Israele-Palestina: come la cucina è diventata un obiettivo della conquista coloniale

Joseph Massad

14 luglio 2022 – Middle East Eye

Molti arabi si indignano giustamente per la trasformazione, nei Paesi occidentali, dei piatti tipici palestinesi in cucina “israeliana”

Qualche anno fa mi scandalizzai nel constatare che un elegante bar-ristorante che frequentavo nel quartiere del Greenwich Village a Manhattan proponeva come piatto del giorno un “couscous israeliano”.

Sconcertato, pretesi che cambiassero immediatamente il nome del piatto. Spiegai al gestore che ciò che definivano couscous “israeliano” era in realtà maftoul palestinese, tradizionalmente preparato a mano.

Mi ricordo che nella mia infanzia una vicina e amica di famiglia, Marie Jou’aneh, che ci ha lasciati, stava seduta per ore a fare il tiftil, cioè arrotondare la semola per farne delle palline a forma di perla.

Anche se riferimenti storici indicano che i palestinesi scoprirono il couscous nordafricano nel XVII secolo, forse prima, grazie ai nordafricani arrivati in Palestina con le armate musulmane venute a combattere i crociati e che in seguito si stabilirono a Gerusalemme, la versione moderna del piatto potrebbe essere stata reintrodotta in Palestina e nella Grande Siria [Regione storica del Vicino Oriente, confinante con il mar Mediterraneo a ovest, con il deserto siriano (o arabico) a est, con l’Egitto a sud e con l’Anatolia a nord, ndt.] nella seconda metà del XIX secolo e all’inizio del XX.

Fu a quell’epoca che degli esuli algerini, marocchini, tunisini e libici che fuggivano dal colonialismo francese e italiano vi si stabilirono ed introdussero il couscous nordafricano, i cui grani sono molto più piccoli e che i palestinesi e altri siriani hanno modificato per ottenere il maftoul, dai grani più grandi e a forma di perle.

La grande e ricca famiglia culinaria siriana

Tuttavia in modo arrogante il gestore del ristorante newyorkese affermò di non conoscere l’origine di questo piatto e che esso era noto a New York col nome di couscous “israeliano”. Gli spiegai che questo prodotto veniva venduto a New York anche col nome più “neutro” di “couscous perlato”, cosa che lui avrebbe potuto scegliere come alternativa per non contrariare i clienti.

In modo spiccio il gestore rispose con quella che riteneva essere la risposta più intelligente possibile: il ristorante denominava anche le patatine fritte “fritte francesi”, anche se sono originarie del Belgio.

Andandomene dal locale, replicai che non erano stati i francesi a rubare le patate fritte “belghe”, perché in Francia si chiamano semplicemente “patatine fritte”.

Sono stati invece gli americani a chiamarle a torto patatine “francesi” (la storia reale, o apocrifa, vorrebbe che i soldati americani abbiano scoperto le patate fritte durante la prima guerra mondiale nelle regioni francofone del Belgio, prima di chiamarle a torto “francesi” al loro ritorno in patria.)

Nel caso del maftoul, gli israeliani hanno rubato il piatto palestinese e lo hanno venduto come proprio, esattamente come hanno fatto con la patria palestinese e con altri piatti palestinesi. Inutile precisare che non ho mai più messo piede in quel ristorante.

La cucina palestinese fa parte della grande e ricca famiglia culinaria siriana, che comprende due branche principali: la cucina di Damasco e quella di Aleppo.

La maggior parte dei piatti cucinati nella regione che comprende la Siria, il Libano, la Giordania e la Palestina moderni proviene da queste due tradizioni culinarie, con alcune innovazioni che inseriscono coltivazioni locali di ortaggi, cereali ed erbe.

Mentre il falafel, l’hummus, il taboulé, il maftoul, il mix di spezie zaatar a base di issopo palestinese, l’insalata contadina (fallahi, chiamata negli Stati Uniti insalata “israeliana”), il knafeh nabulsi ed altre specialità sono state riprese, o più esattamente rubate, dai coloni ebrei di Israele per decenni, nella stampa occidentale è nata tutta una gamma di giustificazioni.

Più di recente la shakshuka, una frittata, e il labneh, yoghurt colato, il cui nome è una forma al femminile del termine arabo laban, che significa yoghurt in arabo siriano, sono stati aggiunti al bottino dei piatti rivendicati da Israele.

Un legame con la terra e gli antenati”

Alcuni potrebbero sostenere con disinvoltura che gli ebrei israeliani fanno ormai parte della regione e che quindi hanno il diritto di mettere mano nella sua cucina, anche se la linea ufficiale israeliana evidenzia che il Paese vive “in un contesto difficile” – sostanzialmente il Medio Oriente, senza tuttavia farne parte.

Mentre il famoso storico israeliano Benny Morris sostiene che Israele è “Roma” e che gli arabi sono i “barbari” che la minacciano, l’ex Primo Ministro israeliano Ehud Barak una volta descrisse Israele come una “villa nella giungla”.

L’ex ambasciatore di Israele in Svezia e in Egitto, Zvi Mazel, da parte sua ha affermato: “Israele è un Paese occidentale che, nonostante il comportamento a volte perfido delle società della sua famiglia occidentale, sul piano culturale, concettuale ed economico si colloca ancora in quel contesto.”

L’autrice ebrea britannica di libri di cucina Claudia Roden, nata Douek (la cui famiglia ebrea egiziana è di origine siriana), sottolinea che molti ebrei europei emigrati in Palestina “volevano dimenticare la loro tradizionale cucina perché gli ricordava le persecuzioni.”

Secondo un articolo del New York Times, “tramite la cucina dei loro vicini palestinesi (gli ebrei israeliani) hanno ritrovato un legame con la terra e i loro antenati.”

Il problema è che i palestinesi non sono i vicini degli ebrei israeliani, bensì il popolo che i coloni israeliani hanno conquistato e di cui hanno rubato le terre e la cucina.

Lo chef e autore di libri di cucina israeliano Yotam Ottolenghi ed il suo coautore palestinese, Sami Tamimi, vogliono liberarsi della questione imbarazzante della “proprietà” culinaria e del furto coloniale.

Affermano esplicitamente: “L’hummus, per esempio, argomento altamente esplosivo, è innegabilmente un alimento fondamentale della popolazione palestinese locale, ma era anche una costante sulla tavola da pranzo degli ebrei di Aleppo che hanno vissuto in Siria per millenni e sono poi arrivati a Gerusalemme negli anni 1950-60. Chi merita maggiormente di appropriarsi dell’hummus? Nessuno. Nessuno ‘possiede’ un piatto, perché è molto probabile che qualcun altro lo abbia preparato prima e qualcun altro prima ancora.”

Il problema di questa spiegazione sta nel fatto che gli ebrei di Aleppo non erano i soli a mangiare l’hummus: la maggior parte della popolazione musulmana e cristiana di Aleppo, come anche altri siriani, ne faceva parimenti un alimento di base.

Il problema non è che gli ebrei di Aleppo non ne mangiassero, ma che oggi esso venga identificato come alimento “ebraico” o “israeliano”, attraverso questa argomentazione surrettizia.

Yotam Ottolenghi e Sami Tamimi affermano che i tentativi di rivendicare la cucina e i piatti “sono futili perché ciò non ha veramente importanza.”

