Proteste a Gaza contro l’assedio

 

25 Agosto 2021 – Al Jazeera

Le forze israeliane sparano proiettili veri e lacrimogeni mentre centinaia di palestinesi chiedono a Israele di allentare il blocco soffocante di Gaza.

Centinaia di palestinesi hanno manifestato a ridosso della recinzione israeliana nella Striscia di Gaza assediata chiedendo a Israele di allentare il blocco soffocante dopo pochi giorni che un’analoga manifestazione tenuta il fine settimana ha dato seguito a degli scontri letali con l’esercito israeliano.

I militari israeliani, che prima della manifestazione di mercoledì avevano potenziato le loro forze, hanno dichiarato di aver fatto uso di lacrimogeni e proiettili veri per disperdere la folla nella parte meridionale di Gaza. I medici palestinesi hanno riferito che sono rimaste ferite almeno nove persone.

La rete televisiva Al Aqsa TV, gestita da Hamas, il gruppo palestinese che governa Gaza, ha mostrato una massa di persone avvicinarsi alla recinzione per poi fuggire all’arrivo di un veicolo militare israeliano. Si poteva vedere il gas lacrimogeno fluttuare nel vento.

L’esercito ha affermato di aver utilizzato proiettili calibro 22, un tipo di arma che dovrebbe essere meno letale delle armi da fuoco più potenti, ma che può essere mortale.

Youmna El Sayed di Al Jazeera, nel riferire sulle proteste a Gaza, ha affermato che nella città meridionale di Khan Younis, nella Striscia di Gaza, sono state sparate decine di lacrimogeni contro i manifestanti.

“Oggi già tre palestinesi sono stati feriti da proiettili veri e decine sono rimasti soffocati dai lacrimogeni sparati contro di loro”, dice El Sayed.

Sabato hanno manifestato centinaia di palestinesi dando origine a violenti scontri.

Il ministero della Salute ha comunicato che durante le manifestazioni di sabato sono stati feriti dal fuoco israeliano più di 40 palestinesi, tra cui un ragazzo di 13 anni colpito alla testa.

Uno dei feriti, Osama Dueji, 32 anni, è morto mercoledì in seguito ad una ferita da proiettile a una gamba.

Hamas lo ha identificato come un componente del suo gruppo armato e lo ha pianto come un “eroico martire”.

Mercoledì un soldato israeliano, rimasto gravemente ferito quando un palestinese gli ha sparato alla testa a distanza ravvicinata attraverso un buco nel muro, è stato trasportato in ospedale.

Dopo la sparatoria, nelle prime ore di domenica, l’esercito israeliano ha bombardato i depositi di armi di Hamas nella Striscia di Gaza.

Hamas ha organizzato le proteste nel tentativo di fare pressione su Israele perché allenti il blocco di Gaza.

Israele ed Egitto hanno mantenuto il blocco da quando Hamas ha preso il controllo di Gaza nel 2007, un anno dopo aver vinto le elezioni palestinesi.

Il blocco ha devastato l’economia di Gaza e ha alimentato un tasso di disoccupazione che si aggira intorno al 50%. Israele ha affermato che il blocco, che limita fortemente il movimento di merci e persone dentro e fuori Gaza, ha lo scopo di impedire ad Hamas di rafforzare le sue capacità militari.

Dal 2007 Israele e Hamas hanno combattuto quattro guerre e numerose schermaglie e, più recentemente, a maggio, un’escalation di violenza di 11 giorni che ha ucciso 260 palestinesi e 13 persone in Israele.

Hamas ha accusato Israele di aver violato, inasprendo il blocco, il cessate il fuoco che ha posto fine ai combattimenti. In particolare ha limitato l’ingresso dei materiali necessari per la ricostruzione.

Israele ha chiesto la restituzione delle spoglie di due soldati uccisi nella guerra del 2014, così come la riconsegna di due civili israeliani che si ritiene siano prigionieri di Hamas.

La scorsa settimana Israele ha raggiunto un accordo con il Qatar che consente al Paese del Golfo di riprendere il versamento degli aiuti a migliaia di famiglie povere di Gaza.

Con il nuovo metodo, i pagamenti saranno consegnati dalle Nazioni Unite direttamente alle famiglie, dopo che queste siano state passate al vaglio da Israele. In passato, gli aiuti venivano consegnati in contanti direttamente ad Hamas.

I pagamenti dovrebbero iniziare nelle prossime settimane, fornendo un po’ di sollievo a Gaza.

Ma la tensione resta alta. Oltre alle manifestazioni, Hamas ha lasciato che i suoi sostenitori lanciassero palloni incendiari oltre il confine, provocando diversi incendi nel sud di Israele. Israele ha lanciato una serie di raid aerei sugli obiettivi di Hamas a Gaza.

L’Egitto, che fa da mediatore tra Israele e Hamas, si è impegnato per a negoziare una tregua a lungo termine tra gli acerrimi nemici.

Questa settimana l’Egitto, in segno di insofferenza nei confronti di Hamas, ha chiuso il suo valico di frontiera con Gaza, il principale punto di uscita a disposizione delle persone del territorio per viaggiare all’estero.

 

 

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il valico di Rafah e l’angosciosa procedura per i palestinesi di Gaza

Il viaggio dal Cairo a Rafah può durare fino a tre giorni a causa dei periodici controlli e delle ripetute perquisizioni dei bagagli. “I funzionari egiziani non dimostrano nessun rispetto, neppure per i malati o gli anziani.”

Motasem A. Dalloul

24 agosto 2021 – Monitor de Oriente

 

Il giovane Ayman Adly si è laureato in farmacia all’università Al Azhar di Gaza nel 2009. Dato l’alto tasso di disoccupazione provocato dall’assedio e dalle ripetute offensive militari lanciate contro l’enclave costiera da parte di Israele, non ha potuto trovare lavoro.

“Mi sono connesso a internet ed ho seguito decine di account di reti social e pagine specializzate nel mettere in contatto chi cerca un impiego con datori di lavoro all’estero,” mi dice. “Non c’è voluto molto perché fossi preselezionato per un colloquio. L’azienda mi ha chiesto se potevo lavorare negli Emirati Arabi Uniti (EAU) e ho detto di sì. Lì sono iniziate le difficoltà.”

