Agenti israeliani hanno aggredito dei militanti in una zona civile, uccidendo un minorenne

Imogen Piper, Meg Kelly e Louisa Loveluck

26 maggio 2023 – The Washington Post

Video di un’aggressione avvenuta il 16 marzo a Jenin mostrano le tattiche sempre più letali degli agenti israeliani

Il Washington Post ha prodotto una ricostruzione in 3D di un momento cruciale durante il raid israeliano del 16 marzo nel centro di Jenin, in Cisgiordania.

Il 16 marzo nel centro di Jenin il traffico era quasi paralizzato, un giovedì pomeriggio inconsueto in Cisgiordania. A distanza di pochi giorni dal mese santo di Ramadan, i ristoranti erano pieni e gli acquirenti si aggiravano in mezzo alle macchine affrettandosi da un negozio all’altro.

Un padre spingeva una carrozzina dopo aver superato una berlina color argento. Dentro all’auto c’erano agenti israeliani in borghese, in attesa di condurre un’operazione contro due miliziani palestinesi che camminavano lì accanto. Omar Awadin, di 14 anni, pedalava sulla sua bici dopo aver terminato da poco la sua ultima commissione della giornata.

Pochi minuti dopo, quattro agenti di sicurezza in borghese sono saltati fuori da una seconda berlina argentata lì vicino inseguendo i militanti e hanno aperto il fuoco.

Scene del genere sono sempre più frequenti in Cisgiordania, dove più di 3 milioni di palestinesi vivono sotto occupazione militare israeliana e dove è salita alla ribalta una nuova generazione di militanti. Israele afferma che raid come questo sono fondamentali per distruggere le reti terroristiche e proteggere i propri cittadini dagli attacchi; i dirigenti palestinesi sostengono che si tratta di crimini di guerra che dovrebbero essere deferiti alla Corte Penale Internazionale.

Le operazioni militari israeliane sono state a lungo una costante della vita qui, ma un tempo avvenivano soprattutto di notte e normalmente finivano con un grande spavento. Quest’anno, sotto il governo più di destra nella storia israeliana, un numero crescente di incursioni si è svolto durante il giorno, in aree urbane densamente popolate come Jenin. Secondo le Nazioni Unite, al 15 maggio erano stati uccisi dalle forze israeliane 108 palestinesi in Cisgiordania e Gerusalemme est, inclusi militanti e civili, più del doppio delle vittime nello stesso periodo dello scorso anno. Almeno 19 erano minori, compreso Omar, che è stato colpito a morte nel raid a Jenin.

Il Washington Post ha sincronizzato 15 video del 16 marzo e ne ha esaminate decine di altri, inclusi filmati delle telecamere di sorveglianza delle aziende circostanti, alcuni dei quali ci hanno messo quasi un mese a venire alla luce. Il Washington Post ha anche parlato con 9 testimoni e ottenuto testimonianze da altri quattro per produrre una ricostruzione in 3D del raid.

L’analisi ha fornito tre risultati fondamentali:

  • Le forze israeliane hanno ucciso Omar. Le autorità israeliane non hanno rilasciato commenti pubblici sulla sua morte.

  • Omar si trovava in mezzo ad almeno 16 civili nella zona, quando gli agenti si sono precipitati in strada con fucili modello AR [armi d’assalto, ndt.] e una pistola, sparando più di 20 colpi e uccidendo i due miliziani, nessuno dei quali era visibilmente armato. Le autorità israeliane in una prima dichiarazione hanno parlato dei miliziani come di “sospetti armati”, ma non hanno fornito prove di quanto sostenuto.

  • Uno dei miliziani è stato colpito più volte dalle forze israeliane dopo che era stato immobilizzato – una palese esecuzione extragiudiziale che esperti hanno affermato potrebbe violare la legge israeliana.

Inoltre esperti consultati dal Washington Post hanno affermato che il raid risulta aver violato un divieto internazionale delle uccisioni extragiudiziali, sostenendo che, oltre alla presenza di così tanti civili, l’illegalità era aggravata dal fatto che i miliziani non sembravano costituire una minaccia imminente.

Il raid è stato condotto da Yamam, l’unità di élite della polizia di frontiera israeliana, che si occupa di operazioni antiterrorismo, comprese incursioni in aree civili.

Dean Elsdunne, un portavoce della polizia israeliana, ha detto che le forze di sicurezza si trovavano nell’area per “arrestare i terroristi responsabili di attacchi con armi da fuoco contro soldati dell’IDF  di fabbricazione di bombe e di altre attività terroristiche.”

In risposta alle prime domande riguardo a Omar, la polizia israeliana ha scritto in una mail al Washington Post che “il soggetto della vostra indagine ha preso parte attiva alla violenta protesta mettendo in pericolo la vita dei soldati.” Non è chiaro a quale protesta si riferisse, ma la prova visiva esaminata dal Washington Post dimostra che nessun disordine è scoppiato prima degli spari.

La polizia ha rifiutato di visionare la prova del Washington Post o di rispondere alle domande poste.

File classificati dell’archivio dei documenti USA, precedentemente inediti e recentemente trapelati in rete tramite la piattaforma di messaggistica Discord, sottolineano la crescente preoccupazione americana che le incursioni israeliane in Cisgiordania – compreso il raid del 22 febbraio a Nablus, dove i soldati israeliani hanno sparato ad un gruppo di civili – potrebbero compromettere gli sforzi internazionali per ridurre la violenza nella regione.

Un’analisi riservata sul raid del 7 marzo a Jenin mette in guardia sul fatto che “quasi certamente avrebbe spinto i miliziani palestinesi a vendicarsi.”

Il raid

Omar aveva trascorso la giornata del 16 marzo consegnando pacchi per il negozio di forniture mediche di suo padre. Alle 15 circa ha lasciato il suo ultimo pacco ad una vicina farmacia, come mostra il filmato della telecamera di sorveglianza che è stato ottenuto dal Washington Post.

Maggiore dei tre figli della famiglia e unico maschio, Omar era straordinariamente gentile, ricorda sua madre, e cercava sempre di coinvolgere altri ragazzini più svantaggiati di lui. Gli piaceva scherzare e nuotare e andare in bici nei suoi giorni liberi.

Uscito dal negozio, si è avvicinato in bici a suo padre, che guidava nella direzione opposta. “Ci siamo incontrati per caso”, dice suo padre, Mohammad Awadin. “Mi ha chiesto 10 shekel [2,50 euro] per comprare dei vestiti, ma dietro di me c’era un poliziotto e non ho potuto fermarmi.”

Quando Omar è tornato verso il negozio del padre è iniziato il raid.

A pochi metri di distanza da lui due miliziani palestinesi – Nidal Khazem, di 28 anni, e Yousef Shreim, di 29 – camminano per strada uno accanto all’altro. Khazem e Shreim superano la seconda berlina d’argento, bloccata nel traffico, in cui gli agenti di Yamam stanno aspettando.

Poi vengono esplosi almeno tre colpi di fucile alle spalle dei due uomini. Khazem è colpito e cade a terra.

In rapida successione compaiono quattro membri delle forze di sicurezza israeliane in borghese. In base al video esaminato dal Washington Post, in seguito due sparano al corpo disteso di Khazem.

Il Washington Post ha identificato almeno 16 civili, compreso Omar, nelle immediate vicinanze, quando gli agenti aprono il fuoco.

Una telecamera di sorveglianza ha ripreso Shreim che corre, inciampa e subito cade sul selciato in mezzo a un gruppo di tre civili, secondo i molti video sincronizzati dal Washington Post.

Una terza videocamera mostra l’istante prima che Omar venga colpito e cada dalla bici.

Dopo che almeno due agenti israeliani hanno puntato le armi verso Shreim, un proiettile colpisce Omar alla schiena. Non è chiaro quale agente israeliano abbia esploso il colpo fatale.

Come si vede nel video, Shreim ritrova l’equilibrio e riprende a correre. Appena svoltato l’angolo segue un’altra raffica di spari. Il video mostra che le forze israeliane sparano almeno cinque volte dopo che è stato colpito la prima volta. Il suo corpo è preda di evidenti convulsioni dopo gli ulteriori spari.

Quindi gli agenti si ritirano verso la loro vettura. Due di loro – uno con una pistola, l’altro con un fucile – si chinano accanto al corpo di Khazem e gli sparano alla testa a bruciapelo.

Il Washington Post ha offuscato alcune sezioni del video a causa della natura delle immagini.

Ad una ventina di metri di distanza Omar è steso su un fianco e riverso sul ventre.

Mi sono avvicinato a Omar chiedendogli che problema ci fosse”, dice Abdallah Abahrah, proprietario del negozio di cosmetici nell’isolato. “Ha detto ‘sono caduto’. Gli ho chiesto se fosse ferito e lui ha detto di no. Abbiamo parlato.”

Non c’era sangue intorno a Omar, ricorda Abahrah, ma poi il suo viso è diventato giallo e la zona intorno ai suoi occhi ha preso un colore bluastro. “Gli tenevo le mani e hanno cominciato a diventare fredde come ghiaccio”, dice Abahrah.

Lui e un altro uomo lo hanno girato e hanno visto che era stato colpito alla schiena. Mentre cercavano di aiutarlo è passata una delle macchine che trasportavano i soldati israeliani.

Nessuna ambulanza poteva raggiungere la scena a causa del traffico e del caos seguiti al raid, dice Abahrah, perciò ha caricato Omar su una macchina e lo ha portato di corsa all’ospedale. Secondo il rapporto dell’ospedale è arrivato che era già morto.

Uccisioni totalmente illegittime

Il Washington Post ha condiviso i suoi risultati con cinque esperti di diritto internazionale: tutti hanno detto che il mortale raid ha violato il divieto di uccisioni extragiudiziali.

Si potrebbe dire con una certa sicurezza che queste sono esecuzioni extragiudiziali”, ha affermato Philip Alston, che è stato relatore speciale dell’ONU sulle esecuzioni sommarie o arbitrarie tra il 2004 e il 2010, dopo aver esaminato le prove fornite dal Washington Post.

Queste specifiche uccisioni sono “totalmente illegittime” in base agli standard internazionali, secondo Michael Lynk, che è stato relatore speciale dell’ONU per i diritti umani nei territori palestinesi fino all’anno scorso. Ha aggiunto che l’illegittimità è stata “aggravata dalla palese scelta di effettuare queste uccisioni mirate in un affollato mercato civile.”

La legge israeliana concede una libertà molto maggiore alle proprie forze nel corso di operazioni anti-terrorismo – anche quando, come in questo caso, i presunti obbiettivi non erano visibilmente armati e non era in corso una sparatoria.

Michael Sfard, un avvocato per i diritti umani che ha contestato la legalità delle uccisioni mirate di fronte alla Corte Suprema di Israele, ha descritto il raid a Jenin come “tipico del modo in cui Israele conduce le sue operazioni di eliminazione fisica.”

Il principio di base, ha affermato Roni Pelli, un avvocato dell’Associazione per i diritti civili in Israele, “è che si apre il fuoco solo se si è messi a rischio.” Ma nella legge israeliana la questione di che cosa costituisca un rischio è ambigua– intenzionalmente, sostengono le associazioni per i diritti.

Una sentenza della Corte Suprema israeliana del 2006 ha sancito una definizione molto estesa di quando possono essere presi di mira presunti miliziani, legalizzando la possibilità di colpire individui che le forze di sicurezza ritengono avere legami con gruppi armati, anche se al momento dell’operazione non rappresentano una minaccia diretta.

Khazem era un membro del gruppo armato della Jihad islamica, mentre Shreim faceva parte delle Brigate al-Qassam, l’ala militare di Hamas, il che li rendeva obbiettivi legittimi per la legge israeliana.

Ma il diritto israeliano e quello internazionale concordano su un punto fondamentale: quando una persona non costituisce più una minaccia non può essere presa di mira con una forza letale. Sparare alla testa di Khazem mentre era immobilizzato è quindi stato probabilmente illegale, hanno affermato esperti in diritto israeliano – ricordando un caso del 2017 quando un tribunale israeliano condannò un medico militare a 18 mesi di carcere per aver sparato mortalmente ad un aggressore palestinese ferito e disarmato a Hebron.

Elor Azaria, il medico, aveva agito “come giudice ed esecutore”, sentenziò il tribunale. La condanna di Azaria fu ridotta a 14 mesi in appello e fu rilasciato dopo 9 mesi, acclamato come un eroe da politici di estrema destra.

Tra coloro che sostennero la sua causa c’era Ben Gvir, un leader radicale dei coloni e attivista anti arabo. Ora Ministro della Sicurezza Nazionale di Israele, Ben Gvir controlla la polizia di frontiera, compresa Yamam.

