l’unica cosa che dovrebbe entrare a Gaza sono centinaia di tonnellate di esplosivo dal cielo, neppure un grammo di aiuto umanitario.”

Il ministro dell’Energia Israel Katz, che ha raccontato di aver ordinato il taglio di elettricità e acqua, ha detto l’11 ottobre:

Per anni abbiamo fornito a Gaza elettricità, acqua e carburante. Invece di ringraziarci, hanno inviato migliaia di animali umani a massacrare, uccidere, violentare e rapire bambini, donne e anziani. Per questo abbiamo deciso di interrompere la fornitura di acqua, elettricità e carburante e ora l’impianto di produzione di energia locale è crollato e a Gaza non c’è elettricità. Continueremo a mantenere un rigido assedio finché Israele e il mondo non saranno liberati della minaccia di Hamas. Ciò che è stato non ci sarà più.”

Il 12 ottobre Katz ha detto:

Aiuti umanitari a Gaza? Neppure un interruttore verrà acceso, non verrà aperta neppure una valvola, neppure un camion di carburante entrerà finché gli ostaggi israeliani non torneranno a casa. Umanità contro umanità. Che nessuno ci dia lezioni di moralità.”

Il 16 ottobre ha detto:

Ho appoggiato l’accordo tra il primo ministro Netanyahu e il presidente Biden per la fornitura di acqua al sud della Striscia di Gaza perché è in linea anche con gli interessi israeliani. Sono totalmente contrario a togliere il blocco e a lasciar entrare a Gaza prodotti per ragioni umanitarie. Il nostro impegno è verso le famiglie degli assassinati e gli ostaggi rapiti, non verso gli assassini di Hamas e la gente che li ha aiutati.”

Il 4 novembre il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha dichiarato che “per nessuna ragione” deve entrare carburante a Gaza. Poi, come riportato dal Jerusalem Post, ha definito la decisione del gabinetto di guerra israeliano di consentire l’ingresso nella Striscia di una piccola quantità di carburante “un grave errore” e ha affermato: “Si ponga termine immediatamente a questo scandalo e si impedisca che carburante entri nella Striscia”.

In un video postato in rete il 4 novembre il colonnello Yogev Bar-Shesht, vice capo dell’Amministrazione Civile [ente militare che governa i territori occupati, ndt.] ha affermato in un’intervista da Gaza: “Chiunque torni qui, se ritornerà in seguito, troverà terra bruciata. Niente case, niente agricoltura, niente di niente. Non hanno futuro.”

Il 24 novembre, in un’intervista televisiva con la CNN, Mark Regev, consigliere del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha affermato che Israele ha privato Gaza di carburante dal 7 ottobre per rafforzare la posizione di Israele quando si tratterà di negoziare con Hamas il rilascio degli ostaggi. “Se lo avessimo fatto (consentire l’ingresso di carburante) … non avremmo mai avuto la restituzione dei nostri ostaggi,” ha detto.

Il 1 dicembre il coordinatore delle attività di governo nei territori del ministero dell’Interno, generale Ghassan Alian, ha affermato che l’ingresso di carburante e aiuti a Gaza era stato interrotto dopo che Hamas aveva violato le condizioni dell’accordo di cessate il fuoco. Il suo ufficio ha confermato la sua dichiarazione in risposta a una domanda del Times of Israel sostenendo: “”Dopo che l’organizzazione terroristica Hamas ha violato l’accordo e in più ha sparato contro Israele, l’ingresso di aiuti umanitari è stato bloccato nel modo previsto dall’accordo.”

Fin dal 7 ottobre altre fonti ufficiali hanno chiesto di limitare l’ingresso di aiuti umanitari a Gaza, affermando che ciò è utile agli obiettivi dell’esercito israeliano.

Il primo ministro Netanyahu il 5 dicembre ha risposto a una domanda riguardo al fatto che Israele potrebbe perdere un’arma di pressione contro Hamas se consentisse l’ingresso di maggiori aiuti umanitari a Gaza affermando: “Gli sforzi bellici sono sostenuti da quelli umanitari… ciò perché seguiamo le leggi di guerra in quanto sappiamo che, se ci fosse un collasso – epidemie, pandemie e infezioni dovute alla falda freatica – ciò porrebbe fine alla guerra.”

