Come Ibrahim al-Nabulsi è diventato il “Leone di Nablus”

Mariam Barghouti

15 agosto 2022 Mondoweiss

Ibrahim Al-Nabulsi ha dimostrato che è possibile riaccendere lo spirito di resistenza di una nuova generazione. Ecco perché Israele lo ha ucciso.

Huda, o Um Eyad, madre di Ibrahim al-Nabulsi, combattente della resistenza ucciso a 18 anni, siede accanto alla sua unica figlia e unica sorella di Ibrahim, Shahd al-Nabulsi, 23 anni.

L’abito blu scuro di Shahd contrasta con il suo pulito velo viola. C’è una macchia sotto le sue mani, sul lato sinistro dell’abito. Leggermente più scura del resto del vestito, sembra fuori luogo. Um Eyad cattura il mio sguardo. «È il sangue di Ibrahim, questa macchia», dice. Proprio il giorno prima, il 9 agosto, Um Eyad ha perso il suo terzogenito, Ibrahim, che non avrebbe più compiuto i 19 anni in ottobre.

Nel pomeriggio, il cimitero Gharbiyyeh di Khallet al-Amoud a Nablus si è appesantito di tre corpi. Ibrahim al-Nabulsi, Hussein Taha e Islam Subuh vi riposano in pace. I tre sono stati uccisi il 9 agosto nella città vecchia di Nablus, nella Cisgiordania settentrionale occupata, in un’operazione militare israeliana in coordinamento con l’intelligence israeliana.

Um Eyad è ora facilmente riconoscibile – i social media palestinesi sono stati inondati dalla sua immagine che fendeva la folla di migliaia per lo più uomini che assistitevano al funerale dei martiri, portando il cadavere del “Leone di Nablus“.

Era un quadro diverso dalle immagini comuni di uomini che trasportano i morti. Non lo faceva perché era il corpo di una nuova icona palestinese – era suo figlio.

Il 10 agosto, all’interno della piccola sala di comunità nel quartiere Khallet Al-Amoud della Città Vecchia di Nablus, le donne sedevano in abiti neri a contrasto con le luminose sciarpe bianche sulle teste. Le spalle coperte da kuffiyeh palestinesi bianche e nere rendevano più facile a coloro che porgevano le condoglianze distinguerle dal resto della folla di donne in lutto.

Il più giovane dei martiri, Hussein Taha, aveva solo 16 anni quando fu ucciso. Sua madre e sua sorella sedevano accanto a Um Eyad, in lacrime e sorrisi stentati nel riconoscere gli ospiti che si radunavano. Anche il maggiore dei martiri, Islam Subuh, 32 anni, è stato ucciso nella battaglia, un evento che segna ora una nuova era della resistenza armata palestinese.

La stanza era piena di madri, mogli e sorelle di martiri palestinesi uccisi dal regime coloniale. Sulla scena continuavano ad arrivare autobus con le famiglie dei martiri di Jenin e altre zone della Cisgiordania. Le giovani donne della piccola città di Khallet al-Amoud si muovevano rapidamente per servire caffè – una tradizione del lutto in Palestina – e acqua per la sete delle persone in lutto col caldo.

“Gli avevo comprato un cappellino”, ha detto a Mondoweiss Shahd, 23 anni, il giorno dopo l’assassinio di suo fratello Ibrahim nel municipio a poche centinaia di metri dalla casa di famiglia. Trattenendo le lacrime, Shahd si dispera di non aver potuto darglielo. Fa un respiro e sussurra una preghiera, “al-hamdulilah [lode a Dio]”, un’espressione di umiltà e gratitudine per il proprio destino, comunemente ripetuta sia nei momenti di difficoltà che di gioia.

“Era così amato nella comunità”, ha detto a Mondoweiss Haifa, la zia di al-Nabulsi, 41 anni. “Era anche così ribelle e tenace. È cresciuto in queste strade, non sono strade facili in cui crescere, specialmente nei primi anni di infanzia”.

Ibrahim è nato nel 2003, nel pieno della Seconda Intifada, quando la città natale di Nablus era costantemente sotto assedio da parte dell’esercito israeliano.

Dalla sua nascita, ogni anno sempre più bambini palestinesi come lui venivano uccisi e arrestati dall’esercito israeliano. Proprio l’anno scorso, il 2021, è stato documentato come il più letale per i bambini palestinesi dal 2014, per via degli attacchi israeliani da parte di coloni e militari.

Incastrato tra le antiche mura

Nella Città Vecchia, ogni angolo reca le tracce di una battaglia che i palestinesi hanno combattuto contro i coloni o l’esercito israeliano. E se no le vecchie mura sono segnate da pietre più recenti, di ristrutturazioni seguite alle parziali distruzioni della città durante le invasioni.

La città vecchia di Nablus è piena di manifesti di palestinesi uccisi, da combattenti della resistenza a bambini trattenuti ai posti di blocco. Poster appena stampati con foto di al-Nabulsi e dei suoi compagni caduti decorano le pareti. Alcuni striscioni sembrano più vecchi dello stesso al-Nabulsi, ma in agosto il quartiere di Faqous nella Città Vecchia si è riempito della storia del “Leone di Nablus” palestinese.

“Fammi una foto, fammi una foto”, dice uno dei bambini, chiamandomi mentre mi dirigo verso il quartiere di Al-Faqous, alla ricerca delle tracce dell’assalto israeliano del 9 agosto.

Il bambino, con il suo cane Luka, posa con gli amici. Mentre il fotografo scatta la foto, noto una collana sul collo del ragazzo, con la foto di un altro ragazzo. La collana somiglia ad altre che avevo visto prima sul collo delle donne nella sala del lutto, immagini di familiari uccisi o imprigionati.

Gli ho chiesto chi era nella foto. «Un mio amico », dice con un sorriso timido.

Subito ho pensato che fosse suo padre, suo fratello o suo zio, perché nella cultura palestinese queste collane non servono semplicemente per commemorazione o esibizione, ma sono autentiche testimonianze della perdita di una persona cara per mano dell’occupazione. Non mi ero resa conto che la foto fosse di un altro ragazzo.

L’amico del ragazzo era Ghaith Yamin, il sedicenne ucciso a Nablus con un colpo di arma da fuoco alla testa mentre si trovava sul tetto di casa sua, vicino alla Tomba di Giacobbe, quando lo scorso 24 maggio l’esercito israeliano ha fatto irruzione nella città.

In qualche modo ho capito l’ostilità di cui parlava Haifa solo poche ore prima ricordando l’infanzia di al-Nabulsi. La continua violenza a cui hanno assistito bambini, giovani e adulti palestinesi di ogni ceto e in modi così diversi si sentiva più cocente mentre il ragazzo cercava di confortare Luka, che si era messa ad abbaiare.

La luna sorta e alta in cielo, la moschea Khudari nella Città Vecchia fa eco alla chiamata alla preghiera maghrebina, “Allahu Akbar [Dio è grande]”. Un mantra islamico che significa umiltà; i vicoli risuonano ricordando che solo Dio è grande e il resto è solo umanità. La luce dorata che baluginava pochi istanti prima è scomparsa e la porta crivellata di proiettili dove sono stati uccisi al-Nabulsi e Subuh diventa invisibile.

Un gruppo di uomini nelle vicinanze segue la mia intrusione. Eppure, se un turista fosse passato vicino non si sarebbe reso conto del delitto perpetrato lì solo due sere prima.

Il cucciolo testardo

Secondo chi l’ha conosciuto, prima di diventare un combattente della resistenza al-Nabulsi era un tipico adolescente, leale e aggressivo allo stesso tempo. Le storie che sua zia raccontava mi hanno ricordato molti uomini, un tempo ragazzi, che ho incontrato nelle città della Palestina. Al-Nabulsi è ricordato da bambino come un “Nimrood”, termine preso a prestito dalla storia biblica di Nimrod per indicare lo spirito di un ribelle che rifiuta di sottomettersi all’autorità.

I vicoli di Al-Faqous e le macerie lasciate dall’esercito israeliano all’interno dell’edificio in cui fu assassinato al-Nabulsi richiamano alla memoria le violente invasioni dell’esercito israeliano nel 2002 a Nablus e Jenin.

All’epoca, la Città Vecchia era obiettivo di una spietata campagna militare di bombardamenti e scontri di strada, che danneggiavano non solo i rifugi, i mezzi di sussistenza e le persone palestinesi, ma distruggevano anche reperti storici in una città fra le più antiche al mondo. È stato anche il momento in cui le autorità e i ministri israeliani hanno impostato la famigerata politica del “fuoco aperto”.

Quasi esattamente due decenni dopo la scena sembra familiare ai residenti. Il sangue di al-Nabulsi, o forse Subuh, è schizzato sui muri all’interno della casa demolita, segnando il luogo della loro ultima resistenza. Se non avessimo avuto le torce sarebbe stato difficile capacitarci dell’entità del crimine. In un angolo di quella che sembra essere stata usata come cucina c’era un unico sacchetto di pane pita e una padella. Tra i detriti anneriti c’era il marrone e giallo brillante di una tavoletta di cioccolato Aero, mai aperta.

La dichiarazione di due decenni fa, quando nei primi anni 2000 il governo israeliano stava decidendo di lanciare un attacco, sembra ancora attuale: “Israele agirà per sconfiggere l’infrastruttura del terrore palestinese in tutte le sue sezioni e componenti; a tal fine, sarà intrapresa una vasta azione fino a quando questo obiettivo non sarà raggiunto”. In quegli anni, intere città erano sottoposte al coprifuoco, e le persone potevano uscire di casa solo per fare la spesa ogni tre o quattro giorni ad un’ora stabilita.