Elsdunne, il portavoce della polizia israeliana, ha rifiutato di dire se vi fosse un’indagine sulle azioni delle forze di sicurezza israeliane in generale durante il raid, o specificamente sull’uccisione di Khazem. Le forze di sicurezza “agivano in condizioni di pericolo di vita per arrestare dei terroristi”, ha detto al Washington Post.

Ma nessun soggetto preso di mira nel raid “sembrava costituire alcuna minaccia, tantomeno imminente, ed entrambi avrebbero potuto essere arrestati”, ha affermato Lynk. Il fatto di non aver arrestato i due uomini, ha detto Alston, “è stato poi accompagnato dagli ulteriori spari letali anche dopo che i due individui erano stati resi inoffensivi.”

In quella raffica di pallottole è stato ucciso Omar. Aveva fatto una chiamata video a sua madre circa alle 11 di quel mattino, ricorda lei: “Era seduto dietro alla scrivania del padre, così orgoglioso di mostrarmi quanto fosse responsabile.”

Quattro ore dopo era morto.

Hanno contribuito a questa relazione Osama Hassan a Jenin e Cate Brown a Washington.

Imogen Piper è una fotogiornalista per il gruppo di video forensi del Washington Post. Prima di lavorare per il Washington Post, ha lavorato come investigatrice della ong di controllo dei conflitti aerei Airwar (con sede a Londra, ndt). Ha anche lavorato con Forensic Architecture [Architettura Forense, gruppo di esperti che analizza episodi di violazione dei diritti umani fondato dall’architetto israeliano Eyal Weizman, ndt.] e Bellingcat [sito di giornalismo investigativo, ndt.] per dare conto della risposta della polizia durante le proteste del movimento Black Lives Matter nel 2020.

Meg Kelly è una fotogiornalista per il gruppo di video forensi del Washington Post.

Louisa Loveluck è capo dell’ufficio di Baghdad. Precedentemente ha lavorato a Beirut per il

Washington Post e come corrispondente al Cairo per il Daily Telegraph.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Perché Karim Khan ha congelato il fascicolo sulla Palestina: la CPI e i crimini di guerra israeliani a Gaza

Romana Rubeo Dott. Ramzy Baroud

24 maggio 2023 – Middle East Monitor

L’ultima guerra di Israele contro Gaza, iniziata il 9 maggio, ha causato la morte di 33 palestinesi, tra cui sei bambini, e il ferimento di altre centinaia. La maggior parte delle persone uccise e ferite erano civili.

Il primo giorno di guerra Maurice Hirsh, ex capo della procura militare dell’IDF [esercito israeliano, ndt.], ha espresso una giustificazione “giuridica” della guerra israeliana. Ha scritto il seguente passaggio su Twitter: “Se si considera il vantaggio militare ottenuto eliminando questi importanti terroristi è irrilevante chiedersi quanti bambini siano stati uccisi accidentalmente”.

Hirsh ha già usato in precedenza questo tipo di logica. Ad esempio, nell’agosto 2022 ha scritto un articolo sul quotidiano israeliano Jerusalem Post in cui ha giustificato gli attacchi dell’esercito israeliano contro la popolazione civile di Gaza. “Nel mondo della propaganda anti-israeliana e dei cicli apparentemente infiniti di violenza contro i terroristi a Gaza, la moltitudine di odiatori e irragionevolmente ignoranti spesso usa le parole ‘sproporzionato’ e ‘proporzionalità’ come mezzo per rimproverare lo Stato ebraico.”

Sebbene per molti tale logica equivalga all’incitamento all’odio e alla totale giustificazione dei crimini di guerra abbiamo deciso di chiedere il parere legale di un esperto di diritto internazionale. Gli abbiamo chiesto se le opinioni di Hirsh sono in qualche modo giustificate.

Triestino Mariniello è un esperto di diritto internazionale e membro del team legale che rappresenta le vittime di Gaza davanti alla Corte penale internazionale (CPI).

Abbiamo chiesto al dott. Mariniello un parere sui commenti di Hirsh all’interno del contesto della legalità, o illegalità, dell’ultima guerra israeliana a Gaza.

“Il principio di distinzione”

“La dichiarazione di Hirsh non ha validità in termini di diritto internazionale o diritto umanitario”, afferma Mariniello.

“Anche in quest’ultima operazione militare le autorità israeliane sembrano aver violato i principi fondamentali della legge sui conflitti armati, in particolare il principio di distinzione, che vieta a qualsiasi Paese di attaccare direttamente obiettivi civili”, aggiunge.

Secondo Mariniello il comportamento dell’esercito israeliano nel suo ultimo attacco alla Striscia assediata ha seguito uno schema simile alle guerre precedenti.

“I crimini più evidenti presumibilmente commessi durante l’ultima operazione militare israeliana sono gli attacchi deliberati e intenzionali contro obiettivi civili e l’uso eccessivo della forza. Queste violazioni non sono una novità. Hanno caratterizzato nel corso degli anni ogni singola operazione militare israeliana contro Gaza assediata, compresi gli attacchi contro scuole, ospedali, luoghi religiosi e uffici giornalistici”.

Obiettivi militari?

Tuttavia Israele ribatte sostenendo che i suoi attacchi prenderebbero di mira le infrastrutture militari e accusa i cosiddetti militanti di rifugiarsi in mezzo ai civili.

Ma è così?

Gli attacchi israeliani sono stati effettuati su edifici residenziali di notte, mentre la popolazione civile dormiva, con la presenza di persone non direttamente coinvolte nelle ostilità, e in assenza di ostilità in corso. In sostanza, secondo le leggi internazionali non erano obiettivi militari”, dice Mariniello.

Nel suo articolo sul Jerusalem Post Hirsh attacca “la moltitudine di denigratori e irriducibili ignoranti” per aver enfatizzato concetti come proporzionalità e sproporzione nel diritto internazionale.

Tuttavia per Mariniello questi principi non sono opinabili ma fondamentali per il diritto internazionale durante i conflitti armati.

“L’altro pilastro del diritto internazionale e umanitario che sembra essere stato ignorato da Israele è il principio di proporzionalità che proibisce attacchi sproporzionati. Questo è già accaduto nei precedenti attacchi militari a Gaza”.

Mariniello prosegue parlando di altri due importanti principi del diritto internazionale anch’essi ‘presumibilmente’ violati da Israele, in questa guerra e nelle guerre precedenti: “Il principio di necessità e l’obbligo di precauzione, che prevede che ‘la popolazione civile e i singoli civili godano di una protezione globale contro i pericoli derivanti dalle operazioni militari.'”

Israele ha agito in aperta violazione di questi principi “perché non c’è stato alcun preavviso (nonostante) la consapevolezza che i civili si trovassero nell’edificio durante la notte”.

Contesto mancante

Quello che di solito manca nelle tipiche analisi delle operazioni militari israeliane sulla [Striscia di] Gaza assediata è il più ampio contesto. Ma questo contesto è rilevante quando si esamina la legalità o illegalità della guerra secondo il diritto internazionale?

Mariniello risponde: Contesto e ostilità non possono essere analizzati separatamente. Lanci di razzi e bombardamenti fanno notizia, ma bisogna ricordare l’impatto permanente e quotidiano dell’occupazione israeliana e del controllo militare sulla popolazione civile (che ne paga il prezzo più alto), sia in Cisgiordania e Gaza”.

“Gaza è ancora in stato di occupazione sulla base del diritto internazionale ed è soggetta a un blocco che è entrato nel suo 17esimo anno. Il blocco ha un impatto devastante sulla vita dei residenti della Striscia, come evidenziato dalle organizzazioni per i diritti umani palestinesi, internazionali e israeliane, che lo descrivono apertamente come una catastrofe umanitaria.”

Giustizia ritardata

Una cosa che frustra costantemente i palestinesi è il doppio standard esibito dalle istituzioni legali e politiche internazionali nei riguardi di Israele come violatore seriale del diritto internazionale, rispetto a molti altri Paesi o entità.

Israele non è mai stato veramente chiamato a rispondere della sua occupazione militare, del regime di apartheid o dei numerosi crimini di guerra commessi contro i palestinesi.

Ma i palestinesi e i loro sostenitori non si arrendono.

Abbiamo chiesto a Mariniello se le vittime palestinesi possono sperare in qualche forma di giustizia e risarcimento.

“Gli attacchi rivolti contro i civili e l’uso sproporzionato della forza non sono solo violazioni del diritto umanitario ma sono anche crimini di guerra, che possono essere perseguiti anche in conformità con l’articolo 8 dello Statuto di Roma”, che riguarda i crimini di guerra, dice Mariniello.

Doppi standard

La storia recente ci ha insegnato che quando la comunità internazionale è decisa a punire e sanzionare un Paese che viola il diritto internazionale sono molte le misure che possono essere adottate. Immediatamente dopo il lancio dell’operazione militare russa in Ucraina nel febbraio 2022, ad esempio, sono state imposte migliaia di sanzioni a Mosca.

La Corte Penale Internazionale (CPI) ha emesso mandati di arresto per il presidente russo Vladimir Putin e la Commissaria per i diritti dell’infanzia Maria Lvova-Belova, nonostante il fatto che né la Russia né l’Ucraina siano membri della CPI. Ciò significa che alla Corte non è stata concessa una giurisdizione automatica per indagare sui crimini commessi durante il conflitto in corso.

Nel caso della Palestina, nonostante l’avvio di un’indagine nel marzo 2021, il procedimento investigativo della CPI sembra trovarsi a un punto morto. Come spiegare tutto questo? Questo è l’ennesimo caso di doppi standard?

Spiega Mariniello: Dal punto di vista legale la politica del doppio standard applicata dai Paesi occidentali è inaccettabile. I meccanismi del diritto internazionale non possono essere applicati in alcuni casi e ignorati in altri. Ad esempio, nel caso dell’Ucraina 43 Paesi si sono rivolti alla CPI, di cui cinque si sono opposti all’indagine della CPI in Palestina”.

“Questa selettività non riguarda solo la comunità internazionale ma anche la CPI. La CPI rappresenta l’unica possibilità di giustizia per le vittime di crimini di guerra o crimini contro l’umanità, considerando gli attacchi sistematici contro le popolazioni civili”.

Quanto all’affermazione che Israele è una democrazia con un sistema giudiziario vitale e plausibilmente in grado di processare i propri presunti criminali di guerra, Mariniello ribatte: “Il sistema giudiziario israeliano ha dimostrato più e più volte di non essere in grado di rendere giustizia alle vittime di questi abusi. Ne abbiamo avuto recentemente la conferma nel caso dell’uccisione della giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh”.

Karim Khan

Considerando che la CPI è uno dei più importanti tribunali in cui le vittime di crimini di guerra possano in una qualche misura ottenere giustizia, pur tenendo presente i doppi standard e le carenze della stessa CPI, cosa possono aspettarsi i palestinesi?

Questa domanda diventa ancora più rilevante se teniamo presente il fatto che, secondo il rapporto dell’Assemblea degli Stati aderenti alla CPI, il budget stanziato per l’indagine sulla Palestina è molto piccolo. Ciò non è affatto promettente.

“Sfortunatamente, dall’avvento di Karim Khan come procuratore capo della CPI le indagini si sono fermate”, dice Mariniello. “Khan ha dimostrato che in altri casi le procedure possono essere molto rapide, quando c’è la volontà di andare avanti, come nel caso dell’Ucraina”.

Purtroppo la “volontà di procedere” sembra assente nel caso della Palestina.

“Nonostante il procedimento relativo alla Palestina sia ben documentato e sia stato avviato già nel 2009, l’attuale Procuratore non sembra avere alcuna intenzione di portarlo avanti”. Per Khan, “la Palestina non sembra una priorità”.

Molte voci critiche hanno condannato questo atteggiamento, sottolineando come la Procura sia interessata solo alle indagini che godono dell’appoggio degli Stati Uniti e dei suoi potenti alleati. Queste accuse sembrano trovare riscontro nella decisione di congelare le indagini su presunti crimini di guerra sia in Afghanistan che in Palestina”.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Riforme giudiziarie israeliane: far scoppiare la bolla di un sistema giuridico coloniale

Pietro Stefanini

22-05-2023, The Legal Agenda

Il 4 gennaio 2023, meno di una settimana prima del giuramento dell’attuale governo israeliano, il ministro della Giustizia Yariv Levin annunciava una controversa revisione del sistema giudiziario. Quello che è diventato noto come il Piano Levin comprende diversi cambiamenti tecnici e legali, ma l’essenza delle riforme proposte risiede nel limitare l’influenza della Corte Suprema israeliana rafforzando al contempo l’autorità della Knesset di approvare leggi con meno ostacoli.[1] Se adottate, sposterebbero in modo significativo l’equilibrio del potere verso il governo e lontano dai rami giudiziari. Mentre in passato la Corte Suprema poteva annullare alcune leggi approvate dalla Knesset quando erano in conflitto con una delle Leggi Fondamentali di Israele, le riforme proposte ridurrebbero la supervisione della Corte e darebbero ulteriore potere al governo.