Ma per chi questo non ha importanza? Per gli israeliani che vendono una cucina palestinese rubata come se fosse la loro, o per i palestinesi che sono privati della possibilità di rivendicare i propri piatti in un contesto occidentale favorevole a Israele?

Intimidazioni

Il furto della cucina palestinese e siriana da parte degli israeliani è diventato un fenomeno talmente normale, tenendo conto della sua proliferazione nei libri di cucina mediorientale e nei ristoranti “israeliani” in Europa e in Nordamerica, che i palestinesi subiscono intimidazioni se aprono dei ristoranti che identificano la loro cucina come palestinese.

Un grande ristorante palestinese di Brooklyn si è recentemente lamentato delle molestie online da parte di persone che non erano mai venute al ristorante, ma erano spinte da ostilità anti-palestinese.

Il proprietario ha dichiarato in un’intervista che il semplice fatto di qualificare il suo ristorante come “palestinese” lo esponeva a potenziali intimidazioni.

E poi c’è l’affermazione secondo cui gli ebrei originari dei Paesi arabi costituiscono la metà della popolazione di Israele e dunque hanno lo stesso diritto dei palestinesi di rivendicare la cucina regionale.

Ma ciò si basa sulla presunzione razzista secondo cui tutta la regione araba, dal Marocco all’Iraq, passando per lo Yemen, ha un’unica identica cucina. Di fatto la gran maggioranza degli ebrei arabi di Israele sono originari del Marocco, dello Yemen e dell’Iraq, regioni del mondo arabo che hanno una propria cucina regionale.

Esiste un numero esiguo di ebrei siriani e libanesi che vivono in Israele, costituendo “uno dei più piccoli gruppi etnici” del Paese. E anche se la maggioranza degli ebrei israeliani provenisse dalla Grande Siria, come potrebbe questo permettere loro di definire la cucina siriana o palestinese come “ebrea” e tanto meno “israeliana”, senza ricorrere ad un furto coloniale?

Yotam Ottolenghi ringrazia Claudia Roden per aver aperto la strada a chef come lui. Secondo un recente articolo del New York Times dedicato a quest’ultima, lei “descrive la cucina degli ebrei siriani come sofisticata, abbondante, varia – e volutamente complessa e lunga da preparare”, come se gli ebrei siriani avessero una cucina diversa da quella dei cristiani o dei musulmani siriani, cosa non vera.

Se gli ebrei originari della Grande Siria, come i musulmani e i cristiani, hanno assolutamente il diritto di appropriarsi dei piatti siriani a livello della Siria o della regione, non hanno però il diritto di rivendicarli come piatti appartenenti agli ebrei e poi di venderli come tali, mentre questi furti vengono in seguito celebrati dai media europei e americani che parlano di una cucina nazionale “israeliana”.

Israele è diventato parte della regione grazie a una conquista coloniale. La maggior parte degli arabi si indigna giustamente nel vedere le proprie specialità e la propria cucina fare parte integrante degli sforzi di colonizzazione israeliani.

Joseph Massad è docente di storia politica e intellettuale araba moderna alla Columbia University di New York. È autore di diversi libri e articoli, sia accademici che giornalistici. In particolare ha scritto: ‘Colonial effects: the making of national identity in Jordan’, ‘Desiring Arabs’ e, pubblicato in francese, ‘La persistence de la question palestinienne’ (La Fabrique, 2009). Più di recente ha pubblicato ‘Islam in Liberalism’. I suoi libri e articoli sono stati tradotti in una decina di lingue.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono solo all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




I palestinesi “sono destinati a vincere”: perché gli israeliani profetizzano la fine del loro Stato

Ramzy Baroud

13 giugno 2022 – Middle East Monitor

Se è vero che il sionismo è un’ideologia politica moderna che ha sfruttato la religione per raggiungere specifici obiettivi coloniali in Palestina, le profezie continuano a essere una componente fondamentale della percezione di Israele di se stesso e del rapporto dello Stato con altri gruppi, in particolare i gruppi messianici cristiani negli Stati Uniti e nel mondo.

Il tema delle profezie religiose e della loro centralità nel pensiero politico israeliano è stato nuovamente messo in luce dopo le osservazioni dell’ex primo ministro israeliano Ehud Barak in una recente intervista al quotidiano in lingua ebraica Yedioth Ahronoth [quotidiano di centro, ndt.]. Barak, percepito come un politico “progressista”, leader un tempo del Partito laburista israeliano, ha espresso il timore che Israele “si disintegrerà” prima dell’80° anniversario della sua fondazione, avvenuta nel 1948.

Barak afferma: “Nel corso della storia ebraica gli ebrei non hanno mai governato per più di ottant’anni, tranne che nel corso dei due regni di Davide [intorno al 1000 a.c., ndt.] e della dinastia degli Asmonei [dal 140 al 63 a.c., anno della conquista romana, ndt.] e in entrambi i periodi il loro crollo iniziò nell’ottavo decennio”.

Basata su un’analisi pseudo-storica, la profezia di Barak sembra fondere i fatti storici con il tipico pensiero messianico israeliano, rievocando le dichiarazioni fatte dall’ex primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu nel 2017.

Come Barak, le considerazioni di Netanyahu vennero proferite sotto forma di paura per il futuro di Israele e l’incombente “minaccia esistenziale”, la pietra angolare dell’hasbara [parola in lingua ebraica che indica gli sforzi di propaganda per diffondere all’estero informazioni positive sullo Stato di Israele e le sue azioni, ndt.] israeliana nel corso degli anni. In una sessione di studi biblici nella sua casa di Gerusalemme, Netanyahu aveva poi ricordato che il regno asmoneo, noto anche come dei Maccabei, sopravvisse solo 80 anni prima di essere conquistato dai romani nel 63 a.c.

Secondo una dichiarazione di uno dei partecipanti citata dal quotidiano israeliano Haaretz, Netanyahu avrebbe detto: ” Lo Stato Asmoneo è durato solo 80 anni e noi dovremmo superarlo“.

Ma, pur prendendo atto della presunta determinazione di Netanyahu di andare oltre quel numero [di anni, ndt.], sembra che egli abbia promesso di garantire che Israele superi gli 80 anni dei Maccabei per sopravvivere per 100 anni. Sono solo 20 anni in più.

La differenza tra le affermazioni di Barak e Netanyahu è abbastanza trascurabile: le opinioni del primo sono presumibilmente “storiche” e quelle del secondo sono bibliche. È tuttavia degno di nota che entrambi i leader, sebbene aderiscano a due diverse correnti politiche, convergano su punti di incontro simili: è in gioco la sopravvivenza di Israele; la minaccia esistenziale è reale e la fine di Israele è solo questione di tempo.

Ma il pessimismo in Israele non è certo confinato ai leader politici, che sono noti per esagerare e manipolare i fatti allo scopo di instillare paura e mobilitare i loro schieramenti politici, in particolare i potenti gruppi elettorali messianici di Israele. Anche se questo è vero, le previsioni sul cupo futuro di Israele non si limitano alle élite politiche del Paese.

In un’intervista ad Haaretz del 2019 Benny Morris, uno degli storici israeliani più conosciuti e rispettati, ha avuto molto da dire sul futuro del suo Paese. A differenza di Barak e Netanyahu, Morris non stava inviando segnali di allarme, ma affermava quello che a lui sembrava un risultato inevitabile dell’evoluzione politica e demografica del Paese.

