Timori per i palestinesi in sciopero della fame che protestano contro la detenzione

Redazione Al Jazeera

14 settembre 2012 Al Jazeera

I detenuti palestinesi progettano scioperi della fame in massa a sostegno dei fuggitivi riarrestati e contro le loro pessime condizioni di detenzione.*

*Nota Redazionale . Lo sciopero della fame progettato per sabato 18 settembre è stato annullato in seguito alla sospensione dei provvedimenti punitivi dell’autorità carceraria israeliana.

Dura, Cisgiordania occupata – La tensione cresce da mesi, ma la situazione potrebbe presto esplodere in quando la rabbia per il trattamento dei prigionieri palestinesi da parte di Israele è sul punto di esplodere.

Ciò che sta anche accrescendo la rabbia palestinese è il deterioramento della salute di sei palestinesi in sciopero della fame, che protestano contro la loro detenzione amministrativa ovverosia detenzione senza processo.

I palestinesi sono esacerbati dalle misure punitive inflitte dall’Israel Prison Services (IPS) [servizio penitenziario israeliano] in seguito alla fuga e alla recente cattura di prigionieri palestinesi di alto profilo dalla prigione di Gilboa, nel nord di Israele.

Kayed Fasfous, Miqdad Qawasmeh e Hisham Abu Hawash di Hebron; Raik Bisharat di Tubas; Alla al-Araj di Tulkarem; e Shadi Abu Aker di Betlemme stanno facendo uno sciopero della fame prolungato, rifiutandosi di mangiare fino a quando le autorità israeliane non li informeranno di cosa sono stati accusati e di quando saranno rilasciati.

Fasfous, 32 anni – in sciopero della fame da oltre 60 giorni – rifiuta anche sale e vitamine e beve solo acqua. Ex bodybuilder, ha perso 30 kg e il suo peso è ora sceso a 40 kg.

È stato trasferito dalla prigione di Ofer vicino a Ramallah, dove era stato imprigionato dal suo arresto nel settembre 2020, al Ramle Hospital in Israele.

Non è in grado di camminare, è su una sedia a rotelle poiché le condizioni del suo cuore e di altri organi vitali continuano a deteriorarsi”, ha detto ad Al Jazeera suo fratello Khalid Fasfous.

Nessuno della sua famiglia ha potuto fargli visita e la Croce Rossa non ha potuto vederlo poiché il giorno della loro visita è stato spostato dal carcere di Ofer.

“Sto aspettando cattive notizie su di lui da un momento all’altro”, ha detto sua madre Fawzia Fasfous. “Non riesco a dormire la notte chiedendomi dove sia e cosa gli sia successo.”

I prigionieri della Jihad islamica si sono scontrati ripetutamente con le autorità dell’IPS in diverse carceri, dando fuoco alle celle delle prigioni.

Tuttavia, nonostante la brutale repressione dei disordini da parte della famigerata unità Masada dell’IPS – e l’invio di alcuni prigionieri in isolamento e il trasferimento forzato di molti altri – centinaia di altri prigionieri di tutto lo spettro politico palestinese si stanno preparando a iniziare uno sciopero della fame di massa dalla fine della settimana a sostegno dei fuggitivi riarrestati e di altri compagni di prigionia.

L’avvocato di Fasfous non è stato in grado di vedere il suo cliente poiché è in detenzione amministrativa.

Tutti i fratelli Fasfous sono stati posti in detenzione amministrativa nel corso degli anni.

In due occasioni, quando un altro fratello, Mahmoud Fasfous è stato arrestato nella casa di famiglia, sua moglie è stata aggredita dai soldati israeliani, provocandole l’aborto in entrambi i casi.

“Prove segrete”

La detenzione amministrativa è una procedura che consente alle forze di occupazione israeliane di trattenere i prigionieri a tempo indeterminato sulla base di informazioni segrete senza formulare accuse e garantire loro un processo, ha affermato l’organizzazione dei prigionieri palestinesi Addameer [organizzazione non governativa palestinese che monitora il trattamento dei prigionieri palestinesi arrestati in Cisgiordania dalla potenza occupante e fornisce assistenza legale, ndt].

“Le informazioni segrete o le prove non sono accessibili al detenuto né al suo avvocato e la detenzione amministrativa può, secondo gli ordini militari israeliani, essere rinnovata ogni sei mesi per un tempo illimitato”, ha affermato l’organizzazione per i diritti dei prigionieri.

L’organizzazione per i diritti dei prigionieri ha affermato che questa pratica è stata varata in seguito alla situazione politica nella Palestina occupata e al movimento palestinese di protesta contro l’ininterrotta occupazione israeliana dei territori palestinesi occupati nel 1967.

“Sebbene l’uso della detenzione amministrativa in modo diffuso e sistematico sia vietato dal diritto internazionale, l’occupazione israeliana utilizza la detenzione amministrativa come strumento per punire collettivamente i palestinesi”, ha affermato Addameer.

Attualmente ci sono 520 palestinesi in detenzione amministrativa.

Saba Abu Hawash, due anni, non riconoscerebbe suo padre Hisham se lo vedesse.

“Non vede suo padre da quando aveva qualche mese”, ha detto ad Al Jazeera Aisha Abu Hawash, la moglie di Hisham Abu Hawash in sciopero della fame.

Abu Hawash, un operaio edile, è in detenzione amministrativa dal suo arresto nell’ottobre 2020.

Suo figlio Izzadeen, sei anni, ha un grave problema ai reni e deve andare regolarmente in ospedale per cure.

Tutti e cinque i bambini hanno bisogno del padre non solo per il supporto emotivo, ma anche per provvedere a loro. Non capiscono cosa sta succedendo e chiedono ripetutamente dove sia il loro padre”, ha detto Aisha.

Il fratello di Hisham, Emad, dice che la famiglia è priva di notizie da quando ha cominciato lo sciopero della fame 27 giorni fa, dato che non sanno dove sia e in quali condizioni perché la Croce Rossa non ha ancora potuto fargli visita e le autorità israeliane si rifiutano di rilasciare qualsiasi informazione.

“Sappiamo che è stato messo in detenzione amministrativa nella prigione di Ofer, ma da quando ha iniziato il suo sciopero della fame non sappiamo se è ancora in isolamento o se è stato trasferito in ospedale e siamo estremamente preoccupati per lui”, Emad ha detto ad Al Jazeera

“Ho scritto alla Croce Rossa e all’ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite spiegando la nostra disperazione, ma non ho avuto notizie nemmeno da loro “, ha detto Emad

Pertanto, consideriamo questo un caso di sparizione forzata. Facciamo appello per avere qualsiasi informazione sulla sua situazione”

La violenza si intensifica

La rabbia dei palestinesi è cresciuta in modo esponenziale ad ogni sviluppo relativo alla questione dei prigionieri, poiché ogni famiglia ha avuto almeno un suo membro arrestato e imprigionato.

Dalla fuga dei sei prigionieri dalla prigione di Gilboa una settimana fa, scontri sono scoppiati ogni giorno in tutta la Cisgiordania occupata; l’intelligence israeliana ha riferito di dozzine di incidenti con lancio di pietre, sparatorie, accoltellamenti, lancio di ordigni incendiari, bombe fatte in casa piazzate per le strade, razzi lanciati dalla Striscia di Gaza e altri attacchi contro le forze di sicurezza e i coloni israeliani

Cinque dei fuggitivi erano membri della Jihad islamica. L’IPS ha dichiarato pubblicamente di non essere in grado di controllare i prigionieri della Jihad islamica e di aver faticato per creare profili di intelligence su di loro.

L’altro fuggitivo era Zacharia Zubeidi. Dopo il suo nuovo arresto ha dovuto essere ricoverato in ospedale; la sua famiglia ha detto che gli è stata rotta una gamba e che ha subito altre ferite durante il suo interrogatorio.

Due dei fuggitivi sono ancora in fuga.

Inoltre, sembra che l’IPS non avrà solo a che fare con i riottosi prigionieri della Jihad islamica, poiché centinaia di detenuti di Fatah hanno rilasciato una dichiarazione in cui affermavano che intendevano unirsi a uno sciopero della fame in corso a partire da venerdì a sostegno di tutti i prigionieri.

Hanno avvertito che avrebbero intensificato le loro azioni di protesta in modo progressivo fino a quando le autorità israeliane non avessero cessato le loro misure punitive. Se uno degli scioperanti della fame dovesse morire nel frattempo, ciò potrebbe incendiare la polveriera della Cisgiordania.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Aggiornamento sullo sciopero della fame: continua la lotta contro la detenzione amministrativa

 

5 Agosto 2021 Samidoun

 

 

Alla data del 5 agosto 2021 quindici palestinesi continuano lo sciopero della fame nelle zone occupate da Israele, quattordici dei quali per protesta contro la detenzione amministrativa – reclusione senza capi di accusa o processo – ed uno, Mohammed Nuwarra, per protesta contro la protratta incarcerazione in isolamento. Altri due detenuti hanno iniziato lo sciopero della fame giovedì 5 agosto: Akram al-Fasfous ha seguito l’esempio del fratello, Kayed al-Fasfous, da 22 giorni in sciopero della fame.

Sempre giovedì l’altro fratello, Mahmoud al-Fasfous, in carcere anche lui senza capi di accusa né processo, ha sospeso lo sciopero della fame a causa di un grave peggioramento del suo stato di salute. Amjad Nammoura, di Dura, nei pressi di al-Khalil [nome arabo di Hebron, ndtr], ha iniziato anche lui lo sciopero della fame giovedì per protestare contro la sua detenzione amministrativa.