Dall’annuncio di Levin manifestazioni di massa hanno scosso Israele con dimostranti che lamentavano la presunta svolta autoritaria del paese. Il primo ministro Benjamin Netanyahu è Stato accusato di palese conflitto di interessi perché le riforme legali gli darebbero la possibilità di ottenere l’immunità parlamentare dal suo processo in corso per corruzione, qualcosa che ha cercato di accelerare almeno dall’inizio del 2020.[2] Il nuovo governo è anche definito “il più di estrema destra nella storia di Israele” dato che, insieme al Likud di Netanyahu, la coalizione al potere comprende il Jewish Power Party di Itamar Ben-Gvir e il Religious Sionist Party di Bezalel Smotrich, entrambi coloni ultranazionalisti della Cisgiordania con un noto passato di incitamento alla violenza razziale contro i palestinesi.[3]

In questo contesto, le proteste israeliane sembrano contrapporre il campo liberale come protettore dello “Stato di diritto” all’ascesa di un’estrema destra senza precedenti. Questa è la comune narrazione riportata da molti commentatori internazionali che osservano le manifestazioni e discutono sul futuro della “democrazia” di Israele. Tuttavia, uno sguardo più attento rivela che difendere la Corte Suprema è ben lungi dall’essere una posizione democratica o antiautoritaria. Il diritto in generale, e la Corte in particolare, dovrebbero essere collocati all’interno del loro rilevante contesto storico e politico, che in questo caso è il colonialismo di insediamento israeliano.[4] Se gli osservatori mettessero i palestinesi al centro nel dibattito, il bilancio dell’operato della Corte Suprema mostrerebbe chiaramente di avere costantemente fornito sostegno alle pratiche israeliane di colonizzazione e violenza militare.

Cosa significa la Corte Suprema israeliana per i palestinesi

Dal punto di vista dei colonizzati, la leadership del progetto coloniale sionista – sia di destra che di sinistra – conta poco. Fu il sionismo laburista, apparentemente di sinistra, di David Ben-Gurion predominante nel 1948 che effettuò la pulizia etnica di oltre 750.000 nativi, quella che arabi e palestinesi chiamano la Nakba (catastrofe), per aprire la strada allo Stato colonizzatore di Israele. Commentando i manifestanti israeliani “pro-democrazia” provenienti da quella tradizione politica, lo storico Ilan Pappé scrive che “[l’]erede del sionismo liberale è fondato su una serie di ossimori: Israele come occupante illuminato, pulitore etnico benevolo, Stato apartheid progressista.”[5] Aggiunge che i funzionari militari israeliani, “che hanno commesso innumerevoli crimini di guerra nella Striscia di Gaza, e prima ancora in Cisgiordania e in Libano, stanno ora svolgendo un ruolo cruciale nell’emergente blocco di opposizione.”[6] ] Temono che indebolire la Corte Suprema attraverso riforme giudiziarie contribuirebbe a far diventare Israele un paria globale, come un tempo successe al Sud Africa dell’apartheid, e a perdere la sua legittimità come Stato liberale e democratico.

La Corte Suprema israeliana ha due funzioni principali: agire come corte d’appello e fungere da Alta Corte di Giustizia.[7] È in quest’ultima funzione che la Corte ha ottenuto un ampio sostegno pubblico. Il più alto ramo giudiziario di Israele ha acquisito importanza anche per aver investigato le azioni del governo e dei militari all’interno dei Territori Occupati (TO) della Palestina del 1967. Eppure, i suoi precedenti nei TO parlano della sua natura antidemocratica e coloniale. La Corte ha autorità sulle aree sotto occupazione militare, dove risiedono circa cinque milioni di palestinesi senza diritto di cittadinanza nello Stato da cui emana il potere giudiziario. Legifera così su soggetti non cittadini sotto occupazione; i palestinesi sono vincolati dalla legge del colonizzatore ma non sono loro concessi diritti politici. La Corte Suprema, quindi, non riconosce nemmeno il controllo del regime israeliano sulla Cisgiordania e sulla Striscia di Gaza come occupazione, ma accetta il punto di vista dello Stato secondo cui i territori sono “contesi”. Il consenso stabilito ai sensi del diritto internazionale è che i territori sono occupati, ma lo Stato israeliano ha solo riconosciuto che rispetterà le “disposizioni umanitarie” delle Convenzioni di Ginevra.

Un esempio attuale della Corte Suprema che sanziona la violenza militare israeliana è stato durante la Grande Marcia del Ritorno del 2018-19. Quando i palestinesi hanno organizzato una serie di proteste pacifiche lungo la recinzione che racchiude la Striscia di Gaza per chiedere la fine dell’assedio in corso dal 2007 e per tornare alle loro terre e case da cui furono espropriati nel 1948 – l’esercito israeliano ha risposto con cecchini che sparavano per uccidere e ferire civili, giornalisti e medici.[8] Per porre fine alle marce, l’esercito israeliano ha ucciso 214 palestinesi e ne ha feriti oltre 36.100 – dei quali oltre 8.000 sono stati colpiti da proiettili veri.[9] A un mese dall’inizio della serie di manifestazioni che sono durate quasi due anni, la Corte Suprema avrebbe potuto limitare il cecchinaggio di manifestanti disarmati. Ma quando ONG per i diritti umani hanno presentato una petizione per rivedere la politica del fuoco indiscriminato dei cecchini, la Corte ha respinto le petizioni e si è schierata con la condotta dell’esercito israeliano.

La Corte Suprema ha autorizzato una serie di pratiche statali violente come, tra l’altro, la negazione del ricongiungimento familiare[10] e l’uso della tortura.[11] La Corte ha anche bloccato qualsiasi petizione per contestare l’incarcerazione a tempo indeterminato dei palestinesi senza processo.[12] Nel 2019, la Corte ha anche approvato la politica draconiana di Israele di trattenere i corpi dei palestinesi uccisi.[13] Per decenni il regime israeliano ha adottato questa misura necropolitica di trattenere i corpi dei palestinesi morti – alcuni dei quali detenuti nel Greenberg Institute of Forensic Medicine, un’affiliata dell’Università di Tel Aviv – come “merce di scambio” per costringere a concessioni durante i negoziati o in potenziali accordi di scambio di prigionieri.[14]

Sulla questione dell’espansione coloniale, la Corte Suprema è un facilitatore dell’espropriazione palestinese. Masafer Yatta è diventato l’ultimo obiettivo di alto profilo dell’occupazione israeliana nell’Area C della Cisgiordania. Un totale di 1.200 palestinesi sarà espulso con la forza dal sud di Hebron, un’area che i coloni israeliani hanno a lungo cercato di colonizzare. Nel maggio 2022, la Corte ha respinto i ricorsi contro gli ordini di sfratto pendenti sulla comunità di Masafer Yatta e ha sostanzialmente accettato l’argomentazione dello Stato israeliano secondo cui la terra è un sito di addestramento militare chiuso su cui gli abitanti palestinesi indigeni non hanno il diritto di vivere.[15]

In effetti, la Corte Suprema riconosce la definizione dello Stato come “ebraico e democratico” e afferma inoltre che questa definizione implica il mantenimento di una maggioranza ebraica in Israele.[16] Un effetto voluto di ciò è precludere la possibilità di qualsiasi ritorno di profughi palestinesi che reclamano le proprie case e terre all’interno dei confini dello Stato israeliano. La definizione includeva anche i palestinesi del ’48 (noti come cittadini palestinesi di Israele), portando a decenni di discriminazione. Storicamente, lo Stato israeliano li ha designati come cittadini di seconda classe, ma spesso sono soggetti alle stesse pratiche coloniali e alla stessa repressione militare diretta contro altri collegi elettorali con diritti nominalmente inferiori sanciti dalla legge.

Estendere la cittadinanza ai palestinesi che rimasero e non furono espulsi nel 1948 fu un compromesso necessario per ricevere un riconoscimento liberale e internazionale per la sovranità del nuovo Stato coloniale di Israele.[17] La cittadinanza, tuttavia, non ha mai voluto dire piena uguaglianza in uno Stato fondato su gerarchie razziali, per cui gli ebrei detengono uno status di supremazia sugli arabi palestinesi. Nel 2021, la Corte Suprema ha riaffermato la legalità di attribuire caratteristiche razziali ai palestinesi da parte di Israele sostenendo la costituzionalità della Legge sullo Stato-Nazione del 2018. Secondo Adalah (il Centro legale per i diritti delle minoranze arabe in Israele) la legge sancisce la “supremazia ebraica sui cittadini palestinesi” e “ha caratteristiche specifiche di apartheid e rivendica atti razzisti come valore costituzionale”. [18] Per la studiosa Lana Tatour, la legge Stato-Nazione semplicemente “conferma la realtà” vissuta dai palestinesi: decenni di occupazione, apartheid e colonizzazione.[19]

Nel 2022, la Corte Suprema ha inoltre convalidato un emendamento del 2008 alla legge sulla cittadinanza del 1952 che consente la privazione della cittadinanza ai palestinesi del ’48 accusati di “violazione della lealtà” – concetto di ampio significato tramite il quale i palestinesi accusati di “terrorismo” rischiano l’espulsione. [20] Nel 2021, con un pretesto simile, al palestinese di Gerusalemme Salah Hammouri è stato revocato il diritto di residenza.[21] Con un emendamento alla legge sull’ingresso in Israele approvato nel 2018, il ministero dell’Interno ha revocato la sua carta d’identità di Gerusalemme e lo status di residenza permanente.[22] Hammouri è stato inizialmente tenuto in detenzione amministrativa e accusato di “terrorismo” per il suo lavoro sui diritti umani con l’ONG palestinese Addameer, un centro di assistenza ai prigionieri che è stato criminalizzato come “organizzazione terroristica” insieme ad altri cinque gruppi per i diritti dei palestinesi. Dopo che la Corte Suprema israeliana ha respinto un ricorso contro la decisione di revocare i suoi diritti di residenza per presunta “violazione della lealtà”, Hammouri è stato espulso dalla sua patria.[23]

Il limitato potenziale di emancipazione della difesa della Corte Suprema

Nonostante il ricco dossier di sanzioni contro la violenza di Stato inflitta ai palestinesi, la Corte Suprema è diventata un’istituzione molto popolare. Consentendo alle petizioni dei politici e della società civile di contestare la legalità della politica del governo, è diventato un sito chiave per la contestazione politica e il dibattito pubblico. È anche vista prevalentemente come una Corte “attivista” – sia in una connotazione positiva che negativa.[24] Spesso è il campo della destra religiosa sionista a criticare la Corte per aver ostacolato il loro progetto di insediamento espansionista. Parte dell’etichetta di “attivista” è venuta da alcune revisioni giudiziarie che occasionalmente si pronunciano a favore dei firmatari che cercano di proteggere i palestinesi. In un esempio recente, nell’aprile 2023, la Corte si è pronunciata contro un tentativo da parte di coloni israeliani di espellere una famiglia palestinese dalla propria casa nella zona di Silwan a Gerusalemme est.[25]

Tuttavia, la Corte Suprema declina di affrontare le questioni strutturali dell’ingiustizia. La questione della legalità delle colonie, dei posti di blocco e del muro di separazione sono tutte questioni generali che la Corte si rifiuta di prendere in considerazione. Invece, consente di esaminare solo un elemento singolo: una singola colonia o checkpoint o un percorso parziale del muro.[26] Oscura così il contesto storico e politico in cui si collocano queste questioni. Attraverso questo tipo di mosse legali e digressive, la Corte Suprema – come sottolinea lo studioso di diritto Nimer Sultany – legittima in pratica l’occupazione coloniale di Israele. Può intervenire per respingere i peggiori eccessi violenti di Israele, ma nel complesso lascia indenne il progetto coloniale. Sultany conclude che non c’è “alcun motivo per cui i colonizzati abbiano fiducia nelle istituzioni dello Stato di diritto coloniale”.[27]

Alcune organizzazioni palestinesi intravedono ancora un valore nella “resistenza legale” facendo uso del sistema giudiziario israeliano, sebbene siano consapevoli che è improbabile che i tribunali dei loro oppressori conducano a una vera misura di giustizia o liberazione. L’avvocato palestinese Hassan Jabareen, uno dei fondatori di Adalah, ha sostenuto che la petizione alla Corte Suprema non fornisce quasi mai un rimedio legale interno per le vittime palestinesi. Dove la petizione può avere successo è mobilitare strumenti che trascendono la funzione dei tribunali nazionali. Attingendo ai casi presentati durante l’Intifada di Al-Aqsa (2000-2005), suggerisce che le petizioni hanno avuto due principali effetti positivi: creare una documentazione storica degli eventi che funziona contro i tentativi di sopprimere la copertura delle operazioni dell’esercito israeliano; e per raccogliere sostegno internazionale, ad es. alle Nazioni Unite o nei tribunali internazionali, ancorando le petizioni ai principi del diritto internazionale.[28]

Eppure, i sostenitori della Corte Suprema usano il suo lavoro come prova di una forma legale e disciplinata di dominio israeliano. Per difendere la sua condotta contro i palestinesi nei TO, il regime israeliano fa riferimento abitualmente alle decisioni della Corte come prova della “protezione dei diritti della popolazione locale”.[29] Inoltre, i critici delle riforme giudiziarie del Piano Levin temono che minare l’autorità della Corte esporrebbe i soldati israeliani alla giurisdizione della Corte Penale Internazionale (CPI). Il professore di diritto americano e apologeta filoisraeliano Alan Dershowitz ha recentemente definito la Corte Suprema un ” Iron Dome legale” – in analogia al sistema di difesa aerea che intercetta i razzi lanciati sulla Palestina del 1948 dai gruppi di resistenza della Striscia di Gaza. Per Dershowitz, la Corte che esamina le azioni dei soldati israeliani può fungere da deterrente contro le indagini in corso della CPI sui crimini di guerra.[30] Secondo il principio di “complementarità” della Corte penale internazionale, un caso è inammissibile se è attualmente oggetto di indagine da parte di uno Stato avente giurisdizione su di esso.