“Non vedo come ne usciremo”, ha detto Morris, aggiungendo: “Oggi ormai ci sono più arabi che ebrei tra il mare (Mediterraneo) e il (fiume) Giordano. L’intero territorio sta inevitabilmente diventando uno Stato con una maggioranza araba. Israele si definisce ancora uno Stato ebraico, ma una situazione in cui governiamo un popolo sotto occupazione e senza diritti non può persistere nel XXI° secolo”.

Le previsioni di Morris, pur rimanendo fedeli ai miti razziali di una maggioranza ebraica, erano molto più articolate e anche realistiche rispetto a quelle di Barak, Netanyahu e altri. L’uomo che una volta si rammaricò che il fondatore di Israele, David Ben Gurion, non avesse espulso tutta la popolazione nativa della Palestina nel 1947-48, ha affermato con rassegnazione che, nel giro di una generazione, Israele cesserà di esistere nella sua forma attuale.

Particolarmente degna di nota nelle sue affermazioni è l’accurata percezione che “i palestinesi osservano le cose secondo una prospettiva ampia e a lungo termine” e che essi continueranno a “chiedere il ritorno dei rifugiati”. Ma chi sono i “palestinesi” a cui si riferisce Morris? Certamente non l’Autorità Nazionale Palestinese, i cui leader hanno ormai messo da parte il Diritto al Ritorno per i rifugiati palestinesi, e sicuramente non hanno “prospettive ampie e a lungo termine”. I “palestinesi” di Morris sono, ovviamente, lo stesso popolo palestinese, generazioni che hanno servito, e continuano a servire, in prima linea la causa dei diritti palestinesi nonostante tutte le battute d’arresto, le sconfitte e i “compromessi” politici.

In realtà le profezie riguardanti la Palestina e Israele non sono un fenomeno nuovo. La Palestina fu colonizzata dai sionisti con l’aiuto della Gran Bretagna, anche sulla base di quadri di riferimento biblici. Venne popolata da coloni sionisti sulla base di riferimenti biblici riguardanti la restaurazione di antichi regni e il “ritorno” di antichi popoli ad una loro presunta legittima “terra promessa”. Sebbene Israele abbia assunto molti significati diversi nel corso degli anni – a volte percepito come un’utopia ‘socialista’, in altri casi come un rifugio democratico e liberale – è sempre stato ossessionato da significati religiosi, visioni spirituali e inondato da profezie. L’espressione più sinistra di questa verità è il fatto che l’attuale sostegno a Israele da parte di milioni di fondamentalisti cristiani in Occidente è in gran parte guidato da profezie messianiche sulla fine del mondo.

Le ultime previsioni sul futuro incerto di Israele si basano su una logica diversa. Poiché Israele si è sempre definito uno Stato ebraico, il suo futuro è principalmente legato alla sua capacità di mantenere una maggioranza ebraica nella Palestina storica. Per ammissione di Morris e altri questo sogno irrealizzabile sta ora sgretolandosi poiché la “guerra demografica” si sta chiaramente e rapidamente perdendo.

Naturalmente, la convivenza in un unico Stato democratico sarà sempre una possibilità. Purtroppo per gli ideologi sionisti israeliani un tale Stato difficilmente soddisferà le aspettative minime dei fondatori del Paese, poiché non esisterebbe più nella forma di uno Stato ebraico e sionista. Perché si realizzi una coesistenza l’ideologia sionista dovrebbe essere totalmente eliminata.

Barak, Netanyahu e Morris lo stanno bene: Israele non esisterà come ‘Stato ebraico’ ancora per molto. Parlando rigorosamente in termini demografici, Israele non è più uno Stato a maggioranza ebraica. La storia ci ha insegnato che musulmani, cristiani ed ebrei possono coesistere pacificamente e prosperare collettivamente, come hanno fatto in tutto il Medio Oriente e nella penisola iberica per millenni. In effetti, questa è una predizione, persino una profezia, per la quale vale la pena lottare.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele. Il “centrismo” della lista Bianco Blu:”la cultura araba è la giungla”

 Jonathan Ofir

17 febbraio 2020 – Mondoweiss

E’ ciò che pensa e ha affermato senza esitazioni in una intervista il deputato Yoaz Hendel, un alto dirigente del partito, presunto centrista, guidato dall’ex capo di stato maggiore Benny Gantz che il 2 marzo potrebbe superare il Likud di Netanyahu e vincere le elezioni israeliane

 Nena News – “Penso che la cultura araba intorno a noi sia la giungla.” Questo è ciò che sostiene Yoaz Hendel in un’intervista rilasciata venerdì al giornalista di Haaretz Ravit Hecht. Hendel è tra i primi dieci leader del partito Blu-Bianco di Benny Gantz, che ha 33 seggi nel parlamento israeliano. Il partito dovrebbe fungere da opposizione di centro al Likud di Netanyahu, e secondo molti sondaggi potrebbe superare il Likud di un paio di seggi alle prossime elezioni di marzo.

L’intervista è sconvolgente. Hendel commenta generalmente in modo derisorio la cultura araba:“C’è gente venuta qui da Paesi di ogni tipo: alcuni arrivano con la mentalità da concerto a Vienna, altri con la mentalità da darbuka”, ha dichiarato a Hecht, facendo riferimento a un tipo di tamburo molto popolare in Medio Oriente.

Non è la prima volta che Hendel fa propaganda razzista. Nel 2017, la sua rubrica settimanale su Yediot Aharonot ha descritto un immaginario di vendetta in cui i Palestinesi avevano il ruolo dei nazisti. In una “manifestazione per la democrazia” orientalista, organizzata dal partito Blu-Bianco l’anno scorso, Hendel ha boicottato l’evento perché, all’ultimo momento, era stato annunciato un intervento di Ayman Odeh, leader della Lista unita dei partiti palestinesi in Israele.

Hendel è passato al partito Blu-Bianco dal Likud, come membro della fazione Telem, insieme a Moshe Ya’alon, che è il numero tre nella lista Blu-Bianca. Anche Ya’alon è un ex membro del Likud, è stato Ministro della Difesa e ha anche lui precedenti di razzismo anti-palestinese, avendo paragonato la “minaccia palestinese” a un “cancro”, contro il quale applica la “chemioterapia” (era il 2002, e lui era Capo di Stato Maggiore dell’esercito). Hendel era il Responsabile della Comunicazione e dell’Hasbara (‘diplomazia pubblica’) di Netanyahu nel 2011-2012.

La dichiarazione secondo cui “la cultura araba intorno a noi è la giungla” non nasce dal nulla. L’idea di Israele come “villa in mezzo alla giungla” viene, infatti, attribuita al leader “di sinistra” Ehud Barak, che la pronunciò in un discorso ufficiale nel 1996. Barak si è anche congratulato con Trump per il suo monito razzista secondo cui “Mohammed” potrebbe diventare Primo Ministro, e reputa che “loro (i palestinesi, e soprattutto Arafat) sono il prodotto di una cultura in cui mentire… non crea dissenso… Per loro dire bugie non è un problema, come invece è nella cultura giudaico-cristiana”.