La pandemia mondiale di COVID-19 ha forse dato al mondo un piccolo assaggio di cosa significhi essere costretti a rimanere chiusi in casa per lunghi periodi di tempo, anche se senza la costante minaccia di bombe e morte che incombe su di te da ogni parte. Nell’infanzia di al-Nabulsi, questa non solo era la norma, era anche imposta dai carri armati e dalle truppe paramilitari israeliane che hanno in seguito ammesso di aver commesso crimini di guerra.

Ancora ai nostri giorni i ministri israeliani giustificano quei crimini esaltandone la capacità di scoraggiare l’attività di resistenza. Eppure, più di due decenni dopo, la falsità delle affermazioni di Israele è evidente nella persistenza della resistenza palestinese. Ciò sottolinea che la strategia militare di Israele non solo si è rivelata inefficace, ma fa anche un uso ambiguo della voce “sicurezza nazionale” per nascondere le politiche criminali di pulizia etnica

Ibrahim al-Nabulsi, nato anche lui al culmine della Seconda Intifada palestinese, divenne rapidamente una leggenda nelle strade palestinesi e tra la sua generazione. La resistenza palestinese si è scontrata con carri armati, missili e distruzioni di massa. Circa un mese prima di nascere, al-Nabulsi ancora nel grembo materno, i militari israeliani demolirono un edificio di 7 piani come punizione collettiva usando l’artiglieria pesante sulle case dei civili. Solo tre anni prima, un’immagine di Faris Odeh, il bambino che affrontava un carro armato militare israeliano a Gaza, si diffuse in tutto il mondo, impersonando la battaglia tra il proverbiale David palestinese che affronta un imponente Golia israeliano.

I primi anni dell’infanzia di al-Nabulsi hanno coinciso con i crimini militari israeliani nei campi profughi di Jenin e Nablus tra il 2001 e il 2004. Nonostante la conferma e l’ampia documentazione, i comandanti e i soldati israeliani non sono ancora stati incriminati.

A quel tempo, anche la Cisgiordania stava esplodendo grazie ai combattenti della resistenza armata palestinese. Nel marzo 2002 il regime israeliano lanciò l’Operazione Scudo di Difesa, che ha una sorprendente somiglianza con l’attuale campagna lanciata esattamente 20 anni dopo nel marzo di quest’anno, Operazione Break the Wave. Che comprende l’operazione Breaking Dawn, l’attacco di tre giorni alla Striscia di Gaza in cui sono stati uccisi decine di civili, compresi molti bambini.

Un dispaccio ufficiale dell’esercito israeliano ha definito i “risultati” dell’operazione Scudo di Difesa in termini di arresto di “molti terroristi ricercati” e sequestro di “quantità enormi di armi” da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Questo ha segnato il momento in cui la strategia israeliana di sradicare sistematicamente i rifugi della resistenza palestinese ha portato all’emarginazione di gruppi armati come la Brigata dei martiri di Al-Aqsa (l’ala militare di Fatah) all’interno del panorama politico della Cisgiordania. Secondo quanto riferito, Al-Nabulsi era diventato un membro proprio di quella brigata, che, nonostante la campagna di repressione israeliana e la collusione dell’Autorità Nazionale Palestinese nel disarmo, è riuscita a sopravvivere e riorganizzarsi, stabilendo una presenza crescente anche se tenue in luoghi come Jenin e la Città Vecchia di Nablus.

Le parole della madre di al-Nabulsi, Um Eyad, mi risuonano ancora nelle orecchie quando diceva: “Non voglio concedergli nemmeno le mie lacrime. Ibrahim è un martire, al-hamdulilah». Queste parole non sembravano consolare davvero il suo dolore, ma almeno consentivano di collocarlo in una speranza di cambiamento.

Dopo essere scoppiata a gridare in ospedale quando il dottore ha annunciato scusandosi “istash-had [è stato martirizzato]”, Um Eyad ha in seguito detto a una folla di persone in lutto: “Si sbagliano se pensano di aver ucciso Ibrahim. Tutti sono Ibrahim”.

Considerando quelle parole ho pensato alla forza di questa donna, a come ha messo da parte il proprio dolore per dimostrare a tutti il vero significato del sacrificio di Ibrahim. Poi ho detto fra me e me una preghiera: che nessuna madre sia messa nella posizione di trovare in qualche modo la forza di portare come simbolo il nome del figlio ucciso.

Dopo aver raccontato diverse storie di famiglie di martiri e aver assistito al dolore di mia madre quando suo nipote fu ucciso nella Seconda Intifada, ho appreso necessariamente un diverso tipo di dolore. Non è semplicemente la perdita di un figlio, un fratello, un marito, una figlia, una sorella o una moglie: è la brutalità della perdita per mano di un regime criminale. Una volta una madre lo descrisse come qualcosa di simile a un costante bruciore nel petto.

Mai nascosto, Al-Nabulsi era connesso alla sua realtà

“È stato come un film dell’orrore, continuo a ricordare i giorni dell’invasione”, ha detto a Mondoweiss accanto al luogo dell’assassinio S., una vicina. “Era così gentile.”

Ha ricordato quando negli ultimi mesi lo vedeva camminare per la Città Vecchia, sfuggendo a diversi tentativi di omicidio israeliani.

“Continuo a non crederci”, dice Shahd, sorella di al-Nabulsi, mentre la sua piccola Mariam si slancia col magro corpo sulle scale di cemento sotto il vestito blu scuro della madre.

Nel mese prima della sua uccisione la Città Vecchia ha visto al-Nabulsi più della sua stessa famiglia. “Mi dispiace, non verrò con te sul luogo [dell’assassinio]”, mi ha detto il ricercatore palestinese residente nella Città Vecchia di Nablus Bassel Kittaneh, da un tetto di fronte alla moschea più vicina al luogo dove al-Nabulsi è stato ucciso. Ha spiegato scusandosi: “Non sono ancora pronto”.

Giorni dopo l’uccisione di al-Nabulsi, Taha e Subuh, i quartieri della Città Vecchia erano ancora pieni di vita. Nonostante la terribile perdita, c’è stata una rinnovata fiamma di sfida che il suo personaggio ha acceso – una dimostrazione di rispetto per come un giovane quale al-Nabulsi sia stato in grado di compattare la forza di uno degli apparati di sicurezza più potenti del mondo, i Servizi di sicurezza generali (Shin Bet) e l’esercito israeliano, per chiedere il suo assassinio.

Secondo testimoni e residenti della Città Vecchia di Nablus e delle città vicine, al-Nabulsi non si è mai nascosto. Quando lo si vedeva camminare non era necessariamente con orgoglio, ma con una postura che faceva pensare a uno che si assumesse delle responsabilità. Chiunque in Palestina sfogliando TikTok troverà i post di residenti di Nablus che hanno filmato Nabulsi mentre camminava per la Città Vecchia, chiamandolo per nome e scattandosi selfie con lui che sorrideva quasi imbarazzato. Era quasi come se lo stessero salutando, sapendo che prima o poi sarebbe stato martirizzato.

“Era sincero e gentile nei suoi rapporti”, mi ha detto Kittaneh.

Eppure, nonostante la forza e la sfida dimostrate da al-Nabulsi negli scontri, è discutibile che al-Nabulsi costituisse la minaccia che i media e i portavoce militari israeliani hanno fatto credere. Ma ciò che Nabulsi rappresentava – la minaccia di riaccendere lo spirito di resistenza armata in Cisgiordania – era qualcosa che Israele non era disposto a lasciar accadere. In effetti, l’esercito israeliano ha preso di mira i palestinesi sospettati di resistenza armata e li ha assassinati extragiudizialmente come parte dell’operazione ‘Breaking the Wave’.

Funzionari delle Nazioni Unite e organizzazioni per i diritti umani hanno costantemente segnalato la recente intensificazione da parte dell’esercito israeliano delle campagne contro i palestinesi, ricorrendo persino alla pratica illegale della detenzione amministrativa di avvocati per i diritti umani e usando forza letale contro manifestanti palestinesi disarmati.

Il tutto è parte di una strategia di “controllo dell’escalation”, un approccio coercitivo per controllare l’intensificarsi della resistenza in modo da porre l’altra parte in una posizione di svantaggio riducendo la sua capacità di reazione. Anche l’intelligence israeliana e le unità militari hanno dato il via libera e rilanciato la strategia di sparare per uccidere in tutta la Cisgiordania. Ciò è avvenuto mesi prima dell’attacco a Gaza nella prima settimana dell’agosto di quest’anno.

Eppure, nell’assordante sete di annessione e apartheid di Israele, Ibrahim Al-Nabulsi, non ancora 19enne, ha detto addio alla Città Vecchia di Nablus combattendo, armato solo di un fucile.

Secondo i testimoni, Israele ha usato missili a spalla ad alta tecnologia per bombardare il suo rifugio, con fori dei proiettili dappertutto sulla porta di metallo. Un filmato che si dice sia di al-Nabulsi mostra un giovane che spara goffamente con una pistola durante una precedente invasione militare. Senza un addestramento militare formale e con armi obsolete, al-Nabulsi non ha mai avuto una vera possibilità.

Il miracolo è stato che, nonostante l’attacco spietato, in qualche modo al-Nabulsi è uscito vivo dalla devastazione. La morte è stata dichiarata in ospedale circa un’ora dopo.

Il ruggito del leone per la liberazione

L’ascesa di una nuova generazione palestinese di resistenza armata sembra aver creato l’effetto contrario a ciò che l’esercito e il controspionaggio israeliani speravano in termini di “deterrenza”.

“Perfino durante l’ultima ondata di ripresa della resistenza abbiamo visto anche la nascita di nuova vita a Nablus”, ha spiegato Kittaneh a Mondoweiss. “La Città Vecchia sta riacquistando rilievo e il suo antico senso di importanza.”

