Le molte questioni della Dichiarazione Balfour

Joseph Massad

8 Novembre 2017,The Electronic Intifada

Alla fine del XVIII° secolo gli illuministi europei, nel loro tentativo di ripulire l’Europa da poco inventata da qualunque cosa che non fosse cristiana e di conseguenza non occidentale, inventarono quella che chiamarono “la questione orientale” e “questione ebraica”, complementare alla prima.

Entrambe le questioni dovevano diventare fondamentali per gli obiettivi imperialisti europei di disgregare l’impero ottomano ed occupare i suoi territori. All’inizio del XX° secolo, quando la Prima Guerra Mondiale stava per terminare, questi europei illuminati decisero di risolvere le due questioni trasformandole, attraverso il colonialismo di insediamento, in quella che chiamarono la “questione palestinese”.

La “questione orientale”

La “questione orientale” fu quella relativa all’Oriente che invadeva l’Occidente, cioè era il problema dell’impero ottomano che doveva essere sconfitto. Questa sconfitta fu finalmente raggiunta alla fine della Prima Guerra Mondiale e, con essa, l’Occidente risolse la “questione orientale”.

Riguardo alla “questione ebraica”, era legata alla permanenza dell’Oriente in Occidente, che i cristiani europei, illuminati o meno, trovavano intollerabile. È vero che sia l’Ebraismo che il Cristianesimo sono religioni palestinesi. È anche un fatto storico indiscutibile che gli abitanti di quella che più tardi sarebbe stata chiamata “Europa”, sia cristiani che ebrei, si convertirono a quelle religioni palestinesi secoli dopo che l’avevano già fatto i palestinesi.

È vero anche che questi nuovi cristiani di quella che sarebbe diventata Europa non pensarono mai a se stessi come diretti discendenti degli antichi cristiani palestinesi che parlavano aramaico, ma si vedevano giustamente come convertiti più recenti a questa religione palestinese. Eppure questi stessi convertiti al Cristianesimo ribadivano spesso che i convertiti all’Ebraismo in quella che sarebbe diventata l’Europa erano in qualche modo discendenti degli antichi ebrei palestinesi che parlavano anche loro aramaico al tempo della cosiddetta espulsione da parte dei romani nel I° secolo [D.C.].

Ciò era importante perché questi convertiti al Cristianesimo accusarono i convertiti all’Ebraismo dell’uccisione del Cristo palestinese. Più tardi né i cristiani ortodossi né i cattolici pensarono mai di espellere questi ebrei verso la Palestina. Né questi convertiti all’Ebraismo avevano mai desiderato di emigrare in massa dai propri Paesi in Palestina.

Dato che i convertiti al Cristianesimo riflettevano sul luogo geografico da cui la fede a cui si erano convertiti era stata originata, decisero che doveva passare in loro potere. Questa fu l’origine del primo Sionismo cristiano europeo, che venne chiamato “Crociate”. I protestanti, i fondamentalisti cristiani del Rinascimento, iniziarono ad essere ossessionati dagli ebrei europei, vedendoli di nuovo non come convertiti locali all’Ebraismo, ma come in qualche modo ancora legati all’antica Palestina, e iniziarono a invocare il loro cosiddetto “ritorno” alla Terra Santa come parte del progetto millenaristico per accelerare il secondo avvento di Cristo. Gli ebrei europei resistettero e, insieme ai correligionari americani, resistono ancora adesso a questi appelli per l’auto-espulsione dall’Europa e dagli Stati Uniti verso una lontana terra asiatica.

La “questione ebraica”

È in questo contesto che gli europei illuminati posero quella che alla fine del XVIII° secolo chiamarono “la questione ebraica” come un problema di stranieri asiatici orientali che vivevano nell’Europa occidentale. Napoleone chiese agli ebrei francesi di garantire che non stessero più praticando l’Ebraismo orientale, che consentiva agli uomini di sposare più di una donna, prima di accettarli come cittadini con gli stessi diritti nella Francia post-rivoluzionaria. Una delegazione di ebrei francesi gli garantì che gli ashkenaziti [letteralmente “germanici”, ebrei dell’Europa centro-orientale, ndt.] europei avevano bandito queste eresie non cristiane nel XII° secolo e che quindi erano praticamente dei cristiani.

Nel XIX° secolo masse di ebrei dell’Europa occidentale si affrettarono a convertirsi formalmente al Cristianesimo o a creare una nuova forma di Ebraismo che chiamarono “Ebraismo riformato”, un Ebraismo così simile al Cristianesimo che si potrebbero quasi confondere uno con l’altro – quasi!

Ma ciò non era sufficiente; verso la metà del XIX° secolo, con il sorgere delle scienze biologiche e razziali, la “questione ebraica” non riguardò più una popolazione le cui origini erano state de-europeizzate e trasformate in asiatiche, ma l’estraneità e l’inferiorità razziale.

Ciò si sviluppò nell’era dei nazionalismi europei che spesso si basarono su lingua e territorio comuni, ma sempre più sull’invenzione di una razza comune. Articolata per la prima volta dai linguisti europei alla fine del XVIII° secolo, la differenza tra quelle che chiamarono lingue indo-europee o ariane e le lingue semitiche alla metà del XIX° secolo venne trasformata in una questione biologica razziale.

Non importa che gli ebrei europei non parlassero affatto una lingua semitica; l’affermazione falsa che fossero discendenti degli antichi ebrei era sufficiente. Che gli antichi palestinesi cristiani, come gli antichi ebrei palestinesi, parlassero aramaico, che ora veniva definita una lingua semitica, non rendeva tuttavia i cristiani europei dei “semiti”. Erano decisamente indo-europei, e i fortunati tra loro, ariani puri.

La risposta ebraica

La risposta degli ebrei europei a questi sviluppi fu diversificata e prese la forma di quattro risposte organizzate che rivaleggiarono tra loro per ottenere l’appoggio degli ebrei come dei cristiani.

Il gruppo meno importante, che si mise contro la maggioranza degli ebrei, fu il Sionismo. Fondato con un congresso dell’agosto 1897, questo gruppo decise di allearsi consapevolmente con gli antisemiti, i protestanti millenaristi e gli imperialisti e adottò un nazionalismo ebraico basato sulla razza che si unì ai nazionalismi europei razzisti nella loro missione colonialista.

Il suo fondatore, Theodor Herzl, parlò senza peli sulla lingua quando dichiarò che “gli antisemiti diventeranno i nostri più fidati amici, i Paesi antisemiti i nostri alleati.” I sionisti credevano che gli ebrei fossero una razza e una nazione a parte e che tutti gli ebrei dovessero unirsi al progetto nazionalista coloniale di insediamento sionista.

Il secondo gruppo era impegnato per il socialismo, e includeva ebrei che si unirono ai partiti socialisti e all’”Unione Generale dei Lavoratori Ebrei” in Lituania, Polonia e Russia, noto come il Bund. Il Bund venne fondato poche settimane dopo il primo congresso sionista, nell’ottobre 1897. A differenza del Sionismo, i militanti del Bund, e tutti gli altri ebrei socialisti, si allearono con i nemici dell’antisemitismo, dell’imperialismo e del nazionalismo su base razziale. Videro i sionisti come nemici di destra degli ebrei e del comunismo.

Il terzo gruppo era per lo più composto da ebrei assimilati dell’Europa occidentale e degli Stati uniti, che credevano che la loro assimilazione e il loro Ebraismo riformato li rendesse inseparabili dalle Nazioni degli specifici Paesi in cui risiedevano e dai loro nazionalismi. Quindi gli ebrei tedeschi, inglesi, francesi e americani vedevano se stessi come tedeschi, inglesi, francesi e americani, come fa ancor oggi la maggioranza di loro. Anche loro lottarono contro i sionisti in quanto minacciavano la loro condizione nei rispettivi Paesi.

Il quarto gruppo era composto dagli ebrei ortodossi che, nella loro maggioranza, erano contrari al sionismo su basi religiose e lo vedevano come una pericolosa eresia anti-ebraica. Gli ebrei riformati assimilati e gli ebrei ortodossi tedeschi si unirono, impedirono a Herzl di convocare il primo congresso sionista a Monaco e lo obbligarono a spostarlo nella vicina città svizzera di Basilea.

Durante la Prima Guerra Mondiale i sionisti tentarono di trovare alleati tra gli ebrei assimilati (con maggior successo negli Stati Uniti che in Europa) e con gli ortodossi (nel caso di questi ultimi, riuscirono solo ad ottenere che un gruppo di ebrei ortodossi ashkenaziti, che si chiamarono movimento “Mizrachi”, si unisse a loro).

Tuttavia è indossando i panni dell’anticomunismo e sposando le idee antisemite sull’estraneità degli ebrei e sulla loro trasformazione in razza, così come appoggiando l’imperialismo, che furono in grado di avere alleati molto più forti tra le potenze coloniali cristiane europee.

Herzl fece in modo di entrare in contatto con tutti i governi europei che avevano colonie e territori in Asia o in Africa, o che probabilmente le avrebbero avute presto (comprese Italia, Germania, Belgio, Portogallo, Gran Bretagna e Russia) così come con gli ottomani, per guadagnarseli come alleati e sostenitori del suo progetto di mandare ebrei europei in Palestina. La sua strategia richiese un po’ di tempo, ma sarebbero stati i suoi compagni dell’Organizzazione Sionista Mondiale che avrebbero raccolto i frutti di questi rapporti. I successori di Herzl sarebbero stati in grado di garantirsi un sostenitore coloniale in occasione della prima catastrofe internazionale del XX° secolo, cioè durante la Prima Guerra Mondiale.

La preistoria della Dichiarazione Balfour

Ma la storia inizia tra i due secoli [XIX° e XX°, ndt.]. Sarebbe stato l’alleato imperialista britannico di Herzl dell’epoca, cioè il segretario per le colonie Joseph Chamberlain, che avrebbe preparato il terreno per la Dichiarazione Balfour.

Come spiega Regina Sharif nel suo importante libro del 1983 “Non-Jewish Zionism” [“Sionismo non-ebraico”], Chamberlain era un imperialista, un protestante sionista e uno dei primi sostenitori del sionismo ebraico. Noto antisemita, non era motivato solo dal suo essere protestante, ma anche dalle finanze e dal denaro che potevano aiutare l’imperialismo britannico che, in linea con diffuse opinioni antisemite, pensava che “gli ebrei” possedessero.

Durante il Quarto Congresso Sionista, tenutosi a Londra nel 1900, Herzl aveva già sostenuto che la Gran Bretagna sarebbe stata fondamentale per il movimento sionista. Dichiarò che “da qui il movimento sionista spiccherà il volo sempre più in alto…. l’Inghilterra la Grande…con i suoi occhi sui sette mari ci capirà.”

Poiché gli ebrei dell’Europa orientale stavano fuggendo dai pogrom antisemiti verso l’Europa occidentale, compresa la Gran Bretagna, e verso gli Stati uniti, politici britannici che si opponevano ad accoglierli lì costituirono una commissione che si occupasse del problema. Herzl venne invitato nel 1902 per testimoniare davanti alla Commissione Reale sull’Immigrazione Straniera.

Tra i 175 testimoni della commissione, egli offrì una soluzione al problema, cioè “una deviazione del flusso migratorio…proveniente dall’Europa orientale. Gli ebrei dell’Europa orientale non possono rimanere dove sono adesso – dove dovrebbero andare? Se ritenete che qui non siano i benvenuti, allora dev’essere trovato un luogo in cui possano migrare senza che questa migrazione sollevi i problemi che affrontano qui. Questi problemi non sorgeranno se gli si troverà una patria che sia riconosciuta legalmente come ebraica.”

Fu questa testimonianza che colpì Nathaniel Rothschild, il primo lord Rothschild, che era membro della Commissione Reale come rappresentante degli ebrei e che fino ad allora aveva avversato Herzl e il Sionismo. (Sarebbe stato suo figlio Lionel, il secondo lord Rothschild, a cui sarebbe stata diretta la Dichiarazione Balfour).

La colonizzazione sionista della Palestina avrebbe scongiurato la necessità di dover fare i conti con gli immigrati ebrei in Gran Bretagna. L’antisemita e cristiano sionista Chamberlain si sarebbe presto incontrato con Herzl per organizzare il modo in cui l’imperialismo britannico e il protestantesimo sionista avrebbero potuto aiutare il Sionismo ebraico a eliminare il problema ebraico della Gran Bretagna.

Il sionismo antisemita di Balfour

Fu alla luce di questo obiettivo comune che Chamberlain offrì a Herzl la penisola egiziana del Sinai e El-Arish [sulla costa mediterranea del Sinai, ndt.], che i britannici controllavano, come patria per gli ebrei già nel 1902, e poco dopo offrì anche l’Africa orientale britannica, o l’Uganda, alla colonizzazione ebraica e alla fondazione di una patria ebraica.

