I palestinesi di fronte a due nemici: l’occupazione e la pandemia

Tamara Nassar

26 marzo 2020 – Electronic Intifada

Nonostante la pandemia globale, nulla è cambiato riguardo all’occupazione militare israeliana in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Il numero di casi confermati di COVID-19, la malattia respiratoria causata dal nuovo coronavirus, è salito a quasi 2.700 in Israele, a circa 80 nella Cisgiordania occupata e a nove nella Striscia di Gaza assediata.

Finora la malattia ha causato la morte di otto israeliani e di una donna palestinese nella Cisgiordania occupata.

Mentre il coronavirus infetta sempre più persone, i palestinesi affrontano contemporaneamente un nemico più vecchio: l’occupazione militare israeliana.

Gaza, sotto assedio e con un’alta densità di popolazione, è particolarmente esposta al rischio di una diffusa epidemia.

“Israele non potrà scaricare su qualcun altro le sue colpe se questo scenario da incubo dovesse divenire una situazione che ha determinato senza fare alcuno sforzo per evitarla”, ha ammonito questa settimana l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem .

Distanziamento fisico, permanenza a casa e cura dell’igiene sono precauzioni che i palestinesi si sforzano di adottare mentre Israele continua a demolire strutture, a condurre raid notturni, ad arrestare arbitrariamente bambini e ad angariare regolarmente i civili.

Confiscate le strutture per un ospedale da campo

Giovedì mattina le forze israeliane hanno demolito e confiscato strutture destinate a un ospedale da campo e ad alloggi di emergenza a Ibziq, un villaggio nella valle del Giordano settentrionale nella Cisgiordania occupata.

Ciò è stato fatto con la supervisione dell’Amministrazione Civile, il braccio burocratico dell’occupazione militare israeliana.

Le forze israeliane hanno confiscato tende, un generatore e materiali da costruzione.

“Chiudere un’attività di primo soccorso per la comunità durante una crisi sanitaria è un esempio particolarmente crudele dei regolari abusi inflitti a queste comunità”, ha affermato questa settimana l’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem.

Secondo il capo del consiglio del villaggio Abdul Majid Khdeirat, ciò è stato fatto con il pretesto che la costruzione si trovava in una zona militare interdetta.

Israele dichiara abitualmente le terre della Cisgiordania aree di tiro o zone militari e successivamente confisca il territorio a favore delle colonie israeliane illegali.

Le forze israeliane hanno anche demolito le case di tre famiglie palestinesi nel villaggio di al-Duyuk, vicino a Gerico.

Un bulldozer militare israeliano ha distrutto le case di Muayad Abu Obaida, Thaer al-Sharif e Yasir Alayan, perché sarebbero state costruite senza [quei] permessi che Israele non concede quasi mai ai palestinesi. Ciò non lascia loro altra scelta che costruire le case senza il permesso dell’occupante.

Tutti e tre gli agricoltori risiedono a Gerusalemme.

Decine di migliaia in condizioni di isolamento

Nel frattempo Israele sta valutando di isolare diversi quartieri della Gerusalemme est occupata, tagliando fuori decine di migliaia di palestinesi dal resto della città.

Quasi il 70% delle 100.000 persone del campo profughi di Shuafat ha un documento di residenza israeliano che consente loro di entrare a Gerusalemme.

“In caso di blocco questi abitanti saranno completamente isolati rispetto alla loro città, a cui si rivolgono per tutti i servizi di base, e ciò probabilmente porterà panico e disordini diffusi”, avverte Ir Amim, un’organizzazione israeliana impegnata per l’uguaglianza a Gerusalemme.

“Tale misura sarebbe un ulteriore passo avanti nella realizzazione dei piani israeliani di lunga data volti a ridisegnare i confini municipali di Gerusalemme, per separare formalmente quei quartieri da Gerusalemme”.

Israele userebbe il coronavirus come pretesto per tagliar fuori quei quartieri dal resto di Gerusalemme, nonostante in quei quartieri il numero di casi confermati sia considerevolmente più basso rispetto a Israele.

La popolazione più vulnerabile al mondo”

Le organizzazioni per i diritti umani mettono in guardia a proposito di un incombente disastro nel caso di una diffusa epidemia di COVID-19 a Gaza. Spesso definita la più grande prigione a cielo aperto del mondo, l’enclave costiera è sotto assedio israeliano dal 2007. Israele controlla lo spazio aereo e marittimo di Gaza e, insieme all’Egitto, i suoi confini terrestri.

Gaza è ancora sconvolta per le tre pesanti offensive militari israeliane [a partire] dal 2008.

Gli abitanti di Gaza [sono] tra le persone più vulnerabili del mondo alla pandemia globale di COVID-19”, ha dichiarato il gruppo palestinese per i diritti umani Al-Haq.

La crisi idrica e sanitaria causata dal prolungato blocco israeliano di Gaza mina “la capacità dei palestinesi di prevenire e mitigare adeguatamente gli effetti dell’epidemia di COVID-19”, ha aggiunto al-Haq.

Meno del 4% dell’acqua del territorio è adatto al consumo umano.

I moderni sistemi sanitari in Paesi come l’Italia e la Spagna stanno collassando sotto la pressione della pandemia.

Un’epidemia del nuovo coronavirus a Gaza, dove le infrastrutture sanitarie sono già sull’orlo del collasso, condurrebbe a “un disastro umanitario, interamente costruito da Israele”, ha affermato B’Tselem.

Israele abitualmente ritarda o nega a molti palestinesi i permessi per ricevere trattamenti sanitari fuori Gaza, concedendoli solo a una piccola parte delle persone che necessitano di cure mediche.”

“Ora non ci sarà più neanche questa minima possibilità”, ha detto B’Tselem.

La dott.ssa Mona El-Farra, responsabile sanitaria della Mezzaluna Rossa palestinese a Gaza, ha dichiarato a The Electronic Intifada che mancano letti, equipaggiamento protettivo e kit per i test.

“Non abbiamo abbastanza kit, finora abbiamo solo circa 200 kit per la diagnosi. Al momento abbiamo 2.500 persone in quarantena. Tutti hanno bisogno di essere testati.”

Il Qatar ha promesso 150 milioni di dollari [136 milioni di euro, ndtr.] nei prossimi sei mesi per aiutare gli sforzi delle Nazioni Unite contro il coronavirus a Gaza.

Sebbene questo possa aiutare a breve termine, solleva anche Israele dalle sue responsabilità di potenza occupante.

Nessun accesso ai servizi di emergenza

Adalah, un’organizzazione che sostiene i diritti dei palestinesi in Israele, afferma che i beduini palestinesi della regione meridionale del Naqab non hanno accesso ai servizi medici di emergenza.

Il Ministero della Salute israeliano impedisce a coloro che soffrono di febbre e sintomi respiratori di lasciare la propria casa. Se la loro salute peggiora, l’MDA, il servizio di ambulanza [corrispettivo israeliano della Croce Rossa, ndtr.], può prescrivere una visita domiciliare o l’invio in ospedale.

Tuttavia quei villaggi non hanno accesso alla MDA.

Domenica l’associazione ha inviato una lettera alle autorità israeliane chiedendo di fornire quei servizi ai 70.000 cittadini palestinesi di Israele che vivono in villaggi non riconosciuti.

“Per anni Israele ha mantenuto una politica di abbandono e discriminazione quando si trattava di fornire i normali servizi sanitari, così come servizi medici di emergenza, ai beduini con cittadinanza israeliana,” ha detto Adalah.

“In presenza della crisi coronavirus questa politica statale comporta ora un pericolo immediato per gli abitanti del posto e per il pubblico in generale.”

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Rapporto OCHA del periodo 3- 16 marzo 2020

Ultime notizie su COVID-19 nei Territori Palestinesi occupati

Il 5 marzo, per contenere la diffusione di COVID-19, il Primo Ministro palestinese ha dichiarato lo stato di emergenza in tutti i Territori occupati. Ad oggi, 19 marzo, in Cisgiordania sono confermati 47 casi: tutti, tranne sei, registrati nella città di Betlemme e in due cittadine vicine; nessuno nella Striscia di Gaza. Circa 6.900 persone sono in quarantena domiciliare.

Le Autorità palestinesi hanno dichiarato il coprifuoco nelle tre località dell’area di Betlemme colpite dal virus, ed hanno vietato tutti i viaggi non essenziali tra le città della Cisgiordania; per garantirne l’applicazione sono stati istituiti diversi posti di blocco. Nei Territori occupati tutte le scuole sono state chiuse. Non sono consentite riunioni pubbliche, comprese quelle di preghiera. Le persone che, dall’Egitto o dalla Giordania, entrano nei Territori, così come quelle che sono state in contatto con persone che hanno contratto il virus, devono mettersi in quarantena per 14 giorni.

Le autorità israeliane hanno vietato l’ingresso in Israele ai lavoratori palestinesi di età pari o superiore a 50 anni; parimenti hanno vietato l’ingresso nelle Aree A e B della Cisgiordania ai palestinesi di Gerusalemme Est e a tutti i residenti in Israele. A Gaza, il valico di Erez con Israele è chiuso, ad eccezione dei casi umanitari urgenti, principalmente i titolari di permesso per cure mediche negli ospedali di Gerusalemme Est ed Israele. Verso questi ospedali è continuato anche l’afflusso di pazienti provenienti dalla Cisgiordania.

Il Coordinatore Umanitario Residente delle Nazioni Unite, supportato dalla Equipe Sanitaria, ha sviluppato un piano di risposta inter-agenzie di 90 giorni, volto a sostenere le Autorità palestinesi nella prevenzione della diffusione dell’epidemia; inoltre, per l’attuazione del piano, ha chiesto alla Comunità internazionale 6,3 milioni di dollari USA.

