La pandemia da coronavirus e il fallimento della strategia di disimpegno dell’ANP

Ihab Maharmeh

16 giugno 2020 – Al Jazeera

È tempo che l’Autorità Nazionale Palestinese adotti una strategia radicalmente nuova

Lo scorso anno, quando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ribadito il suo impegno ad annettere parti della Cisgiordania occupata e l’amministrazione USA ha insistito sull’unilaterale “accordo del secolo”, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) si è arrabattata per mettere insieme una nuova strategia politica.

Nell’aprile 2019 il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh, nominato da poco, ha annunciato che il governo avrebbe proceduto con un “disimpegno economico” dall’occupazione. Durante l’estate alcuni politici palestinesi hanno continuato a parlare di questa nuova strategia e in settembre l’ANP finalmente ha preso l’iniziativa, dichiarando che avrebbe posto fine alle importazioni dirette di bovini da Israele.

Nei mesi successivi i tentativi del governo dell’ANP di mettere in atto questa strategia ha dato come risultato una piccola guerra commerciale con Israele, terminata repentinamente in marzo quando le autorità palestinesi hanno dovuto affrontare la prospettiva di una grave epidemia del nuovo coronavirus.

La pandemia è subito diventata la prova decisiva della nuova strategia, sgretolatasi quando l’ANP si è cimentata nel controllo della diffusione della malattia e nella gestione dell’economia palestinese già in difficoltà. Dato che le ultime dichiarazioni del presidente palestinese Mahmoud Abbas riguardo alla fine degli accordi e del coordinamento per la sicurezza con Israele dimostrano ancora una volta di essere una vuota minaccia, è tempo che la dirigenza palestinese cambi radicalmente la sua strategia.

La “strategia del disimpegno”

Per anni l’idea di un “disimpegno economico” da Israele è circolata nei circoli politici palestinesi. Nel passato ci sono stati anche tentativi di imporre vari boicottaggi sui prodotti israeliani che non hanno avuto alcun successo.

Quando gli USA hanno spostato la loro ambasciata a Gerusalemme, riconoscendo le rivendicazioni israeliane sulla città, e inquietanti particolari dell’“accordo del secolo” dell’amministrazione Trump sono stati resi noti, è ricomparsa l’idea di un disimpegno palestinese.

Quando nell’aprile 2019 è entrato in carica, Shtayyeh ne ha fatto una priorità del suo nuovo governo. Il primo ministro palestinese ha parlato di rafforzare l’indipendenza economica palestinese promuovendo la produzione locale, le esportazioni e le importazioni dirette dall’estero e incoraggiando i palestinesi che lavorano in Israele a cercare piuttosto lavoro nei territori palestinesi.

Ha anche affermato che il suo governo avrebbe perseguito una strategia di “sviluppo a grappolo”, stimolando alcuni settori economici nelle diverse regioni: agricoltura a Jenin, industria a Nablus, turismo a Betlemme e fornitura di servizi medici nella Gerusalemme est occupata.

La strategia si basava sul fatto che l’ANP continuasse a ricevere gli introiti fiscali che, secondo il protocollo di Parigi del 1994, vengono raccolti per suo conto dalle autorità israeliane. Tuttavia negli ultimi 25 anni Israele ha regolarmente trattenuto parte delle risorse fiscali del governo palestinese con vari pretesti, compreso, più di recente, che l’ANP sta pagando sussidi alle famiglie di prigionieri politici palestinesi che gli israeliani considerano “terroristi”.

Trattenere questi fondi è solo una delle molte tattiche coercitive a disposizione del governo israeliano per contrastare qualunque politica palestinese ritenga minacci i suoi interessi economico-politici. E quello che è successo dopo il bando palestinese sull’importazione di bestiame l’ha illustrato alla perfezione.

Nel gennaio 2020 il governo israeliano ha emanato un bando sull’importazione di prodotti agricoli palestinesi. All’inizio di febbraio l’ANP ha vietato l’importazione di alcuni prodotti israeliani, a cui gli israeliani hanno risposto impedendo a quelli palestinesi di attraversare il territorio israeliano per l’esportazione in Giordania.

Due settimane dopo, quando si è profilata un’epidemia di COVID-19 che minacciava la già disastrata economia palestinese, l’ANP ha ceduto ed ha tolto il bando sui prodotti israeliani. La dirigenza palestinese ha affermato di aver raggiunto un accordo con gli israeliani per l’importazione di bestiame direttamente dal mercato internazionale attraverso Israele.

L’annuncio è stato fatto solo un giorno prima che Israele dichiarasse ufficialmente di aver registrato il primo caso di COVID-19. La diffusione del virus nei territori palestinesi occupati era solo questione di tempo. Il 5 marzo l’ANP ha annunciato il suo primo test positivo al COVID-19 ed ha decretato lo stato d’emergenza di un mese.

La pandemia di coronavirus non ha solo accelerato la fine dei tentativi palestinesi di mettere in pratica il “disimpegno economico”, ma ha anche dimostrato proprio quanto impotente sia l’ANP nel prendere una qualunque decisione importante riguardo al popolo palestinese, persino quando si tratti di salute pubblica.

Il fallimento dell’ANP nel combattere il COVID-19

Dall’inizio di marzo l’ANP ha cercato di mettere in atto una serie di misure per arginare la diffusione del nuovo coronavirus. Fin da subito è risultato chiaro che il contagio si sarebbe esteso da Israele ai lavoratori palestinesi che lavorano nelle città israeliane e nelle colonie illegali. Ciò è stato confermato in seguito dalle statistiche: in aprile il 79% dei casi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza era dovuto a lavoratori in Israele o a loro familiari.