Ecco qualche altro passo dell’intervista:

Hecht: “Lei ha detto in passato che Israele è una villa nella giungla. Oggi, qui, ribadisce che il nostro vantaggio sui palestinesi è la moralità. Pensa che la cultura araba sia la giungla?”

Hendel: “Sì, certo, penso che la cultura araba che ci circonda sia la giungla. C‘è una palese violazione di ogni singolo diritto umano che noi, nel mondo occidentale, riconosciamo. Lì questi diritti devono ancora vedere la luce del sole. Loro non hanno raggiunto lo stadio evolutivo in cui si hanno dei diritti umani. Non esistono i diritti delle donne, né i diritti LGBT, né quelli delle minoranze, e non c’è educazione. Molti Stati arabi sono dittature mancate, il che spiega perché i trattati di pace che sigliamo qui sono limitati alla leadership. Non esiste la pace tra popoli perché non esiste educazione alla pace e alla tolleranza.”

Hecht contesta Hendel:

Hecht: “Anche in Israele l’odio verso gli arabi è la norma.”

Hendel: “C’è il razzismo e bisogna occuparsene, ma ogni volta che vedo, in ‘A Star is Born’ o a ‘Masterchef’, che gli israeliani votano per un concorrente arabo, o quando giro per gli ospedali per via di mia moglie (è una ginecologa, ndr), ho l’impressione che, finalmente, la vita qui sia priva di razzismo.”

Questa è un’osservazione veramente terribile e paradossale. Hendel cerca di applicare la classica Hasbara quando fa riferimento agli “arabi israeliani” come prova della presunta fiorente democrazia. Ma l’osservazione sugli ospedali! Hendel forse non ha seguito la questione della dilagante e sistematica segregazione razziale delle madri nei reparti maternità israeliani? Non ricorda le parole del parlamentare di estrema destra Bezalel Smotrich, che ha twittato “Subito dopo il parto, mia moglie voleva riposare e non fare una festa come fanno le donne arabe”, e che “È naturale che mia moglie non voglia stendersi vicino a qualcuno che ha appena partorito un bambino che, tra 20 anni, potrebbe voler uccidere il suo”?

Hecht contesta di nuovo le espressioni razziste di Hendel: “Potrai anche votare per un concorrente arabo a ‘Masterchef’, ma dichiari senza esitazione che ‘La mia cultura è superiore e non voglio assomigliare a un arabo’. Anche questa è una forma di razzismo.”

Hendel: “Per come la vedo io, non ho nulla di razzista (sic). Da un punto di vista cognitivo, prima di tutto mi prendo cura della mia gente, delle mie tradizioni e della mia storia. E questo è quanto. Non provo odio verso nessuno e ho legami personali con palestinesi, perché vivo vicino a Gush Etzion (blocco di insediamenti coloniali, ndr).”

Queste espressioni del “colonialista illuminato” che dice “alcuni dei miei amici sono palestinesi” hanno indotto il presidente di B’tselem Hagai El-Ad a paragonare Hendel al Primo Ministro dell’Apartheid sudafricana Hendrik Verwoerd, che dichiarò: “La nostra politica è quella che viene chiamata…‘apartheid’, e io temo che venga spesso fraintesa. Potrebbe essere più semplicemente, e forse meglio, descritta come una politica di buon vicinato.”

Anche Ahmed Tibi, parlamentare della Lista unita araba, è stato particolarmente drastico nel criticare il razzismo di Hendel, sottolineando come gli accenni alla musica araba colpiscano anche gli ebrei arabi: “Un razzista bianco contro arabi e Mizrahim allo stesso modo. Hendel non è Tarzan: Hendel è la giungla. Io amo [il cantante libanese] Fairuz e la darbuka nelle canzoni di Umm Kulthum [compianta cantante egiziana], e quasi sicuramente Hendel ascolta Wagner ogni volta che lo stivale dell’occupazione calpesta i palestinesi privi di diritti umani a causa di quella cultura occidentale che incoraggia gli insediamenti, l‘espropriazione e l’annessione. Detesto la sua visione del mondo e quella di alcuni amici suoi che credono nella supremazia ebraica.”

Il leader della Lista unita araba Ayman Odeh ha detto che “la teoria di Hendel sulla supremazia europea” è stata smentita dall’ “ignoranza e dalla mancanza di cultura che ha dimostrato nella sua intervista a Haaretz”.

Il palese razzismo di Hendel è troppo anche per molti membri del partito Blu-Bianco. Ofer Shelah (anche lui tra i primi 10 leader del Blu-Bianco, più in alto di Hendel), ha dichiarato che “le affermazioni di Yoaz Hendel sono esternazioni infelici che sarebbe stato meglio evitare, e che non rispecchiano lo spirito del partito Blu-Bianco”. La parlamentare Orna Barbivai (posizionata appena dopo Hendel) è stata più leggera nella sua critica: “Penso che tutti nasciamo uguali e non siamo qui per giudicare”. Definendo “superflui” i commenti di Hendel, ha detto “Io sono favorevole alle darbukas. Ma dedurre da questo che Hendel è un razzista sarebbe esagerato”.

Il fatto che Hendel abbia, in un certo senso, equiparato i Mizrahim ad una presunta degenerazione araba l’ha portato ad essere criticato anche dall’estrema destra. Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha ritwittato una dichiarazione del Likud secondo cui Hendel dovrebbe vergognarsi di se stesso. Dimenticatevi tutte le dichiarazioni razziste di Netanyahu sugli arabi, adesso ci sono facili consensi da raccogliere contro il suo rivale.

 Perfino il Ministro dell’Educazione Rafi Peretz, del partito di estrema destra Yamina, ha detto di essere “orgoglioso di far parte della cultura delle dabukas”. Il parlamentare di Shas (partito ultraortodosso Mizrahi) Ya’akov Margi ha condannato la “boria” di Hendel e ha detto che gli ebrei Mizrahi vengono da una grande tradizione che include ‘Maimonide, scienza e medicina’. I sionisti cercano, per lo più, di barcamenarsi per non inimicarsi i Mizrahim. Quando però il razzismo è così plateale e disgustoso come nel caso di Hendel, si scivola.

H/t Ronit Lentin, Edith Breslauer

Jonathan Ofir è un musicista israeliano, direttore d’orchestra e blogger/giornalista. Vive in Danimarca.

(Traduzione di Elena Bellini)
Nena news




Il “campo pacifista” di Israele rischia di scomparire

Jonathan Cook

7 Febbraio 2020 –The Electronic Intifada

Per il cosiddetto “campo pacifista” di Israele gli scorsi 12 mesi di elezioni generali – la terza è prevista il 2 marzo – sono stati vissuti come una continua roulette russa, con sempre minori opportunità di sopravvivenza.

Ogni volta che la canna della pistola elettorale è stata ruotata, i due partiti parlamentari collegati al sionismo liberale, Labour e Meretz, si sono preparati alla loro imminente scomparsa.

Ed ora che la destra israeliana ultranazionalista celebra la presentazione del cosiddetto “piano” per la pace di Donald Trump, sperando che porterà ancora più dalla sua parte l’opinione pubblica israeliana, la sinistra teme ancor di più l’estinzione elettorale.

Di fronte a questa minaccia Labour e Meretz – insieme ad una terza fazione di centro-destra ancor più minuscola, Gesher – a gennaio hanno annunciato l’unificazione in una lista unica in tempo per il voto di marzo.