Rapporto degli eventi nei Territori Palestinesi occupati

L’11 marzo, a sud di Nablus, durante scontri, le forze israeliane hanno sparato e ucciso un 16enne palestinese e ferito altri 132 palestinesi, tra cui 17 minori. Gli scontri sono scoppiati nel villaggio di Beita, durante una protesta contro i tentativi in corso, da parte di coloni israeliani, di impossessarsi di una collina vicina al villaggio (situato in Area B). Il ragazzo ucciso è stato colpito alla testa con armi da fuoco. Le autorità israeliane hanno annunciato l’apertura di un’inchiesta. Le proteste sono in corso dal 28 febbraio e, ad oggi, hanno provocato un morto e 386 feriti, di cui 183 colpiti con proiettili di gomma, sette con armi da fuoco e i rimanenti per inalazione di gas lacrimogeni o per aggressione fisica. In tutte le proteste si sono verificati lanci di pietre contro le forze israeliane, tuttavia non sono stati riportati ferimenti di israeliani. Il 15 gennaio 2019, a seguito di una sentenza della Corte Suprema israeliana, le autorità israeliane hanno demolito un avamposto colonico a sud della città di Nablus, in Area B.

In Cisgiordania, in numerosi scontri, sono stati feriti dalle forze israeliane altri 67 palestinesi, tra cui 20 minori [segue dettaglio]. Circa la metà di questi ferimenti (33) è stata registrata vicino al villaggio di ‘Araqa (Jenin) durante tentativi, attuati da palestinesi, di tagliare parti della recinzione ed entrare nell’area chiusa retrostante la Barriera [porzione di territorio Cisgiordano che Israele si è annesso deviando il percorso della Barriera dalla “Linea Verde”]. Ventidue palestinesi sono rimasti feriti a Kafr Qaddum (Qalqiliya), nel corso delle manifestazioni settimanali contro l’espansione degli insediamenti e le restrizioni di accesso. Due minori, di 9 e 14 anni, sono stati feriti da proiettili di gomma durante scontri nel quartiere di Al ‘Isawiya a Gerusalemme Est, dove, da metà 2019, si registrano tensioni per le periodiche operazioni di polizia. Qui, lo scorso 15 febbraio, un bambino di 9 anni, mentre tornava a casa da scuola, era stato colpito da un proiettile di gomma ed aveva perso un occhio [vedi il Rapporto del periodo 4-17 febbraio]. Altri due ragazzi (16 e 17 anni) sono rimasti feriti vicino alla città di Qalqiliya, in una protesta contro il piano americano per il Medio Oriente.

Nel complesso, in Cisgiordania, nelle due settimane considerate dal Rapporto, le forze israeliane hanno effettuato 78 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 110 palestinesi, tra cui 16 minori. Si tratta di un calo rispetto al numero medio di operazioni (oltre 100) condotte in equivalenti periodi dall’inizio dell’anno. La maggior parte delle [78] operazioni sono state svolte a Gerusalemme Est (22) e nei villaggi di Ramallah (20).

Nella Striscia di Gaza, nelle aree prossime alla recinzione perimetrale israeliana ed al largo della costa di Gaza, in almeno 28 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento per imporre [ai palestinesi] le restrizioni di accesso alle aree medesime [cioé, le cosiddette “Aree ad Accesso Riservato”]; non sono stati registrati ferimenti o danni. In tre occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia ad est della città di Gaza ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale. Inoltre, le forze israeliane hanno arrestato due palestinesi, incluso un minore, che, a quanto riferito, stavano tentando di infiltrarsi in Israele attraverso la recinzione perimetrale; altri due sono stati arrestati mentre uscivano da Gaza attraverso il valico di Erez.

Il 5 marzo, le forze israeliane hanno demolito per ragioni “punitive” due case, sfollando sei palestinesi, incluso un minore. Le case demolite erano situate nelle città di At Tira e Birzeit (Ramallah), in area A e B; appartenevano alle famiglie di due palestinesi accusati di aver ucciso, nell’agosto 2019, una giovane colona israeliana e di averne ferito il fratello e il padre. Uno degli episodi di demolizione ha innescato scontri con le forze israeliane, durante i quali un palestinese è rimasto ferito.

Per mancanza di permessi di costruzione, sono state demolite o sequestrate altre 14 strutture di proprietà palestinese, sfollando 29 persone e causando ripercussioni su altre 60 circa. Dieci di queste strutture erano situate in Area C e cinque di esse erano state fornite a titolo di aiuto umanitario. Queste ultime comprendevano due tende residenziali nella Comunità di pastori di Ein ar Rashash (Ramallah) e una tenda residenziale, una latrina mobile e un sistema di pannelli solari nei pressi di Beit Jala (Betlemme). Le altre quattro strutture, di cui due demolite dai proprietari, erano a Gerusalemme Est. Dall’inizio dell’anno, a seguito di ordinanze delle autorità israeliane, a Gerusalemme Est sono state demolite 47 strutture, il 60% circa delle quali dai proprietari.

Nel sud di Hebron, le forze israeliane hanno demolito una sezione di una strada sterrata che collega cinque Comunità di pastori con il loro principale centro di servizi. Le Comunità, costituite da circa 700 persone, si trovano in una “zona per esercitazioni a fuoco” (Massafer Yatta), riservata da Israele all’addestramento dei suoi militari. Di conseguenza, per accedere al loro principale centro di servizi ed al mercato nella città di Yatta, i residenti devono percorrere una lunga deviazione. Tutti i 1.300 residenti in questa “zona per esercitazioni a fuoco” devono fronteggiare un contesto coercitivo che li mette a rischio di trasferimento forzato.

Tre palestinesi sono rimasti feriti e almeno 385 alberi e 15 veicoli sono stati vandalizzati da assalitori che si ritiene siano coloni israeliani [segue dettaglio]. In tre episodi separati, avvenuti nella città di Al Auja (Gerico) e nella zona della città di Hebron a controllo israeliano (zona H2), coloni israeliani hanno aggredito e ferito fisicamente tre palestinesi, tra cui una donna. Ulteriori attacchi di coloni sono stati segnalati il 10 e l’11 marzo, nella stessa area H2, durante le celebrazioni della festa ebraica di Purim; in questi ultimi casi non ci sono stati ferimenti o danni. In altri tre casi, coloni israeliani, a quanto riferito, hanno abbattuto o sradicato 200 ulivi e 150 viti di agricoltori dei villaggi di Al Khader e Khallet Sakariya, piantati vicino alla colonia di Gush Etzion (Betlemme), ed altri 35 ulivi piantati vicino all’insediamento colonico di Bruchin (Salfit). Questi episodi portano a quasi 1.600 il numero di alberi che, secondo quanto riferito, sono stati vandalizzati da coloni dall’inizio del 2020. Cinque ulteriori episodi si sono avuti nel governatorato di Nablus: nella città di Huwwara sono state tagliate le gomme di 11 veicoli; nel villaggio di Einabus due abitazioni e quattro veicoli sono stati danneggiati dal lancio di pietre, mentre nel villaggio di Burin è stata vandalizzata una casa disabitata. I residenti della Comunità di pastori di Ein ar Rashash (Ramallah) hanno riferito che 25 agnelli sono stati rubati da un colono residente in un adiacente insediamento colonico illegale.

Secondo una ONG israeliana, sulle strade della Cisgiordania, tre israeliani, tra cui un ragazzo e due donne, sono rimasti feriti e almeno 30 veicoli sono stati danneggiati in episodi di lancio di pietre [da parte di palestinesi].

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali. Il neretto è di OCHAoPt.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




L’attacco di Israele al pane palestinese

Mariam Barghouti

7 Mar 2020 – Al Jazeera

Perché è importante la chiusura di un vecchio forno palestinese a Gerusalemme.

Nelle rare occasioni in cui le autorità israeliane mi concedono il permesso di andare a Gerusalemme, mia madre insiste sempre che le porti una provvista di ka’ak al-Quds (ka’ak di Gerusalemme).

Il ka’ak è un pane a forma ovale ricoperto da un generoso strato di semi di sesamo. È ampiamente disponibile in tutta la Palestina e anche a Ramallah, dove viviamo. Ma per la maggior parte dei palestinesi, il ka’ak di Gerusalemme è una prelibatezza inimitabile. Come mia madre, anch’io chiedo agli amici che hanno occasione di andare a Gerusalemme di portarmi pacchi di ka’ak al-Quds – non solo perché è particolarmente buono, ma perché porta in sé parte della storia culturale di Gerusalemme.

Il 19 febbraio, la polizia israeliana ha fatto irruzione e chiuso un panificio palestinese attivo da 60 anni, e ha arrestato il suo giovane proprietario Nasser Abu Sneina. Chiunque abbia vagato per i quartieri della Città Vecchia è probabilmente passato accanto a questo vecchio forno e ha annusato il caldo aroma di pane che diffondeva. È vicino al quartiere di Bab Hutta, un luogo centrale nel corso delle proteste palestinesi del 2017 contro le misure di sorveglianza israeliane.

Le autorità israeliane hanno dichiarato che il panificio è stato chiuso perché non rispettava gli standard sanitari richiesti. Molti palestinesi, tuttavia, sostengono che il panificio sia stato preso di mira semplicemente perché distribuiva pane ai fedeli diretti alla moschea di al-Aqsa.

Il ka’ak di Gerusalemme e le panetterie che lo vendono sono – in parte – simboli dell’identità palestinese della città. Un panificio palestinese che distribuisce ka’ak ai fedeli sulla strada per la moschea di Al-Aqsa è una minaccia per le autorità israeliane perché è una dimostrazione palese della solidarietà palestinese. Mostra che i palestinesi non solo sono ancora nel cuore della città, ma sono anche pronti a sostenersi a vicenda di fronte all’oppressione israeliana.

Ricordano al mondo e agli israeliani che Gerusalemme è una città palestinese.

Questa è la vera ragione per cui il forno di Abu Sneina e molti altri esercizi simili sono stati costretti a chiudere dalle autorità israeliane.

Negli ultimi anni a Gerusalemme più di 50 negozi sono stati costretti a chiudere a causa delle pressioni finanziarie e delle continue restrizioni alla circolazione che rendono difficile la gestione di un’attività commerciale.

