Avrebbero dovuto essere avvocati. Invece lavorano nei cantieri edili israeliani

Avrebbero dovuto essere avvocati. Invece lavorano nei cantieri edili israeliani

Una generazione di laureati palestinesi scopre che, nonostante la laurea, l’unico modo per guadagnarsi da vivere sotto l’occupazione è lavorare nell’edilizia in Israele.

Basil al-Adraa

7 novembre 2021 – +972 Magazine

 

Raggiungo il checkpoint di Meitar nel sud della Cisgiordania alle cinque del mattino di domenica, poco prima dell’alba. Centinaia di lavoratori palestinesi stanno camminando in fretta, comprando falafel o pane da decine di bancarelle di fortuna nel mercato che è sorto intorno al valico. Incontro insegnanti, laureati, avvocati e ingegneri, tutti con un permesso di lavoro e tutti in fila per andare a lavorare nelle fabbriche in Israele.

A cento metri dal checkpoint custodito c’è un passaggio non ufficiale: una breccia nel muro di separazione dove ogni giorno centinaia di palestinesi senza permesso entrano ed escono da Israele. Tra i due valichi ci sono le jeep della polizia di frontiera israeliana e i soldati possono vedere tutto. Da qui è chiaro che la barriera che serpeggia attraverso la Cisgiordania occupata è lì solo per imporre la segregazione razziale, non per la sicurezza, dal momento che chiunque può andare e venire a suo piacimento. L’esercito ne è pienamente consapevole, ma sceglie di chiudere un occhio.

La società palestinese si è aggrappata per generazioni all’istruzione come mezzo per mantenere la propria identità collettiva, nonché per resistere all’occupazione israeliana. Si tratta di una società relativamente molto istruita, con alti tassi di laureati sia in Cisgiordania che nella striscia di Gaza.

Ma tra le decine di giovani istruiti con cui ho parlato a Meitar e altrove c’è la sensazione diffusa che perseguire un’istruzione superiore sia inutile. Dopo aver dedicato anni e denaro per diventare economisti, ingegneri o medici hanno scoperto che l’unico modo per guadagnarsi da vivere è lavorare come operai nei cantieri edili israeliani.

Gli amici con cui parlo si sentono in colpa per il fatto che lavorano in Israele, anche nelle colonie in Cisgiordania dove abitano i vigilanti mascherati che ci attaccano regolarmente. Cercano di gestire questo senso di colpa dandosi varie spiegazioni. “Non abbiamo molte altre opzioni,” mi dice uno di loro. “Mi sentirei in colpa se fossi disoccupato e me ne stessi seduto a casa”, dice un altro. “Viviamo in una terra occupata. Tutto ciò ci è imposto. Persino la mia carta d’identità palestinese ha un timbro ebraico. Perché dovrei sentirmi in colpa?” dice un terzo.

Saleh Abu Jundeya, 22 anni, vive nel villaggio di Tuba tra le colline a sud di Hebron. Fin dalla prima elementare i soldati israeliani lo hanno accompagnato lungo il percorso verso la scuola, un percorso che richiede l’attraversamento dell’avamposto di Havat Ma’on dove i coloni attaccano regolarmente gli scolari. La casa di Abu Jundeya, come il resto del villaggio, è minacciata di demolizione. Tuba è completamente scollegato dalle reti di qualsiasi infrastruttura idriche e elettriche, servizi forniti invece dalle autorità israeliane ai numerosi avamposti sulle colline a sud di Hebron. Ma Abu Jundeya è molto volenteroso e ce l’ha fatta nonostante tutte le difficoltà.

“I miei genitori erano orgogliosi di me,” dice. “Ho fatto bene agli esami per l’iscrizione all’università, quindi hanno organizzato una grande festa per me. A 18 anni sono andato a studiare legge all’università. Sognavo di diventare un avvocato per difendere i diritti dei miei genitori e quelli di tutti i miei vicini di Masafer Yatta che affrontano demolizioni di case, arresti e che sono senza acqua ed elettricità. Questo è particolarmente importante per me, forse perché ero un bambino che doveva aspettare che i soldati lo accompagnassero a scuola ogni giorno fino a 18 anni o altrimenti essere attaccato dai coloni: è stata dura. Ho studiato legge per quattro anni. Andare all’università ogni mattina è stata una sfida perché a Tuba l’esercito ci impedisce di asfaltare le strade e la mia famiglia è povera. Studiare legge in Cisgiordania costa circa 10.000 NIS [circa 2.800 €] all’anno e mia madre e mio padre, entrambi pastori, hanno dovuto vendere le pecore per finanziare i miei studi. E oggi? Lavoro nell’edilizia in Israele, come tutti i miei compagni di classe. Non c’è nessun altro lavoro. Non abbiamo nemmeno un posto dove fare il praticantato”.

La nostra dipendenza dal lavoro in Istraele è politica

Le autorità israeliane hanno proibito per anni la costruzione di scuole a Masafer Yatta con l’intenzione di espellerci dalla zona. A quel tempo  i bambini semplicemente non studiavano. I genitori di mio padre Saleh e il resto della generazione prima di noi non hanno avuto la possibilità di studiare. Pochi hanno fatto il lungo viaggio verso le grandi città dove si trovavano la maggior parte delle scuole e la campagna non offriva luoghi di apprendimento.

Nel 1998, grazie a una lotta guidata da mia madre e mio padre, nel mio villaggio natale di a-Tuwani è stata costruita la prima scuola a Masafer Yatta. Quando è iniziata la costruzione l’esercito israeliano è venuto ad arrestare gli uomini del villaggio mentre stavano lavorando e ha confiscato i materiali da costruzione. Pochi mesi dopo mia madre ebbe un’idea: lasciare che le donne costruissero, dato che l’esercito non le avrebbe arrestate. Ed è proprio quello che è successo: le donne lavoravano di giorno per allestire la scuola e gli uomini continuavano di notte.

Humza Rabi ha frequentato la scuola in a-Tuwani e si è diplomato con lode. “Poi  sono andato all’università per completare un corso di laurea in storia”, ha detto. “Sognavo di essere uno storico o forse una guida turistica. Ho lavorato senza sosta durante le vacanze estive per mantenermi agli studi. Anche mio padre mi ha aiutato. È costato 50.000 NIS  (circa 14.000 €) in quattro anni. Non è stato affatto facile. Ma oggi, dopo la laurea, mi sento come se avessi perso tempo. Mi guardo intorno e, come tutti gli altri laureati, non ho modo di trovare un lavoro. Così sono diventato un  piastrellista in Israele. Le condizioni sono difficili. Non c’è sicurezza: un mese fa sono caduto dalla secondo piano mentre lavoravo, mi sono rotto le costole e ho riportato uno strappo muscolare. Oggi sono  a casa disoccupato”.

Rabi non è solo. Secondo l’Ufficio centrale di statistica palestinese, i palestinesi tra i 20 e i 29 anni con un diploma di laurea registrano tassi di disoccupazione particolarmente alti: il 35% in Cisgiordania e il 78% a Gaza, che subisce il blocco totale da parte di Israele ed Egitto.

La nostra dipendenza dal lavoro in Israele è politica. Mezzo secolo di governo militare israeliano ha devastato l’economia palestinese. Israele controlla tutti i nostri valichi di frontiera e impedisce le importazioni o le esportazioni palestinesi indipendenti. Tutte le nostre risorse naturali,  come i minerali del Mar Morto, le cave, le aree agricole e i bacini idrici  si trovano nell’Area C, sotto il pieno controllo militare israeliano: ci è proibito accedervi, svilupparli o prendercene cura.