Chamberlain come previsto si oppose all’immigrazione degli ebrei in Gran Bretagna, e insieme ai sionisti propose altre possibili destinazioni per gli ebrei dell’Europa orientale che scappavano dai pogrom russi. Ciò non si fondava solo sul suo protestantesimo sionista, ma anche sui progetti imperialisti inglesi nel Sinai e sulla protezione del canale di Suez.

Quando nel 1905 il primo ministro britannico Arthur Balfour, un ardente protestante sionista, presentò la legge sugli stranieri alla Camera dei Comuni per vietare l’immigrazione degli ebrei dell’Europa orientale, la sua preoccupazione era di salvare il Paese da quelli che chiamò “gli indiscutibili mali” di “un’immigrazione che era in grande misura ebraica.” Come Chamberlain, l’antisemita e cristiano sionista Balfour aveva in mente un’altra destinazione coloniale per gli immigrati ebrei.

Mentre il Sesto Congresso Sionista aveva rifiutato l’offerta dell’Uganda, sarebbe stato il Settimo Congresso Sionista che si riunì a Basilea nel 1905, a metterla definitivamente da parte. A causa della legge sugli stranieri il Settimo Congresso condannò Balfour come “antisemita”, e dichiarò che le sue opinioni corrispondevano a “esplicito antisemitismo contro tutto il popolo ebraico.” Ma al contempo il congresso ringraziò il governo britannico guidato da Balfour per la sua offerta filo-sionista dell’Uganda. Il congresso notò “con soddisfazione il riconoscimento accordato dal governo britannico all’organizzazione sionista nel suo desiderio di giungere a una soluzione del problema ebraico ed esprime la sincera speranza che possano essere concessi i futuri buoni uffici del governo britannico, ove possibile, in ogni questione che esso possa adottare in accordo con il programma di Basilea” della colonizzazione della Palestina.

Sia Chamberlain che Balfour credevano nella superiorità e nelle virtù uniche della razza anglosassone. Anche Balfour, come gli ebrei sionisti, credeva che gli ebrei fossero “un popolo a parte e non avessero semplicemente una religione diversa dalla grande maggioranza dei loro concittadini.”

Nel 1914 disse al suo amico Chaim Weizmann di condividere molte delle opinioni antisemite sugli ebrei tedeschi sostenute da Cosima Wagner, moglie del compositore Richard Wagner, notoriamente antisemita. All’epoca Weizmann era impegnato a trasmettere l’idea sionista ebraica al primo ministro, protestante sionista, Llyod George.

Dal 1914 in poi i sionisti, nella persona del politico ebreo inglese Herbert Samuel, sostennero che una volta che la “questione orientale” fosse stata risolta con la caduta dell’impero ottomano, coloni ebrei avrebbero colmato il vuoto in Palestina nell’interesse degli obiettivi dell’impero britannico, proteggendo il Paese dal fatto che venisse occupato dai rivali dell’imperialismo britannico, i francesi, o, peggio, i tedeschi.

Samuel, i cui tentativi furono centrali per garantire il sostegno britannico al sionismo ebraico, sarebbe diventato il primo alto commissario britannico della Palestina nel luglio 1920.

La “questione comunista”

Quando si stava risolvendo la “questione orientale”, tuttavia, un nuovo problema stava rapidamente prendendo il suo posto come minaccia agli interessi imperialisti europei, cioè quello del comunismo.

Lo spettro del comunismo, come Marx aveva previsto, aveva ossessionato l’Europa per mezzo secolo, e l’attacco contro la Comune di Parigi nel 1871, pur avendo avuto successo, non aveva eliminato la crescente minaccia.

Ma il termine “antisemitismo”, che era stato inventato nel 1879 per distinguere dal punto di vista razziale, e non religioso, gli ebrei dagli ariani, venne presto accompagnato dall’anticomunismo. Mentre i sionisti erano in combutta con gli antisemiti, per i quali gli ebrei europei avrebbero dovuto essere spostati in Asia, Africa o America latina, i socialisti dell’Europa dell’est – sia ebrei che cristiani – stavano lavorando per porre fine ai regimi tirannici ed antisemiti e per liberare il popolo dal loro giogo.

L’associare gli ebrei con il comunismo da parte degli antisemiti era prevedibile. A cominciare dalle origini ebraiche di Marx, la teoria della cospirazione sosteneva che il comunismo in Europa, e soprattutto il bolscevismo, fosse parte di una cospirazione ebraica per porre fine alla “civiltà occidentale”. Poiché i comunisti russi (compreso il Bund ebraico) stavano conquistando sempre più terreno dopo la rivoluzione di febbraio che portò al potere Alexander Kerensky, e poiché le truppe britanniche si stavano avvicinando alla Palestina, Balfour fece la sua infame dichiarazione.

Che il protestantesimo sionista di Lloyd George e di Balfour, che ritornò come ministro degli Esteri dal 1916 al 1919, fosse pienamente compatibile con l’imperialismo britannico non era affatto casuale. Il tempismo della dichiarazione Balfour, che conteneva l’impegno britannico nei confronti di lord Rothschild e dei sionisti, emanata solo cinque giorni prima del trionfo della Rivoluzione d’Ottobre in Russia, non fu una pura coincidenza.

Il trionfo dei comunisti russi, sia ebrei che cristiani, che erano il nemico dell’antisemitismo e del sionismo, significava che gli ebrei dell’Europa orientale non avevano più ragioni di emigrare, mettendo a repentaglio i progetti dell’imperialismo britannico e del sionismo riguardo alla Palestina. Impegnandosi a contribuire a garantire un “focolare ebraico” per il popolo ebraico in Palestina, i britannici stavano offrendo un nuovo luogo per gli ebrei dell’Europa dell’est e chiedendo loro di non sostenere i comunisti.

L’antisemitismo sionista di Churchill

Benché l’affermazione antisemita secondo cui il comunismo e il bolscevismo erano “cospirazioni ebraiche” sia spesso attribuita ai nazisti che l’avrebbero importata dalla propaganda dei russi bianchi [le forze controrivoluzionarie russe che parteciparono alla guerra civile dopo la presa del potere da parte dei bolscevichi, ndt.], nell’Europa occidentale fu nientemeno che Winston Churchill a formulare per primo chiaramente il discorso del comunismo come una “cospirazione ebraica” per dominare il mondo, contro il sionismo come collaboratore dell’imperialismo e che offriva una soluzione imperialista al “problema ebraico”.

In un articolo che pubblicò nel “Sunday Herald” nel febbraio 1920, Churchill espresse il suo appoggio agli ebrei assimilati che si identificavano con il Paese di cui erano cittadini, ma pensava a loro come estranei all’equazione di potere che voleva formulare, cioè quella tra il sionismo ed il comunismo.

Iniziò manifestando disprezzo contro quelli che denominò “ebrei internazionalisti” ed identificò il comunismo come una “cospirazione ebraica a livello mondiale per la distruzione della civiltà”:

Il fatto che in molti casi gli interessi ebraici ed i luoghi di culto ebraici siano stati risparmiati dalla totale ostilità dei bolscevichi ha mostrato sempre più la tendenza ad associare la razza ebraica in Russia con le infamie che ora vi si stanno perpetrando… Di conseguenza diventa particolarmente importante favorire e sviluppare qualunque movimento ebraico fortemente caratterizzato che li allontani direttamente da questa fatale collaborazione. Ed è qui che il sionismo attualmente ha un così profondo significato per tutto il mondo…Il sionismo offre il terzo campo per le concezioni politiche della razza ebraica. In violento contrasto con il comunismo internazionale, presenta agli ebrei un’idea nazionalista di carattere imperativo. Ricade sul governo britannico, in conseguenza della conquista della Palestina, avere l’opportunità e la responsabilità di garantire una patria e un centro di vita nazionale alla razza ebraica di tutto il mondo. La saggezza politica e la sensibilità storica del signor Balfour sono state pronte a cogliere questa opportunità. Sono state rilasciate dichiarazioni che hanno irrevocabilmente deciso la politica della Gran Bretagna.”

All fine Churchill conclude:

Il sionismo è già diventato un elemento nelle convulsioni politiche della Russia, come una potente influenza in competizione nei circoli bolscevichi con il sistema comunista internazionalista. Niente può essere più significativo della furia con cui Trotsky [che era di origine ebraica, ndt.] ha attaccato i sionisti in generale e il dottor (Weismann) in particolare. Il crudele acume della sua mente non gli lascia nessun dubbio sul fatto che i suoi schemi di uno Stato comunista mondiale sotto dominio ebraico sono direttamente contrastati e ostacolati da questo nuovo ideale, che dirige le energie e le speranze degli ebrei di ogni terra verso un più semplice, vero e molto più raggiungibile obiettivo. La lotta che ora sta iniziando tra gli ebrei sionisti e bolscevichi è poco meno che una lotta per l’anima del popolo ebraico.”

L’inimicizia del sionismo nei confronti degli ebrei comunisti sarebbe diventata una tradizione di lunga durata. Quando l’antisemitismo ufficiale americano prese di mira comunisti ebrei come spie sovietiche, processò e giustiziò Julius ed Ethel Rosenberg nel 1953 in base a prove inconsistenti, Israele non disse una parola per protestare. (I rabbini israeliani, tranne il capo rabbino ashkenazita di Israele, inviarono una petizione al presidente Truman chiedendo clemenza per i Rosemberg, anche se alcuni di essi in seguito espressero pubblicamente il proprio pentimento per averla firmata).

Quando nel 1956 i fascisti ungheresi e i neonazisti vennero fatti entrare dalla CIA illegalmente a Budapest dal confine austriaco durante il regime di Imre Nagy [presidente comunista riformista ungherese ucciso durante la repressione sovietica, ndt.] e iniziarono a massacrare i comunisti ebrei e gli ebrei ungheresi in quanto “comunisti”, Israele e altri ebrei sionisti rimasero in silenzio e lo rimangono fino ad oggi. Persino quando ebrei di sinistra vennero presi di mira dai generali argentini antisemiti alla fine degli anni ’70, gli ebrei argentini sionisti e Israele li ripudiarono e Israele mantenne una stretta alleanza con il regime militare.

L’argomentazione di Churchill chiarisce i rapporti tra i sionisti protestanti ed ebrei, tra il nazionalismo su base razziale e il comunismo antirazzista, e tra il colonialismo di insediamento sionista e l’anti-imperialismo comunista. Il razzismo imperialista, condiviso dai britannici e dal movimento sionista, nei confronti dei palestinesi e altri asiatici e africani rese di nessuna importanza la loro presenza sulle proprie terre, per non parlare della loro opposizione e resistenza al colonialismo di insediamento.

Lo stesso Balfour sostenne che “il sionismo, sia esso giusto o sbagliato, buono o cattivo, è radicato in una tradizione secolare, in necessità attuali, in speranze future molto più profonde dei desideri e dei pregiudizi dei 700.000 arabi che ora abitano in quella antica terra.”

Fu lord Sydenham, un conservatore britannico membro del parlamento, ad identificarsi con i palestinesi contro il sionismo: “”Gli ebrei”, disse, “non hanno più diritti sulla Palestina di quelli che hanno i discendenti degli antichi romani su questa terra.”

La storia dell’ultimo secolo del colonialismo sionista e della colonizzazione della Palestina che i britannici appoggiarono e continuano ad appoggiare e della resistenza palestinese che ciò ha fomentato è viva tutt’oggi. Le prime proteste palestinesi e l’opposizione al furto del loro Paese e della loro terra da parte degli europei convertiti all’ebraismo, agevolati da europei convertiti al cristianesimo, vennero liquidate come immotivate.

Nei suoi incontri con il governo inglese del 1923 Herbert Samuel sostenne che l’opposizione araba al sionismo era fondata su un’incomprensione dei suoi obiettivi e che i dirigenti sionisti responsabili non avevano intenzione di confiscare terre arabe o invadere il Paese con immigrati ebrei. Tutto quello che i palestinesi temevano e si aspettavano divenne realtà, ma tutto quello che sionisti cristiani ed ebrei si aspettavano non lo fu. I palestinesi non si arresero e oggi continuano a lottare contro il colonialismo e il razzismo sionisti.

Israele ha ucciso più di 100.000 palestinesi ed arabi dal 1948 [anno di fondazione dello Stato di Israele, ndt.], migliaia di altri vennero uccisi dai britannici e dai sionisti tra il 1917 e il 1948. Israele ha espulso metà della popolazione della Palestina storica, che continua a vivere in esilio, mentre l’altra metà vive soggetta a diverse leggi e regolamenti razzisti e colonialisti in Israele, in Cisgiordania e a Gaza.