Il ministro della Difesa Gallant ha affermato: “Ci viene chiesto di consentire il minimo dal punto di vista umanitario perché la pressione militare possa continuare.”

Tzachi Hanegbi, consigliere per la sicurezza nazionale di Israele, ha detto il 17 novembre a una conferenza stampa: “Se c’è un’epidemia, i combattimenti finiranno. Se ci sono una crisi umanitaria e una protesta internazionale, in quelle condizioni non riusciremo a continuare a combattere.”

Il 18 ottobre l’ufficio del primo ministro ha annunciato che Israele non avrebbe impedito agli aiuti umanitari di entrare a Gaza dall’Egitto in seguito a pressioni degli USA e di altri alleati internazionali:

Alla luce della richiesta del presidente Biden Israele non ostacolerà soccorsi umanitari dall’Egitto finché si tratterà solo di cibo, acqua e medicinali per la popolazione civile del sud della Striscia di Gaza.”

Distruzione della produzione agricola e impatto sulla produzione di cibo

Durante le operazioni di terra nel nord di Gaza a quanto sembra le forze israeliane hanno distrutto la produzione agricola accentuando la carenza di cibo con effetti a lungo termine. Ciò ha incluso la distruzione di coltivazioni, campi e serre.

L’esercito israeliano ha affermato di condurre operazioni militari nella zona di Beit Hanoun, e anche in una zona agricola imprecisata a Beit Hanoun, per scoprire tunnel e altri obiettivi militari.

Campi e frutteti a nord di Beit Hanoun, per esempio, sono stati i primi ad essere danneggiati durante le ostilità in seguito alle operazioni di terra israeliane alla fine di ottobre. Bulldozer hanno scavato nuove strade, aprendo la via per veicoli militari israeliani.

Da metà novembre, dopo che le forze israeliane hanno preso il controllo della stessa area nel nordest di Gaza, immagini satellitari mostrano che frutteti, campi e serre sono stati sistematicamente distrutti, lasciando sabbia e polvere. L’8 dicembre Human Rights Watch ha chiesto un commento all’esercito israeliano, ma non ha ricevuto risposta.

Gli agricoltori della zona avevano piantato coltivazioni come alberi di agrumi, patate, pitaya [frutti originari dell’America centro-meridionale, ndt.] e fichi d’india, contribuendo al sostentamento dei palestinesi di Gaza. Altre coltivazioni includono pomodori, cavoli e fragole. Alcuni appezzamenti sono stati distrutti in un giorno. Gli alberi di agrumi, come i cactus della pitaya, richiedono anni di cure per maturare prima di dare frutti.

Immagini satellitari ad alta definizione mostrano che sono stati usati bulldozer per distruggere campi e piantagioni. Si vedono camion e montagne di terra sui limiti dei precedenti appezzamenti.

Che si tratti di distruzioni deliberate, di danni dovuti alle ostilità o all’impossibilità di irrigare o lavorare la terra, nel nord di Gaza i terreni agricoli sono stati drasticamente ridotti fin dall’inizio delle operazioni di terra israeliane.

Anche nel sud di Gaza aziende agricole e contadini sono stati colpiti. Action Against Hunger [ong francese che lotta contro la fame nel mondo, ndt.] ha scoperto che delle 113 aziende agricole del sud di Gaza interpellate tra il 19 e il 31 ottobre il 60% ha affermato che le proprie attività o coltivazioni sono state danneggiate, il 42% di non avere accesso all’acqua per irrigare i campi e il 43% di non essere in grado di raccogliere i prodotti.

Rettifica

18/12/2023: Questo comunicato stampa è stato aggiornato per riportare la data di ottobre in cui il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che Israele non avrebbe consentito assistenza umanitaria a Gaza “nella forma di cibo e medicinali” attraverso i suoi valichi “finché gli ostaggi (israeliani) non saranno restituiti.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)