L’ostacolo successivo è stato il valico di Rafah, dal 2007 [data d’inizio dell’assedio israeliano, ndtr.] l’unica uscita verso il resto del mondo per la maggioranza dei palestinesi della Striscia di Gaza. Per utilizzarlo aveva bisogno di un passaporto, per cui ha raccolto come dovuto tutta la documentazione richiesta ed ha presentato domanda. L’Autorità Nazionale Palestinese di Ramallah  ci ha messo due mesi a rilasciargli il passaporto.

“Mi è stato rilasciato nel 2009 ed è scaduto nel 2014,” dice. “Il secondo è stato rilasciato in due settimane nel 2015 ed è scaduto nel 2020.” Ne ha subito chiesto un terzo e l’ha ottenuto in una settimana. Quindi Adly ha avuto tre passaporti, e non ne ha utilizzato nessuno per viaggiare.

“Con in mano il primo passaporto sono andato al valico di Rafah e, dopo aver passato sul lato egiziano circa 20 ore in una sala per immigrati strapiena di gente, un impiegato mi ha chiamato per nome, mi ha restituito il passaporto e mi ha detto che il mio nome era sulla lista nera e che avevo il divieto di ingresso o di passaggio in Egitto.”

Con quella breve frase l’impiegato egiziano ha spezzato le speranze di Adly di arrivare al suo nuovo lavoro negli EAU. Continuerà a provarci, dice, ma ci vorrà molta pazienza.

Secondo il ministero degli Interni palestinese a Gaza c’è un elenco di più di 27.000 persone che devono viaggiare passando per il valico di Rafah. Le autorità egiziane consentono il passaggio solo a 350 persone attraverso la stanza normale e a circa 100 da quella VIP al giorno quando il valico è aperto (ci sono frequenti chiusure). Quelli che devono viaggiare ci mettono mesi per passare da Rafah.

“Il numero di persone che vogliono viaggiare aumenta costantemente,” spiega Iyad Al-Bozom, portavoce del ministero dell’Interno [di Gaza, ndtr.]. “Abbiamo chiesto agli egiziani di aumentare la quota giornaliera di persone che possono passare.” La richiesta è ovviamente caduta nel nulla.

Cinque anni fa l’esercito egiziano ha creato l’impresa Ya Hala per il turismo e i viaggi. Organizza viaggi VIP per i palestinesi di Gaza che possono pagare. All’inizio lavorava dietro le quinte. Dopo le proteste della Grande Marcia del Ritorno del 2018 e gli accordi raggiunti tra Israele, Egitto e i gruppi della resistenza palestinese a Gaza, il valico è rimasto aperto regolarmente e questa impresa ha iniziato a lavorare alla luce del sole.

Si è accordata con agenzie di viaggio di Gaza che hanno cominciato a promuovere i suoi servizi. Le autorità egiziane hanno costruito una sala immigrazione speciale per i suoi clienti.

Hatem, che non ha voluto fornire il suo cognome, è un agente di un’agenzia di viaggi e turismo con sede a Gaza. “Registriamo da 100 a 150 passeggeri VIP al giorno,” dice. “Facciamo controlli di sicurezza a ognuno di loro per 100 dollari. Se la persona non è sulla lista nera pagherà tra i 400 e i 500 dollari per passare sul lato egiziano del valico e per un taxi fino al Cairo.”

Questi VIP non subiscono ulteriori controlli di sicurezza e i taxi li portano dal confine direttamente al Cairo. Non si fermano a nessuno dei controlli militari e i loro bagagli non vengono controllati. Il viaggio al Cairo dura solo 6 ore, al massimo 7 o 8. “Tutti i soldi che facciamo pagare vanno a finire a imprese egiziane, sicuramente controllate dall’esercito,” sottolinea Hatem. “Noi riceviamo solo qualche provvigione.”

Tuttavia la gente come Ayman Adly non ha denaro sufficiente per pagare così tanto e passare da Rafah come VIP. Lui e quelli come lui possono aspettare anni prima di viaggiare.

Quelli che arrivano alla sala immigrazione egiziana possono aspettare molto tempo: le 20 ore di Adly non sono rare. I servizi della sicurezza nazionale egiziana interrogano molti sulla loro appartenenza politica e sulle attività politiche e religiose.

Sameer Abu Jazar è appena tornato a Gaza dal Qatar. Descrive il suo viaggio dal Cairo a Gaza come “la via verso l’inferno”. Tutti i viaggiatori che non sono VIP devono sopportare il sole ardente per 12 ore nel posto di controllo di Al-Faradan, nei pressi del Canale di Suez.

“Le forze di sicurezza egiziane controllano i bagagli dei palestinesi e confiscano quasi tutti gli apparecchi elettronici, compresi i computer portatili e i telefonini,” spiega Abu Jazar. “Lasciano solo un telefono a viaggiatore e a volte nessun computer portatile. Confiscano profumi e molte altre cose. A volte anche cibo.”

Ha aspettato con altre centinaia di persone dalle 6 del mattino fino alle 10 di notte all’aperto. Non c’è un posto in cui proteggersi e i servizi sono scarsi. “Non ci sono gabinetti. Se hai bisogno ti devi allontanare, trovare un posto un po’ appartate e farla lì.”

Il viaggio dal Cairo a Rafah può durare fino a tre giorni, a causa dei controlli regolari e delle continue perquisizioni del bagaglio. “I funzionari egiziani non dimostrano alcun rispetto, neppure per malati o anziani,” afferma Abu Jazar.

Ciò è quanto aspetta i palestinesi che vogliono viaggiare da Gaza attraverso il valico di Rafah. È un percorso doloroso, che però devono sopportare se sperano di ottenere un volo che li porti al luogo di studio, di cura o a un nuovo lavoro.

“Se avessi un’alternativa per tornare a Gaza l’avrei presa,” conclude Abu Jazar. “Qualunque cosa dev’essere meglio del modo infernale in cui ci trattano gli egiziani. Qualunque cosa.”

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Monitor de Oriente.