Amir Peretz, capo del Labour, ha ammesso francamente che i partiti sono stati costretti ad un’alleanza.

“Non c’è scelta, anche se lo facciamo contro la nostra volontà”, ha detto ai dirigenti del partito.

Alle elezioni di settembre i partiti Labour e Meretz, presentatisi separatamente, hanno a malapena superato la soglia di sbarramento.

Il partito Labour, un tempo egemone, i cui leader hanno fondato Israele, ha ottenuto solo cinque dei 120 seggi in parlamento – il risultato più basso di sempre.

Il partito sionista più di sinistra, il Meretz,, ha ottenuto solo 3 seggi. È stato salvato solo dall’alleanza con due partiti minori, teoricamente di centro.

Sempre fragile

Anche al culmine del processo di Oslo alla fine degli anni ’90, il “campo pacifista” israeliano era una costruzione fragile, senza sostanza. Al tempo vi era un dibattito scarsamente rilevante tra gli ebrei israeliani riguardo a quali concessioni fossero necessarie per raggiungere la pace, e sicuramente riguardo a come potesse configurarsi uno Stato palestinese.

Le recenti elezioni, che hanno fatto del leader del Likud Benjamin Netanyahu il Primo Ministro israeliano più a lungo in carica, e la generale euforia riguardo al piano “di pace” di Trump, hanno indicato che l’elettorato ebraico israeliano favorevole ad un processo di pace – anche del tipo più blando – è del tutto scomparso.

Da quando Trump è diventato presidente, la principale opposizione a Netanyahu è passata dal Labour al partito Blu e Bianco, guidato da Benny Gantz, un ex capo di stato maggiore dell’esercito israeliano che è stato il responsabile della distruzione di Gaza nel 2014.

Il suo partito è nato un anno fa, in tempo per l’ultimo voto di aprile e nelle due elezioni generali dello scorso anno i partiti di Gantz e Netanyahu hanno praticamente pareggiato.

I commentatori, soprattutto in nord America e in Europa, hanno accomunato Blu e Bianco con Labour e Meretz come il “centro sinistra” israeliano. Ma il partito di Gantz non si è mai presentato come tale.

Si pone stabilmente a destra, attraendo gli elettori stanchi dei guai molto discussi sulla corruzione di Netanyahu –deve affrontare tre diverse imputazioni per frode e corruzione – o del suo continuo accondiscendere ai settori più religiosi della società israeliana, come i seguaci del rabbinato ortodosso e il movimento dei coloni.

Gantz e il suo partito si sono rivolti agli elettori che vogliono un ritorno ad un sionismo di destra più tradizionale e laico, che un tempo era rappresentato dal Likud – capeggiato da figure come Ariel Sharon, Yitzhak Shamir e Menachem Begin.

Non è stata quindi una sorpresa che Gantz abbia fatto a gara con Netanyahu nell’appoggiare il piano di Trump che sancisce l’annessione delle colonie illegali della Cisgiordania e della Valle del Giordano.

Ma le difficoltà della destra israeliana sono iniziate molto prima della nascita di Blu e Bianco. E per un po’ di tempo sia il Labour che il Meretz hanno cercato di reagire ostentando una linea più intransigente.

Abbandonare Oslo

Sotto la guida di diversi leader il Labour si è progressivamente allontanato dai principi degli accordi di Oslo che ha firmato nel 1993. Il discredito di quel processo è avvenuto in larga misura perché lo stesso Labour all’epoca ha rifiutato di impegnarsi in buona fede nei colloqui di pace con la leadership palestinese.

Nel 2011, dando un segnale generalmente interpretato come il riposizionamento del partito Laburista, la candidata alla sua guida ed ex capo del partito, Shelly Yachimovich, ha puntualizzato che le colonie, che violano il diritto internazionale, non erano un “peccato” o un “crimine”.

In un momento di sincerità ha attribuito direttamente al Labour la loro creazione: “È stato il partito Laburista che ha dato inizio all’impresa coloniale nei territori. Questo è un fatto. Un fatto storico.”

Questo graduale allontanamento dal sostegno anche solo a parole il processo di pace è culminato nell’elezione del ricco uomo d’affari Avi Gabbay come leader del partito Laburista nel 2017.

Nel 2014 Gabbay aveva contribuito a finanziare, insieme a Moshe Kahlon, un ex Ministro delle Finanze del Likud, il partito di destra Kulanu. Lo stesso Gabbay, benché non eletto, ha ricoperto brevemente un ruolo ministeriale nella coalizione di estrema destra di Netanyahu dopo le elezioni del 2015.

Una volta diventato leader del Labour, Gabbay ha fatto eco alla destra stralciando in gran parte il processo di pace dal programma del partito. Ha dichiarato che qualunque concessione ai palestinesi non doveva includere l’“evacuazione” delle colonie.

Ha anche suggerito che fosse più importante per Israele mantenere per sé l’intera Gerusalemme, compresa la parte est occupata, piuttosto che raggiungere un accordo di pace.

Il suo successore (e due volte predecessore) Amir Peretz potrebbe sembrare teoricamente più moderato. Ma ha mantenuto legami con il partito Gesher, fondato da Orly Levi-Abekasis alla fine del 2018.

Levi-Abekasis è un ex deputato di Yisrael Beitenu [Israele è casa nostra], il partito di estrema destra che è ripetutamente entrato nei governi di Netanyahu ed è guidato da Avigdor Lieberman, ex Ministro della Difesa e colono.

Abbandonare la minoranza palestinese di Israele.

Il Meretz ha intrapreso un percorso ancor più drastico di allontanamento dalle proprie origini di partito pacifista, lo scopo per il quale è stato espressamente creato nel 1992.

Fino a poco tempo fa il partito aveva l’unico gruppo parlamentare apertamente impegnato per la fine dell’occupazione e posto i colloqui di pace al centro del proprio programma. Tuttavia, a partire dall’indebolimento (degli accordi) di Oslo alla fine degli anni ’90, non ha mai conquistato più di una mezza dozzina di seggi.

Di fatto dal 2014 il Meretz si è pericolosamente avvicinato alla scomparsa elettorale. In quell’anno il governo Netanyahu ha alzato la soglia elettorale a quattro seggi per poter entrare in parlamento, nel tentativo di eliminare quattro partiti che rappresentavano l’ampia minoranza di 1,8 milioni di cittadini palestinesi di Israele.

I partiti palestinesi hanno reagito creando una Lista Unita per superare la soglia. Ed in un chiaro esempio di conseguenze impreviste, la Lista Unita è attualmente il terzo più grande partito della Knesset [parlamento israeliano, ndtr.].

Da parte sua, il Meretz è stato lacerato dalle divisioni su come procedere.

Dopo le elezioni di aprile dello scorso anno, in cui a fatica ha superato la soglia, nel Meretz ci sono state voci che chiedevano di prendere una nuova direzione, promuovendo la partnership ebraico-araba. I suoi molto votati rappresentanti “arabi”, Issawi Freij e Ali Salalah, si dice abbiano salvato il partito raccogliendo in aprile un quarto dei voti dai cittadini palestinesi di Israele, quelli che rimasero di quanti vennero espulsi dalle proprie terre nel 1948 durante la Nakba.