Così, il 17 marzo Shtayyeh ha annunciato che gli spostamenti tra il territorio israeliano e quello palestinese sarebbero stati interrotti e che, se volevano continuare a lavorare, i lavoratori avrebbero avuto tre giorni per trovarsi una sistemazione in territorio israeliano.

Dopo una settimana, e dopo che molti lavoratori malati sono stati maltrattati dalle autorità israeliane, Shtayyeh ha chiesto ai palestinesi di lasciare il proprio lavoro in Israele e di rimanere a casa, in quanto correvano il serio rischio di contrarre il virus. Ciò ha minacciato l’economia israeliana, soprattutto nel settore dell’edilizia, per cui il governo israeliano ha agito rapidamente ed ha iniziato a concedere permessi ai palestinesi perché rimanessero in territorio israeliano.

L’ANP voleva che le autorità israeliane iniziassero a fare controlli medici sui lavoratori palestinesi, ma gli è stato rifiutato. Quindi il movimento dei palestinesi dentro e fuori Israele è continuato, vanificando gli sforzi del governo palestinese di frenare la diffusione del virus.

L’ANP ha anche cercato di combattere la diffusione del virus nelle aree B e C della Cisgiordania occupata, che sono sotto diretto controllo della sicurezza israeliana. Shtayyeh ha chiesto alle comunità locali di formare commissioni d’emergenza e di impegnarsi nell’erogazione di servizi sanitari e di sicurezza in quelle zone.

Ma le forze di occupazione israeliane hanno sistematicamente minato questi tentativi. Hanno attaccato le barriere palestinesi predisposte dalle comunità locali agli ingressi dei loro villaggi per controllare il passaggio dei lavoratori palestinesi di ritorno a casa da Israele.

Le autorità di occupazione hanno anche sabotato i tentativi di funzionari palestinesi che cercavano di mettere in atto misure preventive nelle cittadine e nei quartieri palestinesi all’interno dei confini amministrativi della Gerusalemme est occupata.

Il 3 aprile le autorità di occupazione hanno arrestato il ministro degli Affari di Gerusalemme, Fadi al-Hadami, per attività “illegali”. Due giorni dopo hanno arrestato anche Adnan Ghaith, il governatore di Gerusalemme dell’ANP. Entrambi erano impegnati nella lotta contro l’epidemia.

Inoltre Israele ha negato al governo palestinese il permesso di operare a Gerusalemme e di testare i palestinesi al virus.

É tempo di una nuova strategia

Il 19 maggio, in risposta al piano israeliano per annettere parti della Cisgiordania in luglio e al tacito consenso degli USA a questo proposito, Abbas ha dichiarato “nullo” ogni accordo con Israele e gli USA. Ciò è avvenuto circa un anno dopo che aveva annunciato la sospensione di ogni accordo con Israele.

Il presidente ha affermato che quest’ultima dichiarazione mette fine alla cooperazione per la sicurezza con le forze israeliane e trasferisce ogni responsabilità per i territori palestinesi occupati al governo israeliano. Ma l’annuncio era scarso di dettagli e finora non sembra aver dato come risultato alcun mutamento significativo nei rapporti con Israele.

Di fatto alcuni politici palestinesi hanno inviato messaggi per rassicurare Israele che i servizi di sicurezza palestinesi continueranno il proprio lavoro nel bloccare ogni forma di resistenza contro Israele in Cisgiordania. Sembra che questa sarà l’ennesima delle decine di dichiarazioni dell’ANP sull’interruzione del coordinamento per la sicurezza con Israele che non hanno comportato nessuna seria azione.

É davvero incomprensibile perché l’ANP continui ad insistere nell’utilizzare lo stesso strumentario di misure inefficaci che, nel corso dell’ultimo quarto di secolo, non ha bloccato la costante colonizzazione israeliana della terra palestinese né lo sfruttamento delle risorse palestinesi. Con l’imminente annessione di fino al 30% della Cisgiordania in luglio, è ormai il momento per l’ANP di abbandonare questi triti tatticismi.

La dirigenza palestinese deve smettere di parlare di uno Stato palestinese sui confini del 1967 e ammettere che la Palestina storica è governata da un sistema di apartheid. Ciò aprirebbe la strada all’estensione della resistenza contro il colonialismo e l’oppressione israeliani per tutti i palestinesi all’interno e fuori dalla Palestina.

Nella Palestina storica definire Israele una potenza che pratica l’apartheid consentirebbe a tutti i palestinesi (quelli che vivono in Cisgiordania, a Gaza e nelle terre occupate nel 1948) di intraprendere una resistenza decentralizzata contro l’apartheid utilizzando ogni possibile strategia e strumento. Anche la dirigenza palestinese ne farebbe parte.

Fuori dalla Palestina riconoscere l’apartheid aiuterebbe i palestinesi della diaspora a convincere la comunità internazionale ad accettare la lotta dei palestinesi in quanto lotta contro l’apartheid e il razzismo.

In questo modo i palestinesi passeranno dal sogno irraggiungibile dei due Stati alla realtà della resistenza contro l’apartheid e ciò aiuterà ad attirare il supporto di chiunque nel mondo creda nella giustizia, nell’uguaglianza e nella libertà.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Ihab Maharmeh è un ricercatore presso il Centro Arabo per la Ricerca e gli Studi Politici.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)