La maggioranza degli ebrei del mondo oggi vive nei propri Paesi di origine e rifiuta di andare in Israele. Essa include la maggioranza degli ebrei degli USA, dell’America Latina, della Francia, della Russia e della Gran Bretagna, tra gli altri.

Quando la dichiarazione Balfour venne emanata nel 1917, una maggioranza degli ebrei britannici importanti vi si oppose. Quando il governo USA la appoggiò, poco dopo la sua pubblicazione, 300 importanti personalità pubbliche ebree americane, compresi membri del Congresso, rabbini e uomini d’affari, firmarono petizioni contro di essa. Questa opposizione ebraica rimase forte fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Benché il movimento sionista e Israele siano stati in grado, dopo l’Olocausto nazista e il 1948, di sviare l’ebraismo mondiale dalla sua precedente opposizione al sionismo, non sono riusciti a convincere la maggioranza di essi a lasciare i propri Paesi e ad andare in Israele. La maggioranza degli ebrei che è andata in Israele non l’ha fatto per un impegno ideologico, ma per sfuggire all’oppressione e per la negazione di qualunque altra destinazione (nel caso degli ebrei arabi, Israele organizzò attacchi contro di loro, come fece il Mossad in Iraq, per spronarli ad emigrare). Eppure l’oppressione colonialista israeliana contro i palestinesi e il furto delle loro terre proseguono senza sosta.

I continui crimini della Gran Bretagna

Nel frattempo la “questione orientale”, quella “ebraica” e la minaccia comunista si sono tramutate nella “questione palestinese”, che continua ad esistere, nonostante tutte le difficoltà, nella forma del colonialismo di insediamento sionista. Durante il secolo scorso tutti i tentativi da parte degli inglesi, di Israele, della Francia, della Germania e degli Stati uniti (per non parlare dei Paesi arabi) di sconfiggere il popolo palestinese sono falliti.

I festeggiamenti del governo britannico per il centenario della dichiarazione Balfour sono di fatto una manifestazione dell’orgoglio per l’eredità antisemita, anticomunista e razzista colonialista della Gran Bretagna, che il governo britannico insiste a perpetrare sulla terra dei palestinesi e sul popolo palestinese.

Il primo ministro Theresa May ha recentemente dichiarato: “Siamo orgogliosi del ruolo che abbiamo giocato nella creazione dello Stato di Israele, e sicuramente celebreremo con orgoglio il centenario.” Come Balfour prima di lei, May ha rifiutato persino di nominare i palestinesi. Se la dichiarazione Balfour si riferisce ai palestinesi come “le comunità non ebraiche della Palestina”, May ha solo ammesso che “noi dobbiamo anche essere coscienti delle sensibilità che certa gente ha riguardo alla dichiarazione Balfour e riconosciamo che c’è ulteriore lavoro da fare” (corsivo aggiunto).

L’Autorità Nazionale Palestinese collaborazionista ha minacciato di denunciare la Gran Bretagna per i suoi festeggiamenti del centenario, a meno che prima quest’ultima non offra semplici “scuse” al popolo palestinese per aver emanato la dichiarazione Balfour. C’era da aspettarsi un simile servilismo da parte di un’autorità il cui unico ruolo è stato di eliminare la resistenza palestinese contro il colonialismo israeliano e che ha costantemente lavorato negli ultimi trent’anni per reprimere i diritti politici e nazionali del popolo palestinese.

Ma dopo un secolo, il colonialismo sionista non è più sicuro di quanto lo sia mai stato e oggi come nel 1917 gli manca una sensazione di stabilità. Che le autorità britanniche, come l’”orgoglio” di May dimostra, siano state e rimangano un nemico implacabile del popolo palestinese non è in discussione. Quanto all’”ulteriore lavoro da fare”, è una necessità urgente che la Gran Bretagna venga giudicata, non solo per l’emanazione della famigerata dichiarazione, ma anche per tutti i suoi crimini passati e presenti contro il popolo palestinese.

Questo saggio è basato su una lezione, organizzata dal parlamentare Fabien Roussel [giornalista e politico comunista, ndt.], tenutasi il 2 novembre 2017 all’Assemblea Nazionale Francese a Parigi e al Dar al-Janub [centro interculturale, ndt.] di Vienna il 4 novembre.

Joseph Massad è professore di Politica araba moderna e Storia del Pensiero alla Columbia University. E’ autore del recente Islam in Liberalism [“Islam nel Liberalismo”] (University of Chicago Press, 2015).

(Traduzione di Amedeo Rossi)

 




Trump, Gerusalemme e l’indifferenza araba verso la Palestina

Mariam Barghouti,

7 dicembre 2017, Al Jazeera

I palestinesi hanno provato un senso collettivo di ansia e rabbia quando il presidente Donald Trump ha annunciato che gli Stati Uniti riconoscono formalmente Gerusalemme come capitale di Israele e inizieranno il processo di trasferimento della loro ambasciata da Tel Aviv alla città.

Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele è un altro doloroso colpo al morale palestinese poiché dimostra ancora una volta come le potenze internazionali agiscano senza accettare o riconoscere l’esistenza dei palestinesi, nonostante sia la popolazione che subisce il peso delle conseguenze.

Il problema della dichiarazione USA, tuttavia, non si basa sul riconoscimento e sull’affermazione in se’, ma sulla serie di eventi che hanno portato alla sua concretizzazione. È il culmine del fallimento internazionale nell’affrontare le violazioni di Israele dei diritti umani, il continuo sostegno degli Stati Uniti a Israele, l’incompetenza della leadership palestinese nel raggiungere soluzioni attraverso gli sforzi diplomatici e, più recentemente, la nuova amicizia che l’amministrazione statunitense sta costruendo con alcuni Stati arabi.

La storia si ripete.

Quest’anno – anno in cui Gerusalemme è riconosciuta dagli Stati Uniti come la capitale di Israele – segna anche 100 anni da quando Lord Balfour concesse al movimento politico sionista il diritto a una patria ebraica in Palestina. L’ultima decisione americana, quindi, riecheggia la stessa posizione secondo cui le potenze internazionali possono ignorare la popolazione indigena palestinese e il loro diritto all’autodeterminazione.

La dichiarazione di Balfour non solo dimostrò i pericoli di tali affermazioni unilaterali, ma provò anche che Israele le impiegherà per far avanzare il proprio programma coloniale. La dichiarazione del 1917 spianò la strada alla milizia sionista per radere al suolo i villaggi palestinesi e conquistare la terra palestinese, e oggi la dichiarazione di Trump legittima questa storia di violenza fornendo a Israele un costante sostegno.

Trump aveva ragione affermando che “Gerusalemme è la sede del moderno governo israeliano. È la sede del Parlamento israeliano, della Knesset e della Corte suprema israeliana. È la sede della residenza ufficiale del primo ministro e del presidente. È il quartier generale di molti ministri del governo”.

Gerusalemme è stata infatti considerata la capitale di Israele per decenni, anche se non ufficialmente. È per questo che il riconoscimento di Trump è stato reso possibile. Il lavoro preliminare era già in atto e così tutto ciò che ha portato fino a questo momento è la prova della bancarotta morale della comunità internazionale quando si tratta della situazione palestinese.

Il governo israeliano ha imposto un controllo assoluto e completo sulla popolazione palestinese a Gerusalemme, proprio come ha fatto in altre città e paesi palestinesi. I palestinesi gerosolimitani possiedono solo documenti di residenza, che possono essere revocati in qualsiasi momento; Israele demolisce continuamente case nei quartieri palestinesi con il pretesto che mancano di permessi, e i giovani palestinesi sono bersagliati in modo discriminatorio dalle forze israeliane.

Sono queste politiche israeliane, le stesse politiche contro cui i palestinesi hanno protestato per anni, che hanno messo a tacere le voci palestinesi così che Gerusalemme possa essere presentata di fatto come israeliana.

I leader arabi ignorano le grida dei palestinesi.

Ciò che è ancora più angosciante è che ciò non sarebbe stato possibile senza i compromessi raggiunti dalla leadership palestinese. La politica palestinese è stata segnata da rivalità tra fazioni, collaborazione sulla sicurezza con l’intelligence israeliana a spese dei palestinesi e una serie di concessioni sotto forma di accordi e trattati che non hanno mai incapsulato i fondamenti delle richieste palestinesi; giustizia, liberazione e dignità.

E mentre i palestinesi hanno ripetuto per decenni le loro richieste di autodeterminazione e diritti umani fondamentali, la comunità internazionale e la leadership palestinese li hanno ignorati intenzionalmente per perseguire un’altra agenda che ruota attorno ai negoziati. Ciò ha generato solo maggiore repressione e un netto aumento del numero di insediamenti colonici.

Oggi vediamo sia la comunità internazionale sia i leader arabi ignorare ancora una volta le grida palestinesi per la giustizia. Ciò è evidente nel discorso dominante dei leader globali e arabi. Esso ruota attorno alla paura di un’altra insurrezione, instabilità e protesta. Nella maggior parte dei discorsi e dei proclami non c’è una vera presa di posizione sulle radici dell’aberrazione imposta al popolo palestinese sotto forma di un’occupazione violenta.

La fissazione sulla possibile reazione dei palestinesi e della comunità araba come la ragione principale per opporsi a questa decisione oscura il fatto che il riconoscimento di Gerusalemme come capitale israeliana si basa su violazioni e abusi dei diritti umani.

È l’amplificazione della “paura della reazione dei palestinesi / degli arabi” che può tragicamente rappresentare la cornice entro cui spingere verso ulteriori negoziati mentre gli stati arabi si affrettano a controllare il tumulto della protesta e gli Stati Uniti spingono la loro visione di una pace che è solo una facciata per dare a Israele ciò che vuole; uno stato senza il fastidio dell’esistenza palestinese.

Così mentre i leader di tutto il mondo proclamano che questa mossa porterà alla fine dei colloqui di pace, della soluzione dei due Stati e di qualsiasi stabilità nella regione, la verità è che non c’è mai stata né pace né stabilità nei territori dall’inizio dell’occupazione israeliana.

Il discorso degli Stati arabi indica anche l’insincerità nel volere raggiungere una vera soluzione nella regione, soluzione che dovrebbe ritenere Israele responsabile dei suoi crimini e fornire ai palestinesi i loro pieni diritti. Ciò è particolarmente vero mentre si diffonde l’ondata di condanne contro la decisione.

I palestinesi hanno memorizzato questo scenario e la realtà che nessuna azione farà seguito. La verità è che gli Stati Uniti hanno un programma che è allineato con gli interessi israeliani e gli Stati arabi hanno fatto amicizia con l’amministrazione Trump, limitando ogni azione.

Proprio questa estate, abbiamo assistito ai palestinesi che protestavano contro le misure israeliane nella moschea al-Aqsa. Anche allora ci furono condanne e proteste da parte degli Stati arabi e dei paesi internazionali. Tuttavia, questo approccio sintomatico e simbolico continuerà solo a rafforzare l’occupazione e l’espropriazione di Israele della terra palestinese.

Tra le righe del discorso di Trump di mercoledì si intravvede il messaggio di Israele alla comunità globale. Esso predice che se commetti abbastanza crimini mentre reciti una storia al mondo, otterrai ciò che vuoi e te la caverai.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

(Traduzione di Angelo Stefanini)




70 anni di promesse mancate: la storia non raccontata del piano di partizione

Ramzy Baroud

22 novembre 2017, Palestine Chronicle

In un recente discorso prima del gruppo di ricerca di Chatham House [Ong britannica che si occupa di ricerche di politica internazionale, tra i più influenti al mondo, ndt.] di Londra, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affrontato la questione dello Stato palestinese da un punto di vista astratto.

Prima di pensare alla creazione di uno Stato palestinese, ha affermato, “è tempo che noi riconsideriamo se il nostro modello di sovranità, e di sovranità illimitata, sia applicabile ovunque nel mondo.”

Non è la prima volta che Netanyahu getta discredito sull’idea di uno Stato palestinese. Nonostante le chiare intenzioni di Israele di vanificare ogni possibilità di creare un tale Stato, l’amministrazione USA di Donald Trump, a quanto sembra, sta mettendo a punto piani per un “accordo di pace definitivo.” Il New York Times suggerisce che “il piano previsto dovrà essere costruito intorno alla cosiddetta soluzione dei due Stati”.

Ma perché sprecare sforzi, quando tutte le parti in causa, compresi gli americani, sanno che Israele non ha intenzione di consentire la creazione di uno Stato palestinese e gli USA non hanno né l’influenza politica, né il desiderio, per imporla?

La risposta forse non si trova nel presente, ma nel passato.