Uno studio condotto dalla Banca Mondiale ha rilevato come queste restrizioni siano la principale barriera alla prosperità e alla creazione di posti di lavoro per i giovani palestinesi. Senza sovranità sugli spazi non urbanizzati la contiguità territoriale palestinese è stata spezzettata in 169 enclave, senza lasciare spazio nemmeno alla creazione di zone industriali.

La terra nell’Area C è assegnata esclusivamente ai coloni israeliani che vi mantengono un’economia vivace e redditizia. Con il sostegno degli enti governativi, i coloni continuano a creare zone industriali e complessi agricoli che sono collegati a quelle stesse reti idriche negate ai contadini palestinesi in luoghi come Masafer Yatta. I soldati israeliani sigillano regolarmente le nostre cisterne d’acqua con il cemento. Senza acqua o strade di accesso gli agricoltori non possono più guadagnarsi da vivere sulla loro terra e molti sono invece costretti a lavorare come braccianti in Israele.

A causa delle politiche di occupazione anche i pastori palestinesi si stanno lentamente rivolgendo ai lavori di costruzione in Israele Negli anni ’80 Israele ha espropriato tutti i pascoli dei pastori dichiarandoli “terre demaniali”. Ma negli ultimi cinque anni le autorità israeliane hanno stabilito e autorizzato dozzine di avamposti e fattorie su queste terre, concedendole come pascoli ai coloni che praticano la pastorizia. In questa realtà di apartheid i nuovi signori della terra aiutano ad espellere i palestinesi che sono qui da secoli.

“Mi sveglio alle 3 del mattino e vado a costruire case in Israele”

Lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interna di Israele, usa i permessi di ingresso come mezzo per fare pressione sui giovani palestinesi affinché tengano la testa bassa. Gli attivisti che come me sono sulla lista nera dello Shin Bet non riceveranno mai un permesso. Temendo per il loro benessere molte persone della mia età scelgono di tacere sulle loro opinioni politiche e costruiscono case nelle colonie israeliane per guadagnarsi da vivere.

Eppure molti, se non la maggior parte, dei giovani laureati non riescono a ottenere il permesso. Secondo le autorità israeliane solo gli uomini palestinesi sposati di età superiore ai 22 anni possono ottenerlo. In pratica i giovani palestinesi entrano continuamente in Israele illegalmente, nel disperato tentativo di racimolare abbastanza soldi per sposarsi e mettere su famiglia.

L’esercito israeliano sa che ci sono dozzine di varchi lungo il muro di separazione. Ma la sua inazione è deliberata: è una politica redditizia che permette ai palestinesi di raggiungere i datori di lavoro israeliani che, per i propri interessi, possono negare ai lavoratori i loro diritti mantenendo bassi i salari.

Salem al-Halis ha studiato legge con me all’Università di Hebron e lo ricordo come uno degli studenti migliori della classe. Ora però sta lavorando nell’edilizia. “È come una prigione,” mi ha detto al telefono. “Mi sveglio alle 3 del mattino e vado a costruire case in Israele. Ricordo i nostri studi e rido di me stesso e di quello che pensavo. Mangio e dormo al lavoro, nel cantiere. Lontano dalla vita. Lontano dalla famiglia.”

Come Salem, anch’io non riesco a trovare lavoro in Cisgiordania, mentre la mia laurea in legge è coperta di polvere nell’armadio. Ho paura di diventare, come lui, un altro giovane palestinese che eccelle all’università solo per diventare un operaio edile, soffrendo sotto un datore di lavoro israeliano che non ha mai studiato un giorno in vita sua.

 

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Il coronavirus accentua la crisi politica in Israele

La crisi dovuta al coronavirus accentua lo scontro tra Netanyahu e Gantz

 

La crisi dovuta al coronavirus e le gravi difficoltà economiche non hanno fatto che approfondire la distanza tra il primo ministro Benjamin Netanyahu e il suo alleato di coalizione, il primo ministro che lo dovrebbe sostituire e attuale ministro della Difesa Benny Gantz.

Mazal Mualem

16 luglio 2020 – Al Monitor

 

Il capo di Blu e Bianco, Benny Gantz, che è il primo ministro di riserva e il ministro della Difesa, sperava che la serie di interviste che ha rilasciato dalla casa in cui è in quarantena a Rosh HaAyin alle tre principali stazioni televisive del Paese il 15 luglio avrebbe mitigato, almeno parzialmente, le sue carenze nel campo delle pubbliche relazioni.

Le interviste sono state registrate e si pensava che sarebbero state messe in onda in prima serata, con l’obiettivo di suscitare attenzione. Gantz è arrivato preparato, con una pagina di messaggi al pubblico e due importanti notizie: una riguardo alla possibilità che Israele, alla luce dell’incremento giornaliero della diffusione del virus del COVID-19, rinnovi una chiusura totale del Paese; la seconda in merito all’insistenza di Gantz per un bilancio biennale, a differenza del primo ministro Benjamin Netanyahu, che vorrebbe un bilancio annuale. Quest’ultima differenza di opinione potrebbe persino portare, in uno scenario improbabile, alle elezioni.

Ma mentre Gantz si stava preparando a queste importanti interviste, Netanyahu e il ministro delle Finanze Israel Katz erano impegnati a dare gli ultimi ritocchi a un altro turbinoso piano economico da presentare durante una conferenza stampa. Quel giorno Netanyahu intendeva occupare l’attenzione dell’opinione pubblica, proprio mentre Gantz si stava preparando a fare altrettanto.

Negli ultimi giorni Netanyahu ha dovuto occuparsi di una crescente ondata di proteste e manifestazioni; aveva bisogno di una “soluzione” immediata per calmare le masse. La notte precedente, il 14 luglio, davanti alla casa di Netanyahu su via Balfour a Gerusalemme si era svolta una turbolenta manifestazione, terminata con decine di arresti e una sensazione di perdita di controllo. Alla stregua della decisione del presidente USA Donald Trump di distribuire soldi alla popolazione all’inizio della crisi di coronavirus, Netanyahu ha deciso un’immediata elargizione di fondi a tutti i cittadini del Paese.

Gantz è stato aggiornato da Netanyahu e da Katz riguardo alla loro intenzione di distribuire 6 miliardi di shekel (circa 1 miliardo e mezzo di euro) solo poche ore prima della conferenza stampa del 15 luglio.

Benché Gantz si fregi del titolo di primo ministro in alternanza, Netanyahu e la sua gente non lo hanno consultato né hanno preso in considerazione l’opposizione di principio di Gantz a distribuire denaro senza fare differenze tra chi ha realmente bisogno di aiuto e chi invece no. L’approccio di Gantz è quello consigliato dai più alti livelli del ministero delle Finanze, guidato dal governatore della Banca di Israele.

Netanyahu ha semplicemente annunciato la sua decisione al primo ministro che lo dovrebbe sostituire. È vero, il primo ministro ha suggerito che lo stesso Gantz partecipasse alla conferenza stampa, ma persino Gantz ha capito che ciò gli avrebbe provocato più danni che benefici, e si è rifiutato di essere presente.

Il risultato finale è stato che le interviste a Gantz sono state oscurate dalla grande discussione provocata dalla conferenza stampa in diretta, con centinaia di migliaia di cittadini incollati agli schermi televisivi. Ancora una volta Netanyahu ha preso il controllo dell’agenda pubblica e, dopo una serie di lunghe settimane di “ibernazione da COVID-19”, è tornato in prima linea. Come prevedibile, la proposta di Netanyahu e Katz è stata attaccata da ogni parte e deve ancora essere approvata dal governo.