 

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)

 

 




Strage di civili a Gaza

Moatasim Dalloul da Gaza City

14 Novembre 2019 – Middle East Eye

I palestinesi seppelliscono i loro morti mentre nella Striscia di Gaza entra in vigore il cessate il fuoco

Due giorni di attacco israeliano lasciano 34 vittime palestinesi, compresi otto membri della stessa famiglia morti nella loro casa

Dopo due giorni di crescente violenza nella Striscia di Gaza, che ha lasciato almeno 34 morti palestinesi, giovedì mattina è entrato in vigore un cessate il fuoco.

Musab al-Breem, un portavoce della Jihad Islamica, ha detto a Middle East Eye che il suo movimento ha fissato le condizioni per accettare la tregua, mediata dall’Egitto e dall’ONU, e che Israele ha accettato le condizioni.

Breem ha detto: “L’occupazione si è arresa alle condizioni della resistenza.”

Khader Habib, importante dirigente del gruppo, ha detto a MEE che l’accordo è stato mediato dall’Egitto e dalle Nazioni Unite e che Israele ha accettato di interrompere immediatamente gli attacchi contro Gaza, compresi i raid aerei e le uccisioni mirate, e di cessare l’uso di proiettili letali contro i manifestanti dell’enclave palestinese.

“La resistenza palestinese ha ottenuto una grande vittoria, in quanto ha avuto l’impegno da parte di Israele della fine degli attacchi aerei, degli assassinii e dell’uso di munizioni vere contro i manifestanti di Gaza,” ha detto Habib. “La resistenza palestinese ha provocato molti danni all’occupazione israeliana. Israele ha imparato che prendere di mira i dirigenti palestinesi avrà conseguenze devastanti. Il cessate il fuoco è stato mediato dall’Egitto e dall’ONU. Sono le parti che hanno la responsabilità di occuparsi di ogni violazione israeliana.”

In cambio la Jihad Islamica ha accettato di interrompere il lancio di razzi su Israele.

 

Approntati i funerali

Il cessate il fuoco, entrato in vigore alle 5,30 (4,30 ora italiana), è arrivato dopo un bilancio di morti a causa dei raid aerei israeliani sulla Striscia di Gaza salito a 34 da martedì, dopo che fonti ufficiali palestinesi hanno detto che otto membri della stessa famiglia erano stati uccisi.

Statistiche delle vittime rese pubbliche dal ministero della Sanità di Gaza hanno mostrato che il numero totale di morti ha incluso otto minorenni e tre donne. Il ministero dell’Educazione ha confermato la morte di almeno sei studenti delle elementari e delle superiori.

I feriti sono stati 111, compresi 46 minori e 20 donne, ha affermato il ministero.

Sul terreno prevale una calma tesa in tutta la Striscia di Gaza, con il suono dei droni militari israeliani che ronzano ancora sulla testa.

Mentre entra in vigore il cessate il fuoco, la gente riapre i negozi, le strade sono piene di auto e la vita quotidiana inizia a tornare normale.

Le scuole e tutte le altre istituzioni governative rimangono chiuse, come era stato loro ordinato mercoledì pomeriggio, quando il bombardamento israeliano contro Gaza era in corso.

In tutta la Striscia di Gaza la scena era diversa negli ospedali, dove i parenti dei morti durante l’attacco israeliano durato due giorni stavano preparandoli per il funerale.

Anche decine di parenti dei feriti negli attacchi stavano in coda presso le porte delle camere d’ospedale in attesa di visitarli.

 

“Non era mai stato coinvolto in alcuna azione della resistenza”

Said Abu Karam, del quartiere di al-Toffah, nel nord di Gaza City, è appena tornato a casa dopo aver fatto visita a suo cognato all’ospedale al-Shifa, il più grande di Gaza, dove viene curata la maggior parte dei casi più gravi.

“È stato ferito durante un raid aereo israeliano che ha preso di mira una casa abbandonata nel quartiere,” dice Abu Karam di suo cognato.

“Era a circa 50 metri dalla casa, ma alcune schegge l’hanno colpito a una coscia e provocato una grave ferita,” afferma Abu Karam, aggiungendo che ora si trova in condizioni stabili.

La situazione è diversa per Abdallah Ayyad, che ha perso tre familiari in un attacco aereo israeliano nei pressi della loro casa nel quartiere di al-Zaytoun, a sudest di Gaza City.

“Mio cugino Raafat era un contadino e non è mai stato coinvolto in attività della resistenza,” sostiene Ayyad.

“I miei altri parenti erano giovani e la loro unica colpa era vivere in una casa situata in una zona agricola,” afferma. “Stavano giocando insieme nei pressi della loro casa.”

Durante le precedenti escalation e offensive Israele ha colpito chiunque si spostasse in zone agricole e in spazi vuoti, perché alcuni gruppi palestinesi lanciavano razzi da questi luoghi.

 

Uccisi otto membri della stessa famiglia

Giovedì mattina il ministero della Sanità di Gaza ha detto che otto palestinesi della stessa famiglia sono stati uccisi da un raid aereo israeliano.

Testimoni affermano che la casa della famiglia al-Sawarka, situata a est della città di Deir al-Balah, nella zona centrale della Striscia di Gaza, è stata colpita verso l’una e un quarto del mattino.

Durante la notte dalle macerie sono stati estratti sei corpi e due sono stati portati via dopo l’alba.

Secondo il ministero della Sanità i morti sono stati Rasmi al-Sawarka, 45 anni, Mariam al-Sawarka, 45 anni, Yusra al-Sawarka, 43 anni, Waseem al-Sawarka, 13 anni, Mohannad al-Sawarka, 12 anni, e Muaz al-Sawarka, 7 anni.

Il ministero ha detto che gli altri due membri della famiglia che sono stati portati via dopo l’alba erano minorenni, identificandoli come Salim e Firas. La loro età non è ancora stata fornita.

 

“In Medio Oriente non c’è bisogno di altre guerre”

Israele ha scatenato un attacco aereo contro Gaza dopo aver assassinato l’importante comandante della Jihad Islamica Bahaa Abu al-Atta e sua moglie martedì mattina.

Il gruppo armato ha iniziato una rappresaglia lanciando salve di razzi contro Israele e impegnandosi a proseguire i suoi attacchi.