La legittimazione da parte della Corte Suprema delle pratiche israeliane di colonizzazione e repressione militare, unita al suo limitato potenziale di emancipazione, invitano alla cautela riguardo all’uso di mezzi legali come principale strumento di resistenza. Inoltre, impegnarsi con un sistema legale così ingiusto che rende poca o nessuna giustizia ai palestinesi può avere l’involontaria conseguenza di rafforzare la sua legittimità. In definitiva, i palestinesi continuano ad attingere dall’intero repertorio della lotta anticoloniale adottata anche da altri movimenti di liberazione di successo contro il dominio coloniale. Insieme alla resistenza legale nei tribunali nazionali e internazionali, ciò include anche varie tattiche come scioperi, manifestazioni, lotta armata e campagne globali come il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni.

Se si considera che i palestinesi del ’48 sono in gran parte assenti dalle proteste antigovernative, la storia di un autoritarismo ribelle che fa scoppiare la bolla della democrazia liberale cade rapidamente a pezzi. I palestinesi del ’48 si sono schierati in piena forza durante la rivolta popolare del 2021 nota come “Unity Intifada”, in cui tutti i gruppi palestinesi frammentati, all’interno della Palestina storica e in diaspora, hanno preso parte alla resistenza anticoloniale contro il regime israeliano. [31] Non sorprende che abbiano delle riserve sull’unirsi agli sforzi per salvare l’attuale Corte Suprema.

In particolare, non è emersa alcuna mobilitazione su larga scala da parte del blocco “pro-democrazia” per protestare contro i recenti attacchi israeliani a Gaza che hanno ucciso oltre 30 palestinesi. Nel momento in cui la violenza di Stato contro i palestinesi si intensifica, i manifestanti israeliani tornano all’ovile con lo stesso regime coloniale che fino ad ora hanno definito autoritario e inaccettabile. [32]

Per concludere, spesso si trascura il fatto che gli artefici della pulizia etnica della Palestina del 1948 volevano anche uno Stato democratico liberale. Consideravano il governo di una minoranza di coloni una forma illegittima nell’ordine internazionale dell’epoca; questo è uno dei motivi per cui ricorsero all’espulsione di massa dei palestinesi in modo da poter costruire uno Stato-nazione a maggioranza ebraica con caratteristiche liberali e democratiche. Allo Stato attuale, i manifestanti israeliani non stanno compiendo una rottura significativa con quella storia, ma stanno promuovendo un retaggio della cancellazione palestinese. Mentre l’esito di questa lotta tra i poli liberali e della destra religiosa della società dei coloni israeliani dovrà attendere almeno fino alla sessione estiva della Knesset, preservare la Corte Suprema significherebbe garantire la sua posizione nel legiferare sulla colonizzazione della Palestina.

Traduzione di Angelo Stefanini

[1] For a detailed breakdown of the Levin Plan, see Sawsan Zaher, “The Impact of Israel’s Judicial Reforms on Palestinians – A Legal Perspective”, Rosa Luxemburg Stiftung, 29 March 2023.

[2] Henriette Chacar, “Israel’s attorney general accuses Netanyahu of breaking the law”, Reuters, 24 March 2023; BBC News, “Benjamin Netanyahu asks for immunity from prosecution”, 1 January 2020.

[3] Haaretz, “Netanyahu’s Government, the Most Right-wing in Israel’s History, Takes Office”, 2022.

[4] See, for example, Omar Jabary Salamanca et al., “Past is Present: Settler Colonialism in Palestine”, Settler Colonial Studies, 2(1), 1–8, 2012; and Areej Sabbagh-Khoury, “Tracing Settler Colonialism: A Genealogy of a Paradigm in the Sociology of Knowledge Production in Israel,” Politics & Society, 50(1), 44–83, 2022.

[5] Ilan Pappé, “Fantasies of Israel”, New Left Review, 19 April 2023.

[6] Ibid.

[7] The permanence of a High Court is a legacy of the British Mandatory period (1922-1948).

[8] Jasbir Puar and Ghassan Abu-Sitta, “Israel is trying to maim Gaza Palestinians into silence”, Al Jazeera English, 31 March 2019.

[9] “Two Years On: People Injured and Traumatized During the ‘Great March of Return’ are Still Struggling”, United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (OCHA), 6 April 2020.

[10] Mazen Masri, “Love Suspended: Demography, Comparative Law and Palestinian Couples in the Israeli Supreme Court”, Social & Legal Studies, 22(3) 309–334, 2013.

[11] Ardi Imseis, “Moderate Torture on Trial: Critical Reflections on the Israeli Supreme Court Judgement concerning the Legality of General Security Service Interrogation Methods”, 19 Berkeley J. Int’l Law. 328, 2001; “UN expert alarmed at Israeli Supreme Court’s ‘license to torture’ ruling”, OCHA, 20 February 2018.

[12] Mohammed El-Kurd, “Israeli Protesters Say They’re Defending Freedom. Palestinians Know Better.”, The Nation, 30 March 2023.

[13] “Israeli High Court of Justice Upholds Israel’s Policy of Withholding the Bodies of Palestinians Killed”, Al-Haq, 9 September 2019.

[14] Noura Erakat and Rabea Eghbariah, “The Jurisprudence of Death: Palestinian Corpses & the Israeli Legal Process”, Jadaliyya, 8 February 2023.

[15] Ibid.

[16] Mazen Masri, The Dynamics of Exclusionary Constitutionalism: Israel as a Jewish and Democratic State, Bloomsbury Professional, 3, 2017.

[17] Shira Robinson, Citizen Strangers: Palestinians and the Birth of Israel’s Liberal Settler State, Stanford University Press, 2013.

[18] “Israel’s Jewish Nation-State Law”, Adalah, 20 December 2020.

[19] Lana Tatour, “The Nation-State Law: Negotiating Liberal Settler Colonialism”, Critical Times, 4 (3): 578, 2021.

[20] “Q&A: Israeli Supreme Court allows government to strip citizenship for ‘breach of loyalty’”, Adalah, 14 September 2022.

[21] When East Jerusalem was occupied and annexed in 1967, Israel granted Palestinians a unique status of permanent residency in the city but not citizenship.

[22]“Punitive Residency Revocation: the Most Recent Tool of Forcible Transfer”, Al-Haq, 7 March 2018.

[23] Chloé Benoist, “Salah Hammouri: A Case Study of the Occupation and Western Complacency”, Institute for Palestine Studies, 7 February 2023.

[24] Nimer Sultany, “The “Passive Virtues” of Israel’s “Activist” Supreme Court”, The Nakba Files, 17 November 2016.

[25] “Palestinian family in Jerusalem’s Silwan win Israeli Supreme Court battle to save home”, The New Arab, 4 April 2023.

[26] Nimer Sultany, “Activism and Legitimation in Israel’s Jurisprudence of Occupation”, Social & Legal Studies, Vol. 23(3), 325, 2014.

[27] Ibid, 333.

[28] Hassan Jabareen, “Transnational Lawyering and Legal Resistance in National Courts: Palestinian Cases before the Israeli Supreme Court,” Yale Human Rights & Development Law Journal, 13, no. 1, 240, 2010.

[29] David Kretzmer and Yaël Ronen, The Occupation of Justice: The Supreme Court of Israel and the Occupied Territories, Oxford University Press, 2, 2021.

[30] Michael Starr, “Dershowitz: High Court an ‘Iron Dome’ that protects IDF soldiers from ICC”, The Jerusalem Post, 12 January 2023.

[31] Lana Tatour, “The ‘Unity Intifada’ and ’48 Palestinians: Between the Liberal and the Decolonial”, Journal of Palestine Studies, 50:4, 84-89, 2021.

[32] “Israel kills 30 Palestinians in Gaza as violence escalates”, Al Jazeera English, 11 May 2023.

 




La mancanza di scrupoli israeliana a Gaza

Editoriale

10 maggio 2023 – Haaretz

Nel primo attacco dell’offensiva su Gaza denominata Operazione Scudo e Freccia, iniziata nella notte tra lunedì e martedì, sono state uccise 13 persone tra cui 10 civili, tre dei quali bambini. Ma senza batter ciglio è stato affermato che si trattava di un “danno collaterale” dovuto alla necessità di eliminare tre figure di spicco della Jihad islamica. In realtà, è vero il contrario. I tre comandanti dovrebbero essere visti come il “risultato collaterale” dell’uccisione mirata di civili a Gaza.

Il gran numero di civili uccisi solleva questioni spinose sugli aspetti morali e legali di tali operazioni militari, e dovrebbero essere rivolte a più persone. I primi a cui rivolgere queste domande sono i comandanti dell’esercito, che hanno deciso “giudiziosamente” (più precisamente, a sangue freddo) di effettuare un attacco in un momento in cui era molto probabile che intorno agli obiettivi ci fossero civili, compresi bambini. Il secondo è il governo, guidato dal primo ministro Benjamin Netanyahu, che ha autorizzato la missione. I decisori si sono assicurati che non ci fossero rischi per la vita dei civili o si sono affidati ai consigli dell’esercito? Hanno calcolato il prezzo omicida dell’azione – uccidere innocenti, compresi i bambini – e sono giunti alla contorta conclusione che il “prezzo” era giusto? Se la risposta è sì, allora questo non è solo un crimine morale, ma un crimine di guerra.

Il terzo è il procuratore generale Gali Baharav-Miara, che ha autorizzato l’operazione senza convocare il gabinetto di sicurezza. Ha accertato a fondo se ci fosse pericolo per la vita dei civili? E se è così, ha ritenuto opportuno approvare l’operazione nonostante il suo costo scellerato?

Ultimi a cui rivolgere le medesime domande sono i piloti che hanno effettuato la missione. Non sapevano, o valutavano, alla luce della situazione in atto e dell’esperienza passata che è molto probabile che il bombardamento di case invece che di siti militari porti all’uccisione di civili? La questione è critica poiché sono stati i membri dell’aeronautica, in particolare i riservisti, a invocare l’insubordinazione contro il golpe di regime [il tentativo di “riforma” giudiziaria del governo Netanyahu, ndt.] I piloti insubordinati vivono in pace uccidendo civili innocenti, bambini compresi? Trovano accettabile eseguire un ordine che ha una “bandiera pirata che ci sventola sopra?”

“Quando sgancio una bomba sento un leggero urto nell’ala”, disse Dan Halutz, ex comandante dell’aeronautica e poi capo di stato maggiore militare (e ora leader della protesta anti-golpe) nel 2002, dopo che 14 civili furono uccisi nel bombardamento della casa di Gaza dell’alto funzionario di Hamas Salah Shehadeh.

La sfacciata arroganza di Halutz riguardo all’omicidio all’ingrosso – per il quale è stato giustamente oggetto di feroci critiche pubbliche – è diventata routine. Non possiamo accettare che i crimini di guerra e la morte di innocenti diventino parte della routine israeliana. Una leadership con questa visione del mondo non può essere legittima in una democrazia.