Inizialmente uno Stato arabo palestinese era stato proposto dagli inglesi come tattica politica, per fornire una copertura giuridica alla creazione di uno Stato ebraico. Questa tattica politica continua ad essere utilizzata, anche se mai con l’obbiettivo di trovare una “giusta soluzione” al conflitto, come spesso viene propagandato. Quando, nel novembre 1917, il ministro degli Esteri britannico Arthur James Balfour promise al movimento sionista di garantire uno Stato ebraico in Palestina, l’ipotesi, in precedenza remota e poco plausibile, iniziò a prendere forma. Si sarebbe realizzata senza sforzo, se i palestinesi non si fossero ribellati.

La rivolta palestinese del 1936-1939 dimostrò un impressionante livello di consapevolezza politica collettiva e di capacità di mobilitazione, nonostante la violenza britannica.

Allora il governo britannico inviò in Palestina la Commissione Peel per analizzare le radici della violenza, nella speranza di sedare la rivolta palestinese.

Nel luglio 1937 la Commissione pubblicò il suo rapporto, che scatenò immediatamente la rabbia della popolazione nativa, che era già consapevole della collusione tra inglesi e sionisti.

La Commissione Peel concluse che “le cause sottostanti ai disordini” erano il desiderio di indipendenza dei palestinesi e il loro “odio e timore per la creazione del focolare nazionale ebraico.” Sulla base di questa analisi, raccomandava la partizione della Palestina in uno Stato ebraico ed uno Stato palestinese, quest’ultimo destinato ad essere incorporato nella Transgiordania, che era sotto il controllo britannico.

La Palestina, come altri Paesi arabi, era teoricamente pronta per l’indipendenza, in base ai termini del mandato britannico, come garantito nel 1922 dalla Società delle Nazioni. Per di più, la Commissione Peel raccomandava un’indipendenza parziale per la Palestina, diversamente dalla piena sovranità assicurata allo Stato ebraico.

Ancora più allarmante era il carattere arbitrario di quella divisione. Allora il totale della terra posseduta dagli ebrei non superava il 5,6% dell’estensione dell’intero Paese. Lo Stato ebraico avrebbe incluso le regioni più strategiche e fertili della Palestina, compresa la Galilea Fertile [nota come Bassa Galilea, ndt.] e molta parte dell’accesso al mar Mediterraneo.

Durante la rivolta furono uccisi migliaia di palestinesi, che continuavano a rifiutare la svantaggiosa spartizione e lo stratagemma britannico teso ad onorare la Dichiarazione Balfour e privare i palestinesi di uno Stato.

Per rafforzare la propria posizione, la leadership sionista cambiò rotta. Nel maggio 1942 David Ben Gurion, allora rappresentante dell’Agenzia Ebraica, partecipò a New York ad una conferenza che riuniva i dirigenti sionisti americani. Nel suo intervento chiese che l’intera Palestina divenisse un “Commonwealth ebraico.”

Un nuovo potente alleato, il presidente [americano] Harry Truman, incominciò a colmare il vuoto lasciato aperto, in quanto gli inglesi erano propensi a terminare il loro mandato in Palestina. In “Prima della loro diaspora”, Walid Khalidi scrive:

(Il Presidente USA Harry Truman) fece un passo avanti nel suo appoggio al sionismo, sostenendo un piano dell’Agenzia Ebraica per la partizione della Palestina in uno Stato ebraico ed uno Stato palestinese. Il piano prevedeva l’annessione allo Stato ebraico di circa il 60%della Palestina, in un momento in cui la proprietà ebraica della terra del Paese non superava il 7%.”

Il 29 novembre 1947, l’Assemblea Generale dell’ONU, in seguito a forti pressioni dell’amministrazione USA di Truman, approvò, coi voti favorevoli di 33 Stati membri, la Risoluzione 181 (II), che auspicava la partizione della Palestina in tre entità: uno Stato ebraico, uno Stato palestinese ed un regime di governo internazionale per Gerusalemme.

Se la proposta britannica di partizione del 1937 era già abbastanza negativa, la risoluzione dell’ONU fu motivo di totale sgomento, in quanto assegnava 5.500 miglia quadrate [circa 14.000 Km2, ndt.] allo Stato ebraico e solo 4.500 [circa 11.000 Km2, ndr.] ai palestinesi – che possedevano il 94,2% della terra e rappresentavano oltre i due terzi della popolazione.

La pulizia etnica della Palestina iniziò immediatamente dopo l’adozione del Piano di Partizione. Nel dicembre 1947 attacchi sionisti organizzati contro le zone palestinesi provocarono l’esodo di 75.000 persone. Di fatto, la Nakba palestinese – la Catastrofe – non iniziò nel 1948, ma nel 1947.

Quell’esodo di palestinesi fu congegnato attraverso il Piano Dalet (Piano D), che fu attuato per fasi e modificato per adeguarsi alle esigenze politiche. La fase finale del piano, iniziata nell’aprile 1948, comprese sei importanti operazioni. Due di esse, operazioni “Nachshon” e “Harel” , avevano lo scopo di distruggere i villaggi palestinesi all’interno e nei dintorni del confine tra Jaffa e Gerusalemme. Separando i due principali conglomerati centrali che costituivano il proposto Stato arabo palestinese, la leadership sionista intese spezzare ogni possibilità di coesione geografica palestinese. Questo continua ad essere l’obiettivo fino ad oggi.

I risultati conseguiti da Israele dopo la guerra non si attennero molto al Piano di Partizione. I territori palestinesi separati di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme est costituivano il 22% della dimensione storica della Palestina.

Il resto è una triste storia. La carota dello Stato palestinese viene esibita di tanto in tanto proprio dalle forze che spartirono la Palestina 70 anni fa e poi collaborarono diligentemente con Israele per garantire il fallimento delle aspirazioni politiche del popolo palestinese.

Infine il discorso della partizione è stato rimodellato in quello della “soluzione dei due Stati”, propugnato negli ultimi decenni da diverse amministrazioni USA, che hanno mostrato poca sincerità nel trasformare in realtà persino un simile Stato.

Ed ora, 70 anni dopo la partizione della Palestina, esiste un solo Stato, benché governato da due diversi sistemi giuridici, che privilegia gli ebrei e discrimina i palestinesi.

Esiste già da molto tempo un solo Stato”, ha scritto il giornalista israeliano Gideon Levy in un recente articolo su Haaretz. “È giunto il momento di lanciare una battaglia sulla natura del suo regime.”

Molti palestinesi lo hanno già fatto.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo libro in uscita è “L’ultima terra: una storia palestinese” (Pluto Press, Londra). Baroud ha un dottorato in Studi sulla Palestina all’università di Exeter ed è ricercatore ospite presso il Centro Orfalea per gli Studi globali ed internazionali dell’università Santa Barbara della California. Il suo sito web è:

www.ramzybaroud.net

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 

 




Dopo Balfour: cento anni di storia e le strade non intraprese

Zena Agha, Jamil Hilal, Rashid Khalidi, Najwa al-Qattan, Mouin Rabbani, Jaber Suleiman, Nadia Hijab 

31 ottobre 2017, Al-Shabaka

Sintesi

Un’ondata internazionale di analisi e di attivismo sta segnando il centesimo anniversario della dichiarazione Balfour, il 2 novembre 2017.

La dichiarazione fornì un imprimatur imperiale alla risoluzione del movimento sionista nella sua prima conferenza a Basilea del 1897 per “fondare una patria per il popolo ebraico in Palestina garantita dal diritto pubblico” e diede inizio ad una guerra e una violenza infinite e alla spoliazione, dispersione e occupazione del popolo palestinese.1

La storia avrebbe potuto prendere un’altra direzione? Durante il secolo scorso ci furono momenti in cui i palestinesi avrebbero potuto influenzare il corso degli eventi in una diversa direzione? Ci siamo rivolti agli storici ed analisti della rete politica Al-Shabaka e abbiamo chiesto loro di identificare e riflettere su un momento in cui le cose avrebbero potuto andare diversamente se il popolo palestinese avesse deciso un’altra linea d’azione e di trarne lezioni che possano essere messe in pratica in questa ricerca di autodeterminazione, libertà, giustizia ed uguaglianza.

La tavola rotonda inizia con Rashid Khalidi e con la sua incisiva riflessione sulla costante mancanza di comprensione da parte della dirigenza palestinese delle dinamiche del potere globale, utilizzando il “Libro Bianco” del 1939 [documento britannico in cui si prospettava un ribaltamento della posizione filosionista del potere coloniale inglese e la costituzione di uno Stato arabo in Palestina, ndt.] per illustrare questa debolezza fatale. Zena Agha prende le mosse dalla commissione Peel del 1936 – la prima volta in cui venne menzionata la spartizione [della Palestina in due Stati, uno ebraico e l’altro arabo, ndt.] come soluzione – e mette in discussione che essa sia effettivamente inevitabile, anche oggi, come la commissione asseriva.

Jamil Hilal affronta lo stesso Piano di Spartizione – la risoluzione ONU 181 del 1947 [da cui è nato lo Stato di Israele, ndt.] – notando le ragioni della minoranza dei palestinesi che sostenevano di accettarla per guadagnare tempo al fine di recuperare la forza del movimento nazionale dopo che era stato represso dagli inglesi e dai sionisti. Traendo insegnamento da Balfour, dal piano di spartizione e da Oslo, Hilal chiede: “Quando chiediamo quali lezioni noi, in quanto palestinesi, possiamo trarre dalla storia, la domanda è sempre: chi trarrà le lezioni e come si può fare in modo che si intervenga su di esse?”

Quanto è stata importante la grande catastrofe dell’Olocausto nel portare alla creazione di Israele? Najwa al-Qattan afferma che, benché ci sia sicuramente una relazione storica, non c’è un rapporto di causa – effetto, e quindi auspica una lettura critica della storia per tracciare il futuro. Mouin Rabbani contesta la valutazione secondo cui la visita di Anwar Sadat a Gerusalemme del 1977 sia stata un’iniziativa promettente fallita, sottolineando che quando il leader egiziano escluse dalla discussione l’opzione militare araba contro Israele privò l’OLP [Organizzazione per la Liberazione della Palestina, principale organizzazione politico militare palestinese, ndt.] e gli Stati arabi di un’opzione diplomatica credibile.

Jaber Suleiman fa un confronto tra il destino dell’Intifada contro l’occupazione israeliana del 1987 e quello della rivolta palestinese del 1936 contro l’occupazione britannica e ne trae una serie di lezioni, in particolare sull’importanza di legare la tattica a una chiara visione strategica nazionale che guidi la lotta palestinese in ogni suo stadio. La tavola rotonda è stata moderata da Nadia Hijab.

Rashid Khalidi: il “Libro Bianco” e una sistematica incomprensione del potere

Il “Libro Bianco” del 1939 avrebbe potuto essere un punto di svolta nella storia palestinese? 2 Al massimo sarebbe stato un punto di svolta secondario. Se la dirigenza palestinese avesse accettato il “Libro Bianco”, si sarebbe riposizionata rispetto al potere coloniale. Ciò avrebbe potuto giovare alla sua posizione alla fine della rivolta del 1936-39 e l’avrebbe schierata dalla parte degli inglesi quando i sionisti si ribellarono ad essi.

Tuttavia la Gran Bretagna era un potere in declino. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica stavano dietro le quinte e fecero irruzione sulla scena poco dopo. Nel 1941 i nazisti attaccarono l’URSS e il Giappone attaccò Pearl Harbor ed il mondo cambiò, per cui, qualunque cosa i palestinesi avessero potuto fare con la Gran Bretagna, probabilmente avrebbe avuto effetti limitati. In un certo senso la grande rivolta palestinese arrivò troppo tardi. Gli egiziani si ribellarono nel 1919, gli iracheni nel 1920 e i siriani nel 1925. Negli anni ’30, soprattutto una volta che i nazisti arrivarono al potere, il progetto sionista era pienamente radicato in Palestina.

Tuttavia ciò che quel periodo pose in chiara evidenza fu il problema cronico della dirigenza palestinese, che era, senza eccezioni, poco aiutata da una minima comprensione del rapporto di forze a livello mondiale. I palestinesi erano in competizione con un movimento colonialista che era sorto in Europa e negli USA ed era costituito da europei le cui lingue madri erano europee e che erano in rapporto con personaggi influenti sia in Europa che negli USA.

Per competere con un movimento come quello, i dirigenti palestinesi avrebbero dovuto avere persone con rapporti nel sistema che fossero capaci di parlare le lingue e comprendessero sia la politica locale che quella internazionale. I palestinesi durante il Mandato britannico non le ebbero – basta leggere le loro memorie. Alcuni avevano delle intuizioni, ma erano inadatti a competere prima e dopo la dichiarazione Balfour e prima e dopo il “Libro Bianco”. E non è cambiato molto negli ultimi 100 anni, soprattutto riguardo agli USA. L’OLP aveva una buona comprensione del Terzo Mondo e di come funziona, una buona comprensione dell’Unione Sovietica e una certa competenza riguardo all’Europa occidentale, che è la ragione per cui ottenne vittorie diplomatiche negli anni ’70. Ma non aveva la minima idea della politica USA, e non ce l’ha tuttora.