Kittaneh ha scontato 15 anni con l’accusa di affiliazione alle Brigate Palestinesi Izz el-Din al-Qassam, l’ala militare di Hamas. Fu arrestato lo stesso anno in cui nacque al-Nabulsi. Con la città di Nablus che si stende all’orizzonte alle sue spalle, Kittaneh riflette sulla sua giovinezza. “Ogni generazione reagirà in modo diverso, ma ogni generazione reagirà”, dice a Mondoweiss.

Per garantire il controllo dell’escalation, Israele ha deciso di creare un effetto collettivo di shock e terrore nei palestinesi. Ciò include gli omicidi extragiudiziali di palestinesi come le decine di persone uccise nella prima metà di quest’anno, o l’incarcerazione di bambini di appena 12 anni.

Questa tattica, come ha spiegato la pluripremiata giornalista Naomi Klein, garantisce di infliggere danni emotivi, mentali o fisici in modo progressivo nel tempo, per paralizzare lentamente una popolazione fino all’inerzia. “Lo shock svanisce, ma non quando te lo aspetti, come nel momento preciso della liberazione. . . le esperienze di shock convivono con l’eredità della paura per anni “, ha spiegato Klein in un’intervista.

Le agenzie e i resoconti hanno definito il giovane combattente “comandante supremo” e “militante esperto”, ma al-Nabulsi ha vissuto un’altra vita, quella con i suoi amici e la sua famiglia. “Quando gli chiedevamo perché andasse avanti, rispondeva: ‘Sto facendo rivivere lo spirito di resistenza di un’intera generazione'”, ha detto Shahd a Mondoweiss. Sembra che la resistenza continui ad alimentarsi col riconoscere che non esiste un’infanzia palestinese.

“Quello di cui Israele non ha tenuto conto è che, quando la gente della Città Vecchia ha visto l’esercito israeliano entrare e fare irruzione a Nablus in pieno giorno per arrestare i giovani o assassinarli in quel modo orrendo…” Kittaneh si interrompe mentre dice così, fermandosi un attimo prima di continuare. “La cosa non ha spaventato di più le persone. Al contrario, ha spinto ancora di più i palestinesi verso lo scontro”.

È sempre più evidente che la profondità della sfida di al-Nabulsi e di Subuh deriva dal riconoscimento del fatto che gli è stata rubata l’infanzia, il suo stesso diritto di essere. Mi ricorda le immagini dei bambini che, per quanto piccoli e magri, in qualche modo raccoglievano la forza di affrontare i soldati, rifiutandosi di essere terrorizzati da loro.

Una ninna nanna per la famiglia

Una bambina dorme in grembo alla madre nonostante il caldo di metà pomeriggio a Nablus. Entrano ed escono donne sconosciute che si sporgono sul suo piccolo corpo per rendere omaggio alle tre famiglie che hanno perso i loro figli, uno di soli 16 anni.

“Hayat”, mi dice una donna anziana, indicando la piccola che dorme tra le sue braccia durante il funerale. È la nipote di al-Nabulsi.

«Il suo nome significa vita», dice la donna.

Se al-Nabulsi è celebrato come il “Leone di Nablus”, era anche conosciuto come lo zio giovane e ribelle, critico di tutto ciò che gli era stato detto, impegnato per la sua libertà e la libertà di tutti coloro che lo circondavano, inclusa Hayat .

Pochi giorni dopo la sua morte, la famiglia di Ibrahim si è riunita una sera nella casa di Nablus. La zia di Ibrahim ha continuato a disperarsi per l’assenza del nipote dalle loro vite. “Quando ci sediamo a tavola e la sedia di Ibrahim è vuota sentiamo la sua mancanza”, dice tristemente. “E quando in qualche modo viviamo un momento di gioia, cominciamo tutti a dire ‘se solo Ibrahim fosse con noi.'”

Mariam Barghouti è corrispondente senior dalla Palestina per Mondoweiss.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




“L’impunità a livello internazionale è la colonna portante dell’occupazione israeliana,” afferma un’associazione per i diritti

Anjuman Rahman

10 luglio 2022 – Middle East Monitor

Quando i ragazzi palestinesi, in maggioranza adolescenti, difendono le proprie case e la propria terra, l’esercito israeliano risponde picchiandoli e lanciando contro di loro granate assordanti e lacrimogeni. Si tratta niente meno che di un’aggressione su vasta scala.

“La maggioranza dei minori palestinesi presi di mira dalle forze di occupazione israeliane sono giovani maschi,” afferma Ayed Abu Eqtaish, direttore del programma per la responsabilizzazione di Defence for Children International-Palestine [Difesa Internazionale dei Minori – Palestina] (DCIP).

Secondo un rapporto di DCIP dall’inizio dell’anno 15 minori palestinesi sono stati uccisi dalle forze di occupazione. Tra le vittime ci sono stati Muhammad Akram Ali Abu Salah, Sanad Muhammad Khalil Abu Attia, Muhammad Hussein Muhammad Qassem e Amjad Walid Hussein Fayed, tutti sedicenni, e Shawkat Kamal Shawkat Abed, di 17 anni.

DCIP aggiunge che il 13 febbraio un cecchino israeliano ha ucciso colpendolo a un occhio il sedicenne Muhammad Abu Salah, abitante del villaggio di Al-Yamoun, a Jenin.

“Le violazioni dei diritti umani dei minori palestinesi sono causate dalla presenza delle forze di occupazione israeliane nei territori palestinesi occupati,” afferma Ayed.

“Nonostante i numerosi strumenti giuridici e i criteri che la comunità internazionale ha cercato di istituire per proteggere i diritti dei minori, nel corso degli anni la quantità delle violazioni nei confronti dei minorenni continua a peggiorare.”

“Per esempio lo scorso anno abbiamo documentato l’uccisione di 78 minori palestinesi per mano dell’esercito israeliano, 61 dei quali nella Striscia di Gaza e 17 in Cisgiordania.”

“Sessanta dei 61 morti nella Striscia di Gaza sono stati uccisi durante l’attacco militare contro Gaza nel maggio 2021. Ma, cosa più importante, dalla nostra documentazione vediamo che non era necessario sparare per uccidere i minori palestinesi, perché essi non rappresentavano alcuna minaccia alla vita dei soldati israeliani.”

I bombardamenti aerei e da terra durante l’aggressione di 11 giorni hanno ucciso 253 palestinesi e ferito più di 1.900 persone.

DCIP documenta l’arresto, il ferimento, la morte e l’incarcerazione di ragazzi e giovani palestinesi e offre difesa legale a quanti sono processati nei tribunali militari israeliani.

“Durante gli ultimi 10 anni per l’uccisione di un minore palestinese è stato rinviato a giudizio solo un soldato israeliano, e la condanna che ha subito è stata meno grave di quella a cui viene condannato un minore palestinese per aver lanciato una pietra contro un veicolo israeliano.”

Secondo Ayed questo è un doloroso ma perfetto microcosmo della politica israeliana di totale impunità, del suo sistema giudiziario corrotto e delle amare frustrazioni della lotta dei palestinesi per vivere nelle proprie case sulla propria terra.

Il problema principale, spiega, è incentrato sul livello di responsabilizzazione e impunità di cui godono i soldati agli occhi della comunità internazionale. “L’impunità a livello internazionale è la colonna portante dell’occupazione israeliana,” afferma.

I soldati che prestano servizio nei territori occupati sanno benissimo che quasi tutto quello che fanno verrà giustificato. Non saranno mai puniti né da Israele né dalle sue autorità né da chiunque altro. Le uccisioni, le incursioni notturne, gli arresti e le detenzioni senza processo, le punizioni collettive, le demolizioni di case, le confische di terre, l’espansione delle colonie e lo sfruttamento delle risorse naturali da parte delle forze di occupazione sono sistematicamente tollerate.

I dati raccolti dall’associazione israeliana per i diritti umani Yesh Din mostrano che solo il 2% delle denunce contro soldati israeliani presentate da palestinesi porta a incriminazioni. Nel contempo oltre l’80% dei casi vengono chiusi senza che venga svolta neppure un’inchiesta penale.

“Nonostante le molte violazioni delle leggi internazionali sui diritti umani, Israele non è stato chiamato a rispondere di nessuna delle sue prassi brutali e pensa di avere il permesso di continuare con le sue uccisioni e violazioni dei diritti dei civili palestinesi, compresi i minorenni.”

Oltre a questo disinteresse, Ayes accusa la comunità internazionale di applicare in modo palese un doppio standard nella risposta all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Non c’è differenza tra l’invasione di Kyiv da parte di Mosca e l’illegale occupazione delle terre palestinesi da parte di Israele, spiega.

“Non c’è la volontà politica da parte della comunità internazionale di rispettare i propri obblighi giuridici, cioè punire e sanzionare Israele per le sue pratiche illegali. Tutto quello che sta facendo è sacrificare le proprie responsabilità riguardo ai diritti umani per mantenere buoni rapporti politici e diplomatici con Israele.”

Egli denuncia anche l’ONU per non aver punito adeguatamente Israele, in particolare per essersi rifiutata di includere Israele nella lista di chi viola i diritti dei minori e nel rapporto su Minori e Conflitti Armati, dopo una delle più letali guerre israeliane contro Gaza nel 2014.

“Il numero di minori palestinesi uccisi quell’anno è stato il più alto a livello internazionale e, nonostante la nostra insistenza presso l’ONU perché aggiungesse Israele alla lista degli eserciti e gruppi armati che violano i diritti dei minori, essa si è ripetutamente rifiutata.”

Ogni anno DCIP raccoglie centinaia di testimonianze di minori palestinesi arrestati e sottoposti a lunghi interrogatori senza la presenza di un familiare, un tutore o un avvocato.

Spesso i minori sono obbligati a firmare false confessioni in documenti scritti in ebraico, una lingua che la maggioranza dei minori palestinesi non conosce. Oltretutto, mentre le leggi militari e civili israeliane fissano a 12 anni l’età minima per la responsabilità penale, DCIP afferma che le forze israeliane arrestano regolarmente minori palestinesi con un’età inferiore.