Nikolai Mladenov, l’inviato ONU per il processo di pace in Medio Oriente, ha detto che il cessate il fuoco è stato il risultato di uno sforzo congiunto di Egitto e ONU.

“L’Egitto e l’ONU hanno lavorato duramente per evitare che un’escalation ancora più pericolosa all’interno e attorno Gaza portasse alla guerra,” ha scritto su Twitter.

“Le prossime ore e i prossimi giorni saranno cruciali. TUTTI devono mostrare la massima moderazione e fare la propria parte per evitare spargimento di sangue. In Medio Oriente non c’è bisogno di altre guerre.”

 

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

 




I palestinesi feriti ‘puniti’ per aver protestato a Gaza

I palestinesi feriti ‘puniti’ per aver protestato a Gaza

L’Organizzazione Mondiale della Sanità riferisce che Israele ha concesso solo a un terzo dei dimostranti feriti il permesso di attraversare il checkpoint di Erez per essere curati

Al-Jazeera

Mersiha Gadzo e Anas Jnena – 8 giugno 2018

 

Il solo modo in cui ora a Sari al-Shubaki può comunicare è aprire e chiudere le palpebre.

La mattina del 14 marzo un cecchino israeliano l’ha colpito al collo con un proiettile durante le manifestazioni a Gaza. Da allora, il ventiduenne è paralizzato. Un frammento del proiettile è rimasto fra la spalla e il collo.

Nell’ultimo mese è rimasto ricoverato in condizioni critiche nel reparto di cure intensive dell’ospedale Al Shifa della città di Gaza.

Da allora, la famiglia sta aspettando che Israele gli conceda un permesso per uscire attraverso il checkpoint di Erez a nord di Gaza, che i palestinesi chiamano Beit Hanoun, per essere curato.

Il giorno successivo a quello in cui Sari è stato colpito, i medici hanno detto che l’avrebbero trasferito in Egitto per le cure, ma la speciale ambulanza ICU necessaria per spostarlo non è mai arrivata come era stato invece promesso, dice Dawud al-Shubaki, suo padre.

“Non so se è la verità o se è perché lo considerano un caso senza speranza. Mi sembra che abbiano dei casi prioritari, visto che ci sono così tanti feriti” dice Dawuf ad Al Jazeera dall’[ospedale] Al Shifa.

Senza altra possibilità, Dawuf ha continuato a protestare nel cortile dell’ospedale per far conoscere le condizioni del figlio e ricevere aiuto.

“C’è ancora speranza. È cosciente. Ci hanno detto dall’ospedale S. Giuseppe di Gerusalemme che sarebbero pronti ad accoglierlo, ma quanto tempo ci vorrà? Il ferito che era nel letto vicino a lui è morto ieri”, dice Dawuf.

“Faccio appello a chiunque abbia ancora un cuore misericordioso perché faccia sì che mio figlio riceva le cure di cui ha bisogno. Non possiamo pensare di perderlo. Se muore sarà una catastrofe per tutta la famiglia” dice Dawuf, scoppiando in lacrime.

Dall’inizio delle manifestazioni per la Grande Marcia del Ritorno, il 30 marzo, l’esercito di Israele ha ucciso per lo meno 129 palestinesi dell’enclave costiera assediata, e ha ferito più di 13000 persone.

In mancanza di risorse adeguate per provvedere alle cure necessarie ai pazienti, i dottori dell’impoverita Striscia di Gaza normalmente derivano i malati agli ospedali di Israele, della Cisgiordania e qualche volta della Giordania.

Ma per andarci i pazienti hanno bisogno di un permesso rilasciato da Israele, che spesso lo rifiuta senza spiegazioni o ci mette troppo tempo a concederlo per condizioni sanitarie urgenti.

L’altra possibilità è di uscire attraverso la frontiera sud di Rafah per essere curati in Egitto, ma la cosa è spesso dilazionata.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO), al 3 giugno è stato concesso a 12 feriti su 22 di attraversare Rafah per essere curati in Egitto.

A causa del blocco israelo-egiziano che dura da 11 anni, i malati a Gaza affrontano da tempo ostacoli per lasciare Gaza e sottoporsi a cure indispensabili, cosa che ha causato a molti una lenta morte, ma i dimostranti feriti affrontano ora ostacoli anche più stringenti per attraversare Erez.

Secondo un nuovo rapporto del WHO, dall’inizio del movimento della Marcia del Grande Ritorno solo un terzo dei palestinesi feriti durante le manifestazioni ha avuto dalle autorità israeliane un permesso di uscita.

Al 3 giugno, dei 66 manifestanti feriti che hanno presentato domanda per essere trasferiti attraverso Erez, solo 22 sono stati approvati – rispetto a un tasso di approvazione del 60% nel primo trimestre del 2018.

Trentatré, cioè il 50%, hanno ricevuto un rifiuto – una percentuale significativamente più bassa rispetto all’8% del primo trimestre 2018.

I restanti pazienti stanno ancora aspettando, e intanto due di loro sono morti.

“È stato deciso che sarà rifiutata senza appello ogni richiesta di ingresso in Israele a scopo medico inoltrata da un terrorista attivo o da un dimostrante che abbia preso parte ai fatti violenti avvenuti vicino alla barriera”, ha commentato in una mail ad Al Jazeera un portavoce del COGAT, l’ente amministrativo dell’occupazione militare di Israele.

 

‘Una politica punitiva e vendicativa’

Secondo Adalah – il Centro Legale per i Diritti della Minoranza Araba -, il rifiuto di Israele di evacuare i manifestanti feriti corrisponde ad una forma di punizione.

Prima del 15 aprile, a nessuno dei feriti durante le proteste della Marcia del Grande Ritorno è stato concesso il permesso di attraversare Erez per le cure.

Il Centro Al Mezan per i Diritti Umani e Adalah hanno dovuto fare ricorso alla Corte Suprema di Israele perché i malati palestinesi potessero essere trasferiti attraverso Erez.

Il 16 aprile, tre giudici della Corte Suprema israeliana hanno unanimemente deciso che fosse consentito a Yousef Kronz, ventenne, ferito da un proiettile dell’esercito israeliano, di lasciare Gaza per cure mediche urgenti a Ramallah, per salvare la gamba rimasta.

