I palestinesi hanno bisogno di una visione alternativa

Haidar Eid


3 ottobre 2020 – Al Jazeera

Sono già stati scritti molti articoli che criticano l’accordo di normalizzazione firmato da Emirati Arabi Uniti (EAU), Bahrain e Israele e che lo definiscono una pugnalata alle spalle per il popolo palestinese. Altri hanno affermato che non è stata una sorpresa dato che da anni le oligarchie al potere negli EAU e in Bahrain sono conniventi con Israele, in cui vige l’apartheid ed era solo questione di tempo che lo rendessero pubblico per rafforzare la loro alleanza contro i due pericoli principali: Iran e la diffusione della democrazia nel mondo arabo.

Questo articolo non segue lo stesso percorso, ma è piuttosto un tentativo di interagire con quella che sembra essere una formulazione sociale, politica, economica e storica di un programma alternativo a quello offerto dai poteri egemonici imperialisti, sionisti e reazionari, non solo per la Palestina, ma anche per il resto del mondo arabo.

È utile citare, in questo contesto, il critico letterario americano Fredric Jameson e la sua teoria delle “mappe cognitive”, un processo che ripete, aggiunge e rispetta profondamente le leggi della dialettica (lo sviluppo e il movimento degli opposti). In altre parole, interpretare e comprendere questo accordo solo nel quadro del contesto storico in cui è stato firmato non è sufficiente, si deve invece offrire un programma progressista che lo metta in discussione basandosi sul cambiamento delle condizioni che, in ultima analisi, l’hanno originato: colonialismo e apartheid in Palestina.

Indubbiamente la firma dell’accordo fra Israele, Bahrain e EAU avvenuta il 15 settembre alla Casa Bianca è l’inizio di una nuova era in Medio Oriente, ma comunque, con relazioni di potere così squilibrate, non porterà a una soluzione equa della questione palestinese.

Camp David (1979), Oslo (1993), Wadi Araba (1994) e quest’ultimo di Abramo (2020), tutti nati da accordi commerciali e diplomatici dietro le quinte fra Israele e gli altri Paesi arabi, hanno completamente svenduto la causa palestinese. Nessuno ha preso in considerazione i loro diritti fondamentali, il diritto al ritorno dei rifugiati, all’auto-determinazione, all’uguaglianza e alla libertà.

In breve, tutti hanno garantito il controllo israeliano sulla Palestina storica, dal fiume Giordano al mar Mediterraneo, una realtà de facto creata dalla parte più forte e colonialista e senza alcun compromesso.

Indubbiamente la situazione attuale è il prodotto degli squilibri internazionali e regionali prevalenti in questa specifica fase, che però non è né statica né eterna, ma anzi è passeggera e inevitabilmente verrà seguito da altre fasi, secondo le leggi della dialettica.

Non c’è dubbio che questa specifica fase storica rappresenti l’apice della passività palestinese e araba a causa dell’indebolimento del nazionalismo arabo progressista e del fatto che i leader palestinesi di destra sono caduti nella trappola dell’“industria della pace”. Comunque, si prevede che ogni fase che sta per arrivare vada contro quello che ci è offerto in queste stesse circostanze: “Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria,” avrebbe detto Karl Marx.

L’opposizione da parte del mondo arabo, in generale, e degli Stati del Golfo in particolare, crescerà esattamente come gli egiziani e i giordani si sono opposti e hanno lottato contro gli accordi di Camp David e Araba [il trattato di pace tra Giordania e Israele nel 1994, ndtr.] dopo la loro firma.

La visione alternativa che i palestinesi devono adottare è una produzione geopolitica che metta in discussione lo spazio recentemente definito da Stati Uniti, Israele e dai loro alleati arabi – il cosiddetto nuovo Medio Oriente – e che presenti una nuova mappa di una Palestina secolare e democratica nel cuore di un mondo arabo democratico.

Abbiamo bisogno di una rappresentazione alternativa dell’intera “realtà” sociopolitica ora in crescita in quest’area che si distacchi dal mantra spesso ripetuto della soluzione razzista dei due Stati.