Altri tre prigionieri palestinesi avevano intanto sospeso lo sciopero della fame: Alaa el-Din Ali e Maher Dalaysheh, entrambi profughi del campo di Jalazone, vicino a Ramallah, e Guevara Nammoura, il calciatore professionista che ha fatto parte della squadra nazionale palestinese. Ali e Dalaysheh hanno sospeso lo sciopero della fame dopo avere ottenuto l’intesa di fissare una data di scadenza della loro detenzione amministrativa. Anche Nammoura ha sospeso lo sciopero in seguito a un accordo per porre termine alla sua detenzione amministrativa raggiunto davanti al tribunale militare israeliano il 5 agosto.

Anche se il 5 agosto il tribunale dell’ occupazione militare ne ha confermato la detenzione, portandola da quattro a tre mesi, esso non ha però chiarito se questa è un’ordinanza definitiva, il che lascia aperta la possibilità di un rinnovo dell’ordine di detenzione.

Gli ordini di detenzione amministrativa sono emessi per periodi massimi di sei mesi alla volta, ma sono rinnovabili senza limiti. Di conseguenza accade frequentemente che i palestinesi passino anni di seguito nelle prigioni dell’occupazione israeliana senza capi di imputazione né processo, sulla base di cosiddette “prove segrete” a cui non possono accedere né i detenuti né i loro avvocati. La detenzione amministrativa, originariamente introdotta nella Palestina occupata dal mandato coloniale britannico [il mandato della Società delle Nazioni permise al Regno Unito di governare la Palestina tra il 1920 e il 1948, dopo la sconfitta dell’Impero ottomano nella prima guerra mondiale, ndtr], fu in seguito adottata dagli occupanti sionisti per reprimere la resistenza palestinese.

Altri detenuti palestinesi hanno partecipato a proteste all’interno delle prigioni dell’occupazione israeliana in sostegno dei prigionieri in sciopero della fame. Si annuncia una serie di vasti scioperi di solidarietà e le prime adesioni vengono da Bara’a Issa di Anata [cittadina nei pressi di] Gerusalemme, Taha al-Tarwa di Taffouh [villaggio nei pressi di] al-Khalil, Malik al-Sa’ada di Halhoul e Qasim Masalmeh di Beit Awwa [cittadine nei pressi di al-Khalil, ndtr], tutti detenuti nella prigione di Ramon [nel nord di Israele, ndtr].

Le forze di occupazione israeliane hanno intensificato la repressione prendendo di mira i detenuti in sciopero della fame, mettendoli in isolamento, facendo irruzione e perquisizioni nelle celle e trasferendoli ripetutamente da una prigione all’altra, procedura fisicamente e mentalmente gravosa ed estenuante, specialmente perché i detenuti cominciano a soffrire di gravi problemi di salute. Il sistema penitenziario israeliano ha anche rallentato il rilascio delle autorizzazioni ai legali per visitare i detenuti in sciopero della fame, cercando di privarli di comunicazione e rappresentanza.

Samidoun, rete di solidarietà con i prigionieri palestinesi, fa appello a tutti i sostenitori della Palestina ad attivarsi per sostenere questi palestinesi in sciopero della fame e tutti i prigionieri palestinesi che lottano per la libertà, per la propria vita e per il popolo palestinese. Essi sono in prima linea nella lotta contro il sistema dell’oppressione israeliana e mettono a rischio i loro corpi e le loro vite per porre fine al sistema della detenzione amministrativa. Potete adottare queste diverse azioni per sostenere chi è in sciopero della fame e per lottare per la liberazione della Palestina, dal fiume [Giordano, ndtr] al mare [Mediterraneo,ndtr]!

ATTIVATI:

Firma la petizione!

Attivisti internazionali di base hanno lanciato una petizione in sostegno agli scioperi della fame e per porre fine alla detenzione amministrativa. Sostieni con la tua firma – e agisci di persona! 

Firma qui: change.org/NoChargeNoTrialNoJail

Protesta con l’ambasciata o il consolato nel tuo Paese!

Unisciti alle proteste in corso in tutto il mondo – affronta, isola e prendi d’assedio l’ambasciata o il consolato nella tua città o Stato di residenza. Fai capire che il popolo sta con la Palestina! Comunica gli eventi che organizzi a samidoun@samidoun.net.

Scendi in piazza: organizza una protesta in solidarietà con la Palestina!

Scendi in piazza e unisciti alle manifestazioni elencate nella nostra lista degli eventi, che viene costantemente aggiornata mano a mano che se ne annunciano altre! Organizzane una tu se non ve ne sono nella tua zona, e comunicala a  samidoun@samidoun.net.

Boicotta Israele!

Le campagne internazionali, arabe e palestinesi di boicottaggio di Israele possono giocare un ruolo importante in questo momento critico. I gruppi di boicottaggio locali possono protestare ed etichettare i prodotti agricoli ed alimentari. Durante il ramadan, i datteri israeliani prodotti nelle terre rubate ai palestinesi vengono distribuite per il mondo, mentre Israele tenta di scacciare i palestinesi da Gerusalemme, demolisce le loro case e ne imprigiona altre migliaia. Partecipando al boicottaggio di Israele, puoi aiutare a mettere un bastone fra le ruote dell’economia del colonialismo dell’occupazione.

Chiedi al tuo governo di sanzionare Israele!

Lo Stato razzista e coloniale di occupazione israeliano e i suoi crimini di guerra contro il popolo palestinese sono resi possibili e sostenuti massicciamente dagli oltre 3,8 miliardi di dollari forniti ogni anno dagli USA ad Israele – destinati direttamente al sostegno dell’occupazione militare israeliana che uccide bambini, donne, uomini e anziani nella Palestina occupata. Che siano il Canada, l’Australia o l’Unione Europea, i governi occidentali e le potenze imperialiste non solo continuano a fornire sostegno diplomatico, politico ed economico ad Israele, ma vendono anche miliardi di dollari di armi allo Stato dell’occupazione coloniale.

Nel contempo comprano anche miliardi di dollari di armamenti dallo Stato di Israele. Anche governi in combutta con le potenze imperialiste, come quelli delle Filippine, Brasile, India e altri, comprano armi e servizi di “sicurezza” – tutti “testati sul campo” sulla popolazione palestinese. Chiama i tuoi rappresentanti, i parlamentari, i politici e chiedi che il tuo governo sanzioni subito Israele, tagli tutti gli aiuti, ne espella gli ambasciatori e smetta di comprare e vendere armi!

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)

 




I palestinesi chiedono il rilascio di una deputata in carcere per il funerale della figlia

12 luglio 2021 – Al Jazeera

Le organizzazioni per i diritti umani dichiarano che Israele dovrebbe consentire a Khalida Jarrar di partecipare ai funerali di sua figlia Suha, 31 anni, che è stata trovata morta nella sua casa di Ramallah.

Attivisti palestinesi e gruppi per i diritti umani hanno chiesto alle autorità israeliane di rilasciare Khalida Jarrar, una deputata palestinese che sta scontando una pena detentiva, in modo che possa partecipare al funerale di sua figlia.

Secondo quanto riferito da attivisti palestinesi e media israeliani, l’amministrazione carceraria israeliana ha negato lunedì la richiesta di Jarrar, una prigioniera politica, di partecipare al funerale.

Suha Jarrar, 31 anni, è stata trovata morta domenica sera nella sua casa nella città occupata di Ramallah, in Cisgiordania, come riportato dai media palestinesi. Secondo queste notizie, Jarrar è morta per un attacco di cuore.

La giovane Jarrar lavorava come ricercatrice ed esperta legale presso Al-Haq, un’organizzazione palestinese per i diritti umani con sede a Ramallah. Alcuni dei suoi lavori più importanti si sono concentrati sugli effetti ambientali dell’occupazione israeliana.

In un rapporto del 2019 ha sostenuto che le politiche discriminatorie israeliane impediscono ai palestinesi nella Cisgiordania occupata di adattarsi ai cambiamenti climatici.

In un necrologio, Al-Haq ha affermato che Suha era “una coraggiosa sostenitrice dei diritti del popolo palestinese all’autodeterminazione, alla libertà e alla dignità”.

Al-Haq ha detto di aver inviato un appello urgente alle Nazioni Unite chiedendo il rilascio “immediato e incondizionato” di Jarrar dalle carceri israeliane in modo che possa dire addio a sua figlia.

Gli attivisti palestinesi hanno anche diffuso una petizione online chiedendo il suo rilascio. Altri hanno organizzato manifestazioni a sostegno degli appelli nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza.

In un necrologio per Suha, Omar Shakir, direttore per Israele e la Palestina di Human Rights Watch, ha scritto: “Avendo ripetutamente detenuto Khalida [Jarrar] in violazione dei suoi diritti, le autorità israeliane dovrebbero almeno permetterle di dire addio a sua figlia”.

La prigionia di Jarrar

A marzo un tribunale militare israeliano ha condannato Jarrar a due anni di carcere per “incitamento alla violenza” e appartenenza a un'”organizzazione vietata”. La sua scarcerazione è prevista per settembre.

L’importante politica palestinese è detenuta da quando le forze israeliane la hanno arrestata a casa sua, nell’ottobre 2019, nella città di Ramallah nella Cisgiordania occupata.

Jarrar, che è stata anche membro dell’ex Consiglio Legislativo Palestinese (PLC), il parlamento ora sospeso della Palestina, è stata arrestata numerose volte e ha subito diversi periodi di detenzione amministrativa nelle carceri israeliane, in base alla norma secondo la quale i palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza possono essere detenuti senza la formulazione di un’accusa e senza prove per un periodo fino a sei mesi.

La 58enne appartiene al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), di sinistra, considerato un gruppo “terrorista” da Israele.