Adalah riferisce che, a causa del ritardo imposto dall’esercito israeliano e dal tribunale riguardo alla sua iniziale richiesta di trasferimento inoltrata più di due settimane prima, Kronz ha già subito l’amputazione di una gamba.

La Corte ha deciso che Kronz non costituiva alcuna minaccia e che la sua condizione sanitaria rappresenta “un totale cambiamento nella sua vita”.

“Dalla nostra esperienza nel caso Kronz, l’esercito israeliano cerca di implementare una politica punitiva e vendicativa nel rifiutare ai residenti di Gaza accesso a trattamenti medici salvavita in Cisgiordania solo perché hanno partecipato ad una manifestazione” ha detto Mati Milstein, coordinatore per i media internazionali di Adalah.

“Di fatto, durante le udienze del tribunale, rappresentanti del governo hanno detto chiaramente che il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman ha deciso di impedire il trasferimento per trattamenti medici urgenti dei gazawi feriti che abbiano partecipato alle proteste e alle manifestazioni pacifiche – anche a rischio di un’amputazione.”

Secondo le leggi umanitarie internazionali, come forza d’occupazione Israele è obbligato ad assicurare ai palestinesi accesso alle cure e a garantire strutture mediche, ospedali e servizi nei territori occupati.

Tuttavia, per la delegazione di Medici per i Diritti Umani di Israele (PHRI) che ha visitato Gaza in aprile, lavorare nei migliori ospedali disponibili in città è stato come tornare indietro di diversi decenni.

Dr. Jamal Hijazi, del Centro Medico Shaare Tzedek di Gerusalemme, ha spiegato che non ci sono antibiotici, e i malati se li devono portare. Non ci sono nemmeno disinfettanti e lo staff medico usa al loro posto una soluzione salina, aumentando la probabilità di infezioni.

PHRI ha riferito che lo staff medico usa più volte i prodotti usa-e-getta, come pure i medicinali scaduti. Mancano anche materiali fondamentali come garza, morfina, punti di sutura chirurgici, anestetici e tutori per fratture alle gambe.

“I feriti non sono curati adeguatamente, e qualcuno paga con la vita”, ha detto PHRI nell’ultimo rapporto, in riferimento al pesante bilancio di vittime del 14 maggio.

“Costretti a frugare fra i resti delle scorte mediche e dei medicinali, su qualsiasi cosa riescano a mettere le mani, i medici si sentono come nullatenenti che chiedano l’elemosina.”

 

Non c’è altro da fare che aspettare

Il paramedico Mazen Jabreel Hasna è stato sottoposto a sei operazioni chirurgiche per salvare la sua gamba destra dopo che è stato colpito da un proiettile a frammentazione nell’area di Malaka a Gaza.

I medici hanno detto che avrebbero trasferito il trentatreenne in Egitto o in Giordania per un’operazione chirurgica, ma questo non è ancora successo. Aspettando il permesso, ha paura che le arterie artificiali che i medici hanno usato per salvargli la gamba possano presto esplodere o guastarsi, visto che non sono della misura giusta.

“Ora sono in attesa e se Dio vorrà, potrò farlo prima che qualcosa vada storto”, dice Hasna.

Anche Omar al-Housh, di 25 anni, sta aspettando il permesso di lasciare Gaza per operarsi. Il dolore è continuo, dice. “Giorno e notte.”

Passa tutto il tempo a letto, incapace anche di usare le stampelle e tiene la gamba ferita sotto un lenzuolo; non ha il coraggio di guardarla da quando il 14 maggio un cecchino israeliano l’ha colpita con un proiettile a frammentazione.

Il fratello mostra foto della gamba colpita di Omar – una profonda ferita va dall’anca alla caviglia, muscoli e tessuti completamente esposti.

Quando è arrivato Omar l’ospedale ha chiesto urgentemente donazioni di sangue. Ha ricevuto più di 60 unità di sangue a causa delle vene e dei vasi danneggiati e ha subito tre operazioni per salvargli la gamba.

Omar ha detto che il giorno dopo esser stato colpito gli è stato negato il trasferimento in Egitto.

Attualmente è sulla lista d’attesa per operarsi in Giordania, poiché in punti di sutura usati per cucire le sue vene e i vasi sanguigni danneggiati non sono del tipo giusto e la frattura delle ossa è parzialmente scomposta.

Sta aspettando il permesso dalle autorità israeliane e giordane, ma gli è stato già più volte rifiutato l’ingresso.

“Ci vuole tanto tempo e ho paura che mi rifiuteranno ancora una volta l’ingresso in Israele o in Giordania”, dice Omar.

“I medici hanno fatto un’operazione d’urgenza, temporanea, per evitare che la mia ferita peggiorasse. Voglio poter camminare di nuovo” dice Omar, aggiungendo che la sua pena è diventata anche mentale, poiché soffre di incubi e flashback.

Omar ha lavorato occasionalmente con il fratello come pescatore, ma lui e la sua famiglia non possono pagare le medicazioni e gli analgesici, ciò che aggrava il problema.

“Tutti i giorni ha bisogno di analgesici e iniezioni, altrimenti sveglia tutto il vicinato con le sue urla, ma io non posso permettermeli”, dice il padre Younis al-Housh, insegnante.

“L’altro giorno mi ha chiesto di non prendergli le iniezioni e i medicinali perché si sente di peso. Vedete come è diventata dura la vita qui? Ma ciò che ora è importante è che vogliamo che sia curato fuori di qui e possa camminare.”

 

 

(traduzione di Luciana Galliano)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 




Come lo Stato Islamico tiene in ostaggio Gaza

Hamza Abu Eltarabesh

21 dicembre 2017,The Electronic Intifada

Quando Rami Fawda ha sentito che era prevista finalmente l’apertura del valico di Rafah, la sua reazione è stata di sollievo misto a preoccupazione.