La generazione palestinese più giovane che è cresciuta negli USA e in Europa si trova in una posizione molto migliore. Ha i rapporti e comprende come funzionano queste società, a differenza dei dirigenti palestinesi, o di certo della generazione dei loro genitori. Quando questa generazione diventerà più ricca e influente in qualità di avvocati, dottori, professionisti dell’informazione e dirigenti finanziari, non avrà inibizioni nell’utilizzare il proprio potere e la propria influenza per promuovere la giustizia per i palestinesi.

Se questo breve dibattito permette di trarre una lezione dalla storia, questa è che non si è riusciti ad arrivare al vertice. Non si è parlato a lord Balfour o non si parla al segretario [di Stato americano] Tillerson. E’ la struttura del potere che devi comprendere – Balfour era parte del governo, di un partito politico, di una classe, di un sistema, e lo stesso vale per Tillerson. Devi capire quelle strutture, così come i mezzi di comunicazione, e avere una strategia per trattare con loro. L’idea che puoi arrivare al vertice è un’illusione che i palestinesi e gli arabi hanno avuto in genere a causa del modo in cui funzionano i sistemi governati da re e dittatori arabi. La dirigenza nazionale è ben lontana dall’avere una strategia per trattare con gli USA, è penoso. Al contrario, la società civile palestinese sta facendo un lavoro fantastico, sia quella della diaspora che in Palestina: sono gli unici che capiscono come va il mondo.

Zena Agha: la spartizione non era un pilastro della politica

La lunga e funesta storia della conquista coloniale della Palestina presenta molti errori e molte opportunità mancate. Nel contesto del centenario della dichiarazione Balfour, la commissione Peel – un rapporto prodotto dallo stesso potere coloniale della dichiarazione del 1917 – è un momento centrale, anche se trascurato, nella storia della ricerca palestinese dell’autodeterminazione.

Condotta sotto la direzione di lord Peel, la commissione era il risultato della missione britannica in Palestina nel 1936. Il suo intento dichiarato era di “accertare le cause alla base degli scontri” in Palestina in seguito allo sciopero generale arabo di sei mesi e per “indagare sul modo in cui il Mandato in Palestina è stato messo in pratica per quanto riguarda gli obblighi mandatari rispettivamente verso gli arabi e gli ebrei.”

In base al rapporto stilato nel giugno 1937, il conflitto tra arabi ed ebrei era irriconciliabile e, di conseguenza, la commissione raccomandava la fine del Mandato Britannico e la spartizione della Palestina in due Stati: uno arabo, l’altro ebraico. Si supponeva che la spartizione fosse l’unico modo per “risolvere” le legittime e antitetiche ambizioni nazionali delle due parti e per liberare la Gran Bretagna dalla sua difficile situazione.

Nonostante gli impegni indicati nella dichiarazione Balfour, nell’accordo Sykes-Picot [tra Gran Bretagna e Francia per la spartizione del Medio oriente, ndt.] e nella corrispondenza tra McMahon e Hussein [tra l’alto commissario britannico al Cairo e il principe hashemita per definire lo status politico dei territori arabi liberati dal dominio turco, ndt.], la raccomandazione della spartizione riconobbe ufficialmente l’incompatibilità degli obblighi britannici verso le due comunità. La commissione Peel rappresentò la prima ammissione, quasi 20 anni dopo la sua istituzione, che la premessa del mandato britannico era insostenibile. Fu anche la prima volta che la spartizione venne menzionata come una “soluzione” del conflitto che i britannici avevano creato.

Entrambe le parti rifiutarono le raccomandazioni della commissione. I dirigenti sionisti erano insoddisfatti delle dimensioni del territorio a loro destinato, nonostante appoggiassero la spartizione come soluzione. Dal punto di vista palestinese, la spartizione era una violazione dei diritti degli abitanti arabi della Palestina. Il rapporto della commissione scatenò la rivolta araba spontanea dal 1936 fino alla sua violenta repressione da parte dei britannici nel 1939.

È difficile dire quale forma avrebbe potuto prendere un corso degli avvenimenti alternativo. Dopotutto la rivolta araba (ed il fallimento della conferenza anglo-arabo-ebraica a Londra nel febbraio 1939) portò alla pubblicazione del “Libro Bianco” del 1939, che affermava: “Il governo di Sua Maestà quindi ora dichiara inequivocabilmente che non è parte della sua politica che la Palestina debba diventare uno Stato ebraico.” Sotto ogni aspetto questa fu una vittoria per la comunità palestinese. È stato quello che è venuto dopo, cioè la Seconda Guerra Mondiale e gli orrori dell’Olocausto, che ha drasticamente sovvertito questo equilibrio in favore di uno Stato ebraico in Palestina.

La commissione Peel e le sue conseguenze offrono un opportuno promemoria che la spartizione della Palestina non è mai stato un pilastro del Mandato Britannico. Piuttosto, la spartizione venne suggerita come una misura disperata per liberare la Gran Bretagna, come potere coloniale, dal pantano palestinese. Quella spartizione allora diventò l’ortodossia stabilita per le recentemente create Nazioni Unite, e da allora praticamente ogni negoziato fu assolutamente inevitabile nonché ragionevole. Se cerchiamo di trarre lezioni per il futuro, è forse il caso di rimuovere il finora ben consolidato mito che la spartizione della Palestina storica sia l’unico modo per garantire la pace, qualunque forma essa possa prendere.

Jamil Hilal: Il Piano di Spartizione e il bivio

Per comprendere le strade non percorse quando la risoluzione ONU 181 (nota anche come il Piano di Spartizione) è stata approvata nel 1947, si deve riprendere in considerzione la dichiarazione Balfour del 1917 e i suoi risultati. La dichiarazione rifletteva gli interessi britannici nella regione, cioè l’uso della Palestina come garanzia del controllo [britannico] sul canale di Suez e come zona cuscinetto contro le ambizioni francesi sul sud della Siria. Le preoccupazioni britanniche erano quindi sia economiche (l’accesso al canale e l’accesso e il controllo di petrolio e gas) sia politiche (il controllo sulla Palestina che era stato ottenuto dalla Società delle Nazioni). Questo controllo è la ragione per cui la Gran Bretagna si impegnò a creare un “focolare ebraico” in Palestina, piuttosto che uno Stato ebraico.

Il colonialismo di insediamento da parte degli ebrei europei contro i desideri degli arabi palestinesi nativi mise in pratica la dichiarazione. Questa colonizzazione europea della Palestina, istigata dalla Gran Bretagna, iniziò molto prima delle terribili atrocità commesse dal regime nazista nella Germania di Hitler. Contro questa doppia colonizzazione della Palestina ci fu molta resistenza palestinese, la più nota delle quali fu la grande rivolta del 1936-39. La dirigenza del movimento nazionalista palestinese, che lottò contro la colonizzazione sionista, era divisa sul giudizio in merito al dominio britannico sulla Palestina. Alcuni dirigenti pensavano che la Gran Bretagna avrebbe potuto essere convinta, mentre altri la consideravano il loro maggiore nemico. Questa divisione sul ruolo del potere imperiale contro il nemico diretto è evidente ancora oggi.

Le misure che le forze britanniche e sioniste presero per schiacciare la ribellione del 1936-39 lasciarono esausto il movimento nazionalista, la dirigenza dispersa e l’economia palestinese in rovina. In seguito non ci fu una chiara strategia, salvo la richiesta di indipendenza, anche questa una situazione che ha delle somiglianze con l’attualità.

La risposta palestinese al piano di spartizione delle Nazioni Unite rispecchiò la stanchezza del movimento nazionale. Non c’era una strategia unitaria e nessuna discussione per chiedere l’opinione del popolo sulla cosa migliore da fare, sia dal punto di vista tattico che strategico. Solo una piccola parte del movimento nazionalista era pronta ad accettare il piano. La maggioranza lo rifiutò, ma non propose una chiara alternativa. La minoranza che sosteneva l’accettazione da parte dei palestinesi credeva che avrebbe potuto sventare il progetto sionista di occupare quanta più terra possibile con il minimo di popolazione nativa. Questo gruppo credeva che l’accettazione avrebbe dato ai palestinesi tempo e spazio per ricostituire la propria forza e le proprie possibilità, costruire uno Stato e sviluppare relazioni con la regione e con il mondo. Altri affermavano che una simile mossa non avrebbe ostacolato il progetto sionista.

Il rifiuto del piano di spartizione era ovviamente comprensibile. Per i palestinesi questo significava consegnare più di metà della loro patria a un movimento colonialista di insediamento europeo che invadeva e colonizzava il loro Paese con la forza e con la protezione dell’impero britannico. Violava il loro diritto all’autodeterminazione e all’indipendenza e la loro richiesta di uno Stato democratico che avrebbe garantito i diritti di tutti i cittadini indipendentemente dalla religione, dall’etnia e dalla razza. Inoltre il progetto britannico-sionista non era solo contro i palestinesi: tutta la regione araba era coinvolta.

Il movimento sionista colse il rifiuto del piano come il rifiuto di un accordo pacifico e una giustificazione per scatenare una guerra contro i palestinesi quando questi erano impreparati, disorganizzati e senza dirigenti.

Quindi non furono pienamente sviluppate e discusse alternative al piano di spartizione. Gli argomenti proposti da quelli che erano favorevoli ad accettare il piano non vennero sufficientemente discussi e non vennero fatti tentativi di articolare una nuova strategia di opposizione al movimento sionista. Un simile percorso avrebbe potuto avere un impatto su Israele e portare in seguito alla riunificazione della Palestina su basi democratiche. Queste idee erano almeno da discutere.

Ironicamente, alcuni degli argomenti di quel periodo vennero ripresi nel 1974 quando venne sostenuto il programma di transizione, noto anche come il programma di 10 punti, che intendeva fondare uno Stato su ogni parte della Palestina che fosse stata liberata. Il programma, che venne approvato dal Consiglio Nazionale Palestinese (CNP), favorì l’ingresso dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite come membro senza diritto di voto.

Nel 1988 il CNP approvò la soluzione dei due Stati in un momento in cui la prima Intifada aveva mobilitato un grande appoggio globale alla causa palestinese. Tuttavia gli accordi di Oslo del 1993 e ciò che ne seguì rappresentarono una spartizione della Palestina ancora più dannosa persino del piano di spartizione originale e sono culminati nell’attuale situazione, in cui l’equilibrio di forze tra Israele e i palestinesi a livello locale, regionale e internazionale è pesantemente a favore di Israele.

Partendo dal fatto che gli accordi di Oslo non hanno dato vita a uno Stato palestinese indipendente, ci dobbiamo chiedere: i palestinesi devono insistere con il progetto dei due Stati, in attesa di un cambiamento nel rapporto di potere, o dovrebbero adottare una nuova strategia che chieda la costruzione di uno Stato unico democratico nella Palestina storica – lo slogan che elementi illuminati del movimento nazionalista palestinese proposero prima della Nakba e di nuovo all fine degli anni ’60? Questa volta, tuttavia, la domanda deve essere affrontata con una chiara visione e strategia e attraverso una decisione delle comunità palestinesi nella Palestina storica e nella diaspora.

Tuttavia non è sufficiente discutere. Quando chiediamo quali lezioni noi, come palestinesi, possiamo trarre dalla storia, la mia domanda è sempre: chi farà tesoro di queste lezioni? E quelli che hanno il potere sono disposti ad agire tenendo conto di queste lezioni? Spesso gli intellettuali pensano che le loro analisi raggiungeranno in qualche modo la classe politica che è nelle condizioni di prendere l’iniziativa. Ma senza l’azione di gruppi di pressione, movimenti sociali, partiti politici, sindacati e altre forme di potere, si potrà ottenere poco.

Najwa al-Qattan: leggere la storia attraverso le lenti della realtà

La nascita dello Stato di Israele nel 1948 fu la conseguenza di una serie di sviluppi storici iniziati nel XIX° secolo. Benché l’Olocausto abbia giocato un ruolo nella nascita di Israele, esso fu più simile a un’ostetrica che a un genitore. Ciononostante c’è la percezione, sia nell’Occidente che tra i palestinesi, che i due avvenimenti siano legati da un rapporto causale. Questa percezione non è semplicemente dovuta a un errore logico secondo cui post hoc ergo proctor hoc, ovvero B ha seguito A, quindi A ha causato B. In realtà sono proprio i sei corti anni che separano i due eventi che dovrebbero farci riflettere. Qui io contesto una relazione causale diretta tra i due avvenimenti, pur suggerendo anche le ragioni per cui nell’immaginazione popolare sono associati. Concludo con le lezioni che possono essere tratte da una storia più critica.