L’articolo di cui sopra è l’editoriale principale di Haaretz, pubblicato sul giornale sia nell’edizione ebraico che inglese in Israele.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Rachel Corrie venne uccisa a Gaza dall’esercito israeliano. 20 anni dopo i suoi genitori stanno ancora lottando per ottenere giustizia

Andrew Buncombe

17 marzo 2023, The Independent

Esclusivo: nei due decenni trascorsi dalla morte della loro figlia attivista per la pace Cindy e Craig Corrie non sono riusciti ad assicurare i responsabili alla giustizia. Ma non hanno rinunciato alle loro speranze di pace, dichiarano ad Andrew Buncombe

Non poteva esserci un modo adatto per ricevere una simile notizia.

La madre di Rachel Corrie, Cindy, ricorda la chiamata telefonica da parte dell’altra sua altra figlia, Sarah, e del marito. Era ovvio che qualcosa non andava.

Le fu detto che c’era una “notizia molto triste” e riguardava Rachel. La giovane attivista si era recata a Gaza due mesi prima per cercare di proteggere le vite e le case dei palestinesi.

È morta? Chiese subito sua madre. Pose la domanda in modo così lapidario, racconta, nella speranza di poter escludere subito il peggio. Ma non c’era modo di sfuggire alla verità. Sì, credevano che fosse morta. L’avevano visto al telegiornale.

Cindy prese il cordless e lo portò al padre di Rachel, Craig, che stava facendo il bucato in un’altra stanza, impegnato con le faccende quotidiane.

Fecero quindi una raffica di telefonate, principalmente ad altri membri della famiglia di Rachel, volendo rivelare personalmente i dettagli prima che vedessero anche loro le notizie in TV. Parlarono anche con il Dipartimento di Stato. Craig chiamò il suo principale. “Non ho idea di cosa sia successo nella mia vita”, gli disse. “Ma è completamente cambiata.”

Sono passati quasi 20 anni da quel terribile giorno, il 16 marzo 2003, quando seppero che la loro figlia era stata uccisa nel sud di Gaza, schiacciata da un bulldozer D9 da 60 tonnellate costruito da Caterpillar Inc e utilizzato dalle forze di difesa israeliane (IDF). Rachel aveva fatto parte di un gruppo di attivisti palestinesi e internazionali che cercavano di fermare la distruzione di proprietà palestinesi. Quel giorno avevano agito come scudi umani per fermare l’abbattimento di una casa nel campo profughi di Rafah occupata dalle famiglie di due fratelli, Khaled e Samir Nasrallah.

Il fatto che nei due decenni successivi siano morte tantissime migliaia di palestinesi – la maggior parte, sostengono i palestinesi, uccisi illegalmente dalle forze israeliane – ripugna ai genitori di Rachel. Sono consapevoli delle critiche secondo cui la visibilità concessa alla morte della figlia sia stata di gran lunga maggiore rispetto al caso in cui venga ucciso un palestinese. I due fatti aiutano a motivarli a continuare il loro lavoro presso la fondazione che hanno creato a nome della figlia.

In pochi giorni si resero conto che la morte della figlia li aveva portati su una strada diversa. Non si poteva tornare indietro. Non esisteva un trucco per viaggiare nel tempo e riportare indietro la loro “meravigliosa e premurosa” figlia, che aveva sognato di diventare una poetessa o una ballerina.

Era stata uccisa, ma dovevano trovare un modo per continuare a vivere, per il bene degli altri loro figli – Rachel aveva anche un fratello, Chris – per se stessi e per la causa per la quale Rachel aveva dato la vita.

Hanno aderito ad una associazione di cui nessuno vorrebbe far parte: di genitori o parenti di una persona cara persa troppo presto, a causa della violenza della polizia, di una sparatoria a scuola o di una malattia rara di cui il mondo sa poco. Fin da allora diffidavano del discorso super abusato riguardo “l’elaborazione del lutto“. Magari, sembrava loro più appropriato l’accertamento delle responsabilità penali, ma sono ancora lontani dall’ottenerlo.

Proprio come quegli individui che cercano un significato nella campagna per una maggiore regolamentazione delle armi o per la riforma della polizia, i Corrie hanno guadagnato l’attenzione cercando di continuare il lavoro della figlia e raccontando la sua storia. In tal modo, agiscono come la figlia ha loro espressamente richiesto.

Nell’ultima e-mail ai suoi genitori, inviata quattro giorni prima della sua morte, scrisse: Ciao papà, grazie per la tua e-mail. A volte mi sembra di passare tutto il mio tempo a parlare con mamma supponendo che ti riferisca le cose, quindi vieni trascurato. Non preoccuparti troppo per me, in questo momento sono molto preoccupata della nostra scarsa efficacia. Non mi sento ancora particolarmente a rischio. Ultimamente Rafah mi è sembrata più tranquilla”.

Aggiungeva: Grazie anche per aver intensificato il tuo impegno contro la guerra. So che non è facile da sostenere, e probabilmente molto più difficile dove sei tu rispetto a qui, dove mi trovo.

Dopo la sua morte alcuni degli scritti di Corrie furono raccolti dalla famiglia e pubblicati con il titolo Let Me Stand Alone: The Journals of Rachel Corrie [Lasciatemi stare da sola: i diari di Rachel Corrie, ndt.]. (Questi scritti avrebbero anche costituito la base di un’opera teatrale, My Name is Rachel Corrie, scritta dalla giornalista del Guardian Katherine Viner e dall’attore Alan Rickman. Rickman ha diretto l’opera teatrale quando è stata rappresentata a Londra.) Un’e-mail contenuta nella raccolta custodisce una lunga lettera che aveva scritto a sua madre il 27 febbraio 2003: Voglio proprio scrivere a mia madre e dirle che sto assistendo a questo genocidio cronico e strisciante e sono davvero spaventata, e sto mettendo in discussione la mia fede di fondo sulla bontà della natura umana. Questo deve finire. Penso che sia una buona idea per tutti noi lasciare ogni cosa e dedicare le nostre vite a fermare tutto questo. Non penso più che nel fare ciò ci sia qualcosa di estremista”.

I Corrie dicono di aver incontrato molti genitori che affrontano altre tragedie, a volte simili.

“Penso che la cosa più urgente per le famiglie, per i sopravvissuti, sia non sperimentare quel dolore provato da un’altra famiglia”, dice il padre di Corrie.

Il peso della scelta è stato superato dal fatto che la loro figlia ha chiesto loro in modo così inequivocabile di dedicarsi alla sua causa, e dal fatto che essi sono finanziariamente in grado di farlo. Come strumento per questo lavoro hanno istituito la Rachel Corrie Foundation.

In tale lavoro c’è una qualche forma di salvezza”, aggiunge. Devi lavorare su qualcosa. È meglio che non avere alcun senso dopo una perdita così grande.

Rachel Corrie nacque nell’aprile del 1979 ad Olympia, la capitale dello Stato occidentale di Washington. Era la più giovane di tre figli e avrebbe goduto di quelli che i suoi genitori dicevano fossero i vantaggi di uno stile di vita della classe media.

Studiò alla scuola statale e per l’istruzione superiore frequentò l’Evergreen State College, un’istituzione progressista dove gli studenti possono progettare i propri corsi di laurea. Fu lì che divenne politicamente consapevole e si unì agli Olympians for Peace and Solidarity, un gruppo affiliato all’International Solidarity Movement (ISM), un’organizzazione guidata dai palestinesi che utilizza azioni non violente per affrontare le tattiche dell’esercito israeliano.

Nel suo ultimo anno Rachel voleva vedere Gaza in prima persona. Anche se non ricevette crediti per i suoi scritti da lì e mentre viaggiava nel tempo libero, i suoi genitori consideravano ciò un’ampliamento della sua educazione.

Prima di partire scriveva: Siamo tutti nati e un giorno moriremo tutti. Molto probabilmente in una certa misura da soli”.

Aggiungeva: E se la nostra solitudine non fosse una tragedia? E se la nostra solitudine fosse ciò che ci permette di dire la verità senza avere paura? E se la nostra solitudine fosse ciò che ci permette di avventurarci – di sperimentare il mondo come una presenza dinamica – come qualcosa di mutevole e interattivo?”

Corrie e gli altri volontari accettarono di agire come scudi umani, ponendosi sulla traiettoria dei bulldozer corazzati utilizzati dalle IDF per sgomberare i palestinesi. Ciò accadde sullo sfondo di quella che divenne nota come la Seconda Intifada, una rivolta protrattasi per diversi anni contro ciò che i palestinesi consideravano gravi abusi. Comportò attentati suicidi e attacchi con razzi da parte di palestinesi, uccisioni mirate e bombardamenti aerei da parte delle IDF. Gran parte del mondo distolse lo sguardo. Alla fine di marzo 2003, pochi giorni dopo la morte di Corrie, gli Stati Uniti e il Regno Unito invasero l’Iraq col pretesto della ricerca di armi di distruzione di massa.

Quando Corrie fu uccisa, il 16 marzo 2003, tante altre persone assistettero alla sua morte, tra cui molti altri attivisti per la pace, che in seguito avrebbero testimoniato ciò che avevano visto. Un attivista, l’americano Greg Schnabel, avrebbe detto ai media che Rachel indossava una giacca arancione fluorescente ed era “chiaramente” visibile all’autista del bulldozer e ai soldati nel carro armato.

Rachel cadde sulle sue ginocchia in seguito al movimento del terreno. Il bulldozer andò avanti. Rachel cominciò ad essere ricoperta dalla terra. Eppure [il bulldozer] non si fermò”, ha riferito.

Aggiunge che non appena il bulldozer si allontanò, lui e altri attivisti si precipitarono verso di lei nel tentativo di prestare soccorso.

Era ovviamente in condizioni terribili. Il suo labbro superiore era spaccato e sanguinava”, dice, aggiungendo che chiamarono un’ambulanza. Stava respirando ma stava perdendo conoscenza rapidamente. Entro un minuto non era più in grado di darci il suo nome o parlare. Abbiamo continuato a parlarle, incoraggiandola, respirando con lei e dicendole che l’amavamo”.

Circa venti minuti dopo Rachel Corrie era morta.

L’autopsia è stata condotta dal primario patologo Yehuda Hiss. Il referto non venne reso pubblico ma una copia passata ai genitori di Corrie concludeva che era morta a causa di “una pressione sul torace (asfissia meccanica) con fratture delle costole, delle vertebre dorsali e delle scapole e lacerazioni nel polmone destro con emorragia nelle cavità pleuriche”.

I genitori di Corrie e altri attivisti incolparono subito le IDF. Ma Israele respinse quelle accuse di colpevolezza, dicendo che quanto accaduto era stato un incidente e mettendo persino in discussione i resoconti dei testimoni.

Nell’aprile 2003 un rapporto dell’IDF affermava: Contrariamente alle accuse, la signorina Corrie non è stata investita da un bulldozer, ma ha riportato ferite causate dalla terra e dai detriti caduti su di lei durante l’operazione del bulldozer. Al momento dell’incidente la signorina Corrie si trovava dietro un cumulo di terra e quindi nascosta alla vista dell’equipaggio del bulldozer. Accusava persino Corrie e altri membri dell’International Solidarity Movement di comportamento “illegale, irresponsabile e pericoloso”.

Una parte essenziale e tenace della lotta dei Corrie è stata quella di cercare di garantire i responsabili alla giustizia. Non possono riportare indietro la loro figlia. Ma credono che qualcuno o qualcosa – forse diverse persone, Paesi o organizzazioni – dovrebbero assumersi la responsabilità della morte della figlia. Hanno intentato azioni legali per cercare di incolpare sia i produttori del bulldozer che l’esercito israeliano. Quegli sforzi sono falliti.

Nel 2005 i genitori di Corrie, insieme a quattro famiglie palestinesi i cui parenti erano rimasti uccisi o feriti, intentarono un’azione civile contro la Caterpillar Inc. con sede in Texas. I bulldozer Caterpillar erano stati pagati dai contribuenti statunitensi e forniti a Israele come parte dei 3,3 miliardi di dollari che Israele riceve ogni anno da Washington. Accusarono Caterpillar di una serie di reati, inclusi crimini di guerra e uccisioni extragiudiziali.

Sostenevano che poiché Caterpillar sapeva che l’attrezzatura sarebbe stata utilizzata illegalmente era complice dei crimini per cui era stata utilizzata. Il caso venne archiviato da una corte d’appello nel 2007 senza che se ne esaminasse il merito, poiché la corte affermò di non poterlo prendere in esame senza un’indagine sulla liceità dell’invio da parte del governo di tali apparecchiature in Israele.