Ma ha ottenuto il suo scopo: nelle strade si parla meno delle manifestazioni e, se Gantz si dovesse opporre all’iniziativa, Netanyahu apparirà ancora come la figura che cerca di assistere e aiutare la popolazione.

L’avvenimento qui descritto è un’ulteriore manifestazione della grave crisi di fiducia tra Netanyahu e Gantz, due persone che hanno promesso ai cittadini di risolvere la crisi del coronavirus. Ma non hanno avuto successo nel creare un meccanismo per lavorare insieme in armonia e collaborazione per risolvere una delle maggiori crisi vissute dallo Stato di Israele da sempre.

Quasi ogni cosa diventa argomento di discussioni e tensioni tra le due parti: il bilancio, la “guerra” di Netanyahu contro il sistema giudiziario, opposte visioni del mondo. A ciò si aggiungono “ego ipertrofici” e l’enorme numero di ministeri di ambo le parti che stanno lottando per ottenere “rilevanza” – a spese gli uni degli altri.

Gantz è certo che Netanyahu stia preparando il terreno per elezioni anticipate e non abbia intenzione di lasciare libero il posto di primo ministro tra un anno e mezzo, come stabilito nell’accordo di unità tra i partiti Likud e Blu e Bianco. Nel caso specifico non si tratta di paranoia, ma di una possibilità concreta. Netanyahu, da parte sua, detesta in ogni momento questo governo. Si è abituato a comandare con il pugno di ferro, praticamente da solo, senza una vera opposizione all’interno del governo. Ma ora, mentre gestisce la crisi e si scontra con degli ostacoli, deve prendere in considerazione le opinioni dei ministri di Blu e Bianco. Il 14 luglio ha cercato di richiudere le piscine e le palestre del Paese, ed è stato bloccato dai ministri; la questione è arrivata alla commissione COVID-19 della Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.], che ha annullato la sua decisione. Le piscine e le palestre non sono state chiuse, provocando la sensazione tra la popolazione che il modo in cui il Pase è governato non funzioni.

“Netanyahu si sente come Gulliver nella terra di Lilliput. Nelle riunioni del governo ogni sorta di giovane ministro di Blu e Bianco gli fa la predica. Ne soffre e, secondo me, rimpiange di non aver convocato le elezioni quando era avanti nei sondaggi,” afferma ad Al-Monitor un ministro del Likud che vuole rimanere anonimo.

La sera del 14 luglio, sullo sfondo della pessima pubblicità riguardante la vastissima diffusione del coronavirus, un importante membro del Likud ha duramente criticato Gantz, e le sue parole sono state citate dai media. Il membro del Likud ha detto che il primo ministro è furioso con Gantz e il suo partito perché bloccano le iniziative necessarie a impedire la diffusione dell’infezione, e che Blu e Bianco lo fa per ragioni politiche. “Gantz e Blu e Bianco devono smetterla immediatamente con i giochetti politici riguardo al COVID-19; questo comportamento mette in pericolo le vite dei cittadini israeliani. Da quando il governo di unità ha stabilito che ogni decisione debba essere presa in accordo tra il Likud e Blu e Bianco, loro (Blu e Bianco) silurano ogni risoluzione non in linea con le loro valutazioni populiste,” ha affermato il referente, che ricopre un ruolo importante, gettando così benzina sul fuoco.

Gantz non ha nessun dubbio sul fatto che le parole del politico del Likud siano arrivate direttamente dall’ufficio di Netanyahu, ed ha reagito. Poco dopo un politico di Blu e Bianco ha accusato Netanyahu di cercare di dare la colpa a Gantz della sua fallimentare gestione della crisi del COVID-19, e che il primo ministro non consente a Gantz, in quanto ministro della Difesa, di condurre lui la lotta contro il COVID-19. “Questo non è tempo per la politica e scontri (interni), solo per battaglie per risanare l’economia, il sistema sanitario e la società… Ci sono quelli che affrontano questi problemi, e quelli che sfuggono alle proprie responsabilità a questo riguardo,” ha detto alla stampa, citato come fonte anonima, il politico di Blu e Bianco.

Fino a stamattina sono stati fatti tentativi da entrambe le parti di spegnere le fiamme del conflitto interno. Sono stati intervistati ministri di Blu e Bianco, compreso il ministro degli Esteri Gabi Ashkenazi, che si è limitato a critiche moderate contro la munificenza di Netanyahu nei confronti della Nazione. È quello che succede quando due parti opposte sono imprigionate in un governo da incubo sull’orlo di una gravissima crisi e non hanno nessuna via di fuga.

Ma i segnali indicano un altro imminente scontro politico, che si prevede scoppierà molto presto. La prossima settimana Netanyahu deve far approvare dal governo il suo programma di distribuzione del denaro.

 

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

 

 




Come le colonie israeliane soffocano l’economia palestinese

Al Shabaka e Ma’an News

Sintesi

Israele vede le linee giuda recentemente  emanate dall’Unione Europea per l’etichettatura di alcuni prodotti delle sue colonie come la punta dell’iceberg. Teme che ciò aprirà la porta a misure più dure contro la sua colonizzazione illegale e sta mettendo in campo le forze filo-israeliane in Europa e negli Stati Uniti. Uno degli argomenti continuamente ripetuti è che l’etichettatura danneggia i lavoratori palestinesi.

In questo documento la responsabile politica di Al-Shabaka Nur Arafeh e le consulenti politiche  Samia al-Botmeh e Leila Farsakh sfatano gli argomenti addotti da Israele contro la decisione dell’Unione Europea di etichettare i prodotti delle colonie, dimostrando l’impatto devastante che il sistema delle colonie israeliane ha avuto sull’economia palestinese togliendo ai palestinesi la terra, l’acqua e altre risorse e creando una massiccia disoccupazione. Affrontano anche la condizione di quei lavoratori palestinesi – una minoranza della forza lavoro – che sono stati obbligati a guadagnarsi da vivere proprio nelle colonie che hanno danneggiato in modo così grave l’economia dei palestinesi e più in generale i loro diritti. Proseguono esaminando il passo dell’Unione Europea (UE) e suggeriscono le iniziative successive che l’UE dovrebbe prendere per rispettare pienamente le leggi internazionali ed europee1.

Il contesto

Ci sono voluti anni all’Unione Europea per sviluppare la sua posizione sull’etichettatura dei  prodotti delle colonie che Israele ha costruito sui territori palestinesi e siriani [le Alture del Golan. Ndtr.] fin da quando li ha occupati nel 1967. La Commissione Europea ha emanato una decisione nel 1998 in cui si sospettava che Israele stesse violando l’accordo di associazione con l’UE, firmato nel 1995 e entrato in vigore nel 2000, che esentava i prodotti israeliani dal pagamento di dazi doganali. Nel 2010 la Corte Europea di Giustizia ha confermato che i prodotti provenienti dalla Cisgiordania non beneficiavano del trattamento doganale preferenziale in base all’accordo di associazione dell’UE con Israele e che le affermazioni delle autorità israeliane non erano vincolanti per le autorità doganali dell’UE.

Tuttavia è stato solo nel 2015 che l’UE ha preso la decisione a lungo attesa di adeguare le proprie azioni alle sue stesse regole, in parte come risposta alla crescente pressione da parte della società civile perché riconoscesse l’illegalità delle colonie. Il 10 settembre il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione che chiede l’etichettatura dei beni delle colonie israeliane in quanto prodotti negli “insediamenti israeliani” piuttosto che in “Israele” e che garantisce che non beneficino del trattamento  preferenziale sugli scambi in base al Trattato di Associazione tra l’Ue ed Israele. Due mesi dopo, l’11 novembre, l’UE ha emanato le linee guida attese da molto tempo riguardo all’etichettatura, che ha definito in un linguaggio molto discreto come  una “Comunicazione Interpretativa”. Tuttavia i prodotti delle colonie saranno ancora commerciati con l’Unione Europea (EU), lasciando ai consumatori la “decisione informata” se comprare o meno questi prodotti.