I palestinesi devono voltare pagina, ma con idee nuove scaturite da una profonda convinzione che “gli uomini (e noi aggiungiamo: le donne) fanno la storia, ma non in circostanze scelte da loro stessi”, come aveva detto Marx. Per troppo tempo i palestinesi sono stati guidati da politici di destra che non sono riusciti a ottenere nessun diritto fondamentale nemmeno per uno dei tre gruppi che compongono il popolo palestinese: per chi vive nella diaspora, per gli abitanti di Gaza e Cisgiordania e per i cittadini palestinesi di seconda classe in Israele.

Da qui la necessità di sottolineare l’importanza di un’azione palestinese a guida progressista che sia contro tutte le forme di sfruttamento di classe, nazionale, sessuale o religiosa, una leadership necessariamente secolare con una profonda conoscenza della questione palestinese.

Tale leadership non può prendere in considerazione soluzioni razziste. Deve raccogliere la sfida storica rappresentata dalla nuova-vecchia alleanza fra Israele, gli USA e i regimi arabi reazionari e perciò diventare uno stimolo per attività di carattere locale/nazionale e internazionale tramite la promozione del movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) contro Israele fino a quando esso non obbedirà alle leggi internazionali.

C’è un bisogno urgente di andare oltre l’attuale fase storica caratterizzata da una forma prevalente di dogmatismo nazionalista rappresentato da slogan come “due Stati per due popoli”, “L’unica soluzione è la soluzione dei due Stati” e altri. Tali slogan, in un certo senso, sono il prodotto di ondate di normalizzazione con l’Israele dell’apartheid, un processo per riplasmare la mente araba e palestinese tramite “apparati di Stato ideologici”, come i media, l’istruzione, le moschee, le leggi, che cercano di manipolare e modellare la coscienza degli individui, specialmente di quelli con potenziale rivoluzionario.

C’è anche un bisogno urgente di staccarsi dall’atteggiamento nichilista che ultimamente ha dominato gran parte del discorso della sinistra stalinista palestinese e di sottolineare l’importanza delle attività umane e la necessità di una comprensione storica post-Oslo del momento storico corrente.

Abbiamo bisogno di una visione alternativa che porti alla pace e alla giustizia. E sembra che i palestinesi colonizzati debbano essere quelli che offrono una visione che riumanizzi loro e i loro oppressori. Pare sia loro la responsabilità morale, dato che sono loro le vittime di un sistema di oppressione coloniale con tanti livelli.

Quando le cose erano così desolanti per i neri africani che soffrivano sotto un altro regime coloniale, in una situazione simile in cui si trovano i palestinesi, Nelson Mandela offrì questa visione alternativa: “Io ho lottato contro il dominio dei bianchi e contro il dominio dei neri. Io ho amato l’ideale di una società democratica e libera in cui tutte le persone possono vivere insieme in armonia e con le stesse opportunità. È un ideale per cui vivo e che spero di raggiungere.”

Per i palestinesi l’alternativa deve essere quella di uno Stato secolare e democratico nella Palestina storica, uno Stato in cui tutti i cittadini abbiano parità di trattamento indipendentemente da religione, sesso e colore. Questo Stato deve favorire il ritorno dei rifugiati e adottare l’autodeterminazione, un passo verso la soluzione delle questioni palestinese ed ebraica. Per questo il popolo palestinese deve lottare: ribaltare completamente l’equilibrio dell’egemonia politica.

Haidar Eid è professore associato (di letteratura postcoloniale e postmoderna) all’università Al-Aqsa di Gaza

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La frottola del giorno: l’antisemitismo e la negazione dell’autodeterminazione degli ebrei

Joel Doerfler

17 ottobre 2018, Mondoweiss

É difficile superare per la sua stupefacente miscela di sofisma e sfrontatezza [lett. chutzpah, in yiddish nel testo, ndtr.] l’affermazione della “Definizione operativa” dell’“International Holocaust Remembrance Alliance”  [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, ndtr.] (IHRA), secondo cui “negare al popolo ebraico il diritto all’autodeterminazione, sostenendo ad esempio che l’esistenza della Stato di Israele è un’impresa razzista,” rappresenta un indicatore decisivo di antisemitismo.