“Un tribunale non può dare ragione ai querelanti senza mettere implicitamente in discussione, e persino condannare, la politica estera degli Stati Uniti nei confronti di Israele”, sostenne la corte. “A questo proposito, siamo consapevoli di quale potenziale fonte di imbarazzo internazionale potrebbe costituire un tribunale federale nel caso compromettesse le decisioni di politica estera nel delicato contesto del conflitto israelo-palestinese”.

Caterpillar non ha risposto alle domande di The Independent. Anche le IDF e il ministero degli Esteri israeliano non hanno risposto. Un portavoce dell’ambasciata israeliana a Washington DC ha detto che le domande di The Independent sarebbero state trasmesse ai funzionari in Israele.

I Corrie hanno fatto cinque viaggi a Gaza per vedere dove è stata uccisa la loro figlia e rimangono in contatto non solo con altri attivisti che conoscevano Rachel, ma anche con la famiglia la cui casa stavano cercando di salvare. Hanno visto dei veicoli Caterpillar utilizzati dalle IDF.

La madre di Corrie dice che ora si sente “un po’ risentita” ogni volta che vede macchinari Caterpillar su una strada americana, non importa quale.

“A causa dell’impiego a cui ho assistito dei veicoli di quell’azienda – pagati dal nostro governo – “, precisa. Ricordo sempre: lo strumento usato per fare questo era un veicolo Caterpillar. E… nel corso degli anni, noi e molti altri abbiamo affrontato la Caterpillar Incorporated… perché hanno continuato a effettuare quelle vendite e probabilmente lo fanno ancora”.

In Israele i genitori ebbero un po’ più di fortuna. Nel 2010 citarono in giudizio le IDF e il ministero della difesa israeliano chiedendo una sentenza e un risarcimento.

L’autista del bulldozer, che il giudice ordinò non fosse identificato pubblicamente e che testimoniò da dietro uno schermo, affermò di non essere stato in grado di vedere la figlia.

Nel 2012 il giudice Oded Gershon si pronunciò contro i genitori, assolvendo l’esercito israeliano e l’autista da qualsiasi illecito. Affermò che la responsabile fu la stessa Corrie poiché si era messa per scelta in un posto così pericoloso. “Non si è allontanata come avrebbe fatto qualsiasi persona ragionevole”, disse il giudice. “Ma ha scelto di mettersi in pericolo… e così ha trovato la sua morte.”

Tale sentenza venne successivamente confermata dalla Corte Suprema della Nazione.

“Siamo delusi e non sorpresi dal verdetto”, disse all’epoca il padre di Corrie alla CNN. In questo verdetto, come in quello dei tribunali di primo grado, è stato del tutto ignorato il diritto umanitario internazionale”.

Ripensando ora alla sentenza i Corrie affermano di non essere riusciti a trovare qualcuno che potesse essere ritenuto responsabile della morte della loro figlia, o di quella che sostengono sia la “violenta occupazione” dei palestinesi da parte di Israele. Dicono di non essere stati nemmeno in grado di influenzare la politica americana nei confronti di Israele, che, con poche eccezioni, gode del sostegno indiscusso dei massimi rappresentanti governativi di entrambe i partiti.

La gente dirà che stavamo cercando di ottenere giustizia. Non so nemmeno più cosa significhi quella parola”, dice il padre di Corrie. “Penso che dovremmo cercare in Sud Africa alcune strade attraverso cui potremmo riuscire a ottenere giustizia”.

Ma dice che avverte come l’incapacità di trovare le responsabilità abbia lasciato il segno: “Tutto questo deve essere riconosciuto, e tra tutta questa violenza ora quello a cui penso stiamo assistendo è l’uccisione della speranza, e la speranza è in assoluto la prima cosa di cui abbiamo bisogno per sopravvivere.

L’anniversario della morte di Corrie giunge mentre le relazioni tra Israele e le autorità palestinesi sono quanto mai tese.

Donald Trump ha dato la priorità al rafforzamento del potere di Israele rispetto alle richieste dei palestinesi. Questa mossa ha portato agli Accordi di Abramo, una serie di intese per normalizzare le relazioni tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Questi accordi storici sono stati ampiamente accolti. Ma i palestinesi si sentono trascurati e Mahmoud Abbas, presidente dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, è stato ampiamente messo da parte.

La violenza è continuata senza sosta ed è salita a livelli che non si vedevano da anni. L’anno scorso, mentre Israele lanciava l’operazione Breakwater, un’imponente azione repressiva, ha avuto luogo una serie di attacchi da parte dei palestinesi.

A gennaio un giorno ha visto la più letale operazione dell’esercito israeliano nella Cisgiordania occupata dal 2005. Le truppe hanno ucciso nove palestinesi, tra cui uomini armati e una donna di 61 anni, durante un raid contro dei sospettati nel campo profughi di Jenin. Altre decine di persone sono rimaste ferite.

La continua violenza ha provocato il più alto numero di vittime in Cisgiordania dal 2004. Secondo il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem l’anno scorso quasi 150 palestinesi sono stati uccisi dalle truppe israeliane. Questa cifra include la giornalista palestinese americana Shireen Abu Akleh, anche lei uccisa nel campo profughi di Jenin.

Gli osservatori affermano che la situazione è peggiorata dopo la rielezione lo scorso novembre di Benjamin Netanyahu come primo ministro israeliano a capo di un governo di coalizione di destra.

Tra i politici ora al governo che una volta erano considerati persino al di là della frangia estrema della politica israeliana c’è Itamar Ben-Gvir. Ben-Gvir ha chiesto l’espulsione dei palestinesi “sleali” nei confronti di Israele ed è un ex membro del partito fuorilegge Kach, considerato nella Nazione un’organizzazione “terrorista”. Netanyahu lo ha nominato ministro della sicurezza nazionale. La sua visita personale al sito religioso più sensibile di Gerusalemme, il complesso della moschea di Al-Aqsa, ha suscitato proteste e ha preceduto le recenti repressioni nel Paese.

***

I Corrie non hanno mai rivelato dove hanno collocato i resti della figlia. Ma c’è un suo memoriale all’interno dell’Evergreen State College, incentrato su un’opera creata da Matteson, artista internazionale e laureato all’Evergreen Ross. Si intitola Reflecting on Peace and Justice” ed è una rappresentazione in bronzo e acciaio lucido di una colomba sulla punta di una piramide.

All’inaugurazione del memoriale la madre di Corrie ha detto ai presenti che aveva rimandato il momento della visita fino al momento dell’apertura al pubblico.

Ho voluto condividere il mio primo incontro con il memoriale in questo luogo molto speciale con tutti voi, che siete venuti per inaugurare questo ricordo di Rachel e della sua dedizione al vincolo della pace con la giustizia e la compassione”, ha detto. E anche per esaltare l’appello alla consapevolezza e all’azione che il memoriale e la storia di Rachel ci inviano”.

I Corrie organizzano sempre qualche evento per celebrare l’anniversario della morte della figlia e cercano di includervi vari elementi: sia costruire una comunità che educare le persone. Sanno che il 20° anniversario sarà sentito con maggiore intensità.

Penso che per ciascuno dei membri della nostra famiglia sia diverso. Quella che facciamo è una riflessione molto personale”, dice la madre di Corrie. Gli eventi organizzati dalla fondazione forniscono un focus, aggiunge.

Il padre di Corrie dice che nel corso degli anni hanno conosciuto “purtroppo troppe famiglie” colpite dal conflitto israelo-palestinese. Hanno amici tra i palestinesi che hanno perso i propri cari e amici tra gli israeliani che hanno subito un lutto simile.

Afferma che ogni famiglia che conosce vuole impedire ulteriori morti: Ovviamente, se guardiamo all’ultimo mese, abbiamo tutti miseramente fallito in questo sforzo, è vero. Ma si deve provare. Si deve fare tutto il possibile e abbiamo sicuramente incontrato sulla nostra strada brave persone che cercano di farlo. E penso che questo sia ciò che ci unisce.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Le proteste in Israele: una rivolta per lo status quo

Ben White

13 marzo 2023 – The New Arab

Le proteste antigovernative israeliane non riguardano un cambiamento “rivoluzionario”, ma il mantenimento dello status quo, sostiene Ben White, uno status quo che include un regime di apartheid per i palestinesi.

“Dov’eri ad Hawara?” Così recita il coro rivolto di recente alla polizia israeliana dai manifestanti [israeliani, ndt] antigovernativi, in seguito all’orrendo attacco dei coloni nella città dell’area di Nablus.

Mentre per alcuni, le accuse ripetute sono da intendersi come un atto d’accusa contro l’impunità dei coloni, hanno anche un messaggio più problematico. L’implicazione è che la polizia fosse assente, un vuoto sfruttato da coloni fanatici. In realtà le forze israeliane erano presenti e hanno accompagnato e protetto i coloni.

Una domanda di gran lunga migliore di “Dov’eri ad Hawara?” sarebbe “Perché siamo ad Hawara?” Ma questo interrogativo non viene posto, figuriamoci dare una risposta. Il movimento di protesta che attanaglia Israele ha un obiettivo semplice: fermare un governo nel suo cammino. Non vuole il cambiamento, vuole che le cose rimangano le stesse.

Questa è la chiave per capire come e perché l’opposizione ai piani del governo abbia mobilitato settori della società, comprese le grandi imprese e l’hi-tech, fino ai riservisti d’élite.

La folla per le strade e le promesse di disobbedienza civile possono sembrare ad alcuni una “rivoluzione”, ma la forza trainante è un appello per la stabilità dello status quo, che include il regime di apartheid sperimentato dai palestinesi.

Legge e ordine coloniale: rendere legale l’illegale

Si è parlato molto delle voci di protesta provenienti da attuali ed ex membri dei servizi militari, di sicurezza e di intelligence israeliani. Haaretz ha recentemente pubblicato un ampio articolo in cui intervista approfonditamente un certo numero di riservisti che si stanno mobilitando contro la revisione del sistema legale, che includerà – tra le altre modifiche – il potere della Knesset di annullare le sentenze della Corte Suprema.

Alcuni sono stati invitati a riflettere sul motivo per cui questi sviluppi li hanno spinti a rifiutare il servizio diversamente da quanto successo in seguito alle esperienze nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza. Le loro risposte sono istruttive:

Sapevamo molto bene cosa stavamo facendo. Non ci siamo opposti, non ci siamo rifiutati di obbedire agli ordini, perché capivamo che questo è un Paese democratico”.

“Almeno fino ad oggi, potevi dire a te stesso che tutte quelle decisioni, anche quando erano controverse… venivano prese all’interno delle regole del gioco di un paese democratico”.

“Potevi avere dubbi sulla loro moralità, ma erano state prese nel contesto di un conflitto lungo anni tra due parti, una delle quali si comportava come una democrazia”.

Quando ti viene richiesto di compiere azioni nell’area grigia, sull’orlo del nero, specialmente rispetto agli attacchi a Gaza, lo fai come missione ordinata da un governo che agisce nel quadro di regole del gioco chiare e definite”.

L’idea che i propri ordini siano stati legalmente approvati, e la convinzione che Israele sia un “paese democratico”, sono un elemento centrale nell’autogiustificazione per compiere atti che sono, di fatto, illegali (a livello internazionale) e profondamente anti-democratici (mantenimento di un regime di apartheid nei confronti dei palestinesi).

Un’altra lettera di circa 150 riservisti dell’esercito israeliano che prestano servizio come specialisti informatici ha avvertito che se le modifiche proposte diventeranno legge, “il quadro morale e legale che ci consente di sviluppare e gestire gli strumenti sensibili che utilizziamo sarà danneggiato”.

“Ci consente” di pronunciarci in più di un senso. Il 12 febbraio, il Comitato Costituzione, Legge e Giustizia della Knesset ha ascoltato una discussione sulle “possibili conseguenze” dei nuovi cambiamenti “sui tentativi di Israele di far fronte alla campagna legale internazionale” – vale a dire gli sforzi per portare in giudizio i responsabili dei crimini di guerra commessi nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza.

Il vice procuratore generale Gilad Noam è stato chiaro: la “percezione del sistema giudiziario israeliano nell’arena internazionale come indipendente, professionale e apolitico” è stata “una barriera molto significativa all’intervento esterno”, paragonata nel suo impatto a “Iron Dome” [il sistema di difesa antimissilistico utilizzato contro i razzi provenienti dalla Striscia di Gaza, ndt].

Indipendentemente dalla realtà di un sistema caratterizzato non solo da una cultura dell’impunità ma anche da “innovazioni” giuridiche per giustificare i crimini di guerra, è la “percezione” dell’indipendenza del sistema giudiziario che conta. Ora, i funzionari israeliani – e i riservisti dell’aeronautica – sono preoccupati di poter essere soggetti ad arresti in altri paesi.