Israele sostiene che l’iniziativa dell’UE è “discriminatoria” e che è dannosa per l’economia palestinese in generale e per i lavoratori palestinesi in particolare. E’ chiaramente un tentativo da parte di Israele di distogliere l’attenzione internazionale dalla realtà dell’illegale colonizzazione israeliana, dei suoi effetti profondamente negativi per l’economia palestinese e degli obblighi morali e giuridici dell’UE. In effetti, l’intera colonizzazione da parte di Israele è illegale in base al diritto internazionale, come riconfermato dalla Corte Internazionale di Giustizia nel suo “Parere consultivo” del 2004 sul Muro di Separazione costruito da Israele. Il trasferimento da parte di Israele della sua popolazione nei territori occupati è una violazione della Convenzione dell’Aja del 1907 e della Quarta Convenzione di Ginevra del 1949.

Lo sfruttamento economico dei Territori Palestinesi Occupati da parte delle colonie

Il presente rapporto riguarda i territori occupati da Israele nel 1967 – la Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, la Striscia di Gaza e le Alture del Golan, e più specificamente le colonie israeliane e gli avamposti costruiti nei Territori Palestinesi Occupati (TPO)2. Non affronta tutte le violazioni delle leggi internazionali e dei diritti dei palestinesi da parte di Israele.

Il fatto che la costruzione delle colonie israeliane si sia basata sullo sfruttamento economico dei TPO è stato ampiamente documentato. Ciò ha incluso la confisca di ampie zone di terra palestinese  e la distruzione di proprietà palestinesi per utilizzarle a scopi edilizi ed agricoli; la confisca di risorse idriche, al punto che 599.901 coloni utilizzano sei volte più acqua che tutta la popolazione palestinese della Cisgiordania, composta da 2.86 milioni di abitanti; l’appropriazione di luoghi turistici e archeologici; lo sfruttamento di cave, miniere, risorse del Mar Morto e di altre risorse naturali non rinnovabili dei palestinesi, come sarà argomentato in seguito.

Le colonie sono anche state agevolate da un sistema infrastrutturale di strade, di checkpoint e dal Muro di Separazione, portando alla creazione di bantustan isolati in Cisgiordania e all’appropriazione di altra terra palestinese.

In conseguenza di ciò attualmente le colonie israeliane controllano circa il 42% della terra della Cisgiordania. Questo dato comprende aree edificate così come i confini municipali delle colonie israeliane. Questi confini attualmente comprendono un’area 9,4 volte più ampia di quelle edificate nelle colonie della Cisgiordania e sono proibiti ai palestinesi che non hanno un permesso per accedervi.

La maggioranza delle colonie della Cisgiordania sono costruite nell’Area C, che rappresenta il 60% della Cisgiordania e che è molto ricca di risorse naturali3. Secondo uno studio della Banca Mondiale, il 68% dell’Area C è stato destinato alle colonie israeliane, mentre meno dell’1% è stato concesso all’utilizzo da parte dei palestinesi.

All’interno dell’Area C lo sfruttamento da parte delle colonie israeliane è concentrato nella Valle del Giordano e nella parte settentrionale del Mar Morto. Le colonie israeliane controllano l’85,2% di queste zone, che sono le terre più fertili della Cisgiordania. L’abbondante disponibilità di acqua e il clima favorevole forniscono le migliori condizioni per l’agricoltura. Di conseguenza producono il 40% delle esportazioni di datteri da Israele. Nel contempo i palestinesi hanno il divieto di vivere lì, costruire o persino pascolare il loro bestiame con il pretesto che si tratta di “terre statali”, di ” zona militare” oppure di “riserve naturali”.

Israele ricorre anche ad altri metodi per espellere i palestinesi dalle loro terre, distruggendo le case, proibendo la costruzione di scuole e ospedali e negando ai residenti l’accesso a servizi essenziali come l’elettricità, l’acqua e l’escavazione di pozzi. Al contrario, molte colonie sono definite “aree di priorità nazionale”, permettendo loro di ricevere incentivi finanziari dal governo israeliano nei settori dell’educazione, della salute, dell’edilizia, dello sviluppo industriale ed agricolo4.

I proventi israeliani derivanti dallo sfruttamento della terra palestinese e delle risorse della Valle del Giordano e dell’area settentrionale del Mar Morto sono stimati attorno ai 500 milioni di shekel all’anno (circa 118 milioni di euro). Per avere un’idea dell’impatto sull’economia palestinese, vale la pena di notare che i costi indiretti delle restrizioni imposte da Israele all’accesso palestinese all’acqua nella Valle del Giordano – e di conseguenza l’impossibilità di coltivare la loro terra – erano pari a  663 milioni di dollari [circa 616 milioni di euro. Ndtr.], l’equivalente dell’8,2% del prodotto interno lordo palestinese nel 2010.

Nel frattempo Israele continua a costruire nuove colonie. Netanyahu, durante il suo discorso all’US Center for American Progress [organizzazione liberal vicina ai Clinton e ad Obama. Ndtr.] in novembre, ha sostenuto che nessuna nuova colonia è stata edificata negli ultimi vent’anni. Di fatto 20 colonie israeliane sono state approvate durante i suoi mandati, tre delle quali erano avamposti illegali che sono state successivamente regolarizzate dal governo.

La manifestazione più recente della politica di colonizzazione israeliana è la ripresa della costruzione del Muro di Separazione nei pressi di Beit Jala in Cisgiordania, che di fatto separa gli abitanti del villaggio dalle terre coltivate di loro proprietà nella valle di Cremisan. Il percorso di questo tratto di Muro è stato disegnato per permettere l’annessione della colonia di Har Gilo, a sud di Gerusalemme, mettendola in collegamento con la colonia di Gilo, che si trova all’interno dei confini del Comune di Gerusalemme creati da Israele dopo l’inizio dell’occupazione, nel 1967.

Un’economia palestinese strangolata dalle colonie

La colonizzazione illegale da parte di Israele ha avuto decisamente un effetto profondamente negativo sull’economia palestinese. Il controllo israeliano su acqua e terra ha contribuito a ridurre la produttività del lavoro del settore agricolo ed il suo contributo al PIL: l’apporto di agricoltura,  settore forestale e della pesca è sceso dal 13,3% del 1994 al 4,7% nel 2012, ai prezzi attuali. Lo sversamento di rifiuti solidi e liquidi dalle zone industriali delle colonie nei TPO ha ulteriormente inquinato l’ambiente, la terra e l’acqua dei palestinesi.

L’accesso limitato alle cospicue risorse del Mar Morto ha impedito ai palestinesi di sviluppare il settore dei cosmetici e altre industrie, basate sull’estrazione di minerali. Uno studio della Banca Mondiale stima che se non ci fossero state restrizioni alla disponibilità di queste risorse, la produzione e la vendita di magnesio, potassio e bromo avrebbe comportato un valore annuo di 918 milioni di dollari [circa 844 milioni di euro. Ndtr.] per l’economia palestinese, l’equivalente del 9% del PIL nel 2011.