“Le dichiarazioni che raccogliamo rendono l’idea di come il sistema stia funzionando e delle tipologie di maltrattamenti e torture a cui sono sottoposti i minori, che poi noi utilizziamo per costruire le nostre campagne di sensibilizzazione,” afferma Ayed.

“Quello che riscontriamo è che fin dal momento dell’arresto i minori palestinesi subiscono maltrattamenti e torture per mano delle forze israeliane. Tre su quattro durante l’arresto o l’interrogatorio sperimentano violenze fisiche, che comprendono schiaffi, calci, pugni, e i minori vengono obbligati a stare seduti in posizioni dolorose.”

Nel contempo minori detenuti da Israele soffrono anche di pesanti violenze psicologiche consistenti in detenzione in isolamento, minacce contro le loro famiglie, intimidazioni e incarcerazione senza processo in base alla detenzione amministrativa.

Inoltre nelle prigioni non ci sono consulenti psicologici e, nonostante la loro età, spesso vengono tenuti insieme a delinquenti israeliani. Il loro arresto avviene spesso di notte e comprende metodi inumani di contenzione e trasporto intesi a distruggerne l’animo. Tutto il processo ha un profondo effetto psicologico, fisico e sociale su di loro.

“Metodi di tortura psicologica sono utilizzati per esercitare il massimo di pressione possibile sulla persona sotto interrogatorio per spezzarne la resistenza,” spiega Ayed.

“Crediamo che ogni minore che passa attraverso questo sistema ne rimarrà psicologicamente colpito, perché tutto il sistema israeliano è inteso ad attaccare non solo il fisico, ma anche la mente e il benessere psicologico di questi minori. Vogliono spezzarli dentro.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Dopo la morte di una anziana detenuta i palestinesi accusano il carcere israeliano di non averla curata

Redazione di MEE

2 luglio 2022 – Middle East Eye

Saadia Farajallah, la più anziana detenuta palestinese, è morta sei mesi dopo essere stata aggredita da forze israeliane durante l’arresto

L’Associazione dei Detenuti Palestinesi ha informato che sabato [2 luglio], sei mesi dopo essere stata picchiata ed arrestata da forze israeliane nei pressi di un posto di controllo dell’esercito a Hebron, in un carcere israeliano è morta una sessantottenne palestinese.

L’Associazione dei Prigionieri ha accusato le autorità del carcere di Damon di non averle prestato le cure necessarie, in quanto a causa di molteplici patologie croniche, tra cui la pressione alta e il diabete, negli ultimi tempi la salute di Saadia Farajallah era peggiorata.

Afferma che le forze israeliane hanno brutalmente aggredito Farajallah quando il 18 dicembre 2021 l’hanno arrestata nella città vecchia di Hebron perché secondo loro avrebbe tentato un accoltellamento, e ciò ha peggiorato le sue già precarie condizioni di salute.

Il responsabile della Commissione dei Prigionieri ed Ex-Prigionieri, Ibrahim Najajra, ha smentito le affermazioni israeliana riguardo all’incidente, sostenendo che le condizioni di Farajallah le avrebbero impedito qualsiasi sforzo, tanto meno di tentare un’aggressione.

“Al momento la causa della sua morte non è chiara, ma le prime informazioni indicano che ha avuto un infarto ed è morta nella prigione di Damon,” dice Najajra a Middle East Eye.

“Il decesso di Saadia è una conseguenza della mancanza di cure mediche, (le autorità israeliane) non le hanno fornito assistenza adeguata, e della lunga detenzione in condizioni insalubri.”

La morte di Farajallah, la detenuta palestinese più anziana, porta a 230 il totale dei palestinesi deceduti nelle prigioni israeliane dal 1967.

Najajra ha sostenuto che il tribunale israeliano ha ripetutamente respinto le richieste degli avvocati di rilasciare Farajallah, a cui durante la detenzione sono state negate le visite dei familiari.

L’Associazione dei Detenuti Palestinesi ha affermato che Farajallah ha perso conoscenza dopo aver fatto le abluzioni per la preghiera del mattino. Le compagne di detenzione l’hanno subito portata all’ambulatorio della prigione, dove è deceduta.

L’Associazione dei Detenuti afferma che il 28 giugno Farajallah aveva assistito a un’udienza in tribunale su una sedia a rotelle, e in quell’occasione il pubblico ministero aveva chiesto una condanna a cinque anni di prigione e al pagamento di un’ammenda di 15.000 shekel (circa 4.000 €). In seguito a esami medici che avevano evidenziato il peggioramento del suo stato di salute la sua avvocatessa aveva chiesto che le autorità carcerarie la facessero visitare da uno specialista.

Najajra afferma che la commissione dei detenuti cercherà di avviare un’indagine per scoprire la causa della morte di Farajallah e le circostanze che l’hanno determinata.

Secondo l’associazione palestinese per i diritti dei detenuti Addameer nelle prigioni israeliane ci sono 4.700 palestinesi, tra cui 32 donne e 170 minorenni.

Circa 640 di questi si trovano in “detenzione amministrativa”, un controverso provvedimento che Israele adotta per tenere in carcere [palestinesi] senza accuse o processo per periodi rinnovabili da tre fino a sei mesi.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Un detenuto palestinese entra nel novantaseiesimo giorno di sciopero della fame, nonostante le condizioni di salute critiche.

Redazione di Middle East Monitor

Martedì 7 giugno 2022 – Middle East Monitor

In Israele un detenuto palestinese, Khalil Awawdeh, si trova in gravi condizioni di salute in quanto è arrivato al novantaseiesimo giorno di sciopero della fame per protestare contro la sua detenzione amministrativa, senza processo o accuse.

Khalil, padre di quattro figli, è stato imprigionato il 27 dicembre 2021 e messo in detenzione amministrativa – una norma che permette alle autorità israeliane di tenere in carcere chiunque per un periodo di sei mesi senza accuse o processo e che può essere esteso indefinitamente.

Secondo la Palestinian Prisoner Society (PPS) [organizzazione non governativa, N.d.T.], il prigioniero palestinese di quaranta anni ha difficolta a parlare e a comunicare. Soffre anche di forti dolori in tutto il corpo, specialmente agli arti inferiori e ai muscoli.

In seguito alla visita alla prigione di Ramleh, nella zona centrale di Israele, un legale della PPS, Jaward Boulos, ha riferito che oltre alle difficoltà alla vista, Khalil sta anche vomitando sangue e ha difficoltà di respirazione.

In precedenza era stato trasferito in ospedale, ma poi, nonostante le sue condizioni di salute, è stato riportato nell’infermeria della prigione di Ramleh.

Ieri i palestinesi hanno organizzato una manifestazione nella Striscia di Gaza per esprimere solidarietà a Khalil e a un altro detenuto in sciopero della fame, Raed Rayan, che sta protestando anche lui per la detenzione amministrativa.

Organizzata dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) [storico gruppo marxista della resistenza armata palestinese, N.d.T.], la manifestazione si è tenuta fuori dall’ufficio della Croce Rossa Internazionale a Gaza City.

Lo Stato di Israele è pienamente responsabile per la vita dei palestinesi in sciopero della fame,” ha detto alla manifestazione Awas Al-Sultan, un membro del FPLP.

Egli ha invitato le organizzazioni internazionali che si occupano di diritti umani ad inviare squadre di medici per esaminare le condizioni dei palestinesi in sciopero della fame e “per fare luce sulle sofferenze dei detenuti nelle carceri israeliane”.

Secondo l’organizzazione non governativa Palestine Prisoner Society nelle carceri israeliane ci sono circa 4.700 detenuti, di cui 600 senza accusa o processo.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Israele accusa dei giornalisti palestinesi di istigazione alla violenza per aver svolto il loro lavoro

Yuval Abraham

5 aprile 2022 – +972 magazine

Dei giornalisti palestinesi sono stati interrogati e imprigionati da Israele per aver documentato proteste, funerali e altri eventi politici, inducendo molti di loro all’autocensura.

Questo articolo è stato pubblicato in collaborazione con Local Call e The Intercept.

Durante la violenta escalation della primavera del 2021 in Israele-Palestina Hazem Nasser ha fatto ciò che gli era stato richiesto: ha iniziato a riprendere. A quel tempo Nasser lavorava come giornalista per la rete televisiva palestinese Falastin Al-Ghad [Palestina Domani, ndtr.], in cui i filmati di Nasser documentavano le crescenti tensioni tra le marce nazionaliste ebraiche, le manifestazioni palestinesi e la brutalità della polizia israeliana a Gerusalemme.

Il 10 maggio Nasser ha deciso di riprendere uno scontro tra manifestanti palestinesi e l’esercito israeliano nella Cisgiordania settentrionale occupata. La giornata è rimasta impressa nella memoria di Nasser, non per lo scontro in sé, né per gli attacchi militari iniziati più tardi quella sera tra Hamas e Israele, ma per quello che gli è successo in seguito.

Nasser stava tornando a casa quando è stato fermato dai soldati israeliani al checkpoint di Huwara [a sud di Nablus, ndtr.] e portato via per essere interrogato. Nasser ha languito in carcere per più di un mese mentre lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interna israeliano, lo interrogava ripetutamente.

“Tutte le domande riguardavano il mio lavoro di giornalista“, ha riferito Nasser. Mettevano sul tavolo le immagini delle mie riprese video, tra cui il funerale di un palestinese, la gente che si radunava per una protesta, una piazza che inneggiava a uno shaheed (martire), una manifestazione con le bandiere di Hamas. Chi mi interrogava mi diceva che non potevo fotografare quelle cose, perché costituivano delle istigazioni alla violenza. Gli rispondevo che sono un giornalista e questo è il mio lavoro: mostrare immagini di cose che accadono e che le testate israeliane fanno la stessa cosa. Lui mi urlava di tacere“.