I palestinesi e le proteste: assenti e presenti

Tali discussioni, e la mobilitazione dei riservisti, sono un esempio di come i palestinesi siano sia assenti che presenti nel movimento di protesta israeliano.

Sono assenti nel senso che non c’è riconoscimento della loro realtà di espropriazione, segregazione e violenza. Le poche bandiere palestinesi apparse inizialmente hanno solo stimolato un’ondata di bandiere israeliane. Gli stessi cittadini israeliani palestinesi non si sono presentati in gran numero.

Eppure i palestinesi sono anche “presenti” in quanto fanno parte di questa storia in ogni momento – dalle ragioni della mancanza di una costituzione formale da parte di Israele negli anni successivi alla Nakba, fino alle ambizioni di Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir per l’accelerazione dell’espansione coloniale e dell’annessione.

Colpisce che il bulldozer corazzato D9 dell’esercito israeliano sia diventato una metafora popolare per indicare la riforma del sistema giudiziario dell’attuale governo tra i suoi oppositori, tra cui l’ex primo ministro Ehud Barak, l’ex ministro della difesa Moshe Ya’alon e l’ex parlamentare del Likud Limor Livnat.

L’allusione senza ironia al D9 – utilizzato per demolire migliaia di case palestinesi – illustra perfettamente i parametri di queste proteste e quale tipo di “democrazia” cercano di preservare.

Un’occupazione ordinata

Una delle ironie delle attuali divisioni politiche che attanagliano la società israeliana, e della situazione in cui si trova Netanyahu, è che la forza dell’opposizione alla legislazione pianificata è, in parte, la testimonianza di quanto successo abbia avuto il leader del Likud nella “gestione del conflitto”. ‘.

Riconfezionata sotto Naftali Bennett come “restringimento dell’occupazione”, il suo nocciolo era facilmente comprensibile: l’economia israeliana è solida, i palestinesi sono sotto controllo e, a poco a poco, la colonizzazione e l’annessione de facto possono procedere in modo incrementale: l'”occupazione invisibile”.

È una adesione a questo status quo che anima il movimento di protesta: un ambiente stabile per gli investimenti e una magistratura indipendente dalla Knesset ma per niente indipendente dalla spinta colonizzatrice in Cisgiordania o dalla discriminazione subita dai cittadini palestinesi.

La furia dei coloni ha reso Hawara una parola d’ordine tra i manifestanti israeliani per la sua caotica incompetenza e fanatismo. Ma l’esperienza di Hawara sotto il governo militare, come per centinaia di altre comunità palestinesi, non è stata di “caos” ma di ordine: un ordine coloniale.

Ben White è uno scrittore, analista e autore di quattro libri, tra cui “Cracks in the Wall: Beyond Apartheid in Palestine/Israel”.

Le opinioni espresse in questo articolo sono quelle dell’autore e non rappresentano necessariamente quelle di The New Arab, del suo comitato editoriale o della redazione.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Coloni israeliani inferociti bruciano case e auto palestinesi a Nablus

Redazione di Al Jazeera

27 febbraio 2023 – Al Jazeera

Tra crescenti tensioni decine di coloni israeliani incendiano case e auto palestinesi nella città settentrionale di Huwara

Coloni israeliani hanno dato fuoco a decine di abitazioni e automobile palestinesi a Huwara, cittadina a Nablus, nella Cisgiordania occupata, in quello che sembra essere il peggiore scoppio di violenza dei coloni da decenni.

I media palestinesi affermano che circa 30 case e auto sono state incendiate a tarda notte da parte dei coloni durante l’aggressione, avvenuta un giorno dopo che due coloni sono stati uccisi. In precedenza questo mese 11 palestinesi sono stati uccisi in un’incursione militare israeliana a Nablus.

Il ministero della Sanità palestinese ha affermato che domenica un trentasettenne è stato colpito e ucciso da fuoco israeliano. La Mezzaluna rossa palestinese ha detto che altri due sono stati feriti da colpi di arma da fuoco, mentre una terza persona è stata accoltellata e una quarta picchiata con una sbarra di ferro.

Altre 95 persone sono state curate per aver inalato gas lacrimogeni.

Ghassan Douglas, un funzionario palestinese che monitora le colonie israeliane nella regione di Nablus, stima che circa 400 coloni ebrei hanno preso parte all’aggressione, che avviene dopo che secondo il governo Giordano ha informato che l’Autorità Palestinese (PA) e politici israeliani si sono accordati su iniziative per calmare la situazione.

La tensione tra palestinesi e israeliani è aumentata in seguito all’intensificazione di incursioni letali nei territori occupati.

Il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha condannato quelle che ha definite “le azioni terroristiche condotte stanotte da coloni sotto la protezione delle forze di occupazione.”

Noi consideriamo che il governo israeliano ne è totalmente responsabile,” ha aggiunto.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha invitato alla calma e ha esortato contro la violenza dei giustizieri.

In una dichiarazione video Netanyahu ha affermato: “Chiedo che quando ribolle il sangue e gli spiriti sono infiammati non vi facciate giustizia da soli.”

L’Unione Europea ha affermato di essere “allarmata” dalla violenza a Huwara e che “le autorità di entrambe le parti devono intervenire subito per porre fine a questo infinito ciclo di violenze.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

L’ incendio di una casa attaccata dai coloni Foto:[Hisham K. K. Abu Shaqra/Anadolu]

Un’altra casa in fiamme Foto:Hisham K. K. Abu Shaqra/Anadolu

Il mobilio di una casa attaccata con il fuoco Foto:[Ronaldo Schemidt/AFP

L’interno di una casa bruciata dai coloni protetti dall’esercito israeliano. Foto:[Ronaldo Schemidt/AFP]




Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite esprime “sconcerto” per le colonie israeliane

Redazione Al Jazeera

20 febbraio 2023-Al Jazeera

La dichiarazione annacquata sostituisce la bozza di risoluzione che avrebbe condannato esplicitamente l’insediamento di colonie di Israele.

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (UNSC) ha espresso “profonda preoccupazione e sconcerto” per l’insediamento di colonie di Israele in una dichiarazione annacquata che sostituisce una bozza di risoluzione che avrebbe condannato esplicitamente le politiche israeliane.

La dichiarazione presidenziale del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite – approvata lunedì da tutti i 15 membri del consiglio, compresi gli Stati Uniti – ha anche sottolineato quello che ha definito “l’obbligo dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) di rinunciare al terrorismo e combatterlo”.

“Il Consiglio di sicurezza ribadisce che le continue attività di insediamento israeliano stanno pericolosamente mettendo a rischio la fattibilità della soluzione dei due stati basata sui confini del 1967”, ha affermato il consiglio.

Il provvedimento simbolico è arrivato in risposta a una decisione del governo israeliano all’inizio di questo mese di autorizzare migliaia di unità abitative nella Cisgiordania occupata e di legalizzare retroattivamente gli avamposti delle colonie costruiti illegalmente [anche secondo la legge israeliana, ndt.].

L’inviato palestinese alle Nazioni Unite, Riyad Mansour, ha dichiarato lunedì ai giornalisti: “Siamo molto felici che ci sia stato un messaggio unitario molto forte da parte del Consiglio di sicurezza contro la decisione [di Israele] illegale e unilaterale”.

Ma secondo diversi organi di stampa statunitensi e israeliani, che citano fonti diplomatiche, l’ANP avrebbe accettato di abbandonare la sua ricerca del voto [su una vera e propria risoluzione dell’UNSC] per le pressioni del governo degli Stati Uniti, compresa la promessa di un pacchetto di aiuti finanziari.

Come parte dell’accordo le fonti hanno affermato che Israele sospenderà temporaneamente gli annunci di nuove unità di colonie e demolizioni di case palestinesi.

L’agenzia di stampa Reuters ha dichiarato lunedì che gli Emirati Arabi Uniti (EAU), che avevano redatto la risoluzione insieme ai funzionari dell’ANP, avrebbero informato il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che la risoluzione e il voto sarebbero stati ritirati.

La risoluzione avrebbe chiesto a Israele di “cessare immediatamente e completamente tutte le attività di insediamento nei territori palestinesi occupati”.

Israele ha conquistato la Cisgiordania, comprese Gerusalemme Est e Gaza, nel 1967. Da allora ha costruito insediamenti che ospitano centinaia di migliaia di israeliani nelle terre occupate che i palestinesi rivendicano come parte del loro futuro stato.

Il diritto internazionale vieta esplicitamente alle potenze occupanti di trasferire la loro popolazione civile nei territori occupati. Un esperto delle Nazioni Unite ha in passato definito le colonie israeliane un “crimine di guerra”.

La dichiarazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di lunedì ha invitato tutte le parti a “osservare la calma e la moderazione e ad astenersi da azioni provocatorie, incitamento e retorica incendiari”.

Ha inoltre sollecitato “il pieno rispetto del diritto umanitario internazionale, compresa la protezione della popolazione civile”.

“Il Consiglio di sicurezza riafferma il diritto di tutti gli Stati a vivere in pace all’interno di confini sicuri e riconosciuti a livello internazionale e sottolinea che sia il popolo israeliano che quello palestinese hanno diritto in egual misura a libertà, sicurezza, prosperità, giustizia e dignità”, continua la dicharazione, facendo eco al linguaggio che il presidente degli Stati Uniti Joe Biden e i suoi principali collaboratori utilizzano regolarmente.

Israele ha respinto la dichiarazione come “unilaterale”, criticando specificamente Washington per averla appoggiata.

L’ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu ha affermato: “La dichiarazione non avrebbe mai dovuto essere fatta e gli Stati Uniti non avrebbero mai dovuto aderirvi”.

Louis Charbonneau, direttore della delegazione presso le Nazioni Unite di Human Rights Watch, ha affermato che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite dovrebbe condannare chiaramente le colonie.

Ha scritto Charbonneau in un tweet: “Sebbene sia utile che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite critichi le violazioni dei diritti umani di Israele contro i palestinesi, la dichiarazione di oggi, attenuata sotto pressione degli Stati Uniti e di Israele, è ben lontana dalla condanna a tutto campo che la grave situazione merita”.

Lunedì, al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, l’inviata statunitense Linda Thomas-Greenfield ha espresso senza ambiguità l’opposizione degli Stati Uniti all’attività di colonie di Israele, ma non ha condannato la politica israeliana.

Rispetto all’annuncio di Israele sulle colonie ha affermato: “Queste misure unilaterali esasperano le tensioni e danneggiano la fiducia tra le parti”. “Essi minano le prospettive di una soluzione negoziata a due Stati. Gli Stati Uniti non sostengono queste azioni, punto e basta”.

Nella sua dichiarazione al Consiglio lunedì, Mansour, l’inviato palestinese, ha avvertito che la situazione potrebbe presto “raggiungere un punto di non ritorno”.

Ha affermato “Ogni azione che intraprendiamo ora conta. Ogni parola che pronunciamo conta. Ogni decisione che rimandiamo conta”.

Israele, accusato di imporre un sistema di apartheid dalle principali organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International, riceve annualmente almeno 3,8 miliardi di dollari di aiuti statunitensi.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




A Gerusalemme non c’è nessuna spirale di violenza, solo un’oppressione mortale del mio popolo da parte di Israele

Jalal Abukhater

martedì 7 febbraio 2023 – The Guardian

Dalle demolizioni di case alla detenzione militare, la violenza che noi palestinesi affrontiamo quotidianamente riflette lo squilibrio di potere tra occupante e occupato

I bulldozer sono quasi quotidianamente in azione. Nei quartieri palestinesi di Gerusalemme, la mia città, le forze israeliane demoliscono case quasi ogni giorno. L’espropriazione e la discriminazione sono una realtà di lunga data qui nella parte orientale della città, da 56 anni sotto l’occupazione militare israeliana, ma con il nuovo governo israeliano di estrema destra Gerusalemme ha visto un picco di demolizioni: nel solo mese di gennaio sono stati distrutti più di 30 edifici.

Le notizie che giungono dalla nostra regione nelle capitali occidentali e nei media tendono a parlare prevalentemente di spargimenti di sangue e il popolo palestinese sta attraversando alcuni dei giorni più violenti, distruttivi e letali degli ultimi tempi. Nella Cisgiordania occupata il 2022 è stato l’anno più letale in quasi due decenni. A gennaio altri 31 palestinesi sono stati uccisi dal fuoco israeliano. Disperazione, frustrazione e angoscia aleggiano su tutti noi come una nuvola scura. Ma i numeri da soli non esprimono la portata di questa crudeltà.