Le drastiche limitazioni nell’accesso alle miniere e alle cave nell’Area C ha anche ostacolato la possibilità per i palestinesi di estrarre ghiaia e pietre. Il valore lordo annuo stimato come perdita per l’economia palestinese per l’estrazione da cave e miniere è di 575 milioni di dollari [circa 529 milioni di euro. Ndtr.]. In totale, si stima che le limitazioni all’accesso ed alla produzione nell’Area C sono costate all’economia palestinese 3.4 miliardi di dollari [più di 3.1 miliardi di euro Ndtr.]. Come esaminato in un precedente documento di Al-Shabaka, Israele controlla persino l’accesso dei palestinesi al loro stesso campo elettromagnetico – una politica a cui contribuiscono le colonie –  creando perdite tra gli 80 ed i 100 milioni di dollari annui [dai 73 ai 92 milioni di euro. Ndtr.] per gli operatori palestinesi delle telecomunicazioni.

Inoltre l’assenza di contiguità territoriale all’interno della Cisgiordania, unita ad altre restrizioni israeliane al movimento ed all’accesso, ha frammentato la sua economia  in piccoli mercati non connessi tra loro. Ciò ha incrementato i tempi ed i costi di trasporto delle merci da una zona della Cisgiordania ad un’altra e dalla Cisgiordania al resto del mondo. In seguito a ciò, la competitività dei prodotti palestinesi sui mercati locali e internazionali è stata indebolita.

Oltretutto, poiché l’economia in Cisgiordania è stata viziata dall’imprevedibilità e dall’incertezza – il che non è sorprendente, in quanto l’area è sottoposta a un’occupazione militare –  il costo ed i rischi di fare impresa sono aumentati. Ciò ha peggiorato il clima per gli investimenti, limitato lo sviluppo economico e aumentato la disoccupazione e la povertà. Nel complesso si stima che il costo diretto ed indiretto dell’occupazione sia stato di circa 7 miliardi di dollari [6,4 miliardi di euro. Ndtr] nel 2010 – circa l’85% del PIL palestinese stimato5.

Spossessati: i lavoratori palestinesi nelle colonie israeliane

L’economia palestinese è stata quindi colpita da fragilità strutturali e settoriali che sono principalmente dovute all’occupazione israeliana e alla colonizzazione. L’espropriazione di terra, acqua e risorse naturali da parte delle colonie e il controllo restrittivo di Israele sui movimenti, l’accessibilità e altre libertà ha indebolito la base produttiva dell’economia, che non è più in grado di generare occupazione e investimenti sufficienti ed è sempre più dipendente dall’economia israeliana e dagli aiuti dall’estero.

Questa dura realtà economica è il fattore principale che porta alcuni palestinesi a lavorare nelle colonie israeliane – si stima che siano state solo il 3,2% del totale degli occupati della Cisgiordania nel terzo quadrimestre del 20156. Invece di essere auto-sufficienti proprietari dei mezzi di produzione, i palestinesi sono stati spossessati delle loro risorse economiche e dei loro diritti dall’occupazione militare e dalle colonie israeliane e sono stati trasformati in manodopera a basso costo.

Infatti la maggior parte dei lavoratori palestinesi nelle colonie è impiegata in lavoro di bassa qualifica e retribuzione: almeno la metà di loro è utilizzata nel settore edile. Ciò significa che meno del 2% del totale della popolazione palestinese occupata sarebbe colpita nel caso di chiusura delle industrie israeliane nelle colonie.

I lavoratori palestinesi nelle colonie sono sottoposti a condizioni di lavoro difficili e a volte pericolose, e si stima che il 93% di loro non abbia un sindacato che li rappresenti. Di conseguenza sono soggetti a licenziamenti arbitrari ed alla revoca del permesso di lavoro se rivendicano i propri diritti o cercano di sindacalizzarsi. Una ricerca del 2011 ha scoperto che la maggioranza dei lavoratori palestinesi avrebbe lasciato il proprio lavoro nelle colonie se avesse trovato un’alternativa nel mercato del lavoro palestinese.

Mentre si  sostiene che i lavoratori palestinesi nelle colonie ricevono un salario superiore a quello del mercato del lavoro palestinese, è il caso di notare che sono pagati in media meno della metà del salario minimo israeliano. Ad esempio a Beqa’ot, una colonia israeliana nella Valle del Giordano, i palestinesi sono pagati il 35% del salario minimo legale. E’ da notare che gli impianti di impacchettamento della Mehadrin, il più grande esportatore israeliano di frutta e verdura nell’UE, si trovano in questa colonia.

In breve, è proprio il colonialismo di insediamento israeliano che nuoce ai palestinesi, molto più che l’etichettatura da parte dell’UE dei prodotti delle colonie. Quello di cui i palestinesi hanno bisogno non è più lavoro nelle colonie o più dipendenza dall’economia israeliana. Piuttosto quello di cui i palestinesi hanno bisogno è lo smantellamento delle colonie israeliane, la fine dell’occupazione e la piena realizzazione dei loro diritti in base alle leggi internazionali. Solo allora potranno realmente migliorare la base produttiva dell’economia palestinese, generare opportunità di lavoro, garantirsi autonomia e auto-sufficienza e smettere di essere dipendenti dagli aiuti internazionali.

La distanza tra la retorica dell’UE e le sue azioni

E’ contro questo contesto che il ruolo dell’UE nei riguardi delle colonie israeliane deve essere messo in discussione. L’UE riconosce che le colonie israeliane costruite nei TPO sono illegali. La sua “Comunicazione Interpretativa” stabilisce chiaramente che l’UE, “in linea con le leggi internazionali, non riconosce la sovranità di Israele sui territori occupati da Israele dal giugno 1967.” Tuttavia l’UE continua ad importare beni dalle colonie israeliane (soprattutto frutta e verdura fresche coltivate nella Valle del Giordano) per un valore annuo stimato in 300 milioni di dollari [276 milioni di euro. Ndtr.]. E’ più di 17 volte il valore medio annuale dei prodotti esportati dai TPO nell’UE tra il 2004 e il 2014.

Nonostante la “Comunicazione Interpretativa”, rimane una grande discrepanza tra i discorsi dell’UE e le sue azioni, e la “Comunicazione” è insufficiente per adempiere agli obblighi legali dell’UE per varie ragioni. In primo luogo, non tutti i prodotti provenienti dalle colonie israeliane devono essere etichettati. Solo la frutta fresca e le verdure, il pollame, l’olio d’oliva, il miele, l’olio, le uova, il vino, i cosmetici e i prodotti organici sono soggetti all’indicazione obbligatoria dell’origine. Cibi pre-confezionati e prodotti industriali che non siano cosmetici sono soggetti solo all’indicazione volontaria dell’origine.

In più le imprese israeliane che operano nelle colonie possono facilmente aggirare l’etichettatura dei loro prodotti. Ad esempio, possono mettere insieme beni prodotti nelle colonie con altri prodotti in Israele per evitare che siano etichettati come “prodotti nelle colonie”. Possono utilizzare l’indirizzo di un ufficio all’interno dei confini di Israele internazionalmente riconosciuti come l’indirizzo ufficiale dell’impresa piuttosto che l’effettivo luogo di produzione. L’UE dovrebbe anche rilevare il fatto che le imprese che etichettano i propri prodotti come provenienti dalle colonie possono ricevere delle compensazioni dal governo israeliano per le eventuali perdite. Si stima che il bilancio dello Stato abbia destinato circa 2 milioni di dollari [1,8 milioni di euro. Ndtr.] ogni anno negli ultimi 10 anni per compensare le imprese israeliane delle colonie per le perdite cui devono far fronte a causa della fine del trattamento doganale di favore e di altre agevolazioni.