La minoranza palestinese è diventata sempre più politicamente polarizzata, esasperata dall’incapacità dei partiti ebraici di affrontare le sue preoccupazioni riguardo alla sistematica discriminazione che subisce.

I più votano per la Lista Unita. Ma una piccola parte della minoranza palestinese sembra stanca di gettare via quello che finisce per essere un voto di protesta.

Di fronte ad una sempre più forte istigazione anti-araba da parte della destra, guidata dallo stesso Netanyahu, alcuni erano sembrati pronti ad andare verso la società ebraica israeliana attraverso il Merertz.

Alcuni dirigenti del Meretz, guidati da Freij, hanno anche proposto di scindere la Lista Unita e creare un’alleanza con alcuni dei suoi partiti, soprattutto Hadash-Jebha, un’alleanza socialista che già include un gruppo ebraico minoritario.

Ma nella corsa al voto di settembre i dirigenti del Meretz hanno di fatto cassato qualunque ulteriore intenzione di promuovere questi tentativi di collegamento con la minoranza palestinese. In luglio il partito ha istituito un nuovo gruppo, chiamato Unione Democratica, con due nuovi partiti guidati da ex politici del Labour – il Movimento Verde di Stav Shaffir e il partito Democratico di Ehud Barak.

Improbabili alleati

Shaffir si era inimicata molti cittadini palestinesi durante le brevi proteste per la giustizia sociale nel 2011 in cui si è messa in risalto. I leader della protesta hanno lavorato sodo per mantenere a distanza i cittadini palestinesi e hanno ignorato le questioni relative all’occupazione, in modo da creare un’ampia coalizione ebraica sionista.

I precedenti di Barak – l’ex Primo Ministro è stato colui che ha messo il campo pacifista sulla sua strada di autodistruzione dichiarando che i palestinesi non erano “partner per la pace” –erano ancor più problematici.

Ha descritto il suo partito Democratico come “a destra del partito Laburista”. Il suo programma non faceva menzione di una soluzione di due Stati e della necessità di porre fine all’occupazione.

Nitzan Horowitz, il leader del Meretz, in quel momento ha giustificato l’alleanza in base al fatto che “abbiamo bisogno di aumentare la nostra forza (elettorale)”.

E, a parte il ruolo di Barak nell’ostacolare il processo di Oslo, nel 2000 come Primo Ministro all’inizio della seconda intifada diresse anche una violenta repressione poliziesca delle proteste civili dei cittadini palestinesi, in cui furono uccise 13 persone.

L’anno seguente Barak perse le elezioni a Primo Ministro dopo che i cittadini palestinesi infuriati boicottarono in massa il voto, di fatto spianando la strada alla vittoria del suo sfidante del Likud, Ariel Sharon.

Solo l’anno scorso, vent’anni dopo, Barak ha espresso le scuse per il suo ruolo in quelle 13 morti, come verosimile prezzo per entrare nell’alleanza con Meretz.

Ora il Meretz ha rotto l’alleanza con Barak e Shaffir. Ma facendolo, si è spostato ancor più a destra. Il suo accordo elettorale di gennaio con Labour e Gesher per le elezioni del 2 marzo sembra chiudere la porta ad ogni futura alleanza arabo-ebraica.

Il Meretz ha relegato Freij, il suo candidato palestinese di punta, in una irrealistica undicesima posizione [nella lista dei candidati].

Recenti sondaggi indicano che la nuova coalizione si aggiudicherà solo nove seggi.

Un improbabile scenario

Né il Meretz né il Labour hanno mai veramente rappresentato un significativo campo pacifista. Entrambi hanno una storia precedente di entusiastico appoggio a ogni recente guerra che Israele ha lanciato, benché parti del Meretz abbiano avuto abitualmente dei ripensamenti quando le operazioni si prolungavano e aumentavano le vittime.

Pochi, anche nel Meretz, hanno chiarito che cosa significhi il campo pacifista o come considerino uno Stato palestinese.

La “prospettiva” di Trump ha risposto a queste domande in modo del tutto negativo per i palestinesi. Ma il suo piano si allinea ai sondaggi che indicano che molto meno della metà degli ebrei israeliani sostiene alcun tipo di Stato palestinese, praticabile o no.

Ugualmente problematico per i sionisti liberali del Meretz e del partito Laburista è come contrastare la sistematica discriminazione nei confronti dei cittadini palestinesi di Israele senza compromettere lo status ebraico dello Stato imposto per legge.

I fondamenti sionisti di Israele implicano privilegi per i cittadini ebrei rispetto a quelli palestinesi, dall’immigrazione ai diritti sulla terra e la separazione tra le due popolazioni negli ambiti sociali, dalla residenza all’istruzione.

Ma senza qualche forma di accordo con la minoranza palestinese è impossibile immaginare come il cosiddetto campo pacifista possa ottenere qualche successo elettorale, come previsto l’anno scorso dall’ex leader del Meretz Tamar Zandberg.

L’enigma è che sottrarre potere alla destra estremista e religiosa guidata da Netanyahu dipende da una quasi impossibile alleanza sia con la destra laica e militarista guidata da Gantz, sia con la Lista Unita.

Dato il razzismo anti-arabo dilagante nella società israeliana, nessuno crede davvero che una tale configurazione politica sia realizzabile. Questo è in parte il motivo per cui Netanyahu, gli estremisti religiosi e i coloni continuano a dettare l’agenda politica, mentre il “centro-sinistra” israeliano rimane a mani vuote.

Jonathan Cook ha vinto il Premio Speciale per il Giornalismo ‘Martha Gellhorn’.

I suoi ultimi libri sono: ‘Israel and the clash of civilization: Iraq, Iran and the plan to remake the Middle East’ [Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per ridefinire il Medio Oriente] (Pluto Press) e ‘Disappearing Palestine: Israel’s experiments in human despair’ [Palestina che scompare: esperimenti israeliani di disperazione umana] (Zed Books).

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Alla ricerca del “gene ebraico”

Sylvain Cypel

5 febbraio 2020 – Orient XXI

Il 5 febbraio Sylvain Cypel ha pubblicato “L’État d’Israël contre les Juifs” [Lo Stato di Israele contro gli ebrei, La Decouverte, 2020], un libro che studia l’evoluzione della società israeliana dopo due decenni. Presentiamo un’anticipazione tratta dal quarto capitolo, che riguarda “la ricerca del gene ebraico”. Quando il libro è stato scritto la Corte Suprema israeliana non aveva ancora confermato, come ha fatto lo scorso 24 gennaio, il diritto del grande rabbinato a ricorrere alla genetica per verificare l’ebraicità di una persona, cosa messa in discussione dal partito Israele Casa Nostra (estrema destra laica [che rappresenta soprattutto gli immigrati da territori dell’ex-Unione Sovietica, ndtr.]) e da alcune organizzazioni laiche.