A metà giugno Nasser, che ha 31 anni e viene dal villaggio di Shweikeh nella Cisgiordania occupata, è comparso davanti a un tribunale ed è stato accusato di istigazione alla violenza. Invece di concentrarsi sul suo lavoro giornalistico, come era stato fatto durante gli interrogatori, l’accusa ha elencato quattro vecchi post su Facebook che egli aveva scritto tra il 2018 e il 2020, periodo in cui ha pubblicato più di 1.000 post. Il capo d’imputazione affermava, tra l’altro, che egli aveva lodato l’assassinio nel 2001 di Rehavam Ze’evi [ex-generale e fondatore del partito di estrema destra Modelet, ndtr.], un ministro del turismo israeliano, e chiamato un “eroe” un militante palestinese accusato di aver ucciso due israeliani.

Una possibile ragione per cui il lavoro di Nasser non compariva nell’atto d’accusa – nonostante fosse stato al centro degli interrogatori – è che neppure nei tribunali militari dell’occupazione israeliana tra i criteri riguardanti l’istigazione vengono inclusi il giornalismo o la semplice documentazione degli eventi. Indipendentemente da ciò, Nasser crede che lo scopo degli interrogatori e delle accuse fossero gli stessi: dissuaderlo dal documentare gli abusi di Israele contro i palestinesi. Non è per niente lunico caso tra i giornalisti palestinesi.

Non fanno distinzione tra giornalista e chi ha un ruolo attivo

Dall’inizio del 2020 in Cisgiordania Israele ha imprigionato almeno 26 giornalisti palestinesi. Nella maggior parte dei casi essi sono stati posti in detenzione amministrativa – un metodo comune utilizzato da Israele per trattenere i palestinesi senza formalizzare le accuse – per un periodo compreso tra sei settimane e un anno e mezzo. Nove di questi giornalisti sono stati incriminati, quasi sempre per istigazione, e hanno trascorso in media circa otto mesi in stato di detenzione.

Secondo Saleh al-Masri, a capo del Journalist Support Committee in Palestine [Comitato di sostegno per i giornalisti in Palestina, ONG che protegge e promuove la libertà di espressione e i diritti dei giornalisti in Palestina, ndtr.], a marzo 2022 nelle carceri israeliane c’erano 10 giornalisti palestinesi con accuse riguardanti la pubblicazione di materiale online – sia come privati ​​​​che attraverso il loro lavoro professionale – considerata “istigazione”. Tre dei giornalisti incarcerati si trovano in detenzione amministrativa, tre sono stati incriminati e quattro sono detenuti e sottoposti ad interrogatori nell’ambito delle indagini (altri sette giornalisti sono stati incarcerati con l’accusa di aver preso parte ad attività violente non aventi nulla a che fare con il lavoro giornalistico) .

Utilizzando interviste, resoconti dei media e documenti legali, +972, Local Call [riviste on line, la seconda in lingua ebraica, fondate e prodotte da un unico gruppo editoriale, impegnate su tematiche di giustizia sociale, diritti e libertà di informazione, ndtr.] e The Intercept [rivista internazionale on line, con sede negli USA, impegnata, tra l’altro, sul tema degli abusi della giustizia e delle violazioni delle libertà civili, ndtr.] hanno esaminato i procedimenti giudiziari contro molti dei giornalisti trattenuti dalle forze di sicurezza israeliane in relazione alla loro pubblicazione di materiale. Nelle interviste con noi, così come con altri media, sette dei giornalisti hanno affermato che durante i loro interrogatori agenti della sicurezza israeliani hanno mostrato loro dei video di notizie che avevano girato, spesso riguardanti scontri tra palestinesi e forze israeliane, cortei politici o funerali. Gli inquirenti hanno detto ai giornalisti che le immagini costituivano “istigazione” e hanno ordinato loro di smettere di documentare quegli eventi.

In alcuni casi i giornalisti sono stati successivamente incriminati con accuse estranee alla loro attività professionale; in altri non è stata presentata alcuna accusa e il giornalista è stato incarcerato senza processo e infine liberato (lo Shin Bet non ha risposto a una richiesta di commento).

“Gli arresti di solito avvengono mentre i giornalisti sono sul campo”, ha affermato Shireen Al-Khatib, l’incaricata del monitoraggio e della documentazione del Palestine Center for Development and Media Freedoms (MADA) [Centro palestinese per lo sviluppo e la libertà dei media, ndtr.], che promuove e difende la libertà di espressione e dei media nei territori occupati.

“Durante l’interrogatorio”, continua, “al giornalista viene detto che le notizie che pubblica su Facebook sono considerate istigazione – e che, sebbene stia solo riportando delle notizie, il fatto che siano rese pubbliche equivale a istigazione. Spesso il giornalista viene accusato di aver partecipato a un evento politico come fotografo o giornalista. Ma [le autorità israeliane] non fanno distinzione tra un giornalista che è sul campo come parte del suo lavoro e un partecipante attivo”.

Al-Khatib, che ha intervistato decine di giornalisti palestinesi interrogati dallo Shin Bet, afferma che il risultato di questo trattamento è che i giornalisti palestinesi vivono in un costante stato di paura che spesso porta all’autocensura.

“Come se il problema fosse la videocamera, non la realtà

Altri giornalisti palestinesi hanno offerto resoconti che coincidono con l’esperienza di Nasser. Sameh Titi, un giornalista di 27 anni del campo profughi di al-Arroub in Cisgiordania, documenta quanto succede nella sua zona per Al Mayadeen, un canale di notizie arabo con sede in Libano che si dice sia allineato con il gruppo armato Hezbollah. Nel dicembre 2019 è stato arrestato dalle forze di sicurezza israeliane.

Titi riferisce che chi lo sottoponeva all’interrogatorio ha aperto il suo profilo Facebook per poi mostrargli le immagini del suo stesso lavoro. “Mi ha mostrato un servizio sulla chiusura dell’ingresso del campo di al-Arroub da parte dell’esercito”, dice Titi. “Chi mi interrogava mi ha detto: ‘Non ti è permesso di riprendere postazioni militari'”. L’inquirente ha anche sollevato il fatto della presenza di Titi a eventi legati al Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FPLP), un gruppo politico di sinistra che Israele considera un’organizzazione terroristica.

Come Titi e altri, Tareq Abu Zeid, un cine-operatore di Jenin, è stato arrestato nell’ottobre 2020 e interrogato dallo Shin Bet nella sua struttura di Petah Tikva. Chi lo interrogava, ha riferito Abu Zeid, gli ha detto che egli era stato arrestato perché le sue riprese diffondevano scontento sociale tra i palestinesi.

“L’intera indagine aveva a che fare con la documentazione da parte di un giornalista, come se il problema fosse la videocamera in sé, non la realtà che documenta”, ha affermato Abu Zeid in un’intervista per Al Jazeera. In tre settimane di interrogatori, gli investigatori hanno sollevato accuse sul lavoro di Abu Zeid con Al-Aqsa TV, una stazione associata al gruppo islamista palestinese Hamas, che Israele considera un’organizzazione terroristica. Al-Aqsa TV è stata bandita da Israele nel 2019.

Fadi Qawasmeh, un avvocato che rappresenta Abu Zeid, ha sostenuto in tribunale che le accuse contro il suo cliente equivalevano a un’applicazione selettiva, dal momento che nessuna azione legale era stata intrapresa contro nessun altro dipendente di Al-Aqsa TV, e l’esercito israeliano sapeva da anni che Abu Zeid lavorava per quella emittente, molto prima che fosse dichiarata illegale. Abu Zeid era già in prigione da quasi 10 mesi quando, nel giugno 2021, la procura militare gli ha offerto un patteggiamento pari al tempo di carcerazione già scontato e una multa di circa 2.300 euro. Abu Zeid ha accettato ed è stato rilasciato dalla prigione il mese successivo.

Lo scopo era di impedire il mio lavoro di giornalista – e ha funzionato”

Titi, il giornalista di Al Mayadeen, è stato infine accusato di tre reati, alcuni dei quali legati al suo lavoro giornalistico e altri no.

L’accusa contro di lui citava la sua “presenza a una riunione illegale” per aver partecipato a diversi funerali di giovani palestinesi uccisi. Nel 2019 Titi aveva seguito il funerale di Omar al-Badawi, un presunto membro del FPLP ucciso dall’esercito israeliano (secondo un’indagine interna dell’esercito, al-Badawi non rappresentava alcun pericolo per i soldati ed essi non avrebbero dovuto aprire il fuoco.)

L’accusa sosteneva che il funerale sarebbe stato organizzato dal FPLP e quindi Titi avrebbe infranto la legge trovandosi sul luogo. L’accusa non menzionava il fatto che Titi stesse seguendo il funerale come giornalista, che giornalisti israeliani e internazionali si occupiano regolarmente di tali funerali e che quel giorno lui si trovasse insieme a centinaia di altri [colleghi, ndtr.].

Oltre al suo lavoro di documentazione dei funerali, l’accusa gli ha addebitato il fatto che nel 2016, nel suo campus universitario presso l’Università di Hebron, Titi avesse partecipato ad attività organizzate da un gruppo studentesco affiliato ad Hamas.

L’accusa sosteneva anche che due post di Titi su Facebook costituissero istigazione. In uno del 2018 Titi aveva condiviso una foto di palestinesi che erano stati uccisi dall’esercito – l’accusa descriveva i morti come “terroristi” – scrivendo: “Guardati dalla morte naturale, non morire se non a causa di proiettili”. In un post del 2017 Titi aveva menzionato la partecipazione a un concorso letterario per il gruppo studentesco legato ad Hamas. Titi ha detto che durante i suoi interrogatori i post sui social media non gli erano stati affatto mostrati.