Jarrar è stata arrestata per la prima volta nel 1989 e trattenuta per un mese senza processo. Il suo secondo periodo di detenzione, nel 2014, si è prolungato con una condanna a 15 mesi di carcere. Alla fine è stata rilasciata nel febbraio 2019, prima di essere arrestata di nuovo nove mesi dopo.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Un tribunale militare israeliano prolunga di un’altra settimana la detenzione senza accuse di una cooperante spagnola

Juan Carlos Sanz

Gerusalemme, 26 aprile 2021 – El País

L’esercito afferma che è indagata per i suoi rapporti con un gruppo terrorista, ma la giustizia militare non ha presentato un’accusa formale

Lunedì [26 aprile] il tribunale militare di Ofer, in Cisgiordania, ha prorogato di una settimana la detenzione senza imputazione di Juana Ruiz Sánchez, di 62 anni, operatrice umanitaria di una Ong palestinese, arrestata dall’esercito lo scorso 13 aprile nei pressi di Betlemme. Fonti diplomatiche e i portavoce della famiglia hanno informato che la cooperante spagnola rimarrà in carcere fino a domenica per essere ancora interrogata dallo Shin Bet, il servizio di intelligence interna di Israele. In Spagna i responsabili di una campagna per la sua liberazione affermano che è stata spostata varie volte da una prigione all’altra e sottoposta a interrogatori che durano anche sei ore, per cui temono per la sua salute.

Durante la sua quarta dichiarazione di fronte alla giustizia militare, competente sul territorio palestinese occupato, Juana Ruiz è comparsa da remoto dalla prigione ed è stata assistita dal consolato generale di Spagna a Gerusalemme, senza che sia stata ancora presentata contro di lei un’accusa formale.

Dal 1984 vive con il marito, il palestinese cristiano Elías Rismawi, nella località di Beit Sahur (nella provincia di Betlemme). Da trent’anni lavora come coordinatrice di progetti di cooperazione con la Spagna per l’Ong locale Comitati di Lavoro per la Salute, che offre servizi sanitari alla popolazione palestinese attraverso una rete di cliniche ed ospedali. Come abitante della Cisgiordania le è stata applicata la legge militare in vigore sotto l’occupazione dal 1967, che consente di prolungare fino a 75 giorni l’arresto di sospettati perché vengano interrogati.

In violazione delle convenzioni internazionali, le autorità spagnole non sono state informate ufficialmente da quelle israeliane della sua detenzione. Fonti diplomatiche al corrente del suo caso affermano che dopo due settimane di arresto Juana Ruiz non ha ancora potuto ricevere gli effetti personali che i familiari le vogliono consegnare. Un medico l’ha visitata in prigione dopo che si è lamentata di aver bisogno di medicine per curare una malattia. La settimana scorsa il suo avvocato, Ibrahim al Araj, ha dichiarato all’agenzia di stampa EFE [principale agenzia di stampa spagnola, ndtr.] che lei è molto preoccupata. “Juana non sta bene, sta soffrendo molto e ogni giorno (che compare) in tribunale piange in continuazione,” ha affermato il legale.

Il ministero degli Esteri israeliano si è rifiutato di parlare della sua situazione, benché un portavoce abbia informato che la cittadina spagnola è stata arrestata “per essere indagata in quanto sospettata di aver commesso reati contro la sicurezza per attività terroristiche e finanziamento del gruppo terrorista Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP).”

In un comunicato l’ufficio del portavoce dell’esercito ha precisato che Juana Rasmawi (il suo cognome da sposata) è stata arrestata per “aver fornito servizi a un’organizzazione illegale (non identificata) affiliata al FPLP, aver avuto contatti con un agente straniero (senza precisare di quale Paese) e per reati relativi al riciclaggio di denaro.” L’esercito ha anche affermato che la cooperante non si trova in detenzione amministrativa [cioè senza accusa né processo, ndtr.] o indefinita, ma in arresto per essere interrogata.

Il tribunale militare ritiene che esistano indizi significativi che la sospettata abbia fatto parte di una rete per il riciclaggio di denaro per finanziare il FPLP,” aggiunge il comunicato stampa dell’esercito, che evidenzia che “un rappresentante del consolato ha assistito alle udienze.” Alle fonti diplomatiche e ai portavoce della famiglia contattati a Gerusalemme non risulta che le siano state comunicate queste accuse in tribunale, dove le è stato detto che era indagata per un reato grave.

Fonti diplomatiche spagnole hanno precisato che né il ministero degli Esteri né l’esercito israeliano hanno informato il consolato generale di Spagna a Gerusalemme, da cui dipendono gli spagnoli residenti in Cisgiordania, della detenzione di Juana Ruiz il 13 aprile, né della sua prima comparizione di fronte al tribunale militare di Ofer il giorno dopo, il modo che potesse offrire alla cooperante assistenza consolare. Lo si è potuto fare nelle tre udienze successive di fronte alla giustizia militare.

Situazione preoccupante e dolorosa per la famiglia”

Un comunicato della campagna spagnola per la liberazione di Juana Ruiz, appoggiata da duemila firme e da 150 organizzazioni, afferma che “la sua situazione è sempre più preoccupante e dolorosa per la famiglia” e che per questo “la diplomazia spagnola e quella europea dovrebbero dare assoluta priorità al suo caso.”

Ha anche segnalato che è sottoposta a un trattamento che può danneggiare la sua salute fisica e psicologica. Ora si trova in un carcere israeliano nei pressi della Striscia di Gaza, dove è stata spostata dalla prigione di Hasharon (al nord di Tel Aviv). “Non è il primo trasferimento che subisce, con lunghi spostamenti in veicoli della polizia,” aggiunge la nota informativa. “Si tratta di un centro penitenziario maschile, con un reparto femminile in cui è detenuta con altre due prigioniere.”

Il suo arresto è avvenuto un mese dopo che l’esercito è entrato nella sede centrale dei Comitati di Lavoro per la Salute, a Ramallah, per sequestrare documenti e computer. Nella retata è stato arrestato il capo del dipartimento di contabilità della Ong, Taysir Abu Sharbak.

Mezzi d’informazione israeliani hanno affermato che nella lista per le elezioni legislative palestinesi del partito di sinistra FPLP, considerato da Israele, USA e UE un gruppo terroristico dopo la Seconda Intifada (2000-2005), è candidato Walid Hanatsha, che è stato incarcerato dopo essere stato accusato di complicità in un attentato in Cisgiordania in cui nel 2019 è morta un’adolescente israeliana. In precedenza Hanatsha era stato direttore amministrativo e finanziario dei Comitati di Lavoro per la Salute.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




A questa famiglia palestinese vivere vicino alla moschea di Al-Aqsa costa molto caro

Aseel Jundi da Gerusalemme est occupata

20 febbraio 2021 – Middle East Eye

Da anni la famiglia Bashiti vive un ciclo senza fine di soprusi israeliani perché rifiuta di abbandonare la propria casa in posizione strategica

Mohammed Bashiti guida con estrema cautela la sua auto in via al-Wad, nella Città Vecchia di Gerusalemme. Al cartello di Bab al-Majlis [quartiere del centro storico di Gerusalemme, ndtr.] gira a destra verso la sua casa e parcheggia la macchina.

Bashiti si avvia con moglie e figlia verso un commissariato della polizia israeliana situato a destra dell’entrata della porta di Al-Aqsa ed entra in casa, solo a un metro dalla moschea di Al-Aqsa [principale edificio religioso della Spianata delle Moschee, ndtr.].

Mohammed, Binar e Baylasan sono gli unici membri della famiglia a cui è consentita questa parziale libertà di movimento. Gli altri tre figli, Hisham, Hatim e Abdul-Rahman, passano la maggior parte del loro tempo nelle prigioni israeliane, in centri di interrogatorio o agli arresti domiciliari.

Per capire le ragioni che stanno dietro queste continue vessazioni israeliane contro la famiglia è sufficiente entrare in casa, con le finestre e il cortile che si affacciano su Al-Aqsa.

Ma, poiché la famiglia conserva la proprietà rifiutandosi di venderla, le autorità israeliane hanno cercato di fare pressione su di loro provocando una difficoltà dopo l’altra, al punto che essi affermano di passare tutti i loro giorni a cercare di spegnere incendi.

I ragazzi Bashiti

Il figlio maggiore di Mohammed, il ventenne Hisham, è in prigione dall’ottobre scorso accusato di aver lanciato molotov contro forze di occupazione nella cittadina di Isawiya, nei pressi di Gerusalemme.

Si sono tenute udienze nei tribunali israeliani, ma non si è ancora raggiunto un verdetto.

Nel contempo il diciassettenne Hatim è stato il più fortunato tra i fratelli, in quanto quest’anno è riuscito a tornare a scuola e a prepararsi per la maturità.

Tuttavia continue angherie, compresi arresti, pongono ancora una minaccia alla sua istruzione e potrebbero spegnere i sogni di sua madre di vedere i figli con le uniformi di diplomati.

Il terzo figlio, Abdul-Rahman, un ragazzo di 16 anni affetto da diabete da quando ne aveva 4, recentemente è stato obbligato a lasciare la sua casa a Gerusalemme in seguito ad accuse poco chiare e attualmente è agli arresti domiciliari nella cittadina di Shuafat, a nord di Gerusalemme.

I servizi segreti israeliani hanno chiesto che i genitori rimangano con lui giorno e notte. Se devono andare nella Città Vecchia, la nonna rimane con lui finché non tornano. Mohammed, 46 anni, parla con Middle East Eye nella piccola casa di Gerusalemme per la quale la sua famiglia sta pagando un prezzo così alto per rimanervi.

Egli afferma che la causa principale che sta dietro tutto questo calvario è la posizione strategica della casa, con vista sulla moschea, oltre al rifiuto della famiglia di prendere in considerazione offerte allettanti perché lascino la proprietà.

Mohammed afferma che la sua famiglia ha delle proprietà nel quartiere di al-Sharaf, che è stato sotto il controllo di Israele dall’occupazione di Gerusalemme est nel 1967.