La chiusura di questo forno è stata solo l’ultimo capitolo di un più ampio assalto sistematico alla presenza palestinese a Gerusalemme in generale e nella Città Vecchia in particolare. Con metodi diversi Israele sta cercando di costringere tutti i palestinesi ad andarsene, rendendo insopportabile la vita quotidiana con l’imperante presenza di soldati armati che consentono ai coloni di avanzare in città, quartiere dopo quartiere.

I palestinesi a Gerusalemme vivono con la costante minaccia di umilianti perquisizioni corporali, sfratti da casa, ritiro della residenza o aggressioni da parte di coloni israeliani o forze israeliane – che si tratti di polizia o esercito.

Soprattutto nella Città Vecchia, oltre alle palesi aggressioni dell’occupazione come arresti arbitrari, azioni giudiziarie ingiustificate, restrizioni di movimento e ingiuste chiusure di negozi, i palestinesi sono costretti a barcamenarsi in una burocrazia pensata unicamente per fornire sostegno legale al tentativo di cacciarli.

Le autorità israeliane richiedono agli esercizi palestinesi di procurarsi una enorme quantità di permessi e documenti per rimanere in attività. Per molti imprenditori palestinesi, tuttavia, è sia troppo costoso che difficile ottenere questi documenti.

Le irragionevoli pressioni esercitate sui palestinesi residenti a Gerusalemme a volte raggiungono livelli tali da forzarli a fare cose che in altre parti del mondo sarebbero difficili da credere.

Proprio il mese scorso, ad esempio, un uomo palestinese che viveva a Gerusalemme ha demolito da sé la propria casa su ordine del Comune israeliano. Ha fatto da sé per evitare i costi esorbitanti che avrebbe dovuto pagare al Comune stesso se gli avesse consentito di eseguire la demolizione.

Israele sta facendo di tutto per allontanare i palestinesi da Gerusalemme a causa del significato che la città detiene per la lotta palestinese – non ha solo un valore religioso, ma è l’epicentro storico, culturale e politico della vita palestinese.

La decisione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump nel 2017 di dichiarare Gerusalemme capitale di Israele e di spostarvi l’ambasciata USA ha fornito un significativo sostegno politico alle affermazioni israeliane che la città appartenga a loro.

Tuttavia, Israele sa che non può dichiarare Gerusalemme esclusivamente “città israeliana” se i palestinesi continuano a viverci e a mantenere viva l’identità palestinese della città. Dai negozietti di spezie e di dolci sparsi per la Città Vecchia al vecchio negozio di musicassette aperto nel 1973, alle voci dei bambini palestinesi che ridono nei vicoli Gerusalemme è ancora una città molto palestinese.

Questo è il motivo per cui le autorità israeliane prendono di mira le panetterie come quella di Abu Sneina.

Noi palestinesi non veniamo espulsi dalle nostre terre e città ancestrali solo attraverso demolizioni, insediamenti, revoca arbitraria di permessi di residenza o semplici proiettili. Siamo anche spinti via dallo sforzo sistematico di renderci impossibile mantenere il nostro modo di vivere nel nostro Paese. Israele sta cercando di cancellare la cultura e l’identità palestinesi dalle strade, dai bazar, dai panifici e dai ristoranti.

Questo succede da molto tempo. Ein Kerem, per esempio, un tempo era un villaggio palestinese a Gerusalemme [ovest, ndtr.]. Oggi vi abitano per lo più israeliani delle classi alte. Camminarci dentro è come camminare in un insediamento israeliano, non in un villaggio palestinese.

Ovviamente, Israele sa che non può cancellare tutta la storia e la tradizione di Gerusalemme. Quindi a volte cerca di appropriarsi di aspetti della cultura palestinese come fossero i propri.

Questo è il motivo per cui il falafel viene ora venduto come spuntino nazionale di Israele, anche se il piatto è più vecchio dello Stato. E questo è il motivo per cui i ristoranti di tutto il mondo hanno “Shakshuka [piatto tipico arabo, ndtr.] israeliano” e “Tabbouleh [insalata di grano, anch’essa araba, ndtr.] israeliano” nei loro menu.

Per un osservatore esterno, il definire “israeliano” un vecchio piatto palestinese o la chiusura di una panetteria per motivi di “salute e sicurezza” possono sembrare questioni banali.

Tuttavia, per noi palestinesi, questi atti non sono diversi da demolizioni di case, espulsioni, detenzioni illegali e coprifuoco. Rappresentano solo un altro aspetto dell’occupazione: sono tentativi di cancellare dalle nostre città e strade, insieme ai nostri fisici corpi, la nostra cultura e il nostro modo di vivere.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Mariam Barghouti è una scrittrice palestinese americana residente a Ramallah.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Rapporto OCHA del periodo 18 febbraio – 2 marzo 2020

A Gaza, il 23 e 24 febbraio, si è verificato uno scambio di azioni ostili tra Israele e un gruppo armato palestinese, con conseguente ferimento di 12 civili palestinesi e 16 civili israeliani.

Le ostilità sono iniziate con l’uccisione, da parte delle forze israeliane, di un membro del gruppo armato della Jihad Islamica Palestinese (PIJ) e il ferimento di un altro membro; a quanto riferito, i due stavano collocando un ordigno esplosivo nei pressi della recinzione perimetrale, ad est di Khan Younis. Nel corso dello stesso episodio le forze israeliane hanno colpito e ferito due civili che cercavano di recuperare i due membri del PIJ. Immagini video di un bulldozer israeliano che, all’interno della recinzione che circonda Gaza, sta recuperando il corpo dell’uomo ucciso, hanno innescato una diffusa indignazione in tutta la Striscia. Nelle successive 30 ore, [il gruppo armato] PIJ ha lanciato oltre 100 razzi e sparato colpi di mortaio verso il sud di Israele: alcuni di essi hanno colpito aree edificate israeliane. Sedici israeliani sono rimasti leggermente feriti, mentre alcuni edifici, tra cui un asilo nella città di Sderot, hanno subito danni. Uno dei razzi lanciati dai palestinesi è caduto all’interno della città di Gaza, colpendo una casa e ferendo dieci civili palestinesi, tra cui due minori. L’esercito israeliano ha effettuato una serie di raid aerei sulla Striscia, provocando il ferimento di cinque membri del PIJ e danni a varie strutture militari dello stesso gruppo armato. Le ostilità sono cessate nel corso della notte del 24 febbraio.

Durante le ostilità di cui sopra, Israele ha sospeso i movimenti delle persone e delle merci da e verso Gaza ed ha interdetto l’accesso al mare ai pescatori palestinesi. Il valico pedonale di Erez ed il valico commerciale di Kerem Shalom sono stati chiusi, fatta eccezione per l’uscita di casi sanitari urgenti e per l’ingresso di carburante destinato alla Centrale Elettrica di Gaza. Il 26 febbraio sono state ripristinate le precedenti condizioni di accesso.

Nei giorni in cui sono state in vigore le restrizioni di accesso [imposte da Israele] alle aree [della Striscia di Gaza] prossime alla recinzione perimetrale israeliana e al largo della costa, in almeno 37 casi le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento; non sono stati registrati ferimenti. In un caso, le forze israeliane sono entrate in Gaza (ad est di Khan Younis) ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale. Inoltre, le forze israeliane hanno arrestato un palestinese che stava tentando di infiltrarsi in Israele; un altro è stato arrestato a Erez, mentre stava uscendo da Gaza.

A Gerusalemme Est, le forze israeliane hanno sparato, uccidendo un palestinese e ferendo una passante palestinese; secondo quanto riferito, l’uomo ucciso aveva tentato di accoltellare un poliziotto. L’episodio è avvenuto il 22 febbraio, presso una delle porte che introducono alla Città Vecchia di Gerusalemme. Le forze israeliane hanno effettuato un’operazione di ricerca nel quartiere di Jabal al Mukkabir a Gerusalemme Est, dove viveva il presunto aggressore, ed hanno arrestato il padre ed i fratelli.

In scontri, scoppiati durante due proteste contro l’espansione degli insediamenti [colonici] a sud di Nablus, oltre 250 palestinesi, tra cui circa 60 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane. Le proteste, organizzate dal Consiglio del villaggio di Beita (Nablus) con il sostegno dell’Autorità palestinese, si sono svolte il 28 febbraio ed il 2 marzo contro i tentativi (quelli già avvenuti e quelli previsti) di coloni israeliani intenzionati ad impossessarsi di una collina prossima al villaggio (in Area B). Durante successivi scontri, palestinesi hanno lanciato pietre contro i soldati israeliani; questi hanno risposto sparando vari tipi di munizioni. Dei palestinesi feriti, 152 sono stati colpiti da proiettili di gomma, 86 sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeni e 7 sono stati colpiti da armi da fuoco. Non sono stati riportati ferimenti di israeliani.

In Cisgiordania, in diversi altri scontri, sono stati feriti dalle forze israeliane altri 168 palestinesi. Gli scontri più rilevanti sono scoppiati durante varie proteste, quali: contro il piano americano per il Medio Oriente (tali proteste sono in corso dal 28 gennaio, data dell’annuncio del piano); nel villaggio di Asira al Qibliya (Nablus), durante una protesta contro le restrizioni di accesso alle terre agricole in Area B; nel Campo profughi di Al Fawwar (Hebron), con specifiche motivazioni; nel villaggio di Kafr Qaddum (Qalqiliya), durante le manifestazioni settimanali contro le restrizioni di accesso e l’espansione degli insediamenti; nella città di Nablus, in seguito all’ingresso nel sito religioso “Tomba di Giuseppe” di un gruppo di israeliani scortati da soldati.

In Cisgiordania, complessivamente, le forze israeliane hanno effettuato 147 operazioni di ricerca-arresto, arrestando 188 palestinesi, tra cui 17 minori. La maggior parte delle operazioni sono state svolte nei governatorati di Ramallah (33), Gerusalemme (30, in prevalenza a Gerusalemme Est) ed Hebron (27).