Nel contempo le stesse linee guida per l’etichettatura sono un’arma spuntata, in quanto “l’applicazione delle attuali disposizioni ricade sotto la responsabilità principale degli Stati membri”, come stabilisce la “Comunicazione Interpretativa” dell’UE. Cosa ancora più importante, limitandosi ad etichettare i prodotti provenienti dalle colonie e mantenendo al contempo relazioni commerciali e investimenti con queste ultime, l’UE sta in realtà continuando a finanziare l’espansione degli insediamenti ed a perpetuare l’occupazione israeliana, lo sfruttamento delle risorse naturali e l’appropriazione delle terre palestinesi –  una situazione illegale che l’UE sostiene di non “riconoscere”.

Inoltre, in chiara opposizione con quanto sostiene, l’UE intraprende progetti con imprese israeliane che sono profondamente coinvolte nelle colonie e nell’occupazione. Per esempio, l’UE ha approvato 205 progetti con la partecipazione israeliana a “Horizon 2020”, il più vasto programma di ricerca e innovazione dell’UE. Le imprese israeliane che vi partecipano comprendono Elbit, che è direttamente coinvolta nella costruzione degli insediamenti e del Muro; le Israel Aerospace Industries [industrie aerospaziali israeliane], che forniscono i macchinari necessari per la costruzione del Muro; l’università Technion, che lavora con il complesso militare israeliano. Banche europee sono anche legate a banche israeliane che forniscono mutui ipotecari ai coloni, finanziano le autorità israeliane nelle colonie e nella costruzione di insediamenti che godono del sostegno da parte dello Stato e altre attività economiche che promuovono la colonizzazione.

Pertanto la “Comunicazione Interpretativa” dell’UE sembra essere principalmente un atto simbolico, attraverso il quale [l’UE] risponde solo formalmente alla crescente richiesta della società civile europea, sempre più favorevole al movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) guidato dai palestinesi,  che vuole che essa rispetti i propri regolamenti e che Israele sia chiamato a rendere conto delle proprie azioni. In base alle leggi internazionali gli Stati terzi sono obbligati a non riconoscere come lecita una situazione illegale, a non fornire alcun tipo di assistenza per mantenere una situazione illegale e a collaborare per garantire che Israele rispetti le leggi umanitarie internazionali. In altre parole, l’UE e i suoi Stati membri dovrebbero fare quanto possibile per porre fine alla colonizzazione da parte di Israele.

Come l’UE potrebbe rispettare meglio la legge

L’UE dovrebbe iniziare a trasformare le sue parole in misure concrete per rendere Israele responsabile, istituendo un blocco totale su ogni attività economica, finanziaria, commerciale e di investimenti diretta o indiretta con le colonie israeliane, seguendo le orme di Copenhagen, Reykjavik e recentemente Amsterdam. Come raccomandato poco tempo fa in un rapporto del Consiglio Europeo delle Relazioni Estere [centro studi paneuropeo, i cui membri sono ex-ministri degli esteri, imprenditori, intellettuali ed attivisti, il cui scopo è promuovere il dibattito e favorire una politica estera efficace fondata sui valori europei. Ndtr.], dovrebbe anche sospendere le relazioni finanziarie con le banche israeliane, soprattutto quelle che finanziano l’occupazione e la costruzione delle colonie. In più, da parte loro gli Stati membri dell’UE dovrebbero cessare ogni relazione con le colonie israeliane.

Va qui osservato che l’UE è il principale partner commerciale di Israele, con scambi totali attorno ai 30 miliardi di euro nel 2014, che rappresentano circa il 33% del totale delle esportazioni israeliane di beni e servizi nel 20147. Il commercio dell’UE con le colonie israeliane rappresenta meno dell’1% del commercio dell’UE con Israele. Una iniziativa seria da parte dell’UE avrebbe un impatto consistente sulla colonizzazione israeliana e sulla prolungata occupazione militare.

Oltre a passare dall’etichettatura dei prodotti delle colonie a porre fine ad ogni relazione con gli insediamenti israeliani, i Paesi europei dovrebbero prendere in considerazione un embargo di tutti i prodotti israeliani. Fin da quando l’UE ha riconosciuto che il controllo di Israele sui TPO è una situazione di occupazione – un’occupazione militare che dura da circa 50 anni – avrebbe dovuto affrontare le cause profonde dell’occupazione, cioè la politica del governo israeliano, piuttosto che solo il suo effetto, ossia le colonie.

Per esempio, nel caso dell’apartheid in Sud Africa, un boicottaggio concentrato solo sugli affari che riguardavano le township non avrebbe avuto un grande effetto sul sistema di apartheid. Allo stesso modo, boicottare solo i prodotti degli insediamenti israeliani avrebbe un impatto molto minore che boicottare il sistema concreto che sta organizzando la colonizzazione dei territori per fare pressione su Israele perché ponga fine all’occupazione. Per questo è importante vietare ogni prodotto israeliano e non solo quelli delle colonie. Un simile passo prenderebbe di mira, tra le altre cose, l’inganno israeliano riguardo all’origine dei prodotti e delle materie prime che provengono dagli insediamenti. E’ difficile controllare, a meno che siano realmente boicottate le imprese e non solo i loro beni e servizi. In effetti molte delle imprese che lavorano nelle colonie provengono da Israele piuttosto che dai territori del 1967.

Gli appelli per un boicottaggio totale stanno aumentando e trovando adesioni in luoghi imprevisti. Per esempio, due docenti universitari statunitensi hanno recentemente sostenuto in un editoriale sul ” Washington Post” che boicottare solo i prodotti delle colonie “non avrebbe un impatto sufficiente”. Hanno invece proposto “un ritiro dell’aiuto e del supporto diplomatico USA e il boicottaggio e il disinvestimento dall’economia israeliana” per modificare i piani strategici di Israele.

Per la Palestina, un simile divieto aiuterebbe a proteggere i prodotti palestinesi, aumenterebbe la loro competitività e aiuterebbe in futuro a rafforzare la capacità dell’economia palestinese di integrarsi con quella internazionale, una volta che la libertà sia garantita. Il boicottaggio di tutti i prodotti ed i servizi israeliani sarebbe un modo efficace per dare la possibilità ai palestinesi di sconfiggere il colonialismo israeliano. Ciò sarebbe molto più efficace che fornire assistenza per lo sviluppo a settori specifici e risponderebbe direttamente alla richiesta del popolo palestinese di libertà e diritti umani.

Note:

  1. Le autrici ringraziano l’ufficio Palestina/Giordania della fondazione Heinrich-Böll per la cooperazione e la collaborazione con Al-Shabaka in Palestina. Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità delle autrici e non riflettono necessariamente l’opinione della fondazione Heinrich-Böll.
  2. Gli avamposti delle colonie sono costruiti senza l’autorizzazione ufficiale del governo israeliano. Tuttavia ricevono supporto finanziario da ministeri, agenzie governative, fondazioni locali ed internazionali e da privati (soprattutto dagli USA). Spesso Israele dopo un certo lasso di tempo li “legalizza”.
  3. In base agli accordi di Oslo, la Cisgiordania è stata divisa provvisoriamente in Area A, che dovrebbe essere sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese ma è sottoposta a frequenti incursioni militari israeliane, Area B, sotto controllo condiviso di israeliani e palestinesi, ed Area C, sotto controllo esclusivo di Israele. Questo periodo provvisorio è scaduto nel maggio 1999.
  4. Per maggiori informazioni vedi “Trading Away Peace: How Europe helps sustain illegal Israeli settlements.” [“Vendere la pace: come l’Europa aiuta a sostenere le illegali colonie israeliane “]
  5. I costi diretti sono i costi supplementari sostenuti dai palestinesi in conseguenza delle restrizioni imposte dagli israeliani all’accesso ed al movimento, compresi i maggiori costi dell’acqua e dell’elettricità. I costi indiretti sono le perdite di entrate provenienti dalla produzione che i palestinesi avrebbero potuto fare se non ci fossero state queste limitazioni da parte israeliana. Un esempio di costi indiretti è rappresentato dal valore aggiunto dell’estrazione delle risorse del Mar Morto.
  6. In base all’inchiesta sulla forza lavoro realizzata nel novembre 2015 dal PCBS [Palestinian Central Bureau of Statistics, istituzione ufficiale del governo palestinese. Ndtr.], nel periodo luglio-settembre 2015 il numero di lavoratori palestinesi nelle colonie israeliane in Cisgiordania era di 22.100, su un totale di 674.900 lavoratori in Cisgiordania.
  7. Da confrontare con il commercio dell’UE con i TPO, che nel 2014 è stato di circa 154 milioni di euro.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