Nel 2004 denunciò il ministero israeliano degli Affari Religiosi chiedendo la restituzione delle sue proprietà confiscate, una delle quali era stata trasformata in una sinagoga.

Mohammed sostiene che i lavori di ristrutturazione della sinagoga vennero bloccati da un ordine del tribunale perché, riguardo a questa specifica proprietà, essa è effettivamente registrata a nome della famiglia Bashiti, come dimostra il catasto israeliano.

Tuttavia, date le spese elevate della causa e l’enorme pressione che la famiglia ha dovuto affrontare in mancanza di un qualunque appoggio ufficiale da parte palestinese, i Bashiti non ebbero altra scelta che rinunciare a proseguirla.

In seguito alla causa in tribunale le autorità dell’occupazione israeliana accentuarono la pressione su Mohammed ed iniziarono a fare irruzione più spesso nella sua casa di Gerusalemme.

Quando Hisham compì i 13 anni l’esercito israeliano iniziò a vessarlo, come è in seguito avvenuto ad Hatim e Abdul-Rahman.

“I miei tre figli e la loro sorella Baylasan non hanno mai goduto di un’infanzia pacifica,” afferma Mohammed. “Al contrario, la loro infanzia è stata segnata da irruzioni, incursioni, arresti, botte, tortura, separazione e arresti domiciliari. Le autorità dell’occupazione israeliana intendono piegarli perché vanno regolarmente a pregare nella moschea di Al-Aqsa e hanno un buon rapporto con la popolazione della Città Vecchia, una cosa che all’occupazione non piace.”

Un sacco di debiti

Fra le altre ragioni dei maltrattamenti c’è il ruolo della famiglia nella rivolta di Gerusalemme est nell’estate 2017, quando le autorità israeliane installarono metal detector e porte elettriche agli ingressi di Al-Aqsa.

I ragazzi della famiglia Bashiti appoggiarono i manifestanti che tenevano sit-in alla porta di Al-Nather, fornendo loro coperte, cibo ed acqua. Sorvegliarono e ripulirono anche la zona prima del sit-in del giorno successivo.

Mohammed lavora come badante di un anziano, ma qualche mese fa ha anche preso il lavoro di Hisham come guardia giurata per garantirgli uno stipendio mentre è in prigione. I debiti del padre aumentano di giorno in giorno.

A ogni nuovo arresto o separazione, deve pagare multe, soldi per la cauzione e costi legali, oltre a un sacco di altre spese che lo hanno oberato.

Mohammed è preoccupato di come riuscirà a far fronte ai debiti che deve rispettare e sta continuamente cercando nuovi garanti ogni volta che ha bisogno di soldi.

Ormai da anni passa la maggior parte del suo tempo in tribunali e in centri di interrogatorio, in carcere e in banca per cercare prestiti che lo aiutino ad affrontare le spese per gli arresti dei suoi figli. “Ho un armadio pieno di documenti riguardanti gli arresti dei miei tre figli, in cui ci sono decisioni del tribunale, ordini di arresto, ispezioni domiciliari, ammende e onorari,” afferma. “Ma semmai ciò non fa che aggiungere ancora più determinazione e risolutezza a rimanere in questa casa attigua a uno dei luoghi più sacri al mondo.”

L’undicenne Baylasan è seduta vicino a suo padre Mohammed. Mentre gioca con uno dei suoi giocattoli prima che tornino a Shuafat per rispettare l’ordine di risiedere con Abdul-Rahman, ascolta con attenzione quello che lui dice.

Fin dalla prima infanzia Baylasan ha assistito alle persecuzioni israeliane contro la sua famiglia, compresa la detenzione di suo padre e i continui arresti dei suoi fratelli, che sembrano non finire mai.

“Solo da poco ho iniziato ad accettare l’invito alla preghiera del muezzin della moschea di Al-Aqsa, perché per anni ho collegato la sua voce al momento in cui l’esercito attacca la nostra casa e arresta uno dei miei fratelli,” dice Baylasan a MEE.

“Ogni volta che compro vestiti nuovi da mettermi per un picnic con la famiglia o per andare da qualche parte ciò non avviene. Ora mi compro vestiti nuovi per andare a visitare mio fratello Hisham in prigione, dato che è diventata l’unico posto in cui vado.”

Baylasan parla della sua esperienza con l’esercito e i servizi segreti l’hanno perquisita mentre lei ripeteva loro che era lì da sola e non c’era nessun altro da arrestare.

“I colpi alla porta erano terrificanti e ho dovuto aprire. All’inizio ho cercato di controllarmi, ma quando è entrata mia madre ho perso il controllo ed ho iniziato a piangere in modo isterico,” dice.

“Spero che potrò vivere una vita pacifica come una qualunque bambina ovunque nel mondo, perché gli attacchi e le perquisizioni alla nostra casa e gli arresti dei miei fratelli mi terrorizzano e turbano il mio percorso educativo.” 

Mentre suo marito parla, Binar, sua moglie, ascolta in modo composto, ma la sua voce si rompe mentre parla degli anni di vessazioni contro i suoi ragazzi, soprattutto quando menziona il figlio malato, Abdul-Rahman, che è stato arrestato 20 volte in un anno. La scena della sua ultima detenzione è ancora vivida nella sua mente.

Abdul-Rahmam è stato arrestato all’alba del 4 gennaio mentre lui, suo fratello Hatim e due loro amici stavano mangiando sul tetto della casa. Il reparto Yamam della polizia, un’unità antiterrorismo, ha fatto irruzione nella casa e Binar ha sentito le parole “state fermi lì”.

Allora è corsa fuori e ha trovato i quattro giovani a terra e ammanettati, e Abdul Rahman le ha chiesto di dargli dell’acqua e il kit per il diabete. Dopo l’arresto Abdul-Rahman è stato trasferito in ospedale.

In seguito i suoi genitori hanno saputo dal medico di turno che era arrivato dal centro di interrogatorio a Gerusalemme est in uno stato molto grave, che avrebbe potuto portarlo a perdere la vista, in coma o persino alla morte.

Il figlio è rimasto in isolamento per 20 giorni prima di essere rilasciato e messo agli arresti domiciliari, dove in qualunque momento potrebbe essere convocato per essere interrogato. Durante l’ultima detenzione Abdul-Rahman ha perso 10 kg.

Benché Binar sia estremamente preoccupata per il peggioramento delle condizioni di Abdul-Rahman, è ancora più preoccupata per il maggiore, Hisham, negli ultimi quattro mesi detenuto nel carcere di Majedo.

Hisham è stato arrestato a Isawiya dal Mustaribeen, un’unità d’élite israeliana in borghese che si finge palestinese. È stato duramente picchiato e di conseguenza è stato ricoverato in ospedale per tre giorni prima di essere spostato in una cella per gli interrogatori, dove è rimasto 45 giorni.

Quando è andata a visitarlo la prima volta, Hisham ha detto a sua madre: “Durante l’arresto non ho visto niente. Ho solo sentito aprirsi le portiere dell’auto dei Mustaribeen e armare le pistole, pronte a fare fuoco.

“Sono stato gravemente ferito e mi sono svegliato in ospedale.”

Binar dice che tutto quello che spera è avere una vita stabile con tutti i membri della sua famiglia sotto lo stesso tetto e che le autorità israeliane smettano di perseguitare i suoi figli ad ogni minimo segno di disordini, persino quando si dà il caso che in quei momenti siano lontani dalla Città Vecchia.”

Detenuti palestinesi

Anche Muhammad Mahmoud, l’avvocato che rappresenta i ragazzi Bashiti, pensa che la ragione che sta dietro al fatto che questa famiglia sia presa di mira sia la collocazione strategica della loro casa. Le autorità israeliane stanno cercando di spingere il padre alla disperazione con l’intento di obbligarlo ad accettare di abbandonare la sua casa, afferma.

“A un’udienza per il caso di Abdul-Rahman erano presenti un rappresentante del servizio segreto di Gerusalemme, il consigliere giuridico dello Shabak (Il servizio di sicurezza interna di Israele) e il rappresentante incaricato della stanza quattro del centro di interrogatori,” dice Mahmoud.

“Per me era una situazione stridente e ridicola: tutti quegli ufficiali di alto rango erano venuti di persona per un ragazzino a chiedere la prosecuzione della sua detenzione.” Durante la sua carriera l’avvocato ha notato che gli investigatori israeliani evitano di tenere giovani detenuti in isolamento, salvo nei casi che considerano estremi, come presunti tentativi di accoltellamento.

Secondo Mahmoud questo fatto rende la detenzione di Abdul-Rahman in isolamento per un periodo così lungo un mistero e una violazione sia delle leggi israeliane che del diritto internazionale.

Alcune organizzazioni palestinesi, tra cui il Palestinian Prisoners Club [Centro per i Detenuti Palestinesi], la Commission of Detainees’ Affairs [Commissione per le Questioni dei Detenuti], il Prisoner Support [Appoggio ai Detenuti], la Human Rights Association [Associazione per i Diritti Umani] e il Wadi Hilweh Information Center [Centro di Informazione di Wadi Hilweh], hanno pubblicato insieme un rapporto in cui affermano che nel 2020 le autorità dell’occupazione hanno arrestato 4.634 palestinesi, tra cui 543 minorenni e 128 donne.

Gli ordini di detenzione amministrativa [cioè senza capi di imputazione né sentenze di condanna, ndtr.] emessi nello stesso periodo hanno raggiunto il numero di 1.114.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La studentessa palestinese Mays Abu Ghosh finalmente libera dopo 15 mesi di detenzione e trattamenti crudeli

Lina Alsaafin

4 dicembre 2020 – Chronique de Palestine

Mays Abu Ghosh, una studentessa di giornalismo, parla delle torture psicologiche e fisiche che ha subito durante il suo interrogatorio da parte delle forze israeliane di occupazione.