In Area C e Gerusalemme Est, a motivo della mancanza di permessi di costruzione israeliani, sono state demolite o sequestrate 15 strutture di proprietà palestinese, causando lo sfollamento di 33 persone e ripercussioni su altre 100. Sei di queste strutture (cinque delle quali fornite come aiuto umanitario) erano situate in cinque Comunità nel sud di Hebron; in un caso si trattava di una roulotte adibita a magazzino presso una scuola di Susiya (una Comunità di pastori a rischio di trasferimento forzato). Quattro delle sei strutture sono state demolite in base a un “Ordine militare 1797”, che consente la demolizione o il sequestro di strutture non corredate di licenza di costruzione e, pertanto, classificate come “nuove”. Le rimanenti nove strutture erano situate a Gerusalemme Est; cinque di esse sono state demolite dai proprietari che avevano ricevuto ordini di demolizione. Dall’inizio dell’anno, sono state demolite, o sequestrate, 89 strutture: una leggera riduzione, rispetto alle 95 registrate nello stesso periodo del 2019.

In aggressioni attribuite a coloni israeliani, due palestinesi sono rimasti feriti e oltre 850 alberi sono stati vandalizzati [segue dettaglio]. Il 21 febbraio, un gruppo di coloni israeliani accompagnati da cani, è entrato nella Comunità beduina di Ras al Auja, nel governatorato di Gerico, ed ha aggredito e ferito fisicamente due persone. In tre distinti episodi, verificatisi nel villaggio di Al Khader (Betlemme) il 27 e 28 febbraio, assalitori (ritenuti coloni israeliani) hanno tagliato circa 100 alberi di ulivo e 450 viti. Nel villaggio di Al Mughayyir, a Ramallah, coloni hanno abbattuto 200 ulivi con l’uso di bulldozer. Infine, sono stati vandalizzati 100 ulivi e viti appartenenti a contadini del villaggio di Husan, situato nell’area recintata dell’insediamento di Betar Illit (Betlemme). Dall’inizio dell’anno, oltre 1.000 alberi appartenenti a palestinesi sono stati danneggiati da persone che si ritiene siano coloni. In due episodi separati, accaduti nel villaggio di Yasuf (Salfit) e all’incrocio di Huwwara (Nablus), coloni hanno danneggiato 18 veicoli ed hanno imbrattato con scritte i muri di due case.

Due donne israeliane sono rimaste ferite e almeno cinque veicoli israeliani sono stati danneggiati da pietre e, in un caso, da una bottiglia lanciata da palestinesi. I due ferimenti si sono verificati in due episodi separati, accaduti su strade vicine ai villaggi di Abud (Ramallah) e di Halhul (Hebron).

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali. Il neretto è di OCHAoPt.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Rapporto OCHA del periodo 4 – 17 febbraio 2020

Il 6 febbraio, in tre distinti attacchi e presunti attacchi palestinesi, due palestinesi sono stati uccisi e 14 soldati israeliani sono rimasti feriti

[segue dettaglio]. Nella Città Vecchia di Gerusalemme, un palestinese 45enne, cittadino israeliano, dopo aver aperto il fuoco ed aver ferito un agente di polizia di frontiera, è stato ucciso dalle forze di polizia israeliane. A Gerusalemme Ovest, un palestinese ha investito con la sua auto un gruppo di soldati israeliani, ferendone 12; l’uomo è stato successivamente arrestato al bivio di Gush Etzion (Hebron). Nello stesso giorno, il 6 febbraio, nei pressi del villaggio di Deir Ibzi (Ramallah), palestinesi, secondo quanto riferito, hanno sparato contro soldati israeliani, ferendone uno; il 17 febbraio, l’esercito israeliano ha comunicato di aver trovato il corpo di un presunto attentatore: l’uomo sarebbe morto per le ferite riportate durante lo scontro a fuoco con i soldati israeliani. In un ulteriore episodio, accaduto il 17 febbraio nella città di Hebron, ad un checkpoint nell’area controllata da Israele, un palestinese ha tentato di pugnalare dei soldati israeliani ed è stato arrestato; non sono stati segnalati feriti.

Il 6 febbraio, in scontri scoppiati durante una demolizione “punitiva” nella città di Jenin, le forze israeliane hanno sparato, uccidendo due palestinesi e ferendone altri nove. Una delle vittime è un 19enne e l’altra un poliziotto palestinese che, secondo quanto riferito, al momento degli scontri si trovava all’interno della stazione di polizia. Secondo fonti israeliane, durante gli scontri in questione, palestinesi hanno sparato e lanciato due ordigni esplosivi contro i soldati; non sono stati segnalati ferimenti di israeliani.

In Cisgiordania, durante molteplici scontri scoppiati in risposta al piano americano per il Medio Oriente, annunciato il 28 gennaio, sono stati uccisi dalle forze israeliane altri due palestinesi e oltre 100 sono rimasti feriti. Le due vittime sono un minore di 17 anni, ucciso nella città di Hebron il 5 febbraio, e un 19enne, ucciso il 7 febbraio vicino a un cancello della Barriera, nei pressi del villaggio di Qaffin (Tulkarm). Altri scontri, con gran numero di feriti, sono stati registrati vicino al checkpoint di Beit El / DCO (Ramallah), all’ingresso della città di Gerico, nel villaggio di Beita (Nablus), e nelle città di Al ‘Eizariya e Abu Dis (governatorato di Gerusalemme). Tra i feriti ci sono 21 minori. Oltre il 70% dei feriti sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeno, il 24% è stato colpito da proiettili di gomma e il 2% da proiettili di arma da fuoco.

In altri scontri, registrati durante il periodo di riferimento, altri 138 palestinesi, tra cui sette minori, sono stati feriti dalle forze israeliane. Oltre il 60% di questi feriti (88) si sono avuti durante scontri scoppiati nel contesto di tre operazioni di ricerca-arresto condotte a Beit Jala (Betlemme) a seguito del presunto investimento volontario del 6 febbraio [vedi 1° paragrafo]. Il 24% [dei 138 feriti] sono stati registrati durante le proteste settimanali nel villaggio di Kafr Qaddum (Qalqiliya) ed i rimanenti in altri scontri; tra cui [quello avvenuto durante] il funerale del poliziotto ucciso nella città di Jenin [vedi 2° paragrafo]. Questi episodi portano a sei il numero di palestinesi uccisi da forze israeliane in Cisgiordania e Israele ed a 623 il numero di feriti dall’inizio del 2020.

Il 15 febbraio, nel quartiere di Al Isawiya a Gerusalemme Est, mentre stava tornando a casa da scuola, un ragazzo palestinese di 9 anni è stato colpito ad un occhio da un proiettile di gomma sparato da un poliziotto israeliano. Il ragazzo è rimasto ferito in modo grave ed ha perso l’uso dell’occhio. Al momento dell’accaduto non risulta fossero in corso scontri. Le autorità israeliane hanno annunciato l’apertura di un’indagine penale. Dalla metà del 2019, ad Al Isawiya sono in corso consistenti operazioni di polizia che, per almeno 18.000 residenti, sono causa di tensioni e disagi quotidiani.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 135 operazioni di ricerca-arresto, arrestando 132 palestinesi, tra cui otto minori. La maggior parte delle operazioni sono state effettuate nel Governatorato di Ramallah (34), seguito dai Governatorati di Hebron (30) e Gerusalemme (26).

È proseguito, da Gaza verso Israele, il lancio di proiettili, nonché di fasci di palloncini recanti esplosivo; sia i proiettili che i palloncini sono atterrati in aree aperte all’interno di Israele, o sono stati intercettati in aria. Nella città di Netivot, due israeliani sono rimasti feriti mentre correvano verso un rifugio. Questi episodi sono stati seguiti da attacchi aerei israeliani contro strutture militari di Gaza; non sono state segnalate vittime, ma nel Campo Profughi Beach è stata danneggiata una conduttura per lo scarico in mare dell’acqua piovana.

In almeno 53 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso palestinesi presenti in aree [di Gaza] adiacenti alla recinzione perimetrale israeliana ed al largo della costa di Gaza [cioé, in “Aree ad Accesso Riservato”, vietate ai palestinesi]; un pescatore palestinese è rimasto ferito e due barche sono state danneggiate dalle forze navali israeliane. In tre occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza (a Beit Lahia, al Campo di Al Maghazi e Khan Younis) ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

In Area C e Gerusalemme Est, citando la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o costretto i palestinesi a demolire 24 strutture, sfollando 23 persone e causando ripercussioni su altre altre 88 [segue dettaglio]. Tredici delle strutture demolite, di cui tre precedentemente fornite come aiuto umanitario, erano situate in Area C. Tra i casi più rilevanti, due si sono verificati vicino alla città di Hebron (Al Hijra) ed a Deir Qaddis (Ramallah), dove sono state demolite tre strutture di sostentamento, due locali ad uso agricolo e due latrine. Sempre in Area C, nella città di Hebron, le autorità israeliane hanno demolito una abitazione ed una latrina fornite come assistenza umanitaria, sfollando una famiglia di sette persone. Le restanti undici strutture colpite si trovavano a Gerusalemme Est; cinque di queste sono state demolite dai proprietari, a seguito degli ordini di demolizione.

Il 6 febbraio, nella città di Jenin, per la seconda volta le autorità israeliane hanno demolito una casa per motivi “punitivi”, sfollando sette persone, tra cui due minori. La casa apparteneva alla famiglia di un palestinese, attualmente in carcere, che, nel gennaio 2018, partecipò ad un attacco in cui fu ucciso un colono israeliano. Dopo la prima demolizione, avvenuta il 23 aprile 2018, la casa era stata ricostruita.

Cinque attacchi, attribuiti a coloni israeliani, hanno provocato il ferimento di tre palestinesi e danni a proprietà palestinesi [segue dettaglio]. Il 16 febbraio, coloni israeliani armati hanno fatto irruzione nel villaggio di Ein ar Rashash (Ramallah), dove hanno aggredito e ferito tre residenti palestinesi ed hanno danneggiato la loro casa. Secondo fonti locali palestinesi, in due episodi separati, coloni israeliani hanno vandalizzato almeno 5 ettari di coltivazioni nel villaggio di Iskaka (Salfit), colpendo i mezzi di sussistenza di sette famiglie, mentre, nel villaggio di Beitillu (Ramallah), hanno vandalizzato 30 ulivi. Nei villaggi di Deir Dibwan e Beitin (entrambi a Ramallah), coloni israeliani hanno vandalizzato 15 veicoli di proprietà palestinese e due case.