L’economia al cuore delle colonie illegali di Israele

07/01/2015  ma’an news

Gerusalemme (IRIN) – Tra tutti gli ostacoli nei negoziati di pace tra i dirigenti israeliani e palestinesi forse il più grave sono le circa 150 colonie israeliane in Cisgiordania.

Queste comunità, considerate illegali dall’ONU, hanno incrinato i rapporti di Israele persino con i suoi alleati: quest’anno il presidente filo-israeliano della commissione per gli affari esteri del parlamento britannico ha dichiarato che la decisione di sviluppare nuovi insediamenti “mi ha indignato più di qualunque altra cosa nella mia vita politica.”

Nonostante un congelamento ufficioso dei progetti di colonizzazione, alla fine di dicembre il Comitato della Pianificazione e del Bilancio di Gerusalemme ha gettato le basi per approvare permessi edilizi per circa 400 case sul territorio palestinese a Gerusalemme e approvato un piano per altre 1.850 per un quartiere che si trova sul confine.
Benché siano spesso concepite come il risultato di una missione religiosa da parte degli ebrei per reclamare altro territorio, di fatto per molti coloni le ragioni per andarci a vivere sono economiche – incoraggiati da sistemi di incentivazione pianificati dal governo per spostarli nella terra occupata. Ma per alcuni il fatto di andare a vivere in una colonia può avere l’effetto di radicalizzarli.

“Qualità della vita”

E’ un giorno infrasettimanale nell’insediamento di Ariel, in Cisgiordania. Al campus dell’università gli studenti condividono una pausa per fumare. Due donne che fanno fare un giretto ai loro cani chiacchierano in ebraico con accento russo. Niente fa pensare che non si tratti di altro che di una qualunque cittadina israeliana.
Ma benché non sia nota per una forte tendenza ideologica o per violenti attacchi contro i suoi vicini palestinesi, sconfinando di circa 16 chilometri ad est della Linea Verde che divide Israele dai Territori Occupati in Cisgiordania, questa cittadina di 19.000 abitanti è decisamente una colonia.
Ad Ariel molti residenti vivono come i pendolari israeliani. C’è una superstrada diretta a Tel Aviv, a meno di 40 chilometri di distanza, con autobus che collegano regolarmente alla capitale e meno frequentemente a Gerusalemme, a 50 chilometri.
“La gente viene qui in cerca di qualcosa di diverso” dice Avi Zimmerman, capo del Fondo di Sviluppo di Ariel [che si incarica di migliorare la vita ed i servizi della colonia e di promuoverla a livello locale e internazionale. N.d.tr.] e portavoce di fatto di questo Comune. Ebreo osservante, è arrivato otto anni fa in cerca di una comunità eterogenea.
“Ci troverai gente che è venuta per la qualità della vita, persino per sfuggire all’umidità di Tel Aviv.”
Ma per molti la cosa più importante sono i vantaggi economici. Il prezzo delle case è cresciuto rapidamente in Israele negli ultimi sette anni, con il costo della vita e dei beni alimentari che ha provocato proteste di massa nell’estate del 2011. Il costo medio di un appartamento ad Ariel è di 1.098.774 shekel (circa 233.780 €), molto meno della media di Tel Aviv di 2.363.263 shekel (circa 502.821 €).
Gli affitti bassi nel 2009 hanno fatto di Noa e del suo fidanzato dei coloni temporanei quando hanno iniziato a cercare un posto vicino alla sua università a Gerusalemme. “Entrambi eravamo studenti e dovevamo trovare un posto economico per vivere,” spiega Noa, un’insegnante di ballo sulla trentina. Non erano riusciti a trovare niente a portata delle loro tasche a Gerusalemme, ma ad Anatot, una comunità di 1.000 abitanti a sette chilometri all’interno della Linea Verde, il prezzo andava bene.
Amit, madre trentaquatrenne di un bambino, vede la sua colonia – anche se non la chiama così – 5 km oltre la Linea Verde solo come un semplice quartiere periferico di Gerusalemme. Lei e suo marito avevano vissuto in città, ma quando si sono messi a cercare una casa lei voleva “la casa, un giardino e un parcheggio. E avere un parco ed avere vicino Gerusalemme sono una grande cosa.” Lei viaggia a Gerusalemme per lavoro, e suo marito a Tel Aviv: “Non la vedo come una terra contesa [la definizione che il governo israeliano da dei Territori Occupati. N.d.tr.]” sottolinea, ma “per me è un sobborgo di una grande città e io ci torno di sera.”

Incentivi del governo

Secondo il Yesha Council, un’organizzazione che rappresenta e promuove le colonie in Cisgiordania, in base all’ultima stima del giugno 2014 c’erano 382.031 coloni ebrei in Cisgiordania, esclusa Gerusalemme est, che Israele non considera territorio occupato. Questa spinta oltre la Linea Verde è stata incoraggiata dai successivi governi israeliani.
La maggior parte degli aiuti di Stato viene elargita in base alla definizione di circa tre quarti delle colonie come “area di priorità nazionale”, insieme ad altre zone che si ritiene abbiano bisogno di sostegno – comunità vicine ai confini con il Libano o Gaza oppure periferiche e sottosviluppate.
Le aree di priorità nazionale ottengono sconti sul prezzo della terra e sovvenzioni per i mutui, e quelle riconosciute dal ministero dell’Edilizia ricevono investimenti statali per le infrastrutture [riguardanti] gli appartamenti. Nelle aree designate con il più alto livello di priorità ci sono riduzioni sul costo della terra e sulle spese per lo sviluppo.
Anche gli investimenti per le infrastrutture delle colonie, come le strade, sono cruciali, e gli insegnanti che vivono nelle colonie ricevono una generosa assistenza, compresa quella che l’ONG israeliana B’tselem segnala come un incremento di salario del 15-20% e un contributo governativo del 75% delle spese di viaggio e dell’80% per l’affitto della casa. In quanto aree di priorità nazionale, le colonie ricevono anche ulteriori investimenti per l’educazione, comprese ore addizionali di scuola e più fondi.
Per lo più i vantaggi individuali diretti sono stati eliminati, con agevolazioni fiscali sul reddito abolite nel 2003, portando molti coloni a pensare che le colonie dovrebbero essere considerate come qualunque altra città israeliana.
Avi Zimmerman discute l’idea che ingiuste agevolazioni fiscali abbiano spinto la gente nei territori palestinesi.”Si continua a parlare degli incentivi a causa del passato.” Ora “non ci sono incentivi diretti, per esempio non ci sono più prestiti bancari.”
Natan Sachs, uno studioso del Centro per le Politiche in Medio Oriente della Brooking Institution [centro studi nordamericano, considerato tra i più influenti al mondo. N.d.tr.] ed esperto di politiche israeliane, concorda sul fatto che “non ci sono incentivi diretti, nel senso che non ci sono sovvenzioni.”