Nel 2020 Titi ha presentato appello; è stato imprigionato per sei mesi e multato per 5.000 shekel, circa 1.375 euro.

Ho smesso di occuparmi di persone uccise e/o funerali. Ho paura di riprendere scontri con l’esercito e non riprendo postazioni militari o soldati”, aggiunge. “Lo scopo è sempre stato quello di impedire il mio lavoro di giornalista – e ha funzionato”.

Documentare è istigare

Molte delle disavventure dei giornalisti finiscono in patteggiamenti con i pubblici ministeri militari israeliani. Nasser, il giornalista di Falastin Al-Ghad, ne ha accettato uno alla conclusione del processo, dopo che il giudice ha stabilito che i post di Nasser su Facebook raggiungono a malapena la “soglia minima” per [il reato di, ndtr.] istigazione. Nasser sarebbe stato condannato a tre mesi di reclusione, nell’attesa che gli venisse riconosciuto lo sconto per il periodo passato in carcere.

“Nasser ha scelto di confessare per essere rilasciato”, spiega Mazen Abu Aoun, il suo avvocato. I giudici stabiliscono quasi sempre che i giornalisti rimangano in custodia fino alla fine del procedimento. Li incarcerano per mesi, poi la procura militare offre loro un patteggiamento: confessi alcuni dei reati e la pena ammonterà al numero di giorni che hai già scontato. Dopodiché vieni rilasciato immediatamente. Così tutti accettano“.

Alla fine, tuttavia, il tempo scontato da Nasser non ha ridotto il suo periodo di detenzione. Sebbene abbia accettato il patteggiamento, una settimana prima della data di rilascio ha appreso che lo Shin Bet aveva emesso contro di lui un ordine di detenzione amministrativa che lo avrebbe tenuto dietro le sbarre.

Nasser ha languito in carcere senza un secondo processo – e neanche nuove accuse – per altri cinque mesi. “Non avevano nulla su cui incriminarmi”, ha detto. A maggio la Cisgiordania era in fiamme e come giornalista ho documentato tutto sul campo. Sono stato arrestato per impedirmi di documentare. L’atto stesso di documentare rappresenta ai loro occhi un’istigazione.

Da quando è stato rilasciato nel dicembre 2021, dopo otto mesi di prigione, Nasser non pubblica quasi nulla su Facebook. È preoccupato che altre accuse false possano allontanarlo di nuovo dalla sua famiglia, un’eventualità che non può accettare. “Sono sposato e ho un figlio”, ha spiegato Nasser. “Mi hanno arrestato quando lui aveva otto mesi e mi hanno rilasciato quando era già in grado di parlare”.

Yuval Abraham è un giornalista che lavora a Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




I cittadini palestinesi di Israele temono rappresaglie in seguito agli attacchi omicidi

Lubna Masarwa , Huthifa Fayyad

martedì 29 marzo 2022 – Middle East Eye

In seguito agli attacchi di Hadera e nel Negev il governo israeliano e i gruppi armati dell’estrema destra hanno annunciato varie misure che provocano inquietudini tra la minoranza palestinese del Paese.

Poco dopo l’attacco omicida di domenica ad Hadera le forze israeliane si sono schierate nella vicina città di Umma al-Fahm, mentre una milizia di civili israeliani armati ha cominciato a mobilitarsi.

Alla ricerca di indizi sulla sparatoria, nel corso della quale due poliziotti sono morti e altri dieci sono rimasti feriti, la polizia e le forze speciali hanno effettuato irruzioni nella città a maggioranza palestinese del centro di Israele. Sono stati eretti dei blocchi stradali ed alcuni abitanti sono stati arrestati.

La loro presenza e gli arresti, una quindicina, sono continuati lunedì e martedì. I due aggressori, cittadini palestinesi di Israele originari di Umm al-Fahm, sono stati uccisi da agenti in borghese nel corso di uno scontro a fuoco dopo l’attacco.

Come in tutto Israele, a Umma al-Fahm i cittadini palestinesi, chiamati anche palestinesi del 1948, hanno subito condannato l’attacco nel contesto di accresciuti timori di rappresaglie israeliane contro di loro, sia da parte dello Stato che di milizie ebraiche armate.

“Questi attacchi non rappresentano gli abitanti della città, né la nostra società, né i nostri valori che invitano a una vita dignitosa, alla tolleranza, quelli di una società che ricerca la sicurezza e la pace,” ha dichiarato il Comune di Umm al-Fahm in un breve comunicato pubblicato domenica. Ma secondo Taha Ighbariya, un giornalista che vive in città, oggi a Umm al-Fahm regna una certa tensione.

Il rapido arrivo delle unità di poliziotti e l’incremento degli incitamenti all’odio nei mezzi di comunicazione israeliani provocano i timori e le preoccupazioni dei palestinesi.

“Israele, tanto a sinistra come a destra del quadro politico, utilizza sempre avvenimenti come questi per attizzare l’odio verso i palestinesi del 1948,” afferma il giornalista.

“Ieri sera abbiamo visto il deputato (della Knesset) Itamar Ben-Gvir gridare ‘Morte agli arabi!’ (durante manifestazioni che hanno fatto seguito alla sparatoria).

“Ha persino osato urlare in faccia al ministro della Sicurezza Pubblica (Omer Barlev [del partito laburista]) e incitare all’odio contro di lui e contro gli arabi. Nessuno lo può fermare.”

Arresti e rinforzi

Dopo la sparatoria di domenica il governo e gruppi armati di estrema destra hanno annunciato varie misure, il che provoca inquietudine da parte dei cittadini palestinesi di Israele, che rappresentano circa un quinto della popolazione.

Lunedì la polizia ha affermato di aver richiamato sei unità di agenti della riserva e che è possibile che altri vengano riconvocati per il servizio attivo.

Questo annuncio è stato fatto qualche ora dopo che l’esercito israeliano ha annunciato l’invio di rinforzi lungo le frontiere del 1967 che separano Israele dalla Cisgiordania occupata.

Il primo ministro israeliano Naftali Bennett ha dichiarato che gli arresti amministrativi per gli “agenti terroristi” dovrebbero essere utilizzati “nei casi appropriati quando esiste una base giudiziaria adeguata,” senza fornire ulteriori chiarimenti.

Le detenzioni amministrative sono una controversa prassi che Israele utilizza quasi esclusivamente contro i palestinesi dei territori occupati. Essa consente la detenzione a tempo indefinito di prigionieri senza processo né imputazione.

Le autorità hanno già arrestato cinque abitanti di Umm al Fahm, tra cui il fratello di uno degli aggressori. Lunedì il tribunale penale di Haifa ha prolungato la loro detenzione di dieci giorni dopo che il pubblico ministero ha chiesto di tenerli in arresto per 15 giorni in attesa di un’inchiesta.

Milizie armate

Dopo la sparatoria di domenica in Israele e nei territori occupati sembra essersi intensificato l’incitamento alla violenza da parte dell’estrema destra e dei coloni contro i cittadini palestinesi.

Domenica nella Cisgiordania occupata i palestinesi di Nablus e Ramallah sono stati aggrediti da coloni che hanno incendiato delle auto e danneggiato proprietà.

Nella regione meridionale del Negev (chiamato Naqab dagli arabi), dove martedì scorso un altro palestinese cittadino di Israele ha ucciso quattro persone durante un attacco all’arma bianca e con un’autobomba, una milizia armata ha annunciato di aver organizzato delle squadre in tutta l’area per difenderla da ogni nuovo attacco.

“Dopo l’attacco terroristico abbiamo iniziato a mettere in stato d’allerta delle squadre armate (di volontari). Al momento sono schierate a Omer, Meitar, Lehavim, Dimona, Carmit et Beersheba” ha dichiarato il gruppo in messaggi pubblicati sulla sua pagina Facebook. “Anche una squadra antiterrorismo sarà presente nella zona per affrontare ogni tipo di situazione,” precisa l’organizzazione.

L’“Unità Barel Rangers” è una milizia fondata la settimana scorsa con l’obiettivo di “salvare il Negev dalla problematica assenza di sicurezza personale” in un contesto di maggiori tensioni.

Ancor prima, questo stesso mese era stata annunciata la formazione di un gruppo simile nella città di Lod [Lydda in arabo, ndtr.], nel centro del Paese, epicentro della maggior parte delle violenze che hanno scosso le città israeliane lo scorso maggio.

Domenica mattina la rete pubblica israeliana Kan TV ha informato che un altro gruppo di coloni armati della Cisgiordania prevedeva di fare un’incursione a Sheikh Jarrah durante il mese di Ramadan e di aumentare la sua presenza nel quartiere occupato di Gerusalemme est.

Secondo Taha Ighbariya la formazione di milizie armate, la repressione governativa e gli attacchi dei coloni in Cisgiordania non faranno che accentuare la pressione sui palestinesi e intensificare la risposta. “Alla luce di questa mentalità radicale di Israele, che considera i suoi cittadini palestinesi come individui pericolosi, il sistema continuerà a metterci con le spalle al muro con maggiori restrizioni e arresti. Quando le persone sono alle strette ovviamente vengono cercate dai gruppi violenti,” avverte.

Motivazioni legate allo Stato Islamico?

I due cugini che hanno provocato la sparatoria di Hadera, Ibrahim Ighbariya e Ayman Ighbariya, sono entrambi sospettati di essere stati in rapporto con l’organizzazione Stato Islamico (ISIS).

Ibrahim venne arrestato nel 2016 per aver tentato di unirsi al gruppo in Siria attraverso la Turchia, mentre nel 2017 Ayman fu incarcerato per tre settimane senza imputazioni perché sospettato di aver violato le leggi sulle armi.

Anche Mohammed Abu al-Kiyan, l’aggressore all’origine dell’attacco all’arma bianca della settimana scorsa, avrebbe avuto rapporti con l’ISIS.