I numeri delle vittime e i luoghi comuni su spirali di violenza riportati da media male informati, prevenuti o servili non sono corretti o sufficienti per trasmettere lo squilibrio di potere tra un occupante e un occupato. La violenza a cui noi palestinesi siamo esposti quotidianamente non proviene solo dalle armi dell’esercito israeliano, ma è insieme profonda e strutturale.

Non ci sono cicli di demolizioni di case” o espulsioni per ritorsione” – i palestinesi non confiscano proprietà israeliane né imprigionano migliaia di israeliani con l’impiego di tribunali militari. Qualsiasi approccio che suggerisca una simmetria di potere o di responsabilità – è concettualmente e moralmente sbagliato.

Un microcosmo di questa violenza strutturale si trova proprio qui, nella mia città natale, Gerusalemme. Il mese scorso un palestinese armato ha ucciso sette israeliani nell’insediamento coloniale di Neve Yaakov nella Gerusalemme est occupata. Il ministro della sicurezza nazionale israeliano, Itamar Ben-Gvir, si è successivamente impegnato a intensificare le demolizioni delle case palestinesi costruite senza permessi, formulando tale mossa come una risposta all’attacco.

La maggior parte delle case palestinesi sono prese di mira per assenza di autorizzazione; infatti, nella mia città, almeno un terzo delle abitazioni palestinesi non dispone del rilascio di un’autorizzazione da parte di Israele, il che in qualsiasi momento pone a rischio di sfollamento forzato 100.000 residenti di Gerusalemme est occupata.

Infatti, dall’inizio dell’occupazione israeliana di Gerusalemme est nel 1967, praticamente non è stata condotta alcuna pianificazione pubblica riguardante i quartieri palestinesi. Nella parte orientale della città sono state costruite con ogni tipo di sostegno governativo cinquantacinquemila case per gli ebrei israeliani mentre per i palestinesi ne sono state costruite meno di 600. Questa politica ha assicurato non solo che i palestinesi avessero alloggi inadeguati, ma anche che nella città rappresentassero una minoranza.

Nonostante i palestinesi costituiscano oltre il 37% dei residenti di Gerusalemme, solo l’8,5% del terreno della città è destinato ai loro bisogni residenziali (e anche lì il potenziale edificabile è limitato). Tra il 1991 e il 2018, solo il 16,5% di tutti i permessi di costruzione di alloggi rilasciati dal comune di Gerusalemme hanno riguardato quartieri palestinesi nella zona est occupata e annessa illegalmente. La cosiddetta costruzione illegale o non autorizzata da parte dei palestinesi è una risposta alla cronica carenza di alloggi basata sulla discriminazione.

Più di recente, Ben-Gvir e il vicesindaco di Gerusalemme, Aryeh King, hanno annunciato l’imminente demolizione di un edificio abitativo a Wadi Qaddum, Silwan [quartiere di Gerusalemme est, ndt.], sulla base del fatto che è stato costruito su un terreno destinato a “sport e tempo libero”, e non ad uso residenziale. Una volta iniziata, sauna demolizione di grandi dimensioni, con lo sfollamento di circa 100 residenti. Solo negli ultimi 10 anni a Gerusalemme Est sono stati demoliti 1.508 edifici palestinesi, facendo sì che 2.893 persone, metà delle quali minorenni, restassero senza casa.

Anche la Cisgiordania occupata è segnata da una realtà brutale.

Nella cosiddetta Area C (60% della Cisgiordania) [sotto il temporaneo completo controllo israeliano secondo gli accordi di Oslo del 1993, ndt.] non è consentita quasi alcuna costruzione palestinese. Le autorità israeliane demoliscono costantemente case, strade, cisterne, pannelli solari e altro ancora di proprietà palestinese. Gli insediamenti coloniali, considerati illegali dal diritto internazionale, sono in espansione, mentre i palestinesi sono confinati in enclavi frammentate.

Con l’aumento del numero di demolizioni ed espulsioni a Gerusalemme e in Cisgiordania sono minacciate intere comunità. Ma dovremmo ricordare che il costo più evidente è a livello individuale: il singolo nucleo famigliare che perde tutto ciò che ha al mondo. I muri crollano, i bambini piangono e i genitori si affrettano a capire cosa fare o dove andare dopo. È una catastrofe ed è continua.

La mancanza di un’autorizzazione impossibile da ottenere non è l’unico pretesto per demolire proprietà palestinesi; le autorità di occupazione israeliane stanno anche distruggendo o sigillando le case come forma di punizione collettiva, severamente vietata dal diritto internazionale. Gli atti di espulsione forzata di una popolazione occupata costituiscono un crimine di guerra. E’ una crudeltà incredibile.

Queste demolizioni ed evacuazioni sono una parte della violenza strutturale che noi palestinesi affrontiamo ogni giorno. Questo governo israeliano può mettere in atto nuove crudeli manifestazioni dell’occupazione, ma le basi sono state gettate dalle coalizioni che si sono succedute al governo dal 1967, dai laburisti al Likud.

Ecco perché noi palestinesi non ci sentiamo sollevati per la folla di israeliani che protestano contro le riforme giudiziarie proposte. Per decenni le nostre terre sono state confiscate e le persone sfollate da politici israeliani eletti di vari partiti, con approvazione da parte di ogni livello del sistema giudiziario. Occupazione e politiche razziste ci sono state imposte da chi si trova all’interno dell’attuale coalizione di governo e da molti che attualmente ne stanno fuori.

Questa violenza è la nostra realtà e affrontare una tale realtà è un primo passo necessario nella nostra lotta per la dignità e la giustizia. Incolpare le vittime o chiudere il dialogo [con loro] non farà che prolungare la nostra sofferenza. Non è una spirale di violenza, è un sistema di apartheid e deve essere trattato come tale dal mondo esterno.

Jalal Abukhater è un giornalista di Gerusalemme

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Premere il grilletto è la prima opzione: un nuovo rapporto rivela un’impennata della violenza israeliana contro i palestinesi

Comunicato stampa

30 gennaio 2023 – Euro-Med Monitor

Territori palestinesi – L’allarmante impennata delle uccisioni perpetrate nel 2022 dall’esercito israeliano contro palestinesi nei Territori Palestinesi Occupati è estremamente preoccupante, ha avvertito in una dichiarazione Euro-Med Human Rights Monitor, sottolineando la necessità di accertare le responsabilità e porre fine allo stato di impunità di cui Israele gode da decenni.

In un rapporto diffuso oggi intitolato “Premere il grilletto è la prima opzione”, Euro-Med Monitor ha affermato che il numero accertato di morti palestinesi in Cisgiordania è aumentato dell’82% nel 2022 rispetto al 2021 ed è quasi quintuplicato (491%) rispetto al 2020. L’analisi dei dati sul campo rivela che la maggioranza delle vittime palestinesi erano civili uccisi dall’esercito israeliano in operazioni ingiustificate e in contesti in cui non erano presenti minacce o pericoli imminenti per la vita di soldati o coloni israeliani.

Il nuovo rapporto si basa su un esame esaustivo dei casi di uccisioni nel 2022, sulla documentazione di eventi sul campo e su interviste condotte da Euro-Med Monitor con testimoni oculari e amici e familiari delle vittime.

Le uccisioni e le esecuzioni sommarie da parte dell’esercito israeliano di civili palestinesi, come si evince dalle sue indulgenti regole di ingaggio e dal sistema ufficiale di protezione per gli autori di terribili violazioni, dimostrano che si tratta di azioni autorizzate dallo Stato, piuttosto che individuali”, dice Ramy Abdu, direttore di Euro-Med Monitor.

A prescindere dal fatto che il governo di Israele sia politicamente di sinistra, di centro o di destra, l’uso della forza letale contro i palestinesi resta un elemento chiave della sua politica”, aggiunge Abdu. “Temiamo che quest’anno vedrà un incremento della violenza israeliana, con i decisori al potere che sostengono l’uccisione dei palestinesi e l’espulsione dalle loro terre.”

Il report contiene statistiche dettagliate di palestinesi uccisi dalle forze dell’esercito israeliano e da coloni nel 2022, documentando l’uccisione di 204 palestinesi da parte dell’esercito nel 2022, di cui 142 avvenute in Cisgiordania (69,6%), 37 nella Striscia di Gaza (18,1%), 20 a Gerusalemme (9,8%) e cinque nelle località arabe all’interno di Israele (2,4%).

I dati presentati dal rapporto mostrano che le forze israeliane hanno compiuto 32 esecuzioni sommarie, 18 delle quali accompagnate da accuse secondo cui le vittime avevano compiuto o stavano per compiere un attacco col coltello o con l’auto contro israeliani vicino a posti di blocco o aree sensibili israeliane; le altre esecuzioni in generale erano prive di qualsiasi motivazione o sono state effettuate sulla sola base di sospetti.

Con 55 palestinesi uccisi, il Governatorato di Jenin ha avuto il numero più alto di morti palestinesi nel 2022 rispetto ad altre città e governatorati, toccando una percentuale del 26,9% di tutti i decessi. Il Governatorato di Nablus segue con 35 morti, il 17,1% del totale; ciò è dovuto alla maggior frequenza delle incursioni e all’effettuazione di altre operazioni speciali nei due Governatorati.

Il mese di agosto 2022 ha registrato il maggior numero di palestinesi uccisi in un mese, con 42 morti, pari al 20,5% del numero totale, senza contare 16 altri uccisi nello stesso mese in seguito a razzi locali caduti nella Striscia di Gaza. Il tributo di morti in agosto è stato elevato a causa dell’operazione dell’esercito israeliano denominata “Breaking Dawn”, durata tre giorni, che ha preso di mira attivisti e postazioni legate al movimento della Jihad Islamica nella Striscia di Gaza. Ottobre ha visto il secondo più alto numero di palestinesi uccisi (28), seguito da 23 in aprile, 20 in novembre, 18 in settembre e 17 in marzo, tutti in Cisgiordania e Gerusalemme est.

Un’analisi sulla tipologia delle vittime e il contesto delle uccisioni ha rivelato che 125 degli uccisi erano civili non coinvolti in disordini, il 61,2% della cifra totale delle vittime. Altre 17 persone sono state uccise mentre cercavano di condurre attacchi individuali (come accoltellamenti o assalti con auto), mentre 62 militanti palestinesi – che agivano per conto proprio o in gruppi – sono stati uccisi in scontri o mentre cercavano di portare attacchi contro obbiettivi israeliani.

In base alle cifre del rapporto, i minori costituiscono circa il 20% delle vittime delle uccisioni israeliane nel 2022, con 48 minori uccisi in attacchi e aggressioni israeliane, oltre a 8 donne uccise nello stesso anno, tre delle quali in esecuzioni sul campo in Cisgiordania. L’autorizzazione concessa dai vertici politici israeliani all’esercito e alle forze di sicurezza di agire “in assoluta libertà” col pretesto di “combattere il terrorismo” sembra aver spianato la strada all’uccisione e alla violenza ingiustificate contro civili palestinesi ai posti di blocco militari e in città, villaggi e paesi in tutta la Cisgiordania e a Gerusalemme est.

Il comportamento delle forze israeliane verso civili palestinesi rivela l’esplicito disinteresse dello Stato per i propri obblighi internazionali in base alle Convenzioni di Ginevra, in particolare alla Quarta Convenzione, che impone alle parti in conflitto di proteggere e non danneggiare i civili, e anche allo Statuto di Roma che ha dato vita alla Corte Penale Internazionale, ai sensi del quale le prassi israeliane configurano crimini di guerra.

Euro-Med Human Rights Monitor chiede all’Unione Europea di riconsiderare l’applicazione del suo accordo di partnership con il governo israeliano alla luce delle violazioni israeliane delle prescrizioni relative al rispetto dei diritti umani e dei principi di democrazia, e anche di interrompere i programmi di cooperazione fino a quando il governo di Israele non rispetti i propri obblighi e ponga fine alle sue gravi violazioni dei diritti umani nei territori palestinesi.

Le principali strutture e agenzie dell’ONU devono intraprendere azioni urgenti per proteggere i civili nei Territori Palestinesi Occupati e garantire indagini e attribuzioni di responsabilità per le gravi violazioni e per qualunque violazione che potrebbe configurare un crimine di guerra. La Corte Penale Internazionale deve avviare le proprie inchieste senza ritardo e trattare la situazione nei territori palestinesi nello stesso modo in cui tratta casi simili in altre regioni del mondo.

Euro-Med Human Rights Monitor è un’organizzazione indipendente con sede a Ginevra e uffici regionali in tutta la regione del Medioriente e Nordafrica e in Europa.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)