Il sollievo era dovuto al fatto che il quarantaquattrenne ingegnere vive ad Ankara, in Turchia, dove lavora da 13 anni e vi doveva tornare. Era arrivato a Gaza durante l’estate per visitare la sua famiglia, solo per la seconda volta da quando era andato via, ma era rimasto bloccato, cercando inutilmente per tre volte di ottenere il passaggio attraverso Rafah – il confine tra Gaza e l’Egitto.

Allora Fawda ha cercato di andarsene in ottobre, quando le autorità egiziane hanno annunciato l’apertura prevista di Rafah in seguito ai tanto sbandierati negoziati preliminari di unità da poco conclusi tra i partiti palestinesi Fatah ed Hamas al Cairo. Ma anche questa possibilità è naufragata, questa volta a causa di un attacco ad un posto di controllo dell’esercito egiziano nel Sinai che ha causato 30 vittime, compresi sei soldati, attribuito al gruppo dello Stato Islamico.

Quell’attacco del 15 ottobre era la ragione della preoccupazione di Fawda. Negli ultimi mesi le rarissime aperture – il valico di Rafah è rimasto in funzione per soli 30 giorni circa in tutto il 2017 – sono state temporanee e di nuovo annullate in seguito ad attacchi di miliziani nel Sinai.

L’effetto concreto significa che i militanti del Sinai, molti dei quali hanno dichiarato la propria adesione allo Stato Islamico, con le loro azioni possono tenere in ostaggio due milioni di palestinesi di Gaza.

Non è più un problema egiziano

Fawda ha avuto maggiore fortuna a novembre, ma per un pelo. Il valico è stato aperto il 18 novembre per tre giorni, ed ha cercato di ottenere un permesso per andarsene. Se avesse tardato una settimana, quando il Cairo ha annunciato altri tre giorni di apertura, sarebbe di nuovo rimasto deluso. Il 24 novembre uomini armati hanno attaccato una moschea nel Sinai, uccidendo più di 300 persone. Il valico di Rafah è rimasto chiuso fino alla scorsa settimana.

Fawda ha parlato di controlli di sicurezza e di una ingente presenza militare al confine sul lato egiziano. Quando è stato raggiunto per telefono, ha detto ad Electronic Intifada che l’Egitto ha “la stessa paura che abbiamo noi.” Fawda ha affermato che i miliziani salafiti del Sinai, in precedenza di “Ansar Beit al-Maqdis”, che nel 2014 è diventato Stato Islamico – Provincia del Sinai, hanno di fatto unito le loro forze a Israele nell’ “assediare Gaza”.

Hanno sicuramente trovato un modo per fare pressione sia sull’Egitto che su Hamas. Hamas, spinto dalla necessità di aprire Gaza al mondo esterno, ha stipulato una serie di accordi con il Cairo per aiutare l’Egitto a combattere quella che è diventata una vera e propria insurrezione nel Sinai.

Questi includono la costituzione di una zona di sicurezza lungo il confine tra Gaza e il Sinai e l’arresto di miliziani del Sinai a Gaza e hanno già provocato la rottura dei rapporti da tempo difficili tra Hamas e i salafiti nella stessa Gaza che si è riacutizzata negli ultimi 10 anni.

Secondo Mukhaimer Abu Saada, un analista politico e docente all’università Al-Azhar di Gaza, Hamas ha pagato un prezzo per aver migliorato i suoi rapporti con l’Egitto. “Quando Hamas si è scagliata contro i militanti salafiti, lo Stato Islamico nel Sinai ha iniziato delle ritorsioni, minacciando le operazioni di Hamas lì, compresi i suoi interessi commerciali e il contrabbando di armi,” dice Abu Saada.

Il conflitto nel Sinai è quindi diventato una lotta più vasta, che ha un impatto diretto su Gaza. A Gaza Israele è universalmente visto come il principale beneficiario dell’ostilità tra lo Stato Islamico e Hamas.

E le tensioni generano altre tensioni. Le forze di sicurezza di Hamas hanno arrestato sospetti membri dello Stato Islamico nella zona di Tal al-Sultan a Rafah in risposta al primo attacco suicida rivendicato dallo Stato Islamico a Gaza in agosto. Che a sua volta è arrivato dopo che Hamas si è scagliato contro le infiltrazioni dentro e fuori Gaza.

Da allora il numero di arresti ha iniziato ad aumentare. Ashraf Issa, un ufficiale dei servizi di sicurezza interni di Gaza diretti da Hamas, ha detto a Electronic Intifada che ora ci sono 550 sospetti combattenti dello Stato Islamico in carcere a Gaza.

Ma in cambio ciò minaccia alcuni degli interessi vitali di Hamas, non ultimo il sistema di rifornimento attraverso il Sinai, da lungo tempo utilizzato come rotta di contrabbando per ogni genere di beni ed esigenze, così come di armi e munizioni.

Prendere di mira Hamas

Sicuramente questa è la minaccia che lo Stato Islamico vorrebbe rappresentare. Secondo uno dei dirigenti dello Stato Islamico del Sinai che opera con il nome di battaglia di Muhammad al-Yamani e che è stato raggiunto grazie al telefono di un parente, ogni operazione dello Stato Islamico “è una risposta alle azioni di Hamas e dell’Egitto contro i nostri membri.”

Al-Yamani ha giurato di continuare a colpire le posizioni militari egiziane nel Sinai e ha messo in guardia Hamas che, se continua ad arrestare membri dello Stato Islamico, “distruggeremo il loro sistema di approvvigionamento militare.”

Ha aggiunto: “Stiamo controllando tutti i convogli che attraversano il Sinai.”

Ha riattaccato prima che il giornalista potesse fargli altre domande.

I principali bersagli dello Stato Islamico nel Sinai sono gli egiziani. Significativamente, il 24 novembre uomini armati hanno aperto il fuoco in una moschea nei pressi di El Arish nel Sinai durante le preghiere del venerdì, il peggiore attacco di questo tipo nella storia contemporanea dell’Egitto.

Ma lo Stato Islamico è stato molto attivo anche nella zona di confine tra Gaza e l’Egitto. Lo scorso ottobre tre palestinesi che lavoravano nei pressi del confine sono stati rapiti con un’operazione attribuita allo Stato Islamico. Secondo Abd al-Rahman Odeh, un responsabile della sicurezza di Hamas, sono stati picchiati ed interrogati per circa 12 ore in territorio egiziano e poi rilasciati quando è risultato evidente che nessuno di loro era membro di Hamas.