Gli apparenti legami con lo Stato Islamico e la vicinanza degli attacchi sollevano domande riguardo alla possibilità di una nuova minaccia per Israele.

Ameer Makhoul, uno scrittore di Haifa che ha passato dieci anni in un carcere israeliano per il suo attivismo, mette invece in discussione gli eventuali rapporti tra questi attacchi e motivazioni legate allo Stato Islamico.

Avendo passato del tempo in prigione con detenuti incarcerati per presunti rapporti con l’ISIS, che non sono più di 87, Ameer Makhoul afferma che queste persone non credono nella causa della liberazione della Palestina e non gli importa di attaccare Israele.

La loro priorità sarebbe uccidere musulmani considerati degli infedeli per creare uno Stato fondato su opinioni religiose estremiste.

Così, aggiunge, la differenza tra la loro ideologia e quella di altri prigionieri di gruppi come Fatah, Hamas e Jihad Islamica era così netta che i comitati dei prigionieri palestinesi si opponevano nettamente alla loro integrazione all’interno delle loro sezioni.

Invece le autorità penitenziarie israeliane facevano pressioni perché venissero integrati con gli altri prigionieri palestinesi e riservavano loro un trattamento di favore, sostiene Ameer Makhoul.

L’ex-detenuto a volte aveva l’impressione che i ragazzi colpevoli di aver lanciato pietre contro i soldati in Cisgiordania fossero puniti più severamente dei detenuti in rapporto con l’ISIS. “I prigionieri legati all’ISIS erano trattati con indulgenza dal potere costituito […] compresi gli apparati di sicurezza, il pubblico ministero e il sistema giudiziario (israeliano),” afferma.

L’ideologia dell’ISIS è rifiutata dalla società palestinese nel suo complesso, sostiene Ameer Makhoul, che precisa che ciò non deve sviare l’attenzione dalla situazione che i palestinesi sono costretti ad affrontare dentro e fuori Israele in seguito agli attacchi e all’avvicinarsi del mese sacro del Ramadan, che coinciderà con le feste ebraiche, il che potrebbe provocare tensioni a Gerusalemme e altrove.

Nella misura in cui l’incitamento all’odio e la repressione sembrano intensificarsi, i palestinesi devono essere pronti a dare “una risposta popolare forte”, prosegue Ameer Makhoul.

“Non dobbiamo dimenticare che in Israele sono i membri della società palestinese ad essere vittime dell’incitamento alla violenza, di politiche omicide e di una pulizia etnica.”

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Israele rilascia un prigioniero palestinese dopo 131 giorni di sciopero della fame

Sally Ibrahim

5 dicembre 2021 – The New Arab

Cisgiordania – Fonti hanno riferito che domenica Israele ha rilasciato un prigioniero palestinese che ha condotto uno sciopero della fame di 131 giorni per protesta contro la propria detenzione senza accuse né processo.

Il 23 novembre Kayed al-Fasfous, di 32 anni, ha interrotto il suo sciopero della fame dopo aver raggiunto un accordo con le autorità israeliane per porre fine alla sua detenzione amministrativa.

Al-Fasfous è Stato liberato a un posto di blocco a sud di Hebron nella Cisgiordania occupata ed è stato accolto da politici e funzionari della sicurezza palestinesi oltre che da esponenti di alcune fazioni.

L’occupazione israeliana non è stata in grado di spezzarmi. Ma io l’ho sconfitta con la mia pancia vuota ed ho ottenuto una vittoria su di essa.”, ha detto al-Fasfous a The New Arab.

Le autorità israeliane avrebbero dovuto rilasciare al-Fasfous a metà dicembre, ma lo hanno liberato prima in seguito alle pressioni da parte della leadership palestinese perché potesse ricevere le cure in ospedale a causa del deterioramento della sua salute.

Al-Fasfous ha trascorso complessivamente 5 anni nelle carceri israeliane senza accuse né processo e durante il suo sciopero della fame avrebbe perso 45 kg di peso.

Al-Fasfous verrà trasferito nell’ospedale arabo Istishari a Ramallah per monitorare le sue” condizioni di salute ed eseguire gli esami necessari”, ha riferito a TNA l’Associazione dei Prigionieri Palestinesi in una conferenza stampa

In seguito alle sue condizioni e per eseguire gli esami necessari Al-Fasfous verrà trasferito all’ospedale arabo di Istishari a Ramallah,” ha affermato in un comunicato stampa inviato a TNA il Palestinian Prisoners Club [Centro dei Prigionieri Palestinesi, ong palestinese che si occupa dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane, ndtr.].

L’Associazione ha affermato che ci sono 4.600 prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane, di cui circa 500 in detenzione amministrativa, senza accuse nè processo

Il PPC ha spiegato che ci sono 4.600 prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane, di cui circa 500 stanno scontando ordini di detenzione amministrativa, senza imputazioni né processo.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Israele ha revocato la residenza a Gerusalemme di un noto avvocato franco-palestinese

Redazione di MEE

19 ottobre 2021 – Middle East Eye

Salah al-Hamouri ha passato più di otto anni nelle carceri israeliane e ora deve andarsene dalla sua città natale.

L’avvocato palestinese Salah al-Hamouri, ex-prigioniero politico che ha anche la cittadinanza francese, ha visto revocata la sua residenza a Gerusalemme est da parte delle autorità israeliane e ora non può più vivere nella sua città natale.

Hamouri è un abitante della Gerusalemme est occupata, che Israele ha conquistato nel 1967. Gli abitanti palestinesi dei quartieri orientali della città occupata in genere rifiutano la cittadinanza israeliana e quindi hanno carte d’identità da residenti rilasciate dal ministero dell’Interno israeliano.

Tuttavia questo status di residenti può essere revocato da Israele, cacciando i palestinesi dalle loro case con la revoca del loro documento d’identità per varie ragioni.

Hamouri, di padre palestinese e madre francese, in precedenza era stato informato che Israele stava cercando di togliergli la residenza quando a settembre 2020 ha ricevuto una lettera del ministero degli Interni. Secondo i media palestinesi lunedì il ministero ha confermato ufficialmente che la decisione era stata presa.

L’avvocato, preso di mira per il suo attivismo politico e in quanto membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP), un’organizzazione marxista-leninista della resistenza palestinese, ha passato più di otto anni nelle prigioni israeliane in periodi diversi.

Nel 2001 venne sottoposto a detenzione amministrativa [cioè senza accuse né condanna, ndtr.] per cinque mesi, e per quattro mesi nel 2004. Nel 2005 Israele lo condannò a sette anni di prigione per un presunto piano del PFLP per uccidere un rabbino di estrema destra, Ovadia Yousef, un’accusa che ha sempre respinto.

Più di recente, nel 2018 è stato liberato dalla detenzione amministrativa dopo 13 mesi di arresto senza accuse.

Dopo il suo rilascio, in un’intervista a Middle East Eye Hamouni ha dichiarato: “La prigione è di per sé un luogo difficile per qualunque essere umano, ma è stato particolarmente duro perché Israele ha anche scelto di arrestarmi proprio alla fine della mia formazione giuridica, pochi giorni prima di un viaggio per fare visita alla mia famiglia in Francia.”

Ed ha aggiunto: “Israele mi ha preso di mira durante questo particolare periodo della mia vita per ricordarmi che mi tiene d’occhio con molta attenzione.”

Nel 2018 Human Rights Watch [importante Ong internazionale, ndtr.] ha affermato che dal 1967 Israele ha revocato lo status di residenti ad almeno 14.595 palestinesi a Gerusalemme est.

“Il sistema discriminatorio spinge molti palestinesi a lasciare la loro città con quello che rappresenta un trasferimento forzato, una grave violazione delle leggi internazionali,” afferma HRW.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Prigioniero palestinese entra nell’88esimo giorno di sciopero della fame mentre la sua salute va peggiorando

MENA

17 Ottobre, 2021 Redazione The New Arab

**NOTA REDAZIONALE

Oggi 22 ottobre i prigionieri palestinesi hanno interrotto lo sciopero della fame ottenendo da parte dell’amministrazione israeliana le richieste portate avanti con la lotta: cessazione delle misure punitive dopo l’evasione dei sei palesinesi dalla prigione di Gilboa, fine dell’isolamento e ritorno dei detenuti nelle loro celle in compagnia . Non è chiaro invece la sorte di Miqdad Al-Qawashmeh in sciopero da oltre 88 giorni in quanto il prigioniero è in sciopero contro la sua detenzione amministrativa.

Il prigioniero, incarcerato da Israele in detenzione amministrativa, ha visto peggiorare le proprie condizioni di salute.

Il prigioniero palestinese Miqdad Al-Qawashmeh è entrato nell’88esimo giorno consecutivo di sciopero della fame per protestare contro la detenzione amministrativa in un carcere israeliano, mentre la sua salute continua a peggiorare e sua madre implora la sua liberazione.

Sabato la madre, Iman Badr, ha detto a Al-Jazeera in una trasmissione in diretta che il prigioniero ventiquattrenne, arrestato nel gennaio 2021, a settembre è stato trasferito nel Centro medico israeliano Kaplan, dove continua ad attuare l’assunzione di sola acqua.

Al-Qawashmeh è adesso tra i 400 prigionieri palestinesi che prendono parte a scioperi della fame per protestare contro le misure punitive imposte da Israele dopo l’evasione dal carcere di Gilboa a settembre.

Il suo corpo non resisterà a lungo se le persone libere non interverranno a salvarlo, lui difenderà il suo diritto fino alla fine…e vuole essere liberato dalla sua ingiusta detenzione amministrativa”, ha detto Badr, quando ha visitato il figlio nella sua stanza di ospedale.

Per favore fate di tutto per salvare la vita di mio figlio”, ha anche chiesto in un video postato su twitter dall’Organizzazione Araba per i Diritti Umani.