Secondo fonti israeliane, a seguito di lanci di pietre e bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro auto percorrenti strade della Cisgiordania, tre israeliane (una ragazza e due donne) sono rimaste ferite e almeno 12 veicoli israeliani sono stati danneggiati.

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Ultimi sviluppi (successivi al periodo di riferimento)

Secondo quanto riferito, in risposta alla recente diminuzione del lancio di razzi e palloni incendiari da Gaza, il 18 febbraio le autorità israeliane hanno ampliato da 10 a 15 miglia nautiche la zona di pesca consentita [ai pescatori palestinesi] al largo della costa meridionale; hanno inoltre riattivato 500 permessi di uscita per le persone classificate come “uomini d’affari”.

Il 19 febbraio, il Comune di Gerusalemme ha annunciato che fermerà per sei mesi la demolizione di case nel quartiere di Al Isawiya, nella parte orientale di Gerusalemme. Dall’agosto 2019, ad Al Isawiya sono state demolite tredici strutture, di cui sette abitative, e per decine di altre sono in corso ordini di demolizione.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali. Il neretto è di OCHAoPt.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Rapporto OCHA del periodo 21 gennaio – 3 febbraio 2020

Il 21 gennaio, le forze israeliane hanno ucciso tre palestinesi: due 18enni e un 17enne. I giovani avevano varcato la recinzione israeliana che cinge Gaza e, a quanto riferito, avevano lanciato un ordigno esplosivo contro i soldati.

I loro corpi sono stati trattenuti dalle autorità israeliane. Non sono stati riportati ferimenti di israeliani.

Un 14enne palestinese è morto per la ferita riportate il 10 novembre 2019, durante una manifestazione della “Grande Marcia del Ritorno” (GMR): era stato colpito alla testa da un contenitore di gas lacrimogeno sparato dalle forze israeliane. La sua morte, avvenuta il 31 gennaio, porta a 214 (di cui 47 minori) il numero totale di vittime delle manifestazioni GMR da quando queste sono iniziate, il 30 marzo 2018. Il Comitato Organizzatore del GMR aveva annunciato che, dalla fine del 2019, le manifestazioni settimanali sarebbero state sospese fino al 30 marzo 2020; dopo tale data esse riprenderanno per continuare su base mensile e su temi specifici. Dal 28 gennaio, nei pressi della recinzione perimetrale con Israele, si sono svolte una serie di proteste contro il piano americano per il Medio Oriente, durante le quali 11 palestinesi, tra cui tre minori, sono stati feriti dalle forze israeliane.

Palestinesi di Gaza (compresi gruppi armati) hanno sparato colpi di mortaio ed hanno lanciato verso Israele diversi razzi, nonché ordigni esplosivi appesi a fasci di palloncini. I proiettili sono stati intercettati in aria o sono caduti in aree aperte. Nella città di Sderot, una donna israeliana e il suo bambino, mentre correvano verso un rifugio, sono rimasti feriti.

L’esercito israeliano ha effettuato una serie di attacchi aerei contro strutture di gruppi armati di Gaza; due di questi attacchi hanno provocato il ferimento di due minori palestinesi. Il 2 febbraio, le autorità israeliane hanno sospeso l’ingresso di cemento in Gaza [i valichi sono sotto controllo israeliano] ed hanno revocato il permesso di uscita a 500 uomini d’affari. Secondo quanto riferito, questi attacchi e questi provvedimenti sono stati attuati in risposta al lancio di razzi e palloncini esplosivi da Gaza.

In almeno 30 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso palestinesi presenti in aree [di Gaza] adiacenti alla recinzione perimetrale israeliana ed al largo della costa di Gaza [cioé, le “Aree ad Accesso Riservato”]; sono stati segnalati tre feriti, tra cui un minore. In un caso separato, le forze navali israeliane hanno arrestato tre pescatori palestinesi, tra cui un minore, ed hanno sequestrato la loro barca.

In Cisgiordania (fino alla chiusura di questo bollettino), 287 palestinesi, tra cui 43 minori e otto donne, sono rimasti feriti in scontri avvenuti a partire dal 28 gennaio, data dell’annuncio del piano USA per il Medio Oriente. Gli scontri più ampi sono stati registrati nel villaggio di Beita (Nablus), nella città di Betlemme, al checkpoint Beit-El / DCO (Ramallah), nelle città di Hebron e di Al ‘Eizariya (Gerusalemme), nel villaggio di Khirbet ‘Atuf ed al checkpoint di Tayasir (questi ultimi due in Tubas ). Oltre l’80% dei feriti sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeni, il 16% è stato colpito da proiettili di gomma e il 2% da armi da fuoco. Nella città di Hebron, durante scontri, le uniformi di un soldato israeliano e di un ufficiale della Polizia di Frontiera sono andate a fuoco a causa del lancio di bottiglie incendiarie da parte di palestinesi.

In altri scontri, avvenuti all’inizio del periodo di riferimento, sono stati feriti dalle forze israeliane altri 49 palestinesi, di cui otto minori. Dei 49 feriti, venticinque sono stati registrati a Gerusalemme Est, nell’area di Beit Hanina, durante scontri scoppiati al diffondersi di voci secondo cui un ragazzo palestinese, scomparso, sarebbe stato rapito da coloni israeliani; il ragazzo è stato successivamente trovato morto, secondo quanto riferito, annegato in una cisterna d’acqua. Altri tredici palestinesi [dei 49] sono rimasti feriti nella città di Al ‘Eizariya (Gerusalemme) durante scontri spontanei, e cinque sono rimasti feriti durante le proteste settimanali nel villaggio di Kafr Qaddum (Qalqiliya). Preoccupa la situazione di un ragazzo palestinese di 11 anni, colpito alla testa da una bomboletta di gas lacrimogeno sparata dalle forze israeliane durante scontri vicino alla scuola di Burin (Nablus); in conseguenza di ciò, le lezioni sono state sospese per il resto della giornata. Questi episodi portano a 336 il totale dei [palestinesi] feriti durante il periodo di riferimento [cioé, 2 settimane]; più del doppio della media del 2019 (136 feriti ogni 2 settimane).

Le forze israeliane hanno effettuato 81 operazioni di ricerca-arresto in Cisgiordania ed hanno arrestato 89 palestinesi, tra cui 12 minori. La maggior parte delle operazioni si sono avute nel Governatorato di Hebron (23), seguito dai governatorati di Gerusalemme (19) e Ramallah (14). Nel quartiere di Al Isawiya a Gerusalemme Est, durante le consuete operazioni di polizia, la situazione è rimasta tesa: a seguito di una di queste operazioni, una ragazza palestinese di 14 anni ha perso conoscenza ed è stata trasportata in ospedale. Secondo quanto riferito, la ragazza avrebbe subito un trauma per la perquisizione svolta dalle forze di polizia nella sua casa.

In Area C e Gerusalemme Est, citando la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito, o costretto i proprietari a demolire, dieci strutture palestinesi, sfollando nove persone e causando ripercussioni su altre 41. Cinque delle strutture demolite, compresa una precedentemente fornita come aiuto umanitario, erano situate in Area C, nel villaggio di Az Zawiya (Salfit) e ad Al Khalayleh, una piccola Comunità nell’area di Gerusalemme, separata dal resto della Cisgiordania dalla Barriera. Le restanti cinque strutture si trovavano a Gerusalemme Est, una delle quali in una Comunità (Khirbet Khamis) separata da Betlemme dalla Barriera. Tre delle strutture in Gerusalemme Est sono state demolite dai proprietari, a seguito del ricevimento di ordini di demolizione.

Individui, ritenuti coloni israeliani, hanno dato alle fiamme una scuola e una moschea, hanno vandalizzato 189 alberi di proprietà palestinese ed hanno ferito quattro palestinesi. I sopraccitati episodi di incendio doloso si sono verificati il 24 ed il 28 gennaio in una scuola del villaggio di Einabus (Nablus) e in una moschea della zona di Sharafat, a Gerusalemme Est. In entrambi i casi, sui muri degli edifici, sono state spruzzate scritte offensive in ebraico [seguono i dettagli]. In due episodi distinti, verificatisi presso gli insediamenti colonici di Bruchin e Shave Shomron, coloni hanno abbattuto 182 alberi appartenenti agli agricoltori dei villaggi di Kafr ad Dik (Salfit) e Sebastiya (Nablus). Coloni israeliani hanno fatto irruzione nel vicino villaggio di Madama (Nablus), dove hanno lanciato pietre contro case palestinesi, vandalizzato ulivi e, negli scontri conseguenti l’irruzione, hanno ferito due palestinesi. Altri due contadini palestinesi del villaggio di As Sawiya (Nablus), mentre lavoravano la loro terra, sono stati colpiti con pietre e feriti da un gruppo di coloni israeliani. Un veicolo palestinese ha subito danni in un separato episodio di lancio di pietre vicino al villaggio di Haris (Salfit).

Secondo varie fonti israeliane, una ragazza israeliana è stata ferita nei pressi dell’area di insediamento di Gush Etzion (Betlemme) e almeno sette veicoli israeliani sono stati danneggiati da lanci di pietre e bottiglie incendiarie, ad opera di palestinesi, contro auto transitanti lungo le strade della Cisgiordania.

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Ultimi sviluppi (successivi al periodo di riferimento)

Il 5 febbraio, nella città di Hebron, durante scontri, le forze israeliane hanno sparato, uccidendo un ragazzo palestinese di 17 anni.

Il 6 febbraio, nella città di Jenin, durante scontri, scoppiati durante una demolizione punitiva, le forze israeliane hanno sparato e ucciso due palestinesi; uno degli uccisi era un poliziotto palestinese che, secondo quanto riferito, durante gli scontri si trovava all’interno di una stazione di polizia.