Odeh insinua che l’operazione sia stato un tentativo di fare pressione su Hamas per uno scambio di prigionieri.

Poi, più tardi in ottobre, Tawfiq Abu Naim, il capo dei servizi di sicurezza interna di Hamas, è rimasto ferito da un’autobomba che Hamas ha definito un tentativo di assassinio fallito. Due membri del gruppo salafita di Gaza sono stati arrestati dopo l’attentato. Una fonte vicina agli investigatori, che ha parlato in condizione di anonimato, ha confermato che Hamas accusa lo Stato Islamico dell’operazione.

Sabotatori ovunque

Importanti esponenti di Hamas inizialmente hanno ipotizzato che dietro all’operazione ci fosse Israele, ma probabilmente più che altro per l’opinione pubblica. Sicuramente i miliziani salafiti hanno i loro motivi. Dalla nomina di Abu Naim, centinaia di salafiti a Gaza sono stati arrestati. Abu Naim è anche responsabile della sicurezza al confine tra Gaza e l’Egitto, dove negli ultimi mesi sono state piazzate alcune decine di posti di blocco.

Ciononostante c’è chiaramente una coincidenza di interessi tra la branca dello Stato Islamico nel Sinai e Israele nella loro lotta contro Hamas. Alcuni dirigenti di Hamas ed analisti hanno suggerito una collaborazione diretta che coinvolge Israele e lo Stato Islamico. Secondo Hussam al-Dajani, un docente di politica dell’università Uammah di Gaza, entrambi hanno interesse nell’uccisione di Abu Naim.

Israele voleva eliminare qualcuno che sia attivo nella resistenza; lo Stato Islamico voleva vendicarsi degli ostacoli che stanno affrontando a Gaza,” dice al-Dajani.

Anche le operazioni dello Stato Islamico nel Sinai hanno contribuito, se non sono state la ragione principale, ai ritardi nell’apertura a lungo promessa del valico di Rafah. Si parla persino di spostare l’attuale valico più vicino alla costa per fare in modo che sia più difficile da attaccare.

Secondo Ashraf Juma, un parlamentare di Fatah, non c’è ancora una decisione a questo proposito. “Abbiamo presentato la richiesta all’Egitto e se ne è discusso, ma non abbiamo ancora ricevuto una conferma,” dice.

L’apertura del valico di Rafah è fondamentale e rimane il tallone d’Achille di Hamas. È l’unico valico per entrare ed uscire da Gaza che ha la possibilità di rimanere a breve termine sempre aperto e per ogni uso ragionevole.

Israele ha imposto un blocco di Gaza da più di 10 anni che il Cairo ha per lo più assecondato.

Questa chiusura ha avuto drammatici effetti economici e sociali su questa striscia di terra costiera stretta e sovrappopolata che è stata a lungo sull’orlo di un disastro umanitario e che le Nazioni Unite ritengono sarà inabitabile entro il 2020.

Come Hamas ha già dimostrato, sta cercando di prendere decisioni difficili, tranne consegnare le sue armi, per garantire che Gaza si apra di nuovo al mondo. Ciò include la fine formale del governo esclusivo su Gaza così come combattere i miliziani salafiti a Gaza e nel Sinai.

L’Egitto – oltre alla cooperazione per reprimere l’insurrezione nel Sinai – è interessata anche a questo. Se fatto in modo corretto, consentire l’attraversamento di Rafah potrebbe stimolare la poco soddisfacente economia aprendo un nuovo mercato per i prodotti egiziani e fornendo al contempo un centro per l’economia del Sinai, oltre al contrabbando ed al turismo.

Ma i sabotatori sono ovunque, non ultimo lo Stato Islamico- Provincia del Sinai.

Hamza Abu Eltarabesh è un giornalista e scrittore freelance di Gaza.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Che cosa c’è dietro la riconciliazione tra Hamas e Fatah?

Ramzy Baroud

12 ottobre 2017, Palestine Chronicle

L’entusiasmo dell’Egitto nel mediare tra le contendenti fazioni palestinesi Hamas e Fatah non è il risultato di un improvviso risveglio di coscienza. Il Cairo ha di fatto svolto un ruolo distruttivo nel manipolare le divisioni palestinesi a proprio vantaggio, mantenendo rigidamente chiuso il valico di confine di Rafah.

Comunque la leadership egiziana agisce chiaramente in coordinamento con Israele e gli Stati Uniti. Mentre il linguaggio usato da Tel Aviv e Washington è assolutamente prudente riguardo ai colloqui condotti tra le due fazioni palestinesi, se letto attentamente il loro discorso politico non è del tutto negativo rispetto alla possibilità che Hamas si unisca ad un governo di unità sotto la direzione di Mahmoud Abbas.

Le affermazioni del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu all’inizio di ottobre confermano questa ipotesi. Non ha respinto categoricamente un governo Fatah-Hamas, ma, secondo il ‘Times of Israel’, ha richiesto che “qualunque futuro governo palestinese smantelli il braccio armato dell’organizzazione terroristica (Hamas), recida ogni legame con l’Iran e riconosca lo Stato di Israele.”

Anche il Presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sisi vedrebbe con favore un Hamas indebolito, un Iran emarginato ed un accordo che rimetta l’Egitto al centro della diplomazia mediorientale.

Sotto l’egida del dittatore egiziano, il ruolo dell’Egitto, un tempo centrale nelle questioni della regione, è diventato marginale.

Ma la riconciliazione tra Hamas e Fatah fornisce ad al-Sisi un’opportunità di ridare lustro all’immagine del suo Paese, che negli ultimi anni è stata appannata dalla brutale repressione dell’opposizione interna e dai suoi improvvidi interventi militari in Libia, Yemen ed altrove.

A settembre, a margine della Conferenza dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York, al-Sisi ha pubblicamente incontrato Netanyahu per la prima volta. L’esatta natura dei loro colloqui non è mai stata completamente rivelata, anche se le notizie riportate dai media hanno sottolineato che il leader egiziano ha cercato di convincere Netanyahu ad accettare l’accordo di riunificazione tra Hamas e Fatah.