Ma “ci sono molti modi per ‘incoraggiare la colonizzazione’, soprattutto il prezzo della terra e le licenze edilizie. Non ci sono incentivi espliciti ma in concreto ci sono ancora agevolazioni notevoli.

Radicalizzazione

Il miglioramento della “qualità della vita” dei coloni è uno dei principali cambiamenti dalle origini del movimento di colonizzazione alla fine degli anni ’60, quando, dopo la vittoria nella guerra del 1967 contro l’Egitto, la Giordania e la Siria, Israele ha iniziato a spostare i suoi cittadini in quelle che vengono chiamate Giudea e Samaria, i nomi biblici dei territori occupati in Cisgiordania.

Molti dei primi coloni hanno sperato di rivendicare quello che vedevano come l’Israele biblico, come spiega Elie Pierpz, direttore degli affari esterni del Yesha Council.
“Considerazioni di carattere religioso erano il principale stimolo per lo sviluppo negli anni ’70 e ’80. C’è una spinta ideologica, questa è l’ultima frontiera sionista; 100 anni fa era Tel Aviv, 60 anni fa era il Negev e la zona nord del paese, e negli ultimi 47 anni lo sono state Giudea e Samaria.”
Il fenomeno dei coloni per ragioni economiche è variegato. Ariel, per esempio, è un misto di immigrati dall’ex Unione Sovietica, laici e osservanti, ma non ebrei ultraortodossi.
Dror Etkes, un esperto di colonie, sostiene che la differenza terminologica tra i coloni per motivi economici o per migliorare la qualità della vita e i loro omologhi più ideologizzati non è realmente giustificata, tutti sono parte del progetto di occupazione più complessivo, che lo vogliano o no.

“Quando l’ideologia si incontra con l’economia è sempre meglio, e magari l’ideologia arriva a coincidere con gli interessi individuali. La gente si racconta delle favole. E’ molto facile essere coloni. Quello che non vuoi vedere è meglio non vederlo.”
Comunque le colonie, anche quelle dominate da migranti economici, possono spostare le proprie convinzioni verso destra.
Etkes nota che molti recenti attacchi violenti contro i palestinesi sono venuti dai cosiddetti insediamenti “non ideologici”. Lo scorso mese una scuola bilingue ebraico-araba a Gerusalemme è stata data alle fiamme. Due dei tre sospetti, che hanno confessato il delitto, sono di Beitar Illit, non nota in precedenza per le convinzioni di estrema destra.
E anche se i coloni per ragioni economiche possono vedere se stessi come a-politici o persino di sinistra – Noa dice di essere “di centro sinistra, a volte di sinistra” – andando negli insediamenti il comportamento elettorale dei coloni può cambiare in base ai propri interessi personali.
I coloni ultraortodossi sono il paradigma di questo cambiamento. In grande maggioranza poveri, negli ultimi 15 anni molti si sono spostati in zone come Beitar Illit o Modi’in Ilit per via dei costi economici degli affitti e del contesto omogeneo, con molto spazio per il loro alto tasso di natalità. Storicamente, non erano interessati alla colonizzazione o alla militanza sionista.
Neve Gordon, professore di politiche e governo all’università Ben Gurion e autore di “L’occupazione di Israele”, sottolinea che i partiti che rappresentano questo settore hanno cambiato la propria politica. “Nei primi anni ’90 i partiti degli ortodossi erano favorevoli ad un compromesso sulla terra, oggi molto meno, perché una notevole percentuale del loro elettorato vive nei territori occupati: lo spazio cambia le coscienze.”

Un ostacolo alla pace

La “qualità della vita” dei coloni è diventata di pubblico dominio dopo gli accordi di Oslo del 1993 tra i leader israeliani e palestinesi, quando ci sono stati seri colloqui per uno scambio di territori. Per molto tempo si è ipotizzato che grandi insediamenti, anche quelli vicini a Gerusalemme come Ma’ale Adumim, Beitar Ilit, Modi’in Ilit , quelli troppo grandi per essere evacuati, e luoghi strategici come Ariel sarebbero stati inclusi in ogni futura soluzione dei due Stati.
Ma continue inchieste hanno suggerito che una grande percentuale di coloni non ideologici sarebbero stati pronti a lasciare le loro case e spostarsi all’interno della Linea Verde, dietro compensazioni.
Tuttavia al momento, sostiene Sachs, “ci sono perversi disincentivi ad andarsene.” L’opinione pubblica israeliana in larga misura vede che il governo si è sbagliato nel 2005 quando se n’è andato da Gaza, con alcuni ex coloni che sono stati portati via a forza dalle loro case che si lamentano in televisione per aver ricevuto scarsi indennizzi e per l’incapacità del governo a risistemarli in modo corretto.

Secondo Sachs ciò rende comprensibilmente diffidente chi potrebbe essere intenzionato ad andarsene dalla Cisgiordania. Un gruppo costituito da un ex direttore dello Shin Bet [servizio di intelligence israeliano. N.d.tr.], Blue White Future (Futuro bianco azzurro)[sono i colori della bandiera israeliana e il gruppo BWF è favorevole alla soluzione dei due Stati, n.d.tr.], sostiene un’evacuazione volontaria ed unilaterale dei coloni con un indennizzo.
Amit ha comprato la sua casa proprio nel periodo dell’evacuazione di Gaza e dice che la possibilità di un’eventuale evacuazione “era qualcosa a cui avevamo pensato.” La sua zona è stata spesso citata come una di quelle che è abbastanza vicina a Gerusalemme da essere inclusa tra quelle spettanti ad Israele, e questa è stata una ragione per comprare.
“Se ci fosse una forma di indennizzo (come parte di un accordo di pace), non rimarremmo qui sotto un governo palestinese.”
Ma è improbabile che grandi insediamenti colonici come Ariel siano spostati da un’altra parte, anche nel caso di un eventuale accordo di pace con i palestinesi. In un certo senso, sono semplicemente troppo grandi per essere spostati.

Per Zimmerman, che è stato ad Ariel per otto anni, il concetto di compensazione è irrilevante, in quanto non vede come il governo israeliano possa fare anche solo il tentativo di evacuare Ariel. “Questo sta per essere gestito dal governo eletto. Stanno facendo una politica su questo e c’è accordo tra i politici israeliani che Ariel è parte di Israele, punto.”

E’ forse questa certezza che ha portato il prezzo delle case di Ariel a salire: in sei anni fino al 2013 il prezzo delle case nuove e di quelle di seconda mano è aumentato del 104%. Altre colonie hanno visto un aumento, compreso Beitar Ilit (80%), Efrat (77%), in maggioranza laico, e Oranit (65%). Poiché i prezzi delle case in Israele sono ancora più alti di quelli nelle colonie, il loro aumento ha accresciuto la pressione per trovare nuovi insediamenti.
Pierpz è entusiasta del futuro della colonizzazione. “Le comunità molto unite (dove fare autostop è un modo di vivere, le porte molto spesso rimangono aperte, i ragazzi sono sicuri nelle strade non controllate fino a notte alta), sono una delle ragioni per cui la gente vuole rimanere e allevare le prossime generazioni qui.”
I dirigenti palestinesi dicono che prenderanno in considerazione le motivazioni dei coloni nei negoziati per i confini di un futuro Stato palestinese. Ma alla fine vedono ogni colonia come una violazione della terra palestinese, sia che i coloni siano arrivati per avere aria fresca e sistemazioni economiche sia per motivazioni religiose.

(traduzione di Amedeo Rossi)