Ma poiché questa affermazione ora è diventata un punto fermo sionista ripetuto all’infinito, e poiché il dipartimento di Stato e il ministero dell’Educazione degli USA hanno adottato la “Definizione operativa” dell’IHRA, mentre una legge di sensibilizzazione sull’antisemitismo, che include l’indicazione dell’IHRA, è attualmente in attesa al Congresso, è imperativo analizzare i vari modi in cui l’impiego del termine dell’IHRA “autodeterminazione” è pericolosamente equivoco.

Per iniziare dalla cosa più ovvia: se negare agli ebrei il “diritto all’autodeterminazione” è prova di antisemitismo, allora come dovremmo chiamare la negazione dello stesso diritto agli autoctoni che hanno vissuto in Palestina per secoli? Il partito Likud di Netanyahu non ha mai appoggiato uno Stato palestinese sovrano. Cosa ancora più sintomatica, tuttavia, la grande maggioranza degli israeliani che hanno appoggiato un qualche tipo di “soluzione dei due Stati” lo ha fatto per ragioni puramente pragmatiche e non per una questione di “diritti”. Chi l’ha proposta ha sostenuto che i due Stati avrebbero eliminato la “minaccia demografica” al carattere ebraico di Israele; che avrebbe ridotto il livello di violenza e favorito la pace; che uno Stato palestinese avrebbe consentito ad Israele di continuare (sic) ad essere democratico. Quello che tutti questi argomenti in apparenza “illuminati” condividono è il presupposto che Israele (cioè, gli ebrei israeliani) debbano concedere, per il proprio interesse, una qualche sorta di Stato a (qualche) palestinese. L’idea che i palestinesi abbiano un “diritto” a uno Stato, un diritto derivante dal principio dell’autodeterminazione nazionale, e l’ammissione che un simile diritto, come ogni altro diritto, non sia da “concedere” o da “negoziare” da parte degli ebrei israeliani (o di chiunque altro), non è mai entrata in questo discorso.

C’è veramente una sorprendente ipocrisia nel sostenere che la negazione di un diritto ebraico all’”autodeterminazione” sia perfidamente antisemita, mentre la negazione dello stesso diritto ai palestinesi sia giustificabile o irrilevante.

Ma questa è solo una parte del problema.

Secondo l’IHRA un segno rivelatore che la negazione del diritto degli ebrei all’autodeterminazione sia una manifestazione di perfido antisemitismo è fornito quando la negazione è accompagnata dall’affermazione che lo Stato di Israele è un’”impresa razzista”. Qui la logica è, a dir poco, confusa. C’è gente che sostiene che gli ebrei europei, nordafricani, etiopi, yemeniti, nordamericani ed irakeni non possiedono un “diritto all’autodeterminazione” in Palestina, eppure nega che il sionismo e lo Stato di Israele siano un’”impresa razzista”. Queste persone sono antisemite? Ce ne sono altre che affermano che gli ebrei del mondo hanno, di fatto, il diritto all’autodeterminazione nazionale in Palestina, eppure insistono sul fatto che il progetto sionista sia stato sistematicamente “razzista” nella pratica. Queste persone sono antisemite? E ce ne sono altre ancora che credono sia che Israele sia razzista e che gli ebrei del mondo non abbiano nessun diritto all’autodeterminazione in Palestina. Sostenere entrambe queste opinioni è più antisemita che sostenerne solo una? Perché?

La verità è che non c’è niente in ognuna di queste opinioni che sia di per sé antisemita, se intendiamo l’antisemitismo come è sempre stato concepito, cioè come odio accanito contro gli ebrei e la convinzione che gli ebrei siano congenitamente malvagi e una minaccia per tutti.

L’affermazione secondo cui i “popoli” hanno un “diritto all’autodeterminazione” è relativamente recente. È stata parte del nuovo discorso nazionalista che è emerso nell’Europa centro-orientale durante il XIX° secolo; ha avuto una diffusione planetaria grazie a Woodrow Wilson [presidente degli USA dal 1913 al 1921, ndtr.] e, in chiave diversa, da Lenin alla fine della Prima Guerra Mondiale, ed è stata più o meno sancita come principio della vita internazionale dopo la Seconda Guerra Mondiale. Tra gli altri contesti, è stata esplicitamente espressa nella risoluzione 2625 (1970) dell’Assemblea Generale dell’ONU che afferma che “tutti i popoli hanno il diritto di determinare liberamente, senza interferenze esterne, il proprio status politico e di perseguire il proprio sviluppo economico, sociale e culturale… e (che) ogni Stato ha il dovere di rispettare questo diritto.”