Abu Ghosh, studentessa di giornalismo all’università di Birzeit, è stata sequestrata nell’agosto 2019 ed accusata di far parte del Polo studentesco progressista democratico, un’organizzazione studentesca vietata dalle forze israeliane di occupazione, e di partecipare ad attività studentesche contro l’occupante.

È stata anche accusata di “comunicazione con il nemico” – ha partecipato ad una conferenza sul diritto al ritorno dei palestinesi – e di lavorare per un’agenzia di stampa che si ritiene affiliata al movimento Hezbollah (organizzazione della resistenza libanese).

Abu Ghosh è stata condannata ad una multa di 2.000 shekel (circa 500 euro) e rilasciata dal carcere di Damon al posto di controllo di Jalameh, a nord della città di Jenin in Cisgiordania illegalmente occupata, dove è stata accolta dalla famiglia e dagli amici.

Diverse associazioni di difesa dei diritti umani hanno dichiarato che Abu Ghosh ha rivelato loro le torture fisiche e psicologiche subite durante più di un mese nel tristemente celebre centro di interrogatori Maskobiyeh a Gerusalemme.

Queste associazioni hanno aggiunto che Mays è stata costretta a restare in diverse posizioni costrittive per lunghe ore ed è stata minacciata di tornare a casa paralizzata o disturbata mentalmente. È stata inoltre costretta ad ascoltare le grida e le urla di altri prigionieri sottoposti a interrogatorio ed è stata ripetutamente presa a schiaffi mentre i soldati israeliani le gridavano delle oscenità.

Voglio dire a tutti ciò che mi è successo durante la fase di interrogatorio e di tortura.”, ha dichiarato Abu Ghosh a Al Jazeera il giorno dopo la sua liberazione. “Non perché è qualcosa che è capitata personalmente a me, ma perché ogni palestinese sappia che cosa aspettarsi quando Israele lo arresterà.”

I tribunali militari israeliani, davanti ai quali vengono giudicati i palestinesi dei territori occupati, hanno un tasso di condanne del 99,74%.

La procura militare ha incriminato Ghosh per azioni legate alle sue attività sindacali studentesche all’università, oltre alla sua attività sui media”, ha dichiarato Addameer, un’associazione di difesa dei diritti dei prigionieri.

Tale prassi dimostra la criminalizzazione dei diritti umani più fondamentali da parte delle autorità di occupazione, attraverso ordini militari.”

Abu Ghosh ha aggiunto che il messaggio che vuole trasmettere da parte delle altre donne detenute è quello dell’“unità nazionale”.

Hanno anche richieste relative alle condizioni di vita, in particolare quelle che scontano lunghe pene”, ha dichiarato. “Le videocamere nel cortile del carcere funzionano in permanenza e violano la loro privatezza personale.”

La famiglia presa di mira

Nel gennaio 2016 il fratello maggiore di Abu Ghosh, Hussein, era stato ucciso dalle forze israeliane perché avrebbe compiuto un attacco all’arma bianca.

In seguito le forze israeliane avevano demolito la casa della famiglia.

Nell’agosto 2019 la casa di Abu Ghosh è stata oggetto di un’incursione all’alba da parte delle forze israeliane con cani dell’esercito.

Quella volta Mays era stata condotta in un luogo separato e le è stato ordinato di accendere il suo computer portatile e il suo telefono. In seguito al suo rifiuto le sono stati bendati gli occhi, è stata ammanettata e letteralmente presa in ostaggio.

Un mese dopo suo fratello Suleiman, di 17 anni, è stato arrestato per fare pressione su Abu Ghosh perché confessasse. Ha trascorso quattro mesi in detenzione amministrativa, incarcerato da Israele senza capi d’accusa né processo.

Anche i suoi genitori sono stati convocati per un interrogatorio.

Secondo Addameer sono detenute da Israele 40 donne palestinesi. La popolazione carceraria totale arriva attualmente a 4.500 persone, di cui 170 minori e 370 in detenzione amministrativa.

Nel carcere di Damon sette prigionieri hanno seguito corsi universitari, ma la scorsa settimana un’incursione nelle loro celle da parte del servizio penitenziario israeliano ha portato al sequestro dei loro libri.

Dopo la sua liberazione Abu Ghosh ha dichiarato di voler terminare i propri studi e proseguire la formazione professionale nell’ambito della comunicazione.

Le autorità penitenziarie hanno minacciato di mettere in isolamento i prigionieri che proseguono gli studi”, ha affermato Mays.

Insieme ad altri prigionieri abbiamo creato un piccolo programma per studiare filosofia, letteratura araba e poesia. Avevamo anche certi rituali che svolgevamo insieme, come prepararsi prima di una visita dei familiari”

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




La politica degli scioperi della fame

  Richard Falk

28 ottobre  2020 | Global Justice in the 21st Century  

Prima parte della mia Prefazione a A Shared Struggle: Stories of Palestinian and Irish Hunger Strikesdi Norma Hashim & Yousef M. Aljami, e pubblicata come articolo d’opinione da PoliticsToday il 27.10.20. Durante i miei 6 anni come Special Rapporteur ONU per la Palestina Occupata, trovavo fastidioso il silenzio dei media occidentali sugli scioperi della fame palestinesi, specialmente quando queste espressioni estreme di resistenza nonviolenta erano in reazione a restrizioni carcerarie attuate con decreto amministrativo, cioè senza accuse né prove per l’incriminazione.

Cogliere il senso degli scioperi della fame e della politica simbolica

Circostanze disperate danno luogo a comportamenti disperati. Se da parte di stati, i comportamenti di violenza estrema tendono ad essere razionalizzati come ‘autodifesa’, ‘necessità militare’, o ‘controterrorismo’, e le istanze di autorizzazione legale vengono trattate in modo appropriato. Qualora si tratti di atti di resistenza, addirittura nonviolenti, di persone che hanno a che fare con movimenti dissidenti, allora l’ordine stabilito e i suoi media di sostegno descrivono per routine tali atti come ‘terrorismo’, ‘criminalità’, ‘fanatismo’ criminalizzandone il comportamento, o se va bene esponendolo al disprezzo dell’ordine stabilito degli stati sovrani.


(Foto by Majdi Fathi/NurPhoto via Getty Images)

[Foto di murales ritraenti il palestinese 49enne Maher Al-Akhras carcerato da Israele, in sciopero della fame da 84 giorni (a Gaza City al 18 ott. 2020) per protesta alla sua detenzione senza processo]

Le forme statuali di lotta si basano sempre sulla violenza per sgominare il nemico, mentre la disperazione della resistenza talvolta assume la forma di infliggersi del male per indurre vergogna nell’oppressore affinché si moderi o alla fine magari smetta, non per empatia o cambiamento d’animo ma per timore di alienarsi l’opinione pubblica, intensificando la resistenza, perdendo legittimità internazionale, affrontando sanzioni.

È contro questo quadro di fondo che dobbiamo capire il ruolo dello sciopero della fame nel più ampio contest della resistenza a tutte le forme di governance oppressiva, sfruttatrice, crudele. Le lunghe lotte in Nord-Irlanda e Palestina sono fra gli esempi più amari di tali strette politiche che hanno catturato l’immaginazione morale di molte persone di coscienza fin dalla metà del secolo scorso.

Gli attivisti incarcerati che ricorrono allo sciopero della fame, individualmente o in collaborazione, sono ben consci di star imboccando un’opzione d’ultima istanza, che mostra nettamente la disponibilità a sacrificare la salute, l’integrità fisica e addirittura la vita per obiettivi ritenuti più importanti. Tali obiettivi di solito riguardano la salvaguardia della dignità o dell’onore di gente soggiogata o la mobilitazione di sostegno a una causa/lotta collettiva per la libertà, i diritti, l’uguaglianza. Uno sciopero della fame è una forma estrema di nonviolenza, comparabile solo con atti politicamente motivati di auto-immolazione, fisicamente nocivi solo a sé stessi, eppure capaci in determinate circostanze d’illimitato potenziale simbolico per mutare comportamento e dar luogo a imponenti manifestazioni di scontento di una popolazione che si crede riuscitamente repressa. Teli tattiche disperate sono integrali alle lotte per i diritti essenziali e alla resistenza a condizioni oppressive sia in Palestina sia in Nord-Irlanda.

(Si legga: Israeli Occupation and the Palestinian Identity)

Una verità non riconosciuta eppur vitale della storia recente è che politiche simboliche hanno spesso determinato gli esiti di lotte protratte contro attori statuali oppressivi che detengono un controllo dominante sulle zone di combattimento e una superiorità incontestata in quanto ad armi e capacità militari. E tuttavia pur con tali vantaggi in potere materiale ritenuti decisive in quel tipo di conflitto, continuano a subire alla fine una sconfitta politica. Può essere utile ricordare che l’auto-immolazione di monaci buddhisti a Saigon durante gli anni 1960 fu considerata uno spasmo della cultura in reazione all’intervento militare a guida americana. Che condusse gli studiosi vietnamiti a interpretare questi atti estremi di individui solitari, dotati della massima autorevolezza in termini di civiltà, come elementi di effettivo spostamento nell’equilibrio di forze in Vietnam in modi che allora e lì condannarono l’apparentemente irresistibile determinazione americana di controllare il futuro politico del Vietnam. Tali atti non posero fine alla guerra, ma segnalarono a coloro con antenne nella cultura vietnamita un esito contrario alle aspettative dei programmatori di guerra di Washington. Tragicamente, prima di riconoscere la sconfitta, la Guerra [USA] del Vietnam persistette per un decennio, devastando il paese e arrecando gran sofferenze al popolo del Vietnam. L’auto-immolazione, darsi fuoco come esempio irreversibile di proprio sacrificio, porta a conclusione la logica dello sciopero della fame. Secondo il suo autore e il contesto, l’auto-immolazione si può interpretare o come espressione di assoluta disperazione o come uno straziante appello a una pace giusta.