Il 6 febbraio, nella Città Vecchia di Gerusalemme, un palestinese, cittadino israeliano, ha aperto il fuoco contro forze israeliane che, a loro volta, lo hanno colpito e ucciso; un poliziotto israeliano è rimasto ferito.

Il 6 febbraio, a Gerusalemme Ovest, un palestinese si è lanciato con l’auto contro un gruppo di soldati israeliani, ferendone 13; si è quindi dato alla fuga, incolume.

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Israele uccide quattro palestinesi in Cisgiordania

Maureen Clare Murphy

6 Febbraio 2020– Electronic Intifada

Mercoledì e giovedì le forze di occupazione israeliane hanno ucciso quattro palestinesi in Cisgiordania, anche nella Città Vecchia di Gerusalemme.

Il ministero della Salute nei territori ha informato che un quinto palestinese, Khalil al-Adham, è morto giovedì per le ferite dopo essere stato colpito sabato da forze israeliane nel nord della Striscia di Gaza.

Giovedì diversi soldati israeliani sono rimasti feriti in tre attacchi.

Le forze israeliane hanno detto di aver inseguito un attentatore che all’inizio della giornata ha aperto il fuoco contro un gruppo di soldati fuori da una colonia nei pressi di Ramallah, la capitale dell’Autorità Nazionale Palestinese. Un soldato è stato ricoverato in ospedale per lievi ferite alla testa.

Giovedì prima dell’alba un automobilista si è lanciato contro un gruppo di soldati a Gerusalemme ovest, ferendone 12, di cui uno gravemente. A fine giornata Israele ha arrestato il presunto aggressore, un venticinquenne abitante di Gerusalemme est.

I media israeliani hanno informato che i soldati, della Brigata Golani, “stavano visitando Gerusalemme prima di una cerimonia di giuramento la mattina presto al Muro del Pianto”.

Sulle reti sociali soldati della Brigata Golani hanno incitato all’assassinio di palestinesi e sono sospettati di aver perpetrato crimini di guerra a Gaza.

Giovedì sera un cittadino palestinese di Israele è stato ucciso dopo aver aperto il fuoco contro agenti della polizia di frontiera israeliana fuori dal complesso della moschea di al-Aqsa, nella Città Vecchia di Gerusalemme.

Media israeliani hanno identificato l’aggressore palestinese ucciso come Shadi Banna, 45 anni, di Haifa [in Israele, ndtr.].

Riprese di una telecamera di sorveglianza israeliana mostrano Banna avvicinarsi ad un gruppo di agenti della forza paramilitare di polizia ed aprire il fuoco con una pistola. Il video sembra mostrare il momento in cui Banna viene colpito. Quando finisce il filmato dell’incidente sta ancora correndo lontano dalla scena.

La polizia israeliana ha affermato che un poliziotto è rimasto leggermente ferito.

Letale incursione per la demolizione di una casa

Giovedì due palestinesi, compreso un agente di polizia, sono stati uccisi durante un’incursione israeliana per la demolizione di una casa nella città di Jenin, nel nord della Cisgiordania.

Forze di occupazione hanno fatto irruzione nella città per distruggere per la seconda volta una casa della famiglia di Ahmad Qanbaa, un palestinese arrestato da Israele per il suo presunto ruolo in un attacco armato che due anni fa ha ucciso un colono.

“I soldati prima hanno demolito l’edificio nel 2018, ma poi è stato ricostruito,” hanno informato i mezzi di comunicazione israeliani.

Secondo il Centro Palestinese per i diritti umani otto persone, compresi due minori, vivevano nella casa demolita giovedì.

Dalla fine del 2015 Israele ha accelerato le demolizioni delle abitazioni di famiglie di palestinesi sospettati di avere attaccato israeliani.

Queste misure di punizione collettiva sono una violazione della Quarta Convenzione di Ginevra, che Israele ha ratificato.

Mettono anche in evidenza il razzismo istituzionalizzato di Israele, dato che tali punizioni non vengono mai comminate a famiglie di ebrei israeliani che aggrediscono palestinesi.

Alcuni palestinesi si sono riuniti sul luogo della demolizione e si sono scontrati con le forze di occupazione. I militari hanno utilizzato contro i manifestanti proiettili veri, pallottole ricoperte di gomma e lacrimogeni.

Secondo il “Centro Palestinese per i Diritti Umani” Yazan Munthir Khalid Abu Tabikh, 19 anni, è stato colpito al petto ed è morto sul colpo.

Dopo la sua morte fotografie di Abu Tabikh durante il pellegrinaggio alla Mecca sono state fatte circolare dai mezzi di informazione palestinesi.

Un video ha ripreso la sparatoria contro un secondo palestinese ferito a morte durante l’incursione. Le immagini mostrano Tariq Ahmad Luay Badwan, 24 anni, in piedi nell’ingresso di una stazione di polizia e totalmente inoffensivo, quando cade a terra. Colpito al ventre da un proiettile vero, più tardi è morto in ospedale lo stesso giorno.

Adolescente ucciso a Hebron

Il quarto palestinese ucciso in Cisgiordania questa settimana, il sedicenne Muhammad Suleiman al-Haddad, è stato colpito varie volte al petto mercoledì durante una protesta nella città di Hebron.

Israele ha sostenuto che al-Haddad aveva lanciato una bottiglia molotov contro i soldati.

Il“Centro Palestinese per i Diritti Umani” ha informato che al-Haddad è stato colpito da un cecchino dell’esercito israeliano che si trovava su un tetto nei pressi del checkpoint di via Shuhada a Hebron.

Il gruppo per i diritti umani ha affermato: “La sparatoria sarebbe avvenuta durante una protesta organizzata da decine di giovani che hanno lanciato pietre contro (le forze di occupazione israeliane) ed hanno bruciato copertoni.”

L’adolescente è stato il primo palestinese ucciso da quando lo scorso martedì è stato reso noto il piano per il Medio Oriente del presidente USA Donald Trump.

Secondo il “Centro Palestinese per i Diritti Umani” in Cisgiordania le forze israeliane hanno represso più di 60 manifestazioni di protesta contro il piano di Trump.

L’associazione ha affermato che “in seguito a ciò decine di civili sono stati colpiti e feriti con proiettili veri e pallottole ricoperte di gomma, oltre a molti altri (ricoverati) in seguito all’inalazione di gas lacrimogeni.”

Attacchi aerei e punizione collettiva contro Gaza

Nel contempo nelle prime ore di giovedì Israele ha preso di mira quelle che ha definito posizioni di Hamas a Gaza dopo che palestinesi del territorio avrebbero lanciato colpi mortaio e palloni incendiari verso Israele.

Non ci sono notizie di feriti in seguito agli attacchi aerei di Israele o al fuoco di mortai e palloni incendiari da Gaza.

Il COGAT, braccio amministrativo dell’occupazione militare israeliana, ha affermato che mercoledì, “in seguito al continuo lancio di razzi e di palloni incendiari,” Israele ha ulteriormente ridotto la zona di pesca consentita lungo le coste di Gaza

Lo scorso anno Israele ha annunciato per 20 volte modifiche dell’accesso alle acque territoriali di Gaza. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha utilizzato l’industria peschiera di Gaza come un “mezzo di pressione” – una definizione utilizzata dal quotidiano di Tel Aviv “Haaretz” – sui 2 milioni di palestinesi che dal 2007 vivono nel territorio sottoposto a un blocco molto rigido.

Giovedì il gruppo per i diritti umani “Gisha” ha affermato che le restrizioni frequentemente modificate sui pescatori “provocano un danno deliberato ad uno dei più vulnerabili e importanti settori [economici] di Gaza in risposta ad azioni che nessuno sostiene siano in alcun modo legate ai pescatori della Striscia.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 7- 20 gennaio 2019

Secondo il Ministero della Salute, un palestinese è morto il 19 gennaio, a seguito della ferita riportata il 14 maggio 2018 quando, durante una manifestazione della “Grande Marcia del Ritorno”, venne colpito da un proiettile sparato dalle forze israeliane.

Dal 30 marzo 2018, data di inizio delle manifestazioni, il numero totale di morti [palestinesi] sale così a 213 ed il numero di feriti a 36.134. Il 26 dicembre, il Comitato organizzatore della GMR ha annunciato che le manifestazioni settimanali si concluderanno il 30 marzo 2020; dopo tale data continueranno con cadenza mensile e in ricorrenze particolari.

In diverse occasioni, palloncini caricati con ordigni esplosivi e rilasciati dalla Striscia di Gaza, sono caduti nel sud di Israele. I dispositivi sono stati fatti esplodere dalle forze israeliane, senza causare vittime o danni. In seguito, le forze israeliane hanno effettuato una serie di attacchi aerei su Gaza contro strutture di gruppi armati; anche in questo caso non sono state riportate vittime.

In almeno 45 occasioni, forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento sia verso aree [della Striscia] di Gaza prossime alla recinzione perimetrale israeliana, sia in mare, al largo della costa; non sono stati segnalati feriti. Inoltre, agricoltori palestinesi hanno riferito che il 14 e 15 gennaio, per la prima volta dal 2018, aerei israeliani hanno irrorato con erbicidi terreni agricoli palestinesi attigui alla recinzione. In due episodi separati, sette palestinesi sono stati arrestati mentre tentavano di entrare in Israele; altri due sono stati arrestati al valico di Erez.

In Cisgiordania, durante vari scontri, 40 palestinesi, tra cui almeno sei minori e due donne, sono stati feriti da forze israeliane. Più della metà dei feriti (25) si sono avuti nel Campo profughi di Aqbat Jaber (Gerico) e ad Al ‘Eizariya (Gerusalemme) in scontri scoppiati durante due operazioni di ricerca-arresto. Altri tredici palestinesi sono rimasti feriti nel villaggio di Kafr Qaddum (Qalqiliya), durante una protesta settimanale contro la violenza dei coloni e l’espansione degli insediamenti. Altri due [dei 40] palestinesi sono rimasti feriti nel villaggio di Ar Rifa’iyya (Hebron), in scontri seguiti ad una demolizione (vedi i dettagli nel paragrafo successivo). In Cisgiordania, durante il periodo in esame, le forze israeliane hanno effettuato 115 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 128 palestinesi, tra cui sei minori.