Mentre è molto stimolante l’idea di un “diritto” all’autodeterminazione nazionale, c’è anche molto da dire riguardo al concetto secondo cui esso è oscuro e problematico. I problemi più ovvi riguardano la difficoltà: a) di accertare cosa costituisca un “popolo”; b) di determinare l’identità di quei particolari “popoli” che dovrebbero legittimamente esercitare il loro presunto “diritto”; c) di specificare cosa significhi che “un popolo” possieda un proprio Stato.

Nessuno di questi problemi è facilmente risolvibile.

I baschi dovrebbero essere considerati un “popolo” che possiede un diritto all’autodeterminazione nazionale? Lo dovrebbero essere i bretoni? Gli aborigeni australiani? I sioux Lakota? Gli afroamericani? E gli ebrei? Cosa li rende esattamente un “popolo” nello stesso modo in cui lo sono, per esempio, i norvegesi?

È anti-basco o antisemita affermare che baschi ed ebrei non sono “popoli” che possiedono un “diritto” politico-territoriale all’autodeterminazione? Quali criteri possono e dovrebbero essere invocati per risolvere questi interrogativi?

L’esistenza come popolo” non è complessa solo in teoria. Il “diritto all’autodeterminazione” è rispettato solo in modo molto selettivo nell’attuale mondo della politica internazionale. Ci sono circa 35 milioni di kurdi che vivono in una zona confinante tra gli attuali Turchia, Iraq, Iran e Siria. La maggior parte di queste persone vede se stessa come “kurdi”. Nessuno di essi è ora in grado di esercitare, de jure, il proprio “diritto” all’autodeterminazione nazionale. E neppure i tibetani, né gli Igbo della Nigeria, né i ceceni, e via di seguito. Che razza di definizione dovremmo assegnare a quanti si oppongono a che lo possano fare?

E poi c’è la domanda: cosa comporta l’esercizio del “diritto all’autodeterminazione”, nel senso di cosa ciò “consente”? Per esempio, i polacchi per etnia dovrebbero essere intesi come “proprietari” della Polonia? È il loro Stato, tale per cui i cittadini polacchi che non sono etnicamente polacchi sono di fatto “ospiti”, ben accolti o meno, della “famiglia” nazionale polacca? Pochi anni fa, la maggior parte degli analisti credeva che questa specie di nazionalismo volkisch [nel senso di etno-nazionalismo, ndtr.], “integralista”, fosse una cosa del passato. Ma ora non più. Come hanno osservato molti commentatori, il nazionalismo razzista e nativista è spaventosamente rinato, non solo in posti come l’Ungheria e la Polonia, ma anche nell’America di Trump. E come ha giustamente osservato Eva Illouz [sociologa e docente israeliana, ndtr.], “Israele è, di fatto, da molto tempo all’avanguardia del modello a cui queste nazioni aspirano: sostenere la cittadinanza in base all’affiliazione etnico-religiosa” e combattere decisamente “la diluizione etnica, religiosa e razziale del loro Paese attraverso l’immigrazione o i diritti universali.”

Anni, anzi decenni, prima dell’approvazione alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] della malvagia legge dello “Stato-Nazione”, lo Stato di Israele si è considerato, nelle parole di Shlomo Sand [storico israeliano, ndtr.], “la proprietà collettiva degli ‘ebrei del mondo’, credenti o meno, piuttosto che un’espressione istituzionale della sovranità democratica dell’insieme dei cittadini che vi vivono.” Eppure nello strano universo morale dell’IHRA, mettere in discussione il “diritto del popolo ebraico” ad esercitare la propria “autodeterminazione” in un modo così evidentemente reazionario costituisce una “delegittimazione” – e la “delegittimazione” è una prova di antisemitismo. Le implicazioni sono francamente bizzarre. Come ha evidenziato Nathan Thrall [scrittore, giornalista ed analista statunitense, ndtr.], in base a questa logica quanti sostengono “l’opinione secondo cui Israele dovrebbe essere uno Stato di tutti i suoi cittadini, con uguali diritti per ebrei e non ebrei” sarebbero di per sé catalogabili come antisemiti che delegittimano [Israele], e “praticamente tutti i palestinesi (e una gran parte degli ebrei ultraortodossi di Israele, che si oppongono al sionismo per ragioni religiose) sarebbero (allo stesso modo) colpevoli di antisemitismo, perché vogliono che ebrei e palestinesi continuino a vivere in Palestina ma non in uno Stato ebraico.”