Nel suo discorso all’Assemblea Generale Onu al-Sisi ha anche fatto un improvvisato appello appassionato per la pace. Ha parlato di un’“opportunità” che deve essere colta per raggiungere l’agognato accordo sulla pace in Medio Oriente ed ha invitato il presidente USA Donald Trump a “scrivere una nuova pagina della storia dell’umanità” sfruttando tale presunta opportunità.

E’ difficile immaginare che al-Sisi, che ha un’influenza ed una forza di persuasione limitate su Israele e gli USA, sia in grado con le proprie forze di creare il clima politico necessario alla riconciliazione tra le fazioni palestinesi.

In passato sono stati fatti simili tentativi, ma sono falliti, in particolare nel 2011 e nel 2014. Addirittura già nel 2006 l’Amministrazione di George W. Bush impedì qualunque riconciliazione, usando minacce e cancellando finanziamenti per assicurarsi che i palestinesi restassero divisi. L’amministrazione Obama ha fatto altrettanto, garantendo l’isolamento di Gaza e la divisione palestinese, mentre sosteneva anche le politiche israeliane in proposito.

A differenza delle precedenti amministrazioni, Donald Trump ha destato aspettative riguardo a una mediazione per un accordo di pace di basso profilo. Tuttavia, fin dall’inizio ha preso le parti di Israele, ha promesso di trasferire l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme ed ha nominato un fautore della linea dura, David Friedman, un sionista per eccellenza, come ambasciatore USA in Israele.

Indubbiamente nel giugno scorso Trump ha firmato un ordine provvisorio per mantenere l’ambasciata a Tel Aviv, deludendo molti dei suoi sostenitori filoisraeliani, ma la mossa non è indice di un serio cambiamento di politica.

“Voglio dare una chance ad un piano per la pace prima di poter anche solo pensare di trasferire l’ambasciata a Gerusalemme”, ha recentemente detto Trump in un’intervista televisiva. “Se possiamo fare la pace tra i palestinesi ed Israele, penso che questo porterà ad una pace definitiva in Medio Oriente, che deve essere fatta.”

Giudicando sulla base dei precedenti storici, è più che ovvio che Israele e USA hanno dato luce verde alla riconciliazione palestinese con un chiaro obbiettivo in mente. Da parte sua, Israele vuole vedere una rottura di Hamas con l’Iran e il suo abbandono della resistenza armata, mentre gli USA vogliono dare “una chance” alle politiche in corso nella regione, dando la priorità agli interessi di Israele rispetto a qualunque risultato.

L’Egitto, essendo beneficiario di un generoso aiuto militare statunitense, è il tramite naturale per condurre la riconciliazione tra Hamas e Fatah come parte della nuova strategia.

Ciò che suggerisce chiaramente che dietro gli sforzi di riconciliazione vi siano potenti attori, è come sia filato liscio finora l’intero processo, in totale contrasto con anni di tentativi fallimentari e ripetuti accordi con risultati deludenti.

Ciò che inizialmente sembrava un altro inutile ciclo di colloqui ospitato dall’Egitto, è stato presto seguito da molto di più: anzitutto un iniziale compromesso, seguito da un accordo di Hamas a sciogliere il suo comitato amministrativo, creato per gestire gli affari di Gaza; poi, una positiva visita del Governo di Consenso Nazionale a Gaza ed infine l’appoggio ai termini di riconciliazione nazionale da parte delle due più potenti componenti di Fatah: il Consiglio Rivoluzionario e il Comitato Centrale.

Dato che Fatah controlla l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), quest’ultimo appoggio propugnato da Mahmoud Abbas è stato un’importante pietra miliare necessaria a far progredire il processo, poiché sia Hamas che Fatah si sono detti pronti ad ulteriori successivi colloqui al Cairo.

Diversamente dagli accordi precedenti, quello attuale consentirà ad Hamas di prendere parte attiva nel nuovo governo di unità. Un alto dirigente di Hamas, Salah Bardawil, lo ha confermato in una dichiarazione. Tuttavia Bardawil ha anche ribadito che Hamas non deporrà le armi e che la resistenza contro Israele non è negoziabile.

A parte il ruolo di potere giocato da USA, Israele ed Egitto, questo è certamente il nodo cruciale. Comprensibilmente, i palestinesi desiderano raggiungere l’unità nazionale, ma tale unità deve essere fondata su principi che sono assai più importanti degli interessi egoistici dei partiti politici.

Inoltre, parlare di – o anche raggiungere – unità, senza fare i conti con le farse del passato e senza concordare una strategia di liberazione nazionale per il futuro in cui il fondamento sia la resistenza, il governo di unità tra Hamas e Fatah risulterà insignificante come tutti gli altri governi che non hanno avuto una reale sovranità e, al massimo, discutibili mandati popolari.

Ancor peggio, se l’unità è guidata dal tacito sostegno USA, da un assenso di Israele e da un programma autoreferenziale dell’Egitto, ci si può aspettare che il risultato sarà il più lontano possibile dalle reali aspirazioni del popolo palestinese, che resta indifferente all’imprudenza dei suoi leader.

Mentre Israele ha investito per anni nella spaccatura tra palestinesi, le fazioni palestinesi continuano ad essere accecate da miseri interessi personali e da un “controllo” senza alcun valore su una terra occupata militarmente.

Si dovrebbe chiarire che qualunque accordo di unità che tenga conto dell’interesse delle fazioni a spese del bene collettivo del popolo palestinese è un imbroglio; anche se inizialmente “ha successo”, sul lungo termine fallirà, poiché la Palestina è più grande di qualunque individuo, fazione o potere regionale che cerchi il consenso di Israele e l’elemosina degli Stati Uniti.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di Palestine Chronicle. Sta per uscire il suo libro ‘The last Earth: a Palestinian story’ (L’ultima terra: una storia palestinese) (Pluto Press, London). Baroud ha un dottorato in studi sulla Palestina dell’università di Exeter ed è ricercatore non residente presso il Centro Orfalea per gli studi globali e internazionali dell’università Santa Barbara in California. Il suo sito web è: www.ramzybaroud.net.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)