In Area C e Gerusalemme Est, citando la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito, o costretto palestinesi a demolire, 19 strutture, sfollando 22 persone e creando ripercussioni su altre 130. Dieci di queste strutture, di cui tre precedentemente fornite come aiuto umanitario, erano situate in Area C. Finora, nel 2020, in Cisgiordania sono state demolite o sequestrate 35 strutture, di cui dieci finanziate da donatori. Durante la demolizione di una struttura abitativa nel villaggio di Ar Rifa’iyya (Hebron), sono scoppiati scontri (menzionati sopra). Le restanti nove [delle 19] strutture demolite erano in Gerusalemme Est [segue dettaglio]. In tre episodi distinti, avvenuti nel quartiere Jabal al Mukabbir di Gerusalemme Est, tre famiglie palestinesi sono state costrette a demolire le loro case; ne risultano sfollate dodici persone. Altre cinque strutture si trovavano nelle Comunità di Bir Onah e nel villaggio di Al Walaja, entrambe situate all’interno del confine (stabilito da Israele) della municipalità di Gerusalemme, ma la Barriera [israeliana] le separa dal resto di Gerusalemme Est. Infine, una struttura abitativa è stata demolita a Beit Hanina, sfollando una famiglia di quattro persone, tra cui due minori.

Dal 19 gennaio, a seguito di una sentenza del tribunale israeliano, favorevole ad una organizzazione di coloni che rivendica la proprietà della terra, una comunità di rifugiati palestinesi, composta da tre famiglie, è ad elevato rischio di sfratto forzato dalle loro tre abitazioni situate nel quartiere di Silwan, a Gerusalemme Est. In quest’area, oltre 80 famiglie palestinesi hanno in corso procedure di sfratto, avviate contro di loro dalla medesima organizzazione di coloni.

Il 15 gennaio, forze israeliane hanno demolito due case di coloni israeliani, costruite nell’insediamento colonico avamposto [cioè, non autorizzato da Israele] di Kumi Ori (Nablus). La demolizione ha fatto seguito ad una sentenza dell’Alta Corte di Giustizia Israeliana, che ha ordinato l’allontanamento dei coloni e la demolizione dell’avamposto in quanto edificato, in Area B, su terreni di proprietà privata palestinese. Tuttavia, la sentenza non ha incluso disposizioni tali da consentire ai proprietari di riacquistare l’accesso alla terra.

Otto attacchi di coloni hanno provocato nove feriti, danni alle proprietà palestinesi e il ferimento di un volontario internazionale [segue dettaglio]. Nel villaggio di Madama (Nablus), un gruppo di circa 30 coloni israeliani provenienti, a quanto riferito, dall’insediamento di Yitzhar, ha attaccato e lanciato pietre contro una casa, ferendo una donna palestinese incinta e causando danni alla casa stessa. In un altro episodio verificatosi sulla strada 60, vicino a Hebron, un palestinese e una famiglia di sette persone, tra cui cinque minori e una donna, sono rimasti feriti dal lancio di pietre contro i loro veicoli, ad opera di coloni israeliani. In due episodi separati, secondo fonti della Comunità, coloni israeliani hanno vandalizzato almeno 67 ulivi e altri alberi nel villaggio di As Sawiya (Nablus). In altri due casi, secondo quanto riferito, coloni israeliani hanno causato danni a due case e forato le gomme di due veicoli nei villaggi di Battir (Betlemme) e Yasuf (Salfit). Inoltre, in un episodio separato accaduto nel villaggio di At Tuwani (Hebron), coloni hanno aggredito e ferito fisicamente un volontario internazionale che accompagnava pastori palestinesi.

Durante il periodo di riferimento, secondo media israeliani, palestinesi hanno lanciato pietre e bottiglie incendiarie contro veicoli israeliani in quattro episodi, arrecando danni a quattro auto. Gli episodi hanno avuto luogo su strade principali dei governatorati di Ramallah, Betlemme ed Hebron.

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Ultimi sviluppi (successivi al periodo di riferimento)

Il 21 gennaio, tre palestinesi di Gaza, tra cui un minore, sono stati colpiti e uccisi dalle forze israeliane; avevano forzato la recinzione perimetrale con Israele e, secondo quanto riferito, avevano lanciato un ordigno esplosivo contro le forze israeliane.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali. Il neretto è di OCHAoPt.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




“Ci sposteranno, ma solo da morti”: scontro fra Israele e i beduini nel Negev

Jack Dodson

17 gennaio 2020 – Middle East Eye

Le autorità israeliane hanno intenzione di trasferire 36.000 beduini che vivono nella regione desertica per far posto a ebrei israeliani e progetti industriali e militari

Mohammad Danfiri, dal recinto delle pecore della sua famiglia beduina nel deserto del Negev, guarda verso i due ripetitori cellulari in cima alla collina vicina. Sono situati in uno spazio aperto fra il limitare tra il suo villaggio e un altro, un’area, spiega, dove sarà costruito un ampliamento della principale autostrada orientale di Israele.

Una fila di case sta a circa 60 metri dalle torri dove sono stati approvati i progetti per l’autostrada. Ma il governo israeliano sta procedendo con dei progetti per cacciare non solo i residenti più vicini alla strada progettata.

L’intera popolazione del villaggio, 5.000 persone e molte altre del circondario, verrà trasferita in unità abitative temporanee secondo il piano del governo, limitando seriamente la possibilità di allevare pecore e sviluppare l’agricoltura, le attività principali delle comunità beduine.

Danfiri è uno degli almeno 36.000 beduini del Negev israeliano che si trova ad affrontare l’espulsione (in arabo la Nakba, la catastrofe) a causa di vari progetti come l’ampliamento della superstrada.

Per mettere in pratica questi piani di sviluppo proposti da enti governativi, dall’esercito israeliano, da aziende private e da gruppi no-profit, l’Autorità israeliana per gli insediamenti beduini, l’ente governativo responsabile per la gestione dei rapporti tra beduini e Stato, mira a trasferire decine di migliaia di persone in alloggi temporanei.

I beduini chiamano questi alloggi provvisori “caravan”, perché sono casette mobili in cui gli israeliani intendono insediare intere famiglie. A ottobre, una commissione edilizia distrettuale israeliana ha cominciato a valutare se approvare questi piani di trasferimento.

I residenti che possono essere trasferiti vivono in villaggi che il governo ritiene “non riconosciuti”, sebbene la maggior parte sia vissuta su quei terreni o nelle vicinanze fin dalla fondazione del Paese nel 1948. Durante gli ultimi 50 anni, Israele ha cercato di spostare i beduini in comunità “riconosciute”, sostenendo ripetutamente che quelli delle aree non riconosciute non hanno diritti sulle terre.

I villaggi non riconosciuti non sono provvisti di infrastrutture o servizi governativi. Non ci sono mezzi di trasporto, strade, scuole e le autorità israeliane non riconoscono i leader locali né negoziano con loro.

Di conseguenza le comunità vivono una vita di sussistenza su una terra ostile. Molti allevano pecore per venderne la carne. Alcuni riescono a trovar lavoro in aziende israeliane nei dintorni.

‘Nessuna soluzione’

Danfiri, 47 anni, racconta di essere cresciuto nel villaggio dove l’unica fonte idrica era un pozzo che raccoglieva acqua piovana. Lui e i suoi amici tiravano su l’acqua e sua mamma usava il foulard per filtrare la sporcizia. I venerdì gli adulti attaccavano una televisione alla batteria di un’auto per guardare i cartoni animati e i film egiziani.

“Oggi i bambini hanno tutto” dice Danfiri, riferendosi ai pannelli solari che ora sono installati sopra molte case beduine. “Frigoriferi, internet, tutto è immediatamente disponibile.”

Danfiri dice che per proteggere lo stile di vita della comunità i beduini respingeranno i piani governativi di trasferimento. Nel caso dovessero assolutamente spostarsi, dice che rifiuteranno i “caravan” e staranno il più vicino possibile alle loro case originarie, anche se di fianco a un cantiere.

“Non ci sposteremo, lotteremo” dice. “Non succederà … un progetto come questo farebbe sparire la cultura e il patrimonio culturale dei beduini.”

Per una comunità che si riconosce in uno stile di vita tradizionale basato sull’agricoltura, la rimozione forzata è vista come l’ultima mossa di una campagna governativa decennale per concentrarli in aree specifiche. Per gente come Danfiri ciò significa rinunciare a una parte della propria identità.

Ovunque io vada la cosa di cui sono più fiero è essere un beduino. Ed è soprattutto nei villaggi non riconosciuti che i beduini conservano di più la loro cultura tradizionale.” dice.

Adalah, una ONG [israeliana] con sede a Haifa specializzata nei diritti sanciti dalla legge per gli arabi in Israele, si oppone ai piani per vari motivi. Innanzitutto, sostiene l’organizzazione, le unità residenziali progettate non sono adatte, a termini di legge, perché non hanno infrastrutture adeguate e non rispettano le norme relative alle dimensioni abitative.

Il mese scorso l’ONG ha anche pubblicato un libro bianco, sostenendo che i piani rappresenterebbero un approccio che considera i cittadini israeliani del Negev “separati ma uguali”.

Un sistema si baserebbe sulla pianificazione di una rete che operi per il beneficio, il benessere e lo sviluppo futuro di cittadini e comunità ebraiche israeliane e che pone i cittadini ebrei israeliani al centro del processo” scrive.

L’altro sistema si baserebbe sulla pianificazione di una rete che operi per l’evacuazione e il trasferimento dei cittadini beduini in residenze temporanee imponendo all’intera popolazione palestinese beduina una situazione opprimente senza averla consultata.”

Adalah afferma anche che il piano farà crescere la povertà dei beduini che sono trasferiti e di quelli che vivono nelle comunità dove verranno costruiti i campi, perché potrebbe danneggiare l’accesso al lavoro per entrambi i gruppi.