L’alta corte israeliana ha bloccato l’ordine amministrativo di detenzione di Al-Qawasmeh il 6 ottobre, ma ciò semplicemente interrompe l’ordine per il periodo delle sue cure e non lo libera dalla detenzione, secondo la rete Quds News.

All’inizio del mese la Croce Rossa Internazionale ha espresso “la sua profonda preoccupazione” riguardo al peggioramento della salute di Qawasmeh e alle “conseguenze potenzialmente irreversibili di uno sciopero della fame protratto così a lungo”.

Dopo l’evasione dal carcere di Gilboa ad inizio settembre, quando sei prigionieri palestinesi sono fuggiti da una sezione di alta sicurezza, le autorità israeliane hanno attuato un giro di vite sui detenuti, separandone e trasferendone centinaia all’interno del sistema carcerario israeliano.

L’Associazione dei Prigionieri Palestinesi ha affermato in una dichiarazione pubblicata da Quds Press che altri prigionieri palestinesi potrebbero partecipare agli scioperi della fame come parte di un “piano di resistenza”, se le loro richieste non saranno ascoltate e non saranno revocate le sanzioni che vengono loro imposte, che l’associazione afferma configurino una punizione collettiva.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




L’avvocato: “Un prigioniero palestinese riarrestato è stato torturato”

 Zena Al Tahhan

15 settembre 2021 – Al Jazeera

L’avvocato di Mohammad al-Ardah afferma che è stato privato di cibo, sonno, cure mediche ed ha subito “una durissima sessione di torture”.

Cisgiordania occupata – Durante il primo incontro con il suo avvocato da quando è stato fermato la scorsa settimana, almeno uno dei quattro prigionieri politici palestinesi riarrestati ha detto di essere stato sottoposto a violenze e torture fisiche e psicologiche dagli investigatori israeliani.

Dopo che l’intelligence israeliana ha tolto il divieto di colloquio degli avvocati con i prigionieri a cinque giorni da quando sono stati riarrestati, mercoledì l’avvocato Khaled Mahajneh, del collegio di difesa della Commissione per la Questione dei Detenuti dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha incontrato il suo cliente Mohammed al-Ardah.

Dopo essere uscito dal centro di detenzione e aver visto il suo cliente, che a quanto ha detto è stato privato di cibo, sonno e cure mediche mentre subiva una serie di interrogatori intensivi, Khaled Mahajneh ha rilasciato una commovente intervista a Palestine TV [televisione ufficiale dell’ANP, ndtr.]

“Mohammed è stato sottoposto, e lo è ancora, a una pesante serie di torture,” ha detto Khaled. “Dopo il suo arresto Mohammed è stato portato nel centro di interrogatori di Nazareth, dove è stato interrogato in modo molto violento.

In una stanza piccolissima c’erano circa 20 investigatori dell’intelligence che gli hanno strappato tutti i vestiti, comprese le mutande, e lo hanno obbligato a rimanere nudo per molte ore. Poi gli hanno dato uno scialle per coprirsi i genitali e in seguito lo hanno trasferito nel centro per gli interrogatori di Jalama.”

Tagli ed escoriazioni”

L’avvocato ha detto che durante l’arresto le forze israeliane hanno picchiato Mohammed: “La sua testa è stata sbattuta per terra ed ora è ferito sopra l’occhio destro. Finora non ha ricevuto le cure mediche di cui ha bisogno. A seguito del tentativo di fuga e della caccia all’uomo da parte delle forze israeliane contro di lui e Zakaria Zubaidi, presenta tagli ed escoriazioni su tutto il corpo.”

Venerdì notte le autorità israeliane hanno annunciato il riarresto di Mahmoud Abdullah al-Ardah e Yaqoub Mahmoud Qadri, rispettivamente di 46 e 49 anni, nella periferia meridionale di Nazareth. Zakaria Zubeidi, 46 anni, e Mohammed al-Ardah, 39, sono stati arrestati sabato mattina nel villaggio palestinese di Shibli-Umm al-Ghanam. I quattro sono stati portati a Jalama per essere interrogati.

Erano tra i sei uomini, insieme a Ayham Nayef Kamanji, 35, e Munadel Infaat, 26, dei quali non si sa ancora dove si trovino, che sono scappati dalla prigione israeliana di Gilboa all’alba del 6 settembre.

Interrogatori giorno e notte”

Khaled Mahajneh ha detto che durante il loro incontro sei investigatori sono rimasti dietro Mohammed al-Ardah, incatenato mani e piedi. L’avvocato ha affermato di aver ripetutamente chiesto che venissero tolte le catene almeno dalle braccia di Mohammed, ma gli agenti hanno rifiutato di farlo.

Secondo Khaled, da quando è stato riarrestato a Mohammed per quattro giorni non è stato dato cibo e non ha dormito più di 10 ore a causa delle continue sessioni di interrogatorio.

“Da sabato è stato sottoposto a interrogatori giorno e notte… È stato interrogato a tarda notte e alle prime ore del mattino,” ha affermato Khaled. “Non vede il sole, o la luce, o il vento. Quando l’ho incontrato mi ha chiesto se fosse pomeriggio, non sapeva che era mezzanotte.”

L’avvocato ha detto che Mohammed è tenuto in una cella “non più grande di 2 metri per 1,” vive “sotto sorveglianza 24 ore su 24,” e “ogni giorno è stato interrogato da dieci poliziotti”.

In un’altra intervista postata su Facebook l’avvocato Ruslan Mahajneh, che la stessa notte ha incontrato Mahmoud al-Ardah, ha detto che il detenuto gli ha raccontato di essere stato interrogato varie volte dopo l’arresto.

“Sono stati arrestati venerdì notte. Gli interrogatori sono durati dal venerdì – sono arrivati a Jalama tra mezzanotte e l’una, e l’interrogatorio è continuato fino alle 8 del mattino,” ha detto.

“Dopodiché sono andati a dormire. L’interrogatorio varia, viene interrogato ogni giorno tra le 7 e le 8 ore. Ma di notte dorme. Dice che non sono stati torturati,” ha affermato Mahajneh.

Secondo un comunicato della commissione dell’ANP, l’avvocato Avigdor Feldman ha incontrato Zakaria Zubaidi a mezzanotte di mercoledì.

“È risultato che, durante il suo arresto con il prigioniero Mohammed al-Ardah, il detenuto Zubaidi è stato picchiato e maltrattato, provocando la rottura della mandibola e di due costole,” ha affermato la commissione.

Zubaidi, continua il comunicato, “è stato trasferito in un ospedale israeliano e dopo il suo arresto gli sono stati somministrati antidolorifici” e “in seguito alle percosse e ai maltrattamenti tutto il suo corpo è coperto di lividi ed escoriazioni.”

Benché nel 1999 la Corte Suprema israeliana abbia vietato l’uso della tortura, gli investigatori, in particolare dei servizi di intelligence, hanno continuato ad usare violenza contro i detenuti palestinesi, che i tribunali hanno retroattivamente approvato. I quattro prigionieri sono sottoposti, da parte dei servizi di intelligence in collaborazione con l’unità 443 Lahav della polizia, a interrogatori che secondo gli avvocati possono durare fino a 45 giorni.

Sabato i prigionieri sono comparsi separatamente davanti al tribunale di Nazareth, che ha deciso di estendere la loro detenzione fino al 19 settembre per “completare l’indagine”.

Processi giudiziari

Secondo la commissione dell’ANP, durante l’udienza di sabato contro i quattro sono state presentate molte accuse indiziarie: “Evasione, favoreggiamento in una evasione, complotto per commettere un’aggressione, partecipazione a un’organizzazione ostile e fornitura di servizi ad essa.”

Dopo l’udienza Khaled Mahajneh ha detto ad Al Jazeera che le autorità si sono rifiutate di fornire informazioni riguardo al “complotto per commettere un’aggressione”, sostenendo che la documentazione è segreta.

Nella sua intervista con Palestine TV Khaled ha affermato che Mohammed al-Ardah “respinge totalmente le accuse che la sicurezza sta cercando di imputargli.” Mohammed avrebbe detto a Khaled che “avrebbe potuto fare qualunque cosa nei cinque giorni” di libertà, ma “voleva essere libero e camminare per le strade della Palestina occupata nel 1948.”

In base alle leggi internazionali un prigioniero di guerra che scappa dalla prigione “è passibile solo di una punizione disciplinare,” cioè non possono essere comminati altri anni di carcere in aggiunta alla sentenza iniziale, anche se si tratta di una fuga recidiva.

Secondo gli avvocati in precedenti episodi in cui carcerati palestinesi sono scappati da prigioni israeliane e sono stati riarrestati molti hanno dovuto affrontare misure punitive, come lunghi periodi in isolamento, ma non hanno subito un allungamento della pena.

La maggioranza dei palestinesi vede i detenuti nelle carceri israeliane, che sono 4.650 palestinesi, compresi 200 minorenni e 520 sottoposti a detenzione amministrativa, cioè senza processo o accuse specifiche, come prigionieri politici che sono incarcerati a causa dell’occupazione militare israeliana o per la loro resistenza ad essa.

Prima di evadere dalla prigione quattro dei sei detenuti sono stati condannati all’ergastolo, mentre due erano detenuti in attesa di un processo militare.

I condannati sono stati arrestati tra il 1996 e il 2006 e sono stati incarcerati per aver compiuto attacchi contro militari o civili israeliani. Cinque di loro sono affiliati all’organizzazione palestinese Jihad Islamica, mentre uno è un importante membro dell’ala militare di Fatah, il gruppo palestinese che controlla l’ANP.

Dopo che i detenuti sono scappati attraverso un tunnel che sbucava a pochi metri dal muro della prigione, le forze israeliane hanno lanciato un’enorme caccia all’uomo per cercarli ed hanno arrestato membri delle rispettive famiglie.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)