Dietro a questa spinta per accogliere le tesi dei suprematisti bianchi, che in Israele resta limitata ai circoli colonialisti più attivi, si profila un fenomeno che è invece in forte espansione: l’idea di preservare la purezza razziale. Questa idea è evidentemente legata al desiderio profondo di stare tra noi, concepito come un vero e proprio ideale di vita. Il 9 febbraio 2016 Netanyahu ha così annunciato un “piano pluriennale per circondare Israele di recinzioni per la sicurezza.” Sapendo che questa idea avrebbe ricevuto un’accoglienza molto favorevole da parte dell’opinione pubblica, ha proseguito: “In fin dei conti lo Stato di Israele per come lo vedo io sarà totalmente recintato. Mi si dirà: insomma, cos’è che volete, proteggere la villa? La risposta è: sì. Circonderemo tutto lo Stato di Israele di barriere e recinzioni? La risposta è: sì. Nel contesto in cui viviamo, ci dobbiamo difendere di fronte a bestie selvagge.” La metafora della “villa nella giungla”, di un Israele unico Stato civilizzato circondato da animali selvatici, era già stata formulata dal primo ministro laburista di allora, Ehud Barak, dopo il fallimento dei negoziati di pace a Camp David nell’estate del 2000.

Sposare una norvegese?

Questa concezione è alla base del ripiegamento su se stessi che esclude la presenza dell’altro. Può portare a tendenze razzializzanti desunte da motivi diversi dal solo bisogno di sicurezza e che sono, per lo più, di ispirazione religiosa e ancor più derivano dall’intreccio tra misticismo e nazionalismo. Nella religione ebraica, per come viene praticata in Israele, dove un rabbinato molto tradizionalista si è visto concedere dai pubblici poteri la gestione di tutta la vita familiare (nascita, matrimonio, divorzio, morte, ecc.) e dove il matrimonio civile è legalmente sconosciuto, i “matrimoni misti”, cioè le unioni tra ebrei e non ebrei, sono impossibili.

Questo rifiuto, inizialmente di carattere teologico, spesso va ad aggiungersi a espressioni più o meno accentuate di razzismo. Così, quando nel gennaio 2014 venne resa pubblica la relazione che Yair Netanyahu, figlio del primo ministro, aveva con Sandra Likanger, una studentessa norvegese, la rivelazione provocò immediatamente le reazioni estreme dei sostenitori della purezza ebraica. “Qualunque ebreo che intenda conservare le proprie radici vuole vedere il proprio figlio sposato a un’ebrea. In quanto primo ministro di Israele e del popolo ebraico (Benjamin Netanyahu) deve dar prova di responsabilità nazionale difendendo a casa propria i valori che rappresenta,” dichiarò al Jerusalem Post Nissim Ze’ev, deputato del partito ultraortodosso Shas. Questa relazione provocò problemi persino all’interno del Likud [partito di destra di Netanyahu, ndtr.]. Molti ricordarono che se, dio non voglia, il figlio del primo ministro avesse avuto dei bambini con quella norvegese, essi non sarebbero stati ebrei, dato che l’ebraicità viene trasmessa per via materna, almeno per quelli, purtroppo numerosi, che credono a queste fesserie biologico-culturali. Sarebbe stato un tradimento della razza, il dramma finale. Cosa si sarebbe detto della Norvegia se le sue autorità cristiane e i suoi parlamentari si fossero lamentati della storia sentimentale del figlio del primo ministro con una studentessa ebrea? Che sono razzisti, no?

In ogni caso non sposare un arabo

Ovviamente la questione si mette male quando un ebreo o un’ebrea intendono sposare un coniuge arabo. Il fatto che si tratti di un arabo contribuisce in Israele a rendere ancora più grave il tradimento della razza. Quando nel 2018 l’attore e cantante israeliano Tsahi Halevi ha annunciato che, dopo quattro anni di vita in comune, avrebbe celebrato il suo fittizio (in quanto proibito dalla legge) “matrimonio” con la giornalista e presentatrice della televisione Lucy Aharish, una palestinese di Israele musulmana, l’indignazione è stata molto maggiore. Il ministro degli Interni dell’epoca, Arye Dery, si è lanciato in un avvertimento. Ha dichiarato alla radio militare: “Questo matrimonio non è una buona cosa. I vostri figli avranno dei problemi riguardo al loro status”, poi ha suggerito alla signorina di convertirsi all’ebraismo. Oren Hazan, deputato del Likud, ha chiesto che lo Stato non riconoscesse le unioni tra membri di comunità diverse. “Lucy, niente di personale, ma dovresti sapere che Tsahi è mio fratello, il popolo ebraico è composto dai miei fratelli. Abbasso l’assimilazione!” ha twittato prima di accusare Halevi di “islamizzarsi”.

Altri, come il deputato Yair Lapid [leader di un partito di centro, ndtr.] o il ministro religioso Naftali Bennett [di un partito di estrema destra dei coloni, ndtr.] hanno espresso anche loro il rifiuto di questa unione. Il deputato palestinese alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr] Salman Masalha ha denunciato il “razzismo” veicolato da questi commenti e il disgusto che gli provocavano. Ha ricordato a tutti questi difensori della purezza ebraica che nei Paesi musulmani vige il divieto totale alle donne di sposare un non–musulmano e che, se ai maschi viene data l’autorizzazione, la cosa è di fatto vietata. “I Dery, Lapid e Bennett”, ha concluso, “non sono diversi” dai loro equivalenti nei Paesi musulmani.

Resta il fatto che la salvaguardia della purezza ebraica non è una questione senza conseguenze. La manifestazione più inaudita di questa ideologia nello Stato di Israele per come è diventato è l’emergere di una scuola scientifica che intende fare della “genetica ebraica” l’alfa e l’omega della giustificazione del sionismo, cioè del “diritto storico” degli ebrei a tornare alla propria terra ancestrale e del carattere unico, nel senso di eccezionale, di eletto, di questa nazione. Il 13 gennaio 2014 si tenne a Tel Aviv un simposio accademico sul tema “Ebrei e razza: genetica, storia e cultura”. I docenti universitari discussero parecchio, alcuni sostenendo l’esistenza di una “razza” ebraica, altri mostrandosi di parere radicalmente contrario. Ma anche solo il titolo degli interventi provoca un forte malessere: “Le razze hanno una storia?”, “Razza ebraica o razze ebraiche?”, “La genetica può decidere chi è ebreo?”, ecc.

L’ebraicità può essere individuata con l’analisi genetica”

Si resta un po’ sconcertati. Certo, tra gli anglosassoni, che influenzano tutta l’università israeliana, il termine “razza” ha un doppio significato: senza mettere in dubbio l’unicità della razza umana, serve anche ad indicare i gruppi umani, soprattutto in funzione del colore della loro pelle, non associarvi necessariamente una dimensione razzista. Detto ciò, che numerosi conferenzieri durante questo colloquio abbiano utilizzato l’espressione “identità razziale ebraica” ha fatto rizzare i capelli in testa a molti altri. Alla confluenza tra biologia, demografia e geografia, gli specialisti della “genetica delle popolazioni” sono l’avanguardia di questa moda. E in Israele i loro collegamenti sono sempre più attivi. Esistono istituzioni accademiche, in Israele e negli Stati Uniti, che ormai si dedicano alla ricerca del “gene ebraico”, cioè di una caratteristica genetica che non apparterrebbe che agli ebrei e che intenderebbero portare alla luce.