Fu l’auto-immolazione di un semplice verduriere ambulante, Mohamed Bouazizi nella città tunisina di Sidi Bouzid il 17 dicembre 2010 che richiamò l’attenzione alle deplorevoli condizioni del popolo tunisiano, innescando un’insurrezione nazionale che scacciò dal potere un dittatore corrotto, Ben Ali. Bouazizi, senza motivazione politica né l’autorevolezza spiritual dei monaci buddhisti, accese le mobilitazioni populiste che infuriarono nel mondo arabo nel 2011. In qualche modo l’auto-sacrificio del tutto personale di Bouazizi mise a fuoco l’intera regione. Una tale reazione non poteva essere predetta né fu programmata, eppure fu in seguito interpretata come generatrice di risposte rivoluzionarie a condizioni sottostanti intollerabili.

Senza dubbio, l’esempio supremo di politica simbolica trionfante in tempi moderni è stato lo straordinario movimento di resistenza e liberazione guidato da Gandhi che fuse i suoi scioperi della fame a oltranza con spettacolari forme nonviolente di azione collettiva (per esempio, la ‘marcia del sale’ del 1930), compiendo ciò che pareva impossibile al tempo, ridurre in ginocchio l’Impero Britannico, e così facendo restituire statualità indipendente e sovranità all’India.

(Si legga: Expanding Definitions of Anti-Semitism Shield Israel from Its Crimes)

Sia gli oppressi che gli oppressori imparano dai successi e dai fallimenti passati di politica simbolica. Gli oppressi ci vedono un estremo e nobilitante approccio alla resistenza e liberazione. Gli oppressori imparano che le guerre sovente non vengono decise da chi vince sui campi di battaglia bensì dal versante che si procura un vantaggio decisive simbolicamente in quelle che ho prima definito ‘guerre di legittimazione’. Con tale nozione della propria vulnerabilità, gli oppressori reagiscono, diffamano e usano violenza per distruggere con ogni mezzo la volontà di resistenza degli oppressi, specialmente ove le poste in gioco comportino cedere il livello morale e legale superiore. La dirigenza israeliana ha imparato, specialmente, dal crollo dell’apartheid sudafricana a non pendere alla leggera la politica simbolica.

Israele è stato particolarmente privo di scrupoli nelle proprie reazioni alle sfide simboliche al proprio abusivo regime di controllo apartheid. Israele, col sostegno USA, ha montato una ripulsa diffamatoria a livello mondiale contro le critiche all’ONU o da parte di difensori dei diritti umani per il mondo, giocando spudoratamente la ‘carta antisemita’ nel tentativo di distruggere gli sforzi solidali nonviolenti come la campagna pro-palestinese BDS modellata su un’iniziativa che aveva mobilitato un’opposizione mondiale all’apartheid sudafricana.

In modo evidente, nel caso sudafricano la tattica BDS fu messa in questione per l’efficacia e l’ appropriatezza, ma i suoi organizzatori e quasi tutti i sostenitori più militanti non furono mai diffamati e tanto meno criminalizzati. Questo riconoscimento d’Israele della potenzialità della politica simbolica ha ostruito le lotte di liberazione palestinesi nonostante quelle che sembrerebbero realtà vantaggiose dell’assetto post-coloniale. La versione israeliana del regime di apartheid si è evoluta come necessario effetto laterale dell’istituzione di uno stato ebraico esclusivista in uno stato non-ebraico. Tale progetto Sionista richiedeva che il popolo palestinese divenisse vittima dello spostamento colonialista operato nella sua stessa patria.  Israele ha imparato dall’esperienza sudafricana le tecniche di gerarchizzazione e repressione razziale, essendo anche conscio delle vulnerabilità degli oppressori a forme intense di nonviolenza che validavano la resistenza perseverante di quegli oppressi. Israele è ben deciso a non ripetere il crollo dell’apartheid sudafricano, e perciò gli è necessaria la sola repressione dei resistenti ma la demoralizzazione dei sostenitori.

Una realtà simile esisteva in Nord-Irlanda dove i ricordi delle colonie perse verso avversari più deboli pian piano insegnò al Regno Unito lezioni di accommodamento e compromesso, che indussero i leader di Londra a spostare il proprio punto focale dal controterrorismo alla diplomazia, con l’acme drammatico dell’Accordo del Venerdì Santo nel 1998. Israele non è il Regno Unito, e gli irlandesi non sono i palestinesi. Israele mostra nessuna disponibilità a concedere al popolo palestinese i diritti più elementari, tuttavia perfino Israele non vuole essere umiliato in modi che possono stimolare l’opinione pubblica a passare oltre la retorica della censura verso effettive sanzioni. Il Servizio Carcerario israeliano non vuole che scioperanti della fame muoiano in prigionia, non per empatia, ma per evitare cattiva pubblicità.  A tale scopo le autorità carcerarie israeliane faranno concessioni, arrivando perfino al rilascio, allorché uno scioperante della fame pare temibilmente vicino alla morte, e precedenti tentativi di alimentazione forzata sono falliti. Le prospettive palestinesi dipendono più che mai dal tentare e conseguire vittorie nell’ambito della politica simbolica, e Israele, con l’aiuto degli Stati Uniti, farà di tutto per nascondere questa sconfitta in questa che è la più lunga fra le guerre di legittimazione.

E’ su tale sfondo che sono emersi i contributi palestinese e irlandese nel sottolineare l’essenziale somiglianza di queste due epiche lotte anti-coloniali. Ciò che dà autorità e potere persuasive alle storie degli scioperanti della fame palestinesi e irlandesi è l’autenticità derivante dalle parole di questi uomini e donne coraggiosi che hanno scelto d’intraprendere scioperi della fame in situazioni di disperazione e hanno provato non solo il tormento che aguzza lo spirito ma la perdita di compagni caduti, martirizzati, delle famiglie affrante dal dolore, e il loro comune sforzo di impegnarsi nelle vaste lotte per i diritti e la libertà in corso fuori dalle mura delle loro prigioni.

Pur con le ampie differenze fra le loro rispettive lotte contro l’oppressione, le analogie della risposta hanno creato il più profondo dei legami, specialmente degli irlandesi verso i palestinesi con una realtà oppressiva più grave, legame che si è mostrato più durevole benché i sogni degli irlandesi restino ampiamente irrealizzati. Al tempo stesso, l’esempio d’ispirazione degli scioperanti della fame irlandesi che non abbandonarono la propria ricerca di giustizia elementare alle soglie della morte non è andato perduto dai palestinesi.

Richard Falk

Richard Falk è membro del TRANSCEND Network, studioso di relazioni internazionali, professore emerito di diritto internazionale all’Università di Princeton, Distinguished Research FellowOrfalea Center of Global Studies, UCSB, autore, coautore o editore di 60 libri e relatore e attivista per gli affari mondiali. Nel 2008, il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite (UNHRC) ha nominato Falk per due periodi di tre anni come relatore speciale delle Nazioni Unite sulla «situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967». Dal 2002 vive a Santa Barbara, in California, e si è associato con il campus locale dell’Università della California, e per diversi anni ha presieduto il Board of the Nuclear Age Peace Foundation. Il suo libro più recente è On Nuclear Weapons, Denuclearization, Demilitarization and Disarmament (2019)

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis




Palestinese detenuto da Israele interrompe lo sciopero della fame dopo 103 giorni

6 novembre 2020 – Al Jazeera

Maher ha iniziato lo sciopero della fame per protestare contro la sua detenzione di quattro mesi, che termina il 26 novembre ma potrebbe essere prolungata.

Un palestinese incarcerato a luglio da Israele perché presunto membro di un gruppo armato ha interrotto lo sciopero della fame dopo 103 giorni, ha affermato la moglie.

Maher al-Akhras, 49 anni, è stato arrestato nei pressi della città di Nablus, nella Cisgiordania occupata, e posto in detenzione amministrativa, una politica che Israele utilizza per incarcerare sospetti senza accuse.

Venerdì [6 novembre] sua moglie Taghrid ha detto all’agenzia di notizie AFP che Maher “dopo 103 giorni ha interrotto lo sciopero della fame.”

In una telefonata dall’ospedale di Rehovot, una città israeliana a sud di Tel Aviv in cui suo marito è in cura, ha detto di essere “contenta” per la decisione, ma ancora “preoccupata” date le sue gravissime condizioni di salute.

Non ci sono stati commenti immediati da parte delle autorità israeliane in merito a se hanno offerto qualche garanzia particolare a Maher, ricoverato in un ospedale israeliano per problemi di cuore e convulsioni, secondo sua moglie.

In precedenza, sempre venerdì, Taghrid ha detto che Maher stava per morire, con gravi spasmi ed emicrania.

L’agenzia israeliana per la sicurezza interna Shin Bet afferma che Maher è stato arrestato in seguito a informazioni secondo cui egli sarebbe un militante dell’organizzazione armata Jihad Islamica, un’accusa che la moglie smentisce.

Padre di sei figli, ha iniziato lo sciopero della fame per protestare contro il suo ordine di detenzione di quattro mesi, che finisce il 26 novembre, ma potrebbe essere prolungato.

Maher aveva giurato che avrebbe continuato a rifiutare cibo solido nonostante la decisione della Corte Suprema israeliana ad ottobre di non prolungare la sua detenzione oltre quella data.Ma, dopo aver ricevuto quella che essa ha definito “un forte impegno (da parte di Israele) di non rinnovare la sua detenzione amministrativa… Maher Al-Akhras ha deciso di porre fine allo sciopero della fame,” ha detto venerdì in un comunicato il Palestinian Prisoners Club [associazione indipendente di ex-detenuti palestinesi, ndtr.], che opera a favore dei prigionieri.