Quando David Ben Gurion annunciò la nascita di Israele nel maggio 1948, stava a malapena evocando uno Stato puramente immaginario. Semmai stava fissando l’obiettivo di 50 anni di tentativi sionisti. Israele era la conseguenza di sviluppi storici sia a lungo che a breve termine: l’antisemitismo razziale o moderno in Europa nel XIX° secolo; l’emergere del movimento sionista sia come una risposta all’antisemitismo moderno che ai movimenti nazionalisti in Russia e in Europa occidentale; il successo del primo sionismo nel tenere insieme il socialismo con il nazionalismo per colonizzare “una terra senza popolo” con “un popolo senza terra”; il Mandato britannico per la Palestina sotto il cui contesto protettivo – come sancito nella dichiarazione Balfour – ondate successive di immigrati ebrei europei costruirono istituzioni sociali, economiche, politiche e militari pre-statali.

Tra i circa 600.000 ebrei europei che erano immigrati in Palestina fino al 1948, i sopravvissuti [all’Olocausto] erano 120.000. La popolazione di Israele crebbe rapidamente nei primissimi anni della sua vita in quanto arrivarono nuovi immigrati. Nuove ondate di sopravvissuti all’Olocausto ammontarono a 300.000, ma c’erano anche oltre 475.000 ebrei del Medio Oriente e di altre provenienze. Considerando l’idea sionista che lo Stato ebraico dovesse offrire un rifugio dall’antisemitismo europeo e una patria per il popolo ebraico, questo era un colpo morale e politico per il sionismo. L’idea era che se l’avessero costruita, sarebbero arrivati, ma milioni [di ebrei] non lo fecero, anche dopo la catastrofe provocata dall’uomo dell’Olocausto, che sterminò sei milioni di ebrei.

Non si tratta di negare un rapporto storico tra i due fatti. Il primo collegamento tra l’Olocausto e la creazione dello Stato di Israele riguarda i tempi. Benché i fondatori dello Stato sionista dai primi decenni del XX° secolo fossero concordi riguardo all’obiettivo finale di costituire uno Stato ebraico in Palestina, dissentivano sul momento ideale (così come sull’estensione del suo territorio). In questo senso l’Olocausto sicuramente portò i dirigenti sionisti a sottolineare l’urgenza dello Stato, come durante il programma Biltmore [dichiarazione da parte di Ben Gurion durante la conferenza all’hotel Biltmore di New York sulla necessità di costituire lo Stato ebraico, ndt.] nel 1942, così come fece l’annuncio britannico dei piani di disimpegno dalla Palestina nel 1947. Tuttavia ciò non significa che uno fosse la causa dell’altro; i progetti e le attività relativi alla costituzione dello Stato all’epoca erano in fase avanzata.

Il secondo collegamento è una questione di propaganda politica: il legame tra l’Olocausto ed Israele è stato spesso utilizzato per denunciare le critiche di Israele come antisemitismo e per eliminare dalla narrazione la mancanza di uno Stato e la diaspora del popolo palestinese. Due anni fa il primo ministro Benjamin Netanyahu è arrivato a fare la falsa affermazione che furono i palestinesi che suggerirono l’idea della soluzione finale a Hitler.

Sotto occupazione o sparsi nella diaspora provocata da Israele, a volte i palestinesi immaginano che se l’Olocausto non fosse mai avvenuto non ci sarebbe neanche stato Israele. Piuttosto che reimmaginarci il passato, faremmo meglio a imparare da esso in modo da costruire un futuro pacifico e umano. In primo luogo, il segreto per costruire uno Stato palestinese (indipendentemente dalla sua forma) sono la densità e il benessere del suo popolo, delle sue istituzioni e della sua società civile, così come la determinazione della sua dirigenza politica e della società civile a sfidare l’occupazione e la negazione dei diritti palestinesi da parte di Israele. In secondo luogo, benché l’Olocausto non abbia provocato direttamente la nascita dello Stato di Israele, dovremmo desiderare che non ci fosse mai stato per l’unica ragione che conta: quella morale.

Mouin Rabbani: le ripercussioni della pace separata di Sadat

Sembra che il popolo palestinese abbia un rapporto difficile con gli anni che finiscono con il numero sette. Il primo congresso sionista si tenne nella città svizzera di Basilea nel 1897; il 1917 vide Arthut Balfour emanare la vergognosa dichiarazione che impegnava la Gran Bretagna a trasformare la Palestina in un focolare nazionale ebraico; la commissione Peel, che raccomandava che Londra adottasse la spartizione come politica ufficiale, pubblicò il suo rapporto nel 1937; la risoluzione 181 dell’assemblea generale dell’ONU che raccomandava la spartizione della Palestina venne adottata il 29 novembre 1947; il risultante staterello di Israele occupò ciò che restava della Palestina ed altri territori arabi nel 1967. Mezzo secolo dopo, nel 2017, sembra che vi si sia installato in modo più o meno permantente. L’importante eccezione a questa costante di sconfitte e tragedie è il 1987, l’anno in cui l’Intifada, la rivolta popolare nei Territori Palestinesi Occupati, scoppiò per dare ancora una volta ai palestinesi di ogni luogo la speranza di una liberazione nazionale.

Il 1977, l’anno in cui il leader egiziano Anwar Sadat lanciò la sua iniziativa per fare una pace separata con Israele, è spesso assente da questo elenco. L’auto-proclamato “pellegrinaggio” di Sadat verso l’abbraccio di Menachem Begin è normalmente presentato come l’inizio benaugurante di un processo di pace arabo-israeliano che in seguito è fallito. Non c’è bisogno del senno di poi per capire che non era, e non avrebbe mai potuto essere, niente del genere.

Sadat dedicò molti degli anni ’70, e in particolare quelli successivi alla guerra dell’ottobre 1973 [la guerra dello Yom Kippur, ndt.], a riconfigurare l’Egitto. Precedentemente centro di gravità del mondo arabo, che cercò e ottenne un’importanza globale, fu sotto la dirigenza di Sadat che l’Egitto venne gradualmente ridotto a Stato “cliente” di USA e Arabia Saudita. Le riforme socioeconomiche che ne derivarono – la politica dell’infitah [apertura neoliberista, ndt.] – per pagare il prezzo di ammissione aprirono le porte dell’Egitto ad ogni capitalista corrotto e ad ogni disponibilità clientelare. All’inizio del 1977 tali cambiamenti produssero anche un’esplosione di rivolta popolare, senza precedenti dal colpo di Stato del 1952, che per poco non portò alla fine del potere di Sadat. Il suo volo a Tel Aviv alla fine di quell’anno era un risultato diretto di quegli sviluppi. Eppure l’aria di inevitabilità di cui la sua iniziativa venne da allora rivestita – presentata come una conseguenza logica e necessaria del disimpegno [israeliano] dal Sinai nel 1974-75 in seguito alla guerra arabo-israeliana dell’ottobre 1973 – equivale a leggere la storia a posteriori. Per una buona ragione prese assolutamente di sorpresa allo stesso modo amici e nemici.

In un sol colpo lo stravagante e sempre più imprevedibile leader egiziano eliminò dalle possibilità l’opzione militare araba contro Israele. Così facendo privò anche l’OLP e gli Stati arabi di una credibile opzione diplomatica.

Le immediate conseguenze furono la devastante invasione del Libano nel 1982 e l’espulsione del movimento nazionale palestinese dal Libano. Un decennio dopo, gli accordi di Oslo del 1993 non furono altro che un’elaborazione del piano di autonomia inserito nel trattato di pace tra israeliani ed egiziani del 1979. Che Israele non abbia ancora dato il nome di Anwar Sadat a una sua colonia è uno dei grandi misteri della regione.

Se alla fine degli anni ’70 l’Egitto – come quasi fece – avesse resistito alla tentazione di una pace separata con Israele, il Medio Oriente oggi sarebbe un posto molto diverso e quasi sicuramente molto migliore. I palestinesi e gli Stati arabi avrebbero conservato un’opzione diplomatica credibile e sarebbero stati nelle condizioni di esercitare significative pressioni militari se Israele avesse rifiutato di fare altrettanto.

Jaber Suleiman: reimparare la lezione della prima Intifada

La prima Intifada del 1987 fu un brillante modello di lotta palestinese contro l’occupazione israeliana. Impegnò tutti gli strati della popolazione palestinese e fu caratterizzata da unità, organizzazione e creatività. Rivitalizzò con successo anche la causa palestinese a livello internazionale dopo che l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) venne espulsa da Beirut nel 1982, perdendo la propria base.

Da allora ogni volta che i palestinesi si ribellano contro l’occupazione israeliana ci chiediamo: ci sarà una nuova Intifada – una terza Intifada, dato che l’Intifada degli anni 2000 fu la seconda? Qualche analista usa sbrigativamente il termine “intifada” per riferirsi a qualunque promettente azione popolare, come il movimento dei giovani nel 2015 e, più recentemente, l’”ondata di rabbia” di Gerusalemme, che continua in modo intermittente nel 2017. Ciò sottolinea la posizione centrale della prima Intifada, che durò tre anni. Infatti è comparabile solo con la grande rivolta palestinese del 1936-39. Sia l’Intifada che la rivolta andarono incontro allo stesso tragico destino, benché nel contesto di circostanze storiche diverse.

La dirigenza palestinese degli anni ’30 rispose all’appello dei leader arabi di fermare la rivolta per “dare ascolto alle buone intenzioni del nostro alleato britannico”, che si era impegnato a rispettare le richieste arabe. Nel 1988, durante la 19° sessione del Consiglio Nazionale, l’OLP decise di capitalizzare politicamente la prima Intifada per ottenere libertà e indipendenza. Credeva di appropriarsi della lotta e che l’Intifada avesse fornito la spinta necessaria per mettere in atto il programma politico provvisorio che aveva adottato nel 1974, che comprendeva la formazione di un’entità palestinese su ogni parte della Palestina che fosse stata liberata. Il risultato fu uno Stato abortito come conseguenza degli accordi di Oslo.

Dato che le circostanze della rivolta del 1936 non portarono alla realizzazione del diritto palestinese all’auto-determinazione, perché la prima Intifada non fu in grado di avvalersi di questa ricca esperienza per evitare il suo tragico destino? Anzi, la prima Intifada soffrì lo stesso destino perché fu coinvolta troppo frettolosamente negli accordi di Oslo, e il popolo palestinese continua a raccoglierne le amare conseguenze. Ciò include la divisione, la frammentazione e la debolezza del suo movimento nazionale dopo che negli anni ’70 aveva guadagnato un posto di rilievo tra i movimenti di liberazione nazionale mondiali.

Questa domanda è diventata ancora più pressante nel centenario della dichiarazione Balfour, in quanto lo sventurato processo di pace di Oslo è arrivato alla fine dopo più di due decenni di futili negoziati. I fatti sul terreno determinati dalle colonie israeliane – e il rifiuto israeliano di ritirarsi dalla terra occupata nel 1967 – hanno reso impossibile la soluzione dei due Stati. Oggi è urgente chiedersi come le lezioni della prima Intifada ed i suoi risultati possano essere messi in pratica per una giusta soluzione del conflitto arabo-israeliano.

  • La storia svela l’importanza per la lotta nazionale palestinese di avere una chiara visione strategica e di essere sicuri che le mosse tattiche si inseriscano in quelle strategiche, e viceversa, durante tutte le fasi della lotta e alla luce dei cambiamenti sul terreno e delle alleanze globali. Ciò garantisce che, qualunque sia la fase della lotta, l’opportunismo politico non abbia la priorità sugli obiettivi finali.

  • È fondamentale sostenere le basi giuridiche del conflitto, fondate sui principi di giustizia contenuti nella Carta delle Nazioni Unite, che sostituisce le leggi internazionali in base all’articolo 1 della Carta. Ciò garantisce che le basi legali dei diritti dei palestinesi non vengano manipolate e che quei diritti rimangano il punto di riferimento per ogni negoziato. Non è stato così nel caso di Oslo.

  • La dirigenza palestinese – attuale o futura – dovrebbe ispirarsi allo spirito combattivo che il popolo ha dimostrato durante un secolo di resistenza al progetto sionista. La resistenza dovrebbe imparare da queste esperienze storiche per rafforzare la propria fiducia nel potenziale rivoluzionario del popolo palestinese, ed evitare il meschino e miope sfruttamento politico di consistenti risultati nella lotta che leda i diritti nazionali dei palestinesi.

Notes:

  1. Al-Shabaka ringrazia gli sforzi dei sostenitori dei diritti umani di tradurre i suoi articoli, ma non è responsabile di eventuali cambiamenti del significato.