Il principio dell’autodeterminazione nazionale è chiaramente problematico. Ovunque ci sono pochissime persone coerenti nell’appoggiare la sua applicazione. La Sinistra ha storicamente avuto la tendenza a promuovere principi internazionalisti e a guardare con diffidenza alla maggior parte delle manifestazioni di irredentismo nazionalista o di particolarismo atomizzante, eppure hanno anche appoggiato entusiasticamente le lotte anticoloniali di liberazione nazionale in Algeria, Vietnam, Angola, Mozambico e Palestina. La Destra storicamente ha teso ad appoggiare la perpetuazione dei regimi coloniali dominati dai bianchi, percepiti in patria con invocazioni nativiste di purezza razziale, e sostenuto nozioni essenzialiste di “appartenenza al popolo”, ma si è anche trovata a disagio con l’idealismo universalista di Wilson. Durante gli anni ’90 sia la Sinistra che la Destra sono parse per lo più confuse su come rispondere alla disintegrazione della Yugoslavia e dell’URSS e dalla conseguente creazione di un gran numero di nuovi Stati-Nazione. Effettivamente, in ultima analisi pare che posizioni e atteggiamenti riguardanti il “nazionalismo” e l’”autodeterminazione nazionale” dipendano dal contesto, cambino nel tempo e non siano sempre coerenti.

Perciò, cosa di tutto ciò ha a che vedere con l’”antisemitismo”? Bene, se c’è una linea di pensiero coerente nell’attuale mantra sionista è che la negazione del “diritto del popolo ebraico all’autodeterminazione nazionale” è antisemita perché invocata in modo “selettivo” (leggi: pregiudiziale). Gli ebrei sarebbero stati trattati in modo diverso da tutti gli altri popoli. Israele è “preso di mira” con un atteggiamento particolarmente critico, con riprovazione e delegittimazione. E perché? Antisemitismo del XXI° secolo.

Lasciando perdere il fatto che il troppo noto ritornello sionista riguardo al “prendere di mira” è sempre stato estremamente discutibile, per non dire in malafede, è piuttosto azzardato insinuare, salvo nei sogni deliranti di Alan Dershowitz [docente di diritto internazionale statunitense e strenuo difensore di Israele, ndtr.], che qualcuno sostenga l’opinione che tutti i “popoli” del mondo abbiano il diritto all’autodeterminazione nazionale salvo gli ebrei! Ma questo sembra proprio ciò che sta sostenendo l’attuale argomentazione conclusiva sionista.

Tuttavia, tornando al mondo reale, il governo israeliano e i suoi alleati stanno tirando fuori tutti gli spot propagandistici nel frenetico e criminale tentativo di eliminare sia le critiche che la resistenza attiva alle politiche israeliane riguardo ai palestinesi. Nell’attuale campagna sta giocando un ruolo importante la minaccia spettrale di un “Nuovo Antisemitismo” capeggiato da quanti difendono i diritti dei palestinesi. (Il reale antisemitismo di Orban e dei suoi consimili è sminuito o ignorato). E nell’inventare questa “nuova” specie di minaccia antisemita, i suoi sostenitori hanno tentato senza vergogna di avvolgere Israele nel mantello dei principi universalistici, invocando il linguaggio wilsoniano dell’”autodeterminazione”.

I propagandisti, gli utili idioti, i compagni di viaggio e chi ci crede davvero, che fanno questo discorso, stanno lanciando spaghetti concettuali contro il muro, nella speranza che qualcuno vi si attacchi. È importante che noi impediamo che ciò avvenga.

Su Joel Doerfler

Joel Doerfler è da molto tempo un docente indipendente di storia. Vive a New York.

(traduzione di Amedeo Rossi)