Passerà in cura nell’ospedale il periodo [di detenzione] fino al suo rilascio,” aggiunge il comunicato.

Cinque membri della Lista Araba Unita [coalizione di partiti arabo-israeliani, ndtr.] nel parlamento israeliano, che hanno visitato Maher in ospedale, hanno diffuso su Facebook l’annuncio della fine dello sciopero della fame.

Il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh ha chiesto il suo immediato rilascio, mentre palestinesi e cittadini palestinesi di Israele hanno manifestato in suo favore.

Secondo l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, nell’agosto di quest’anno erano circa 355 i palestinesi, compresi due minorenni, detenuti per ordini di detenzione amministrativa.

Molti prigionieri palestinesi affermano di essere stati sottoposti a torture e violenze mentre erano in prigione. Negli ultimi anni ci sono state molte proteste, tra cui parecchi scioperi della fame, contro le pessime condizioni carcerarie.

Molti detenuti soffrono anche per la scarsa assistenza sanitaria nelle prigioni. I carcerati devono pagare per l’assistenza medica e non gli vengono fornite cure adeguate.

Al Jazeera ha in precedenza informato che molti hanno ricevuto antidolorifici come cure e come trattamento per malattie croniche.

Secondo Addameer, organizzazione che aiuta i prigionieri, da settembre 4.400 prigionieri politici palestinesi, tra cui 39 donne e 155 minorenni, sono stati incarcerati nelle prigioni israeliane.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Intervento urgente per liberare immediatamente il detenuto amministrativo in sciopero della fame Maher Al-Akhras in imminente pericolo di morte

7 ottobre 2020,  Addameer

 

Il signor Maher Al-Akhras, un detenuto amministrativo palestinese di 49 anni nelle carceri israeliane, è attualmente in imminente pericolo di morte all’ospedale di Kaplan in  seguito al crescente deterioramento ed alla gravità delle sue condizioni di salute dopo 73 giorni di sciopero della fame. Il signor Maher annunciò che avrebbe iniziato uno sciopero della fame il giorno del suo arresto, il 27 luglio 2020, nel tentativo di chiedere giustizia contro l’infame ordine di detenzione amministrativa di quattro mesi. Da allora, ha ingerito esclusivamente acqua, rifiutando integratori come vitamine o sali e qualsiasi altro liquido.

Il 23 settembre 2020, Ahlam Hadad, l’avvocato del signor Maher, ha presentato una petizione per revocare l’ordine di detenzione amministrativa e, in risposta, l’Alta corte israeliana ha deciso di “congelare” l’ordine contro il signor Maher. La corte ha spiegato che, al momento, tenendo presente lo stato di salute critico del signor Maher, non esiste una “minaccia alla sicurezza” o la possibilità di una minaccia futura.

La decisione di “congelare” il provvedimento di fermo amministrativo non lo annulla in alcun modo né elimina il rischio che venga rinnovato e neppure quello che venga completato successivamente con i mesi che mancano.

Indica semplicemente che il signor Maher non è attualmente detenuto e gli sono concessi i diritti di visita. Questo è un tentativo di interrompere lo sciopero della fame in corso del signor Maher e una tattica intimidatoria che mira a continuare a opprimere il detenuto negandogli ogni diritto di difendersi legittimamente e di cercare giustizia.

Successivamente, il 1 ° ottobre 2020, è stata presentata una seconda petizione contro l’ordine di detenzione amministrativa, tuttavia il tribunale ha respinto la petizione sulla base del fatto che al momento l’ordine è inattivo e quindi non può essere revocato. È evidente che l’intenzione del procuratore militare israeliano, insieme alle forze di intelligence israeliane (“Shabak”), è quella di mantenere il signor Maher sotto detenzione amministrativa. Nonostante la mancanza di prove chiare o lo svolgimento di indagini serie sulla credibilità delle accuse contro di lui. Data la tenacia della corte a non revocare l’ingiusto ordine di detenzione amministrativa del signor Maher e le intenzioni delle autorità di occupazione israeliane, il signor Maher si sta ancora sottoponendo allo sciopero della fame.

Dopo il suo arresto, il signor Maher è stato portato al centro di detenzione di Hawara e, quando ha annunciato il suo sciopero della fame, è stato trasferito nelle celle della prigione di Ofer fino a quando non è stato portato  nella prigione della clinica Ramla. Il 23 settembre 2020, poiché il signor Maher ha iniziato a perdere saltuariamente conoscenza e ha avuto altri problemi di salute, è stato trasferito all’ospedale di Kaplan. Va detto che questa non è la prima volta che Maher Al-Akhras è stato soggetto ad arresti da parte di Israele e a detenzione amministrativa. È stato arrestato per la prima volta nel 1989 per sette mesi e successivamente nel 2004 per altri due anni. Successivamente, è stato detenuto nel 2009 per 16 mesi in detenzione amministrativa e di nuovo nel 2018 per 11 mesi in detenzione amministrativa.

L’uso e la pratica sistematici e arbitrari della detenzione amministrativa da parte delle autorità di occupazione israeliane hanno richiamato  una diffusa condanna da parte di organizzazioni locali e internazionali che è stata considerata una  violazione dei diritti umani fondamentali. In particolare, il 13 maggio 2016 il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura (“UNCAT”) ha invitato il governo israeliano a “prendere le misure necessarie per porre fine alla pratica della detenzione amministrativa e garantire che a tutte le persone attualmente carcerate  in detenzione amministrativa abbiano garanzie legali di base. ”

Di conseguenza, il Consiglio delle organizzazioni palestinesi per i diritti umani conferma quanto detto sopra e chiede inoltre:

i. Ad Israele, in quanto potenza occupante, di rilasciare immediatamente il signor Maher Al-Akhras, che è attualmente in imminente pericolo di morte , di interrompere tutte le procedure e le intenzioni di mantenere il signor Maher in detenzione amministrativa e porre fine all’uso sistematico e arbitrario della detenzione amministrativa contro i palestinesi

ii. Alla comunità internazionale e a tutte le Alte Parti aderenti alla Quarta Convenzione di Ginevra ad adempiere ai loro obblighi nei confronti della protezione dei diritti umani e dell’applicazione del diritto internazionale umanitario, soprattutto quando vengono perpetrate gravi violazioni in tempi di conflitto e occupazione;

iii. L’ immediata intervento delle relative procedure speciali delle Nazioni Unite (“ONU”) che prevedono un Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nel territorio palestinese occupato dal 1967, il signor S. Michael Lynk; e il gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria.

 

Traduzione a cura di Associazione di Amicizia Italo-Palestinese.




Israele e il “trasferimento silenzioso” dei palestinesi fuori dalla Palestina

Ibrahim Husseini

27 settembre 2020 – Al Jazeera

Conferendo un precario status di residenza a Gerusalemme Est, Israele è riuscito a revocare e successivamente sradicare più di 14.200 palestinesi.

Gerusalemme Est occupata – Mentre un numero sempre maggiore di Paesi arabi normalizza le relazioni con Israele, si procede con una politica di “trasferimento silenzioso” – un intricato sistema che prende di mira i palestinesi nella Gerusalemme est occupata con revoca della residenza, espulsione attraverso la demolizione di case, ostacoli per ottenere licenze edilizie e tasse elevate.

Il ricercatore palestinese Manosur Manasra segnala che Israele ha iniziato questa politica ostile di trasferimento dei palestinesi da Gerusalemme est quasi immediatamente dopo la guerra del 1967 e la successiva occupazione della parte orientale della città.

Questa politica continua ancora oggi, con l’obiettivo di prendere il controllo di Gerusalemme Est.

L’espropriazione di terra per permettere l’insediamento di ebrei è avvenuta sin dal 1968 intorno a Gerusalemme est e nel cuore dei quartieri palestinesi quali i quartieri musulmani e cristiani della città vecchia e oltre, a Sheikh Jarrah, Silwan, Ras al-Amoud e Abu Tur.

Dopo la guerra del giugno 1967, Israele ha applicato la legge israeliana a Gerusalemme Est e ha concesso ai palestinesi uno status di “residente permanente”, che però è in realtà precario. B’tselem, il centro israeliano di informazione sui diritti umani nei territori palestinesi occupati, descrive questo status come “accordato a cittadini stranieri che desiderano risiedere in Israele” – senonché i palestinesi sono nativi del territorio.

I palestinesi di Gerusalemme est non hanno automaticamente diritto alla cittadinanza israeliana né l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) rilascia passaporti palestinesi. Di solito possono ottenere documenti di viaggio temporanei giordani e israeliani.

Assegnando ai palestinesi di Gerusalemme est un precario status di residenza, Israele è riuscito dal 1967 a revocare e successivamente sradicare da Gerusalemme est più di 14.200 palestinesi.

Queste misure sono unite ad una aggressiva pratica di demolizione di case. Le demolizioni di case in Cisgiordania non si sono fermate nonostante la pandemia di coronavirus.

Secondo le Nazioni Unite, il numero degli sfrattati è quasi quadruplicato da gennaio ad agosto 2020 e c’è stato un aumento del 55% delle strutture oggetto di demolizione o confisca rispetto all’anno precedente.

Il mese scorso a Gerusalemme Est sono stati demoliti 24 edifici, metà dei quali dagli stessi proprietari a seguito dell’emissione di un ordine di demolizione da parte del comune di Gerusalemme.

Lo status di “residenza permanente” si mantiene fino a che i palestinesi rimangono fisicamente in città. Tuttavia, in alcuni casi, le autorità israeliane decidono di ritirare lo status di residenza ai palestinesi di Gerusalemme est come provvedimento punitivo perché sono dissidenti politici. La persecuzione da parte di Israele degli attivisti palestinesi è tentacolare e non esclude alcuna fazione.