  2. Il governo britannico adottò il Libro Bianco nel 1939, e lo applicò fino alla fine del suo mandato nel 1948. Il “Libro Bianco” escluse la spartizione e affermò che il focolare nazionale ebraico avrebbe dovuto essere all’interno di una Palestina indipendente con limiti all’immigrazione [degli ebrei, ndt.].

Zena Agha è l’esperta di politica USA per Al-Shabaka. L’esperienza di Zena si concentra sulla politica, sulla diplomazia e sul giornalismo. In precedenza ha lavorato all’ambasciata irachena a Parigi, alla delegazione palestinese all’UNESCO e all’ “Economist”. Oltre ad editoriali su “The Indipendent”, le collaborazioni di Zena includono El País, i servizi internazionali di PRI [Public Radio International, rete radiofonica indipendente con sede negli USA, ndt.], i servizi esteri della BBC e la BCC in arabo. A Zena è stata assegnata una borsa di studio Kennedy per studiare all’università di Harvard, completando il suo master in studi sul Medio oriente. I suoi principali interessi di ricerca comprendono la storia moderna, memorie e produzioni narrative, prassi territoriali in Medio oriente.

Il commentatore politico di Al-Shabaka Jamil Hilal è sociologo e scrittore indipendente palestinese e ha pubblicato vari libri e numerosi articoli sulla società palestinese, sul conflitto arabo-israeliano e sui problemi del Medio Oriente. Hilal ha ottenuto, e tuttora ricopre, il ruolo di ricercatore esperto in una serie di istituti di ricerca palestinesi. Le sue recenti pubblicazioni includono lavori sulla povertà, sui partiti politici palestinesi e sul sistema politico dopo Oslo. Ha pubblicato Where Now for Palestine: The Demise of the Two-State Solution [Dove va ora la Palestina: il fallimento della soluzione dei due Stati] (Z Books, 2007), e con Ilan Pappe ha pubblicato Across the Wall [“Attraverso il muro”] (I.B. Tauris, 2010).

Il commentatore politico di Al-Shabaka Rashid Khalidi è titolare della cattedra Edward Said di Studi Arabi al dipartimento di storia della Columbia University. È stato presidente dell’Associazione degli Studi sul Medio Oriente, consulente della delegazione palestinese per i negoziati di pace arabo-israeliani del 1991-93 ed è direttore del Journal of Palestine Studies. Khalidi è autore di Brokers of Deceit: How the U.S. has Undermined Peace in the Middle East (2013); Sowing Crisis: American Dominance and the Cold War in the Middle East (2009); The Iron Cage: The Story of the Palestinian Struggle for Statehood (2006); Resurrecting Empire: Western Footprints and America’s Perilous Path in the Middle East (2004); Palestinian Identity: The Construction of Modern National Consciousness (1997); Under Siege: PLO Decision-making during the 1982 War (1986); e British Policy towards Syria and Palestine, 1906-1914 (1980). Ha scritto oltre novanta articoli su aspetti della storia del Medio Oriente.

La commentatrice politica di Al-Shabaka Najwa al-Qattan è professoressa associata di storia alla Loyola Marymount University di Los Angeles. Si è laureata all’American University di Beirut, alla Georgetown e ad Harvard. Ha scritto sulla corte ottomana musulmana, su ebrei e cristiani nell’impero ottomano e sulla Grande Guerra.

Il commentatore politico di Al-Shabaka Mouni Rabbani è uno scrittore ed analista indipendente specializzato in questioni palestinesi e nel conflitto arabo-israeliano. È ricercatore all’Istituto di Studi Palestinesi ed è un redattore di Middle East Report [rivista indipendente sul Medio Oriente, ndt.]. I suoi articoli sono apparsi anche su “The National [rivista in inglese degli Emirati Arabi Uniti, ndt.] ed è commentatore del The New York Times.

Il commentatore politico di Al-Shabaka Jaber Suleiman è un ricercatore e consulente indipendente in studi sui rifugiati. Dal 2011 ha lavorato come consulente e coordinatore per il Forum di Dialogo libanese-palestinese presso l’Iniziativa per uno Spazio Comune, il progetto di supporto dell’UNDP [il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, ndt.]

sulla Costruzione di Consenso e Pace Civile in Libano. Tra il 2007 ed il 2010 ha lavorato come consulente per il programma palestinese dell’UNICEF nei campi di rifugiati palestinesi in Libano. È stato ricercatore ospite del programma di studi sui rifugiati dell’università di Oxford. È anche co-fondatore del gruppo e centro per i diritti dei rifugiati Aidoun e ha scritto numerosi studi riguardanti i profughi palestinesi e il diritto al ritorno.

Nadia Hijab è co-fondatrice e direttrice esecutiva di Al-Shabaka, scrittrice e commentatrice nei media. Il suo primo libro, Womanpower: The Arab debate on women at work [“Potere delle donne: il dibattito arabo sulle donne al lavoro”] è stato pubblicato dalla Cambridge University Press ed è coautrice di Citizens Apart: A Portrait of Palestinians in Israel [“Cittadini ai margini: un ritratto dei palestinesi in Israele”] (I. B. Tauris). E’ stata capo redattrice del giornale con sede a Londra “Middle East magazine”, prima di aver ricoperto un incarico alle Nazioni Unite a New York. È co-fondatrice ed ex-condirettrice della campagna USA per i diritti dei palestinesi, ed ora lavora nel suo comitato consultivo.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La Dichiarazione Balfour dissezionata: 67 parole che hanno cambiato il mondo

Amanda Thomas-Johnson

1 novembre 2017, Nena News

Middle East Eye

Un secolo dopo il sostegno del governo britannico per una patria ebraica genera ancora controversie. Ecco perché

È battuta a macchina su un singolo foglio di carta. È lunga meno di 70 parole. Il suo linguaggio è privo di emozioni e difficilmente potrebbe essere chiamata poetica. Ma la Dichiarazione Balfour, emessa dal governo britannico cento anni fa questa settimana, ha cambiato il corso della storia per ebrei, arabi e resto del mondo.

Dietro alla breve asserzione – nascosta in una lettera di 112 parole – sta la promessa ai sionisti di una patria per il popolo ebraico. Una promessa corroborata dalla spinta di Londra verso la vittoria nella guerra, dal romanticismo biblico dei cristiani dell’establishment e, nelle parole di Avi Shlaim, professore israeliano, dal “freddo calcolo degli interessi imperialisti britannici”.

Capire come la dichiarazione è stata prodotta è la chiave per comprendere come, un secolo dopo, resta fonte di intensa controversia, celebrata da molti ebrei ma anche avversata da molti arabi.

Tempo di guerra

È l’autunno 1917, tre anni dall’inizio della prima guerra mondiale. Le truppe britanniche sono quasi alle porte della città di Gerusalemme in Palestina. Il territorio, insieme a buona parte del Medio Oriente, è sotto il controllo dell’impero ottomano che, con la Germania, sta combattendo la Gran Bretagna.

Per farsi aiutare a vincere la guerra, i britannici incoraggiano gli arabi alla rivolta contro gli ottomani in cambio di una patria pan-araba. Ma nel 1916 Francia e Gran Bretagna avevano firmato in segreto gli Accordi di Sykes-Picot, che hanno fatto a pezzi il Medio Oriente e lo hanno spartito tra i due poteri europei.

In quello che è il secondo tradimento delle aspirazioni politiche arabe, Arthur Balfour, il segretario agli Affari esteri britannico, scrive il 2 novembre a Lord Walter Rothschild, preminente membro della comunità ebraica britannica. La dichiarazione è il culmine di numerose bozze, che erano state attentamente lette dai membri del governo.

Rothschild, un finanziere, è membro di una delle più ricche famiglie europee. È anche il primo ebreo a sedere nella Camera dei Lord e un leader del movimento sionista che ha lavorato per creare uno Stato per gli ebrei in Palestina – anche se la sua popolazione all’epoca era per oltre il 90% araba.

Il Regno Unito appoggia la causa sionista

Gli ebrei stavano immigrando in Palestina da qualche decennio, spinti dai pogrom antisemiti nell’impero russo alla fine degli anni Ottanta del XIX secolo. Ma è nel 1897, con la fondazione dell’Organizzazione Sionista in Svizzera per volere di Theodore Herzl, giornalista austro-ungarico, che le aspirazioni del sionismo politico – una casa per il popolo ebraico in Palestina – cominciano a prendere forma.

Negli anni a seguire, i sionisti iniziano a fare premere per una maggiore migrazione in Palestina nella speranza che i grandi poteri – Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti – sostengano la loro campagna. Ma mentre una parte dell’establishment britannico è simpatetica con la causa sionista, il governo passa nel 1905 una legge che limita l’ingresso di ebrei nel paese.

Il primo ministro britannico, David Lloyd George, che l’accademico israeliano Avi Shlaim ha descritto come “l’energia” dietro la Dichiarazione, è un gallese di origine cristiano-evangelica. È un membro del gruppo di devoti politici cristiani che guardano alla creazione di uno Stato ebraico come il compimento di una profezia biblica: che un popolo a lungo perseguitato sarà in grado di tornare dall’esilio alla propria patria.

Subito dopo lo scoppio della guerra nel 1914, il leader sionista Chaim Weizmann prende contatti con Rothschild e comincia a fare lobby sui membri del governo britannico. Nel gennaio 1915 il governo discute per la prima volta l’idea di una patria per gli ebrei in Palestina.

John Bond del Progetto Balfour spuega che la discussione tra i politici britannici era focalizzata poco sulla religione e molto sulla sicurezza geopolitica: “I motivi non erano religiosi, ma di cocciuto imperialismo. La loro religione era l’impero britannico ben prima che esistesse il sionismo”.

La Gran Bretagna vede il beneficio strategico nel creare quello che Ronald Storrs, un futuro governatore di Gerusalemme, avrebbe descritto come “un’Irlanda del Nord ebraica fedele in un mare di arabismo potenzialmente ostile”. La Palestina, realizza Londra, è essenziale alla protezione dei propri interessi nella regione, specialmente il Canale di Suez e le vie di comunicazione con l’India, il gioiello della corona imperiale britannica a quel tempo.

E i palestinesi?

Nel 1917 la popolazione della Palestina (700mila persone) è dominata da arabi – parte della “esistente comunità non ebraica” di cui parla la Dichiarazioni. La maggior parte delle comunità è musulmana, ma ci sono anche cristiani. C’è anche un piccolo numero di palestinesi ebrei che vivono in Palestina da secoli e condividono con gli altri palestinesi la lingua, gli usi e le tradizioni.

I palestinesi sono vissuti sotto il dominio dell’impero ottomano per quattro secoli, ma con la prima guerra mondiale il sostegno ai turchi è precipitato. Un nuovo regime turco nazionalista è ora a capo dell’impero e, con l’appoggio britannico, le aspirazioni politiche arabe sembrano più raggiungibili che mai.

Durante la guerra, la Gran Bretagna e i suoi alleati inseguono i territori ottomani. Ma le tensioni iniziano a montare in Palestina quando ondate di ebrei europei cominciano ad arrivare, a comprare le terre e a utilizzare la lingua ebraica, il tutto con l’obiettivo di creare uno Stato. Costruiscono anche insediamenti: uno viene chiamato Tel Aviv. I leader palestinesi temono una sconfitta e si lamentano con le autorità ottomane.

Lo scrittore arabo Abdullah Mukhlis riassume le parole di molti palestinesi quando, in anticipo sui tempi, nel 1910, scrive: “La creazione di uno Stato ebraico dopo migliaia di anni di declino…noi (arabi) temiamo che la nuova colonia espellerà gli indigeni e dovremo lasciare il nostro paese in massa”.

Prima della Dichiarazione non c’era unità tra i sionisti fuori dal Medio Oriente. Nel Regno Unito, ad esempio, solo 8mila dei 300mila ebrei presenti appartenevano ad un’organizzazione sionista prima della Dichiarazione Balfour.

Chris Doyle, il direttore del Council for Arab-British Understanding, spiega: “Gli ebrei sicuramente non erano uniti. Ce n’erano molti che pensavano che avrebbe avuto un impatto negativo. Il sionismo non aveva catturato l’immaginazione delle comunità ebraiche”

Come è stata ricevuta la Dichiarazione

Quando è divenuta pubblica, la Dichiarazione Balfour ha segnato un punto di svolta nella campagna tra gli ebrei. In Gran Bretagna è guidata dalla Federazione Sionista, un gruppo ombrello che preme per l’idea che il principale obiettivo del sionismo sia l’aliyah, ovvero l’immigrazione in Palestina. Una celebrazione viene organizzata nella Royal Opera House, durante la quale intervengono importanti leader sionisti e membri del governo.

I membri delle organizzazioni sioniste aumentano drasticamente anche negli Stati Uniti. Tuttavia, alcuni ebrei ortodossi si oppongono alla creazione di una patria ebraica in Palestina sulla base di convinzioni religiose.

Weizmann continua a fare lobby sui ministri, i diplomatici, i funzionari. Partecipa alla Conferenza di pace di Versailles nel 1919, quella che definisce i termini della pace per gli sconfitti. Weizmann prova a tenere i britannici ancorati alle loro promesse.

Herbert Samuel, il parlamentare sionista che aveva avviato le discussioni nel governo su una patria ebraica in Palestina, viene nominato governatore della Palestina nel 1920.

I successivi cento anni

I leader arabi palestinesi diventano furiosi quando la notizia della Dichiarazione emerge, nelle settimane successive. Dal 1920 in avanti, i palestinesi commemorano l’anniversario della Dichiarazioni con proteste che in alcuni casi si fanno violente.

Nel 1922 la Palestina finisce sotto il mandato britannico, che avrebbe dovuto preparare la popolazione all’eventuale auto-determinazione. Ma il documento del mandato lascia fuori la parola “arabo”. Al contrario, consacra la Dichiarazione Balfour all’interno di un contesto legale internazionale.

La Dichiarazione porta nel 1947 alla realizzazione del sogno sionista di una patria per gli ebrei quando le neonate Nazioni Unite si accordano per la spartizione della Palestina in un territorio arabo e uno ebreo. ,a questo genera ulteriore ostilità tra i vicini arabi di Israele. Quando Israele dichiara l’indipendenza nel 1948, la guerra scoppia. Israele esce vincitore ma i suoi abitanti vivranno da quel momento in poi sotto la costante minaccia del conflitto.

Nel 1948 i palestinesi vivono la Nakba, la catastrofe: centinaia di migliaia di loro vengono violentemente portati via dalle loro case e costretti a vivere sotto occupazione o fuori dalla Palestina.

I sionisti, intanto, celebrano Balfour. Strade delle principali città, compresa Gerusalemme, prendono il suo nome. Balfouria, un insediamento a sud di Nazareth, era stata fondata in suo onore nel 1922. La sua scrivania si trova nel Museo del Popolo Ebraico a Tel Aviv. La Giornata Balfour viene celebrata ogni anno il 2 novembre.

Da parte sua Balfour non ha mai mostrato alcun rimorso. Nel 1919 dice al suo successore, George Curz

on, che non concordava con lui sulla politica britannica verso la Palestina, che “il sionismo, che sia giusto o sbagliato, è radicato in tradizioni vecchie di anni, nei bisogni presenti e nelle speranze future ed è di più profonda importanza dei desideri e i pregiudizi dei 700mila arabi che oggi vivono quell’antica terra”.

La lettera è conservata alla British Library.

(Traduzione a cura della redazione di Nena News)




La dichiarazione Balfour: uno studio sulla doppiezza britannica

Avi Shlaim

Venerdì 25 agosto 2017, Middle East Eye

Sono passati quasi 100 anni da quando questo documento ha cambiato il corso della storia, eppure la Gran Bretagna non ha ancora riconosciuto il rifiuto da parte di Israele del diritto all’autodeterminazione nazionale dei palestinesi– e la sua stessa complicità.

La Dichiarazione Balfour, emanata il 2 novembre 1917, è stato un breve documento che ha cambiato il corso della storia. Ha impegnato il governo britannico ad appoggiare la fondazione di un focolare per il popolo ebraico in Palestina, disponendo che non fosse fatto niente “per pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina.”

A quel tempo gli ebrei rappresentavano il 10% della popolazione della Palestina: 60.000 ebrei e poco più di 600.000 arabi. Eppure la Gran Bretagna scelse di riconoscere il diritto all’autodeterminazione nazionale della ridotta minoranza e di negarla recisamente all’incontestabile maggioranza. Nelle parole dello scrittore ebreo Arthur Koestler: c’era una Nazione che promise a un’altra Nazione la terra di una terza Nazione.

Alcuni resoconti contemporanei presentarono la Dichiarazione Balfour come un gesto disinteressato e come un nobile progetto cristiano per aiutare un antico popolo a ricostituire la propria vita nazionale nella sua patria ancestrale. Questi resoconti sgorgavano dal romanticismo biblico di alcuni funzionari britannici e dalla loro simpatia per la condizione degli ebrei nell’Europa orientale.

Studi successivi suggeriscono che il principale motivo dell’emanazione della dichiarazione era il freddo calcolo degli interessi imperiali britannici. Si credeva erroneamente, come è risultato in seguito, che gli interessi britannici sarebbero stati meglio tutelati da un’alleanza con il movimento sionista in Palestina.

La Palestina controllava le vie di comunicazione dell’impero britannico con l’Estremo Oriente. La Francia, il principale alleato della Gran Bretagna nella guerra contro la Germania, era al contempo una rivale nell’influenza sulla Palestina.

In base all’accordo segreto Sykes-Picot del 1916, i due Paesi si divisero il Medio Oriente in zone di influenza, ma vennero a un compromesso su un’amministrazione internazionale per la Palestina. Aiutando i sionisti ad occupare la Palestina, i britannici speravano di garantirsi una presenza preponderante nella zona e di escludere i francesi. I francesi definirono i britannici “perfida Albione”. La Dichiarazione Balfour era un esempio lampante di questa perenne perfidia.

Le principali vittime di Balfour

Le principali vittime della Dichiarazione Balfour, tuttavia, non furono i francesi ma gli arabi della Palestina. La dichiarazione era un classico documento coloniale europeo messo assieme da un piccolo gruppo di uomini con una mentalità totalmente colonialista. Venne formulato con assoluto spregio per i diritti politici della maggioranza della popolazione indigena.

Il ministro degli Esteri Arthur Balfour non fece nessuno sforzo per mascherare il proprio disprezzo per gli arabi.

Il sionismo, che sia giusto o sbagliato, buono o cattivo,” scrisse nel 1922, era “radicato in una tradizione di lungo periodo, nelle necessità presenti e nelle speranze future di importanza molto maggiore dei desideri e dei pregiudizi dei 700.000 arabi che ora abitano quella terra antica.” Difficilmente ci potrebbe essere una illustrazione più evidente di quello che Edward Said ha definito “l’epistemologia morale dell’imperialismo.”

Balfour era solo un languido aristocratico inglese. La vera forza motrice dietro la dichiarazione non era Balfour ma David Lloyd George, un impetuoso radicale gallese che guidava il governo. In politica estera Lloyd George era un imperialista britannico alla vecchia maniera e un usurpatore di terre. Il suo appoggio al sionismo, tuttavia, era basato non sulla corretta valutazione degli interessi britannici, ma sull’ignoranza: egli ammirava gli ebrei ma al contempo li temeva e non comprese che i sionisti erano la minoranza di una minoranza.

Schierando la Gran Bretagna con il movimento sionista, agì con l’opinione sbagliata – e antisemita – secondo cui gli ebrei erano straordinariamente influenti e che avrebbero accelerato un cambiamento storico. In effetti, il popolo ebraico era indifeso, senza nessun’altra influenza se non attraverso il mito di un potere occulto.

In breve, l’appoggio britannico al sionismo durante la guerra era radicato in un arrogante atteggiamento colonialista nei confronti degli arabi e nell’opinione sbagliata sul potere globale degli ebrei.

Un duplice obbligo

La Gran Bretagna aggravò il proprio errore originario inserendo i termini della Dichiarazione Balfour nel mandato della Società delle Nazioni per la Palestina. Quella che era stata una semplice promessa da parte di un grande potere a un alleato minore divenne a quel punto uno strumento internazionale legalmente vincolante.

Per essere più precisi, la Gran Bretagna in quanto potere mandatario assunse un duplice obbligo: di aiutare gli ebrei a costituire un focolare in tutta la Palestina mandataria e, allo stesso tempo, di proteggere i diritti civili e religiosi degli arabi. La Gran Bretagna rispettò il primo obbligo, ma mancò di onorare persino questo secondo, pur misero, impegno.

Che la Gran Bretagna fosse colpevole di doppiezza e facesse il doppio gioco è fuori discussione. Perciò la vera domanda da porsi è: questa politica immorale ha portato alla Gran Bretagna qualche vantaggio concreto? La mia risposta a questa domanda è che non ne ha portato nessuno.

La Dichiarazione Balfour è stata una palla al piede della Gran Bretagna dall’inizio del mandato [sulla Palestina] fino alla sua ingloriosa fine nel maggio 1948.

I sionisti sostennero che ogni cosa che la Gran Bretagna faceva per loro nel periodo tra le due guerre era molto lontano da quanto originariamente aveva promesso. Sostenevano che la dichiarazione implicava un appoggio ad uno Stato ebraico indipendente; i funzionari britannici ribattevano che avevano promesso solo un territorio nazionale, che non è lo stesso di uno Stato. Al contempo la Gran Bretagna subì l’ostilità non solo dei palestinesi, ma di milioni di arabi e musulmani in tutto il mondo.

Elizabeth Monroe, nel suo classico saggio Britain’s Moment in the Middle East [“Il periodo della Gran Bretagna in Medio Oriente”], fornisce un giudizio equilibrato su questa vicenda. “Valutato in base ai soli interessi britannici,” scrive Monroe, “ciò è uno dei più grandi errori della storia del nostro impero.”

Con il senno di poi, la Dichiarazione Balfour appare come un colossale abbaglio strategico.

Il risultato finale fu di permettere ai sionisti di occupare la Palestina, un’occupazione che continua fino ai nostri giorni nella forma di una espansione delle colonie, illegale ma senza sosta, in Cisgiordania a spese dei palestinesi.

Mentalità radicata

Data questa documentazione storica, ci si potrebbe aspettare che i dirigenti britannici abbassino il capo per la vergogna e rinneghino questa velenosa eredità del loro passato coloniale. Ma gli ultimi tre primi ministri britannici dei due principali partiti politici – Tony Blair, Gordon Brown e David Cameron – hanno dimostrato uno strenuo appoggio ad Israele e un’assoluta indifferenza per i diritti dei palestinesi.

L’attuale primo ministro Theresa May è uno dei leader più filo-israeliani d’Europa. In un discorso del dicembre 2016 agli “Amici conservatori di Israele”, che includono oltre l’80% dei parlamentari conservatori e tutto il governo, ha osannato Israele come “un Paese eccezionale” e “un faro di tolleranza”.

Spargendo sale sulle ferite palestinesi, ha definito la Dichiarazione Balfour “una delle più importanti lettere della storia,” ed ha promesso di festeggiarne l’anniversario.

Una petizione che chiede al governo di scusarsi per la Dichiarazione Balfour è stata firmata da 13.637 persone, compreso chi scrive. Il governo ha risposto come segue:

La Dichiarazione Balfour è una affermazione storica per la quale il governo di Sua Maestà non intende chiedere scusa. Siamo orgogliosi del nostro ruolo nella creazione dello Stato di Israele.

La dichiarazione è stata scritta in un mondo di poteri imperialisti in competizione tra loro, nel mezzo della Prima guerra mondiale e del tramonto dell’impero ottomano. In quel contesto, fondare una patria per il popolo ebraico sulla terra con cui ha legami storici e religiosi così forti era la cosa giusta e morale da fare, soprattutto di fronte a una storia di plurisecolari persecuzioni.

Molte cose sono successe dal 1917. Riconosciamo che la dichiarazione avrebbe dovuto chiedere la protezione dei diritti politici delle comunità non ebraiche in Palestina, in particolare il loro diritto all’autodeterminazione. Tuttavia la cosa importante ora è guardare avanti e garantire la sicurezza e la giustizia sia agli israeliani che ai palestinesi attraverso una pace duratura.”

Sembrerebbe che, nonostante sia passato un secolo, la mentalità colonialista dell’élite politica britannica sia ancora profondamente radicata. I dirigenti britannici dei nostri giorni, come i loro predecessori della Prima guerra mondiale, fanno ancora riferimento agli arabi come alle “comunità non ebraiche in Palestina.”

E’ vero, il governo riconosce che la dichiarazione avrebbe dovuto proteggere i diritti politici degli arabi di Palestina. Ma non riconosce l’ostinata negazione da parte di Israele del diritto dei palestinesi all’autodeterminazione nazionale e la complicità della Gran Bretagna in questa costante negazione. I dirigenti britannici, come i Borboni, re di Francia, a quanto pare non hanno imparato niente e niente hanno dimenticato nei 100 anni trascorsi [dalla Dichiarazione Balfour].

Avi Shlaim è professore emerito in Relazioni internazionali all’università di Oxford e autore di The Iron Wall: Israel and the Arab World (2014) [ed. italiana:“Il muro di ferro: Israele e il mondo arabo”, Il Ponte editrice] e di Israel and Palestine: Reappraisals, Revisions, Refutations (2009) [“Israele e Palestina: riesami, revisioni, confutazioni”].

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)