Per esempio, il professore americano Harry Ostrer, che dirige un laboratorio di genetica nella facoltà di medicina dell’università ebraica privata Yeshiva, a New York, nel 2012 fece scalpore con la pubblicazione di un’opera intitolata “Patrimonio. Una storia genetica del popolo ebraico”. Ostrer vi evoca quello che chiama un “fondamento genetico dell’ebraicità”. I titoli dei sei capitoli sono espliciti: il primo è “Avere l’aria da ebreo”, il secondo “Fondatori”, il terzo “Genealogie”, il quarto “Tribù”, il quinto “Caratteri” e l’ultimo inevitabilmente s’intitola “Identità”. Il libro provocò sulla New York Review of Books [importante rivista bisettimanale USA con articoli su letteratura, cultura e attualità, ndtr.] la critica di un celebre genetista di Harvard, Richard Lewontin, che lo respinse in toto.

Tuttavia il professor Ostrer ha numerosi emuli in Israele in certi circoli universitari, come alla clinica universitaria dell’ospedale Rambam di Haifa. Nel 2014 per fare un’inchiesta vi incontrai il genetista Gil Atzmon. “È dimostrato che l’ebraicità può essere identificata dall’analisi genetica, per cui la nozione di popolo ebraico è convincente”, dichiarò (come se la storia da sola non fosse sufficiente). Prudente, respingeva l’idea di “un gene ebraico distintivo”, ma, aggiunse, “ciò non significa che la scienza non lo troverà, la ricerca avanza.” In compenso, secondo lui, “i geni permettono di ricostruire in modo sempre più netto la storia ininterrotta di un popolo ebraico legato ai suoi geni e a un fenotipo (l’insieme dei caratteri comuni)”. E quella popolazione in 25 secoli sarebbe rimasta “geneticamente” omogenea?

Il ricercatore conviene che ci furono importanti conversioni all’ebraismo, soprattutto tra il I e il IV secolo, e anche in seguito, nel bacino del Mediterraneo. “Ma,” affermò, “non sono state abbastanza significative da bloccare la tendenza.” Gli ebrei, per ragioni dovute alle persecuzioni e alla loro conseguente propensione a rinchiudersi per proteggersi, avrebbero pertanto conservato una “identità genetica”.

Nazionalisti che avanzano mascherati”

Sarebbe riduttivo dire che queste tesi sollevano indignazione, in primo luogo tra molti genetisti e ancor di più tra gli storici. Questi ultimi, che siano ultranazionalisti o progressisti, si sono opposti tutti quasi senza eccezione a queste “costruzioni”. La ricercatrice israeliana Eva Jablonka, co-autrice di “L’evoluzione in quattro dimensioni”, adepta appassionata dell’uso della genetica nelle scienze sociali, rifiuta tuttavia radicalmente l’uso che ne fanno i ricercatori del “gene ebraico”, “nazionalisti che avanzano mascherati”, dice, e che non cercano altro che dimostrare quello a cui credono: l’esistenza di un popolo trimillenario rimasto inalterato, quindi unico. Un’assurdità, continua, altrettanto insulsa che credere che i Galli siano gli antenati dei francesi di oggi. Ma un’assurdità che trova sempre più adepti in Israele, soprattutto da parte dei mistici ultranazionalisti.

L’ideologia di Hitler era corretta al 100%”

Così il rabbinato israeliano ha iniziato a fare appello alla genetica per testare l’ebraicità delle persone giudicate “dubbie”. In questo modo, ha notato l’analista israeliano Noah Slepkov, “spingendo (le persone) a fare test genetici, il rabbinato israeliano cade nella trappola della scienza delle razze del XIX secolo.”

Si dirà, e con ragione, che queste tendenze inquietanti, queste tesi sull’ideologia “corretta al 100% di Hitler” – in precedenza, nello stesso capitolo, il libro cita le affermazioni del rabbino Giora Redel, responsabile della scuola militare religiosa Bnei David, che nell’aprile 2019 ha dichiarato in pubblico che “l’ideologia di Hitler era corretta al 100%, ma diretta contro la parte sbagliata”, in altri termini Hitler avrebbe sbagliato bersaglio, prendendosela con gli ebrei invece che con i veri demoni, gli arabi o i musulmani -, queste tesi sulla “genetica ebraica”, sul “popolo-razza”, rimangono marginali in Israele. Ma si sbaglierebbe a non prendere sul serio la loro costante espansione.

Nel 1967, quando Israele si impadronì del Muro del Pianto, il grande rabbino dell’esercito, Shlomo Goren, in un momento di fervore mistico chiese immediatamente di far saltare in aria la Cupola della Roccia, un luogo santo musulmano, per ricostruire al suo posto il Terzo Tempio. La classe politica israeliana lo prese per quello che era: un pazzo pericoloso.

Moshe Dayan, il vincitore della guerra (era ministro della Difesa) replicò: “Ma chi ha bisogno di un Vaticano ebraico?” Cinquantatré anni dopo i sostenitori della “ricostruzione del Tempio” non sono più degli emarginati da deridere, hanno deputati, associazioni generosamente finanziate, propagandisti ascoltati. El-Ad, un’organizzazione che fa parte di questo movimento, è stata ufficialmente incaricata dal governo israeliano di fare degli scavi archeologici nei pressi della Spianata delle Moschee. Si avrebbe torto a ignorare il peso di questa estrema destra, che sia laica o ancor più mistica, nell’evoluzione di Israele. Le sue idee progrediscono costantemente. È lei che sostiene in primo luogo tutte queste tesi razziali e razziste. Se domani dovesse arrivare al potere – a cui è già fortemente legata senza detenerne ancora le principali leve – è tutto il Medio Oriente che potrebbe ritrovarsi trascinato verso una deflagrazione letteralmente vertiginosa che fin d’ora fa gelare il sangue.

Sylvain Cypel è stato membro della redazione di Le Monde [giornale francese di centro-sinistra, ndtr.] e in precedenza direttore della redazione del Courrier intenational [settimanale francese simile a Internazionale in Italia, ndtr.]. È autore di “Les emmurés. La société israélienne dans l’impasse” [Chiusi dietro un muro. La società israeliana in una situazione senza uscita] La Découverte, 2006.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Palestinesi israeliani respingono le scuse di Ehud Barak

Maureen Clare Murphy

24 July 2019 – Electronic Intifada

Questa settimana l’associazione per i diritti umani Adalah ha affermato che le scuse di Ehud Barak per il suo ruolo nel massacro di manifestanti palestinesi nell’ottobre 2000 “non valgono niente.”

Barak era primo ministro di Israele quando 13 dimostranti palestinesi disarmati, tutti cittadini di Israele tranne un uomo di Gaza, vennero uccisi dalla polizia nella prima settimana di quel mese.

L’ex-primo ministro “ordinò alla polizia israeliana di utilizzare mezzi letali –compresi cecchini” contro i manifestanti, afferma Adalah.

Le sue scuse “non hanno alcun valore finché non verrà presentato un rinvio a giudizio contro i poliziotti israeliani responsabili della strage dell’ottobre 2000.”

Il gesto, aggiunge Adalah, è vuoto in quanto “la violenza della polizia contro i cittadini palestinesi di Israele continua fino ai nostri giorni.”

Provocazione e proteste

Le proteste dell’ottobre 2000 vennero provocate dalla visita nel complesso della moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme dell’allora leader dell’opposizione Ariel Sharon, accompagnato da un ingente contingente di poliziotti.

La provocazione di Sharon e la letale repressione delle proteste fu