Il caso più recente è quello del 35enne Salah Hammouri, avvocato e attivista. Arye Deri, ministro degli Interni israeliano, afferma che Salah è membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP). Israele ha messo fuori legge il gruppo e vuole cacciarlo dal Paese.

In alcuni casi, le autorità israeliane annullano per rappresaglia i permessi di soggiorno dei coniugi di attivisti politici. Shadi Mtoor, un membro di Fatah a Gerusalemme Est, sta attualmente combattendo una causa nei tribunali israeliani per mantenere a Gerusalemme Est la residenza di sua moglie, originaria della Cisgiordania.

Nel 2010, Israele ha revocato la residenza a Gerusalemme di quattro alti membri di Hamas – tre dei quali sono stati eletti al parlamento palestinese nel 2006 e uno è stato ministro di gabinetto – perché rappresentano un pericolo per lo Stato. Tre ora vivono a Ramallah e uno è in detenzione amministrativa [cioè senza imputazione, ndtr.]. Il 26 ottobre è prevista un’udienza presso l’Alta Corte israeliana.

In alcuni casi, Israele non rilascia il documento di residenza a bambini il cui padre sia di Gerusalemme e la madre cisgiordana.

Il diritto internazionale condanna esplicitamente il trasferimento forzato di civili.

“In definitiva, la nostra decisione è di rimanere in questa città”, dice Hammouri.

All’inizio di settembre è stato convocato dalla polizia israeliana e informato dell’intenzione del Ministero degli Interni israeliano di revocare la sua residenza a Gerusalemme.

“Mi è stato detto che costituisco un pericolo per lo Stato e che appartengo al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina”, ha detto Hammouri.

Cittadino francese, Hammouri è nato a Gerusalemme da padre palestinese e madre francese. Nel 2017, la famiglia si è divisa quando Israele ha vietato a sua moglie, Elsa, anche lei di nazionalità francese e all’epoca incinta, di entrare nel Paese. Si disse che fosse a causa di un file segreto in possesso di Israele.

Hammouri si aspetta che, dopo la revoca formale della sua residenza, Israele lo espellerà verso la Francia. Il governo francese, in risposta, ha rilasciato una dichiarazione chiedendo a Israele di consentire ad Hammouri di continuare a risiedere a Gerusalemme.

E afferma: “Il signor Salah Hammouri deve poter condurre una vita normale a Gerusalemme, dove è nato e dove risiede”.

Il Ministero degli Esteri israeliano sostiene che Hammouri è “un agente operativo di alto livello” di un’organizzazione terroristica e continua a impegnarsi in “attività ostili” contro lo Stato di Israele.

È ora in corso in Francia una campagna di solidarietà che invoca il diritto di Hammouri di mantenere la sua residenza a Gerusalemme, e i diplomatici francesi a Gerusalemme stanno attualmente negoziando con i funzionari israeliani per convincerli a revocare la decisione. Hammouri intende ricorrere in tribunale contro la revoca della sua residenza.

Hammouri ha trascorso in tempi diversi più di otto anni nelle carceri israeliane. Nel 2011, dopo una condanna a sette anni di reclusione, è stato liberato grazie ad un accordo per lo scambio di prigionieri tra Hamas e Israele (noto come accordo Shalit [dal nome di un soldato israeliano rimasto per 5 anni prigioniero a Gaza e scambiato con più di 1.000 detenuti palestinesi, ndtr.]).

Sahar Francis, direttore della Prisoner Support and Human Rights Association [Associazione per il Sostegno e i Diritti Umani dei Prigionieri, ndtr.] nota come Addameer, ha detto ad Al Jazeera: “Secondo il diritto internazionale la revoca della residenza è illegale “.

Lo Stato di occupazione non ha il diritto di togliere la residenza alle persone, protette ai sensi della Quarta Convenzione di Ginevra. Si chiama trasferimento forzato, e il trasferimento forzato è proibito”, ha detto Francis.

Il FPLP si è inizialmente opposto agli accordi di Oslo del 1993, ma poi è arrivato ad accettare la soluzione dei due Stati. Tuttavia nel 2010 ha invitato l’OLP a porre fine ai negoziati con Israele e ha affermato che è possibile solo la soluzione di uno Stato unico per palestinesi ed ebrei.

“Vedo un orizzonte molto buio”, dice Khaled Abu Arafeh, 59 anni, ex Ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese.

“Israele farà fruttare i recenti sviluppi locali e regionali della normalizzazione e il risultato sarà l’espulsione degli abitanti della Cisgiordania e la riformulazione dello status dei palestinesi del 1948”, aggiunge.

Abu Arafeh è stato Ministro per le Questioni di Gerusalemme tra marzo 2006 e marzo 2007 nel governo di Ismail Haniyeh, formato dopo che Hamas ha ottenuto la maggioranza dei seggi alle elezioni parlamentari del 2006.

Due mesi dopo la formazione del governo palestinese, la polizia israeliana ha notificato a tre membri del Consiglio Legislativo Palestinese (PLC) e al ministro del governo Abu Arafeh, tutti di Gerusalemme, che avevano 30 giorni per lasciare il loro incarico o il loro status di residenti sarebbe stato revocato.

La minaccia della polizia israeliana è stata respinta e i quattro sono ricorsi in tribunale per contestare l’ultimatum del ministero dell’Interno.

Il 29 giugno 2006, la polizia israeliana ha condotto un’ampia campagna di arresti che ha preso di mira 45 membri neoeletti del PLC e 10 ministri del governo. I membri del PLC di Gerusalemme Muhammad Abu Teir, Muhammad Totah, Ahmad Atoun e Abu Arafeh erano tra gli arrestati. Israele li ha accusati di appartenere alla lista “Riforma e Cambiamento”, affiliata al movimento islamico Hamas.

Abu Arafeh è stato condannato a 27 mesi di prigione ed è stato rilasciato nel settembre 2008. Abu Teir e Totah sono stati condannati a pene più lunghe e sono stati rilasciati solo a maggio 2010.

Il 1 giugno 2010, la polizia israeliana ha di nuovo convocato i quattro. Questa volta è stato ordinato loro di consegnare i loro documenti di identità di Gerusalemme e gli è stato concesso un mese per lasciare Israele.

Proprio quando il termine stava per scadere, la polizia israeliana ha arrestato Abu Teir.

Abu Arafeh, Atoun e Totah, presentendo un imminente arresto, si sono rifugiati nell’edificio del Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) a Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est. La loro permanenza è durata 19 mesi, e vivevano in una tenda all’interno dei locali. La polizia israeliana ha infine preso d’assalto l’edificio e arrestato i tre uomini.

Sono stati accusati di appartenere a un “gruppo terroristico” e di ricoprire ruoli importanti nel movimento di Hamas, nonché di istigazione contro lo Stato di Israele. Sono stati condannati a due anni di carcere. Dopo il loro rilascio, si sono stabiliti a Ramallah.

“Lontano da al-Quds [Gerusalemme per i musulmani, ndtr.], mi sento tagliato fuori, assolutamente un estraneo”, ha lamentato Abu Arafeh.

La famiglia di Abu Arafeh continua a risiedere a Gerusalemme est. “Vivo a Ramallah e loro vivono ad al-Quds”, ha detto Abu Arafeh ad Al Jazeera. “Mi vengono a trovare ogni fine settimana e poi tornano a casa.”

Atoun è attualmente in detenzione amministrativa, la sua quarta dal 2014.

Nel 2018, l’Alta Corte israeliana ha stabilito che la decisione del Ministero degli Interni di revocare lo status di residente era illegale in quanto non c’erano leggi a sostegno. Tuttavia, ha dato al ministro degli Interni sei mesi per presentare una legge alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.]. La Knesset ha approvato una legge che consente la revoca della residenza a individui ritenuti non fedeli allo Stato di Israele.

Fino ad oggi i quattro palestinesi non hanno documenti d’identità che permettano loro di attraversare i posti di blocco israeliani all’interno della Cisgiordania. L’unico documento che hanno potuto ottenere è stata la patente di guida dall’Autorità Nazionale Palestinese, ma solo dopo l’approvazione da parte dell’esercito israeliano.

Poiché non hanno documenti d’identità, raramente si avventurano fuori Ramallah per paura di essere fermati e arrestati a un posto di blocco israeliano.

I quattro si sono appellati alle leggi dell’Alta Corte e hanno chiesto a Israele di fornire loro una residenza alternativa che consenta loro di vivere legalmente in Cisgiordania. Per il 26 ottobre è prevista un’udienza in tribunale, ma Abu Arafeh non si aspetta una sentenza.

Non ci aspettiamo una decisione; l’autorità di occupazione sta usando il tempo contro di noi”, ha detto.

Una donna palestinese ventiquattrenne, che ha chiesto di essere identificata come JA, è nata nella città di Betlemme in Cisgiordania. Suo padre è di Gerusalemme Est e possiede un documento di identità di Gerusalemme. Ma sua madre è di Betlemme e possiede una carta d’identità rilasciata dall’Autorità Nazionale Palestinese.

Il Ministero degli Interni israeliano ha respinto tutte le domande di rilascio di una carta d’identità a JA perché è nata in Cisgiordania. Peraltro, l’ANP non le ha rilasciato una carta d’identità perché suo padre ha un documento d’identità di Gerusalemme.

Quindi attualmente JA non ha alcun documento. Questa situazione le ha causato infiniti problemi nell’iscrizione a scuola, nella ricerca di un impiego, nell’apertura di un conto in banca e in altre necessità ordinarie. Non ha mai viaggiato.

JA sta ora intentando una causa contro il Ministero degli Interni israeliano nel tentativo di ottenere una residenza legale.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)