Myssana Morany, un’avvocatessa che lavora per Adalah, dice che non è chiara la velocità con cui i piani verranno eseguiti e quante persone verranno trasferite in totale. Dato che il modo di esprimersi del governo sui piani che hanno presentato è vago, dice, ciò rivela un progetto più ampio che potrebbe coinvolgere fino a 80.000 persone. Per questo stesso motivo l’assenza di un numero preciso di unità abitative significa che il governo può sfrattare quante persone vuole.

Per noi ciò significa che non hanno una soluzione per le persone che progettano di far sgombrare” dice Morany.

Hussein El Rafaiya, 58 anni, è di Birh Hamam un villaggio non riconosciuto e dal 2002 al 2007 è stato a capo di un comitato che rappresenta i villaggi non riconosciuti. Israele non riconosce l’autorità del comitato e non negozia con loro.

Rafaiya ha ricordato esempi fatti nel corso degli anni di pressioni israeliane sulle comunità beduine per costringerle ad andarsene dalle loro case, per esempio decenni di demolizioni di case e sfratti effettuati dal governo.

Noi non abbiamo nessuna possibilità di risolvere la situazione per vie legali” dice Rafaiya, spiegando che la legge israeliana semplicemente non riconosce le rivendicazioni dei beduini sulla terra o sulle case.

Questo non è il comportamento di uno Stato: è un comportamento da criminali … Tutti quegli sforzi per l’Autorità Beduina [ente governativo creato nel 2007 per occuparsi dei beduini, ndtr.]non sono stati abbastanza efficaci, così hanno deciso di creare questi campi temporanei di sfollati.”

Agli inizi del 2020, la commissione urbanistica del distretto meridionale israeliano deciderà se procedere. I due piani residenziali temporanei del governo enfatizzano la necessità di sfrattare “urgentemente” i beduini in base ai progetti di sviluppo. Agli occhi dei gruppi per i diritti umani è un modo per escogitare una soluzione rapida ma giuridicamente inefficace per espellere la gente.

Una presenza in espansione

In anni recenti l’esercito israeliano ha spostato delle basi nel Negev nel tentativo di espandervi la presenza militare e industriale e per aumentare la popolazione. Il governo ha anche investito risorse per promuovere Be’er Sheba, la più grande città meridionale, come un hub per la tecnologia e l’imprenditorialità.

Il Negev è diventato il luogo di un’ampia gamma di progetti, inclusi parchi solari, centrali elettriche, serre e altre imprese industriali. Il governo ha espresso interesse nel sostenere le coltivazioni di marijuana a scopo medico, l’industria manifatturiera e la difesa informatica, tutto tramite fondi e sussidi.

Secondo il Ministero dell’Economia dello Stato, l’idea è di far concorrenza alla Silicon Valley.

Uno dei protagonisti di questo processo è il Jewish National Fund [Fondo Nazionale Ebraico] (JNF) un’organizzazione con sedi negli USA e a Gerusalemme che ha ricevuto un’autorizzazione governativa speciale da parte di Israele per acquistare e sviluppare dei terreni per i coloni ebrei.

Supervisiona molti progetti nella regione, spesso bonificando enormi distese di terreni per piantare foreste. Alcune comunità non riconosciute di beduini si trovano in aree destinate a essere evacuate per i progetti del JNF.

Sul sito del JNF, dove si presenta il piano per il Negev, si illustra un progetto per insediarvi 500.000 persone provenienti da altre parti della regione.

Il deserto del Negev rappresenta il 60% del territorio di Israele ma ospita solo l’8% della popolazione del Paese” c’è scritto. “E in queste cifre sbilanciate noi vediamo un’opportunità di crescita senza precedenti.”

Il “Progetto Negev” del JNF dà grande evidenza alla priorità di sostenere le comunità beduine della regione, ma elenca collaborazioni solo con città beduine “riconosciute”.

Nessun portavoce del JNF ha risposto a un’email con cui si richiedeva un commento.

Thabet Abu Rass, il co-direttore di Abraham Initiatives, un’ONG che opera per i diritti politici in Israele, ha detto di non essere d’accordo con il piano governativo principalmente perché non tiene conto di nessuna delle necessità delle comunità beduine.

È un modo diverso per parlare dello sradicamento delle persone. Qui il problema è lo sradicamento delle persone.” ha detto Rass.

Il governo israeliano sta investendo un sacco di soldi nella pianificazione. Se da un lato è bene pianificare per la gente, dall’altro non va bene pianificare contro la loro volontà … i beduini non hanno voce in capitolo.”

Rass rammenta molti casi in cui il governo d’Israele ha fatto dei piani per il Negev senza consultare i beduini e senza accettare o neppure prendere in considerazione i loro diritti sulla terra.

La terra in Israele è una questione che ha motivazioni ideologiche” ha detto Rass. “Israele si definisce uno Stato ebraico e per loro è importante controllare sempre maggiori estensioni di territorio.”

Per Rafaiya i progetti sono semplicemente inaccettabili. I beduini delle comunità riconosciute non si sposteranno.

Questo piano per noi è un disastro” dice Rafaiya. “Lo Stato può venire e distruggere case e comunità. Ma noi ci sposteremo solo da morti, saremo seppelliti nella nostra terra.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Israele comincia ad estendere la sua “annessione silenziosa” della Cisgiordania, col beneplacito dell’amministrazione Trump

Yumna Patel 

15 gennaio 2020 – Mondoweiss

Il ministro della Difesa di Israele ha annunciato mercoledì di aver approvato la creazione di sette nuove riserve naturali israeliane nell’Area C della Cisgiordania occupata.

Secondo il Jerusalem Post la mossa, che include anche l’espansione di 12 riserve naturali già esistenti, rappresenterebbe la prima approvazione di questo tipo ad essere rilasciata dalla firma degli Accordi di Oslo.

La notizia segue a ruota quella di un controverso forum di accademici e attivisti di destra la settimana scorsa a Gerusalemme dove Naftali Bennet, l’attuale ministro della Difesa, ha dichiarato alla folla che l’intera Area C della Cisgiordania occupata “appartiene a Israele”.

“Stiamo cominciando una battaglia vera, imminente per il futuro della Terra di Israele ed il futuro dell’Area C”, ha detto Bennet al Kohelet Policy Forum, facendo riferimento al 60% e più della Cisgiordania designato come sotto controllo israeliano dagli Accordi di Oslo.

Come leader del partito della “Nuova Destra”, Bennet è da lungo tempo un sostenitore del movimento dei coloni e promotore dell’annessione dei territori palestinesi occupati ad Israele. L’espressione delle sue opinioni riguardo dell’Area C non può quindi sorprendere, ma dato il sostegno dell’attuale amministrazione statunitense, sono particolarmente allarmanti.

Sostegno dagli Stati Uniti

Il Kohelet Policy Forum è stato inaugurato da un videomessaggio del Segretario di Stato [USA] Mike Pompeo che ha dichiarato che “Stiamo riconoscendo che queste colonie non sono una violazione intrinseca delle leggi internazionali. Questo è importante. Stiamo sconfessando il memorandum di Hansell del 1978 [parere giuridico di Hebert J. Hansell, consigliere del presidente Carter, che considerava illegale l’occupazione israeliana, ndtr.] che era profondamente sbagliato, e stiamo ritornando ad un più equilibrato e serio approccio alla questione come durante la presidenza Reagan.”

La posizione dell’amministrazione Trump sulla questione delle colonie ha generato un diffuso criticismo da parte della leadership e degli attivisti palestinesi, così come da parte della comunità internazionale, che a larga maggioranza considera le colonie essere il principale ostacolo per la pace nella regione.

Anche l’ambasciatore statunitense in Israele, David Friedman, si è rivolto al forum, sottolineando la nuova posizione americana, secondo la quale le circa 200 colonie presenti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est non rappresentano una violazione delle leggi internazionali.

“Gli israeliani hanno il diritto di vivere in Giudea e Samaria,” ha detto Friedman, elogiando la precedente decisione del presidente degli Stati Uniti Trump di riconoscere la sovranità di Israele su Gerusalemme e sulle alture del Golan.

Pare che siano già in corso degli sforzi coordinati da parte dei governi di Netanyahyu e Trump per estendere la sovranità israeliana sulla Cisgiordania.

Nel suo discorso Bennett ha anche dichiarato come da circa un mese abbia iniziato a sviluppare piani per imporre la sovranità israeliana sul terreno, e ha lasciato intendere come abbia discusso con l’amministrazione Trump per “[spiegare] il modo in cui lo Stato di Israele farà tutto il possibile per garantire che queste aree siano parte dello Stato di Israele”.

Fatti sul terreno

La spaventosa realtà delle parole di Bennett è che la “guerra” di Israele a proposito dell’Area C rappresenta più delle semplici promesse di un politico.

All’incirca nello stesso momento in cui Bennett faceva la sua dichiarazione, il presidente dell’Autorità Palestinese della Commissione Contro il Muro e le Colonie, Walid Assaf, ha annunciato che nel 2019 sono state demolite dalle autorità israeliane circa 700 costruzioni palestinesi, di cui 300 demolizioni nella sola Gerusalemme.

Solo il giorno prima, l’Alta Corte di Giustizia israeliana aveva dato torto a un gruppo di cittadini palestinesi che chiedevano l’annullamento del piano regolatore per le colonie di Ofra, visto che tale piano include circa 5 ettari di terreni privati palestinesi.

E il giorno prima ancora, un’organizzazione di monitoraggio delle colonie, Peace Now, ha riportato che l’amministrazione civile israeliana ha annunciato piani per costruire 1936 abitazioni nelle colonie. Il gruppo ha fatto notare come “l’89% delle unità immobiliari proposte sono in colonie che gli israeliani potrebbero dover evacuare in caso di un futuro accordo di pace coi palestinesi.”.

Hanan Ashrawi, importante dirigente palestinese, ha dichiarato giovedì che Israele ha accelerato i suoi progetti per creare uno stato di “annessione de facto” della Cisgiordania: “Israele sta perseguendo una annessione silenziosa della terra palestinese per impedire in maniera definitiva il diritto fondamentale del popolo palestinese alla libertà e alla giustizia”.

(traduzione dall’inglese di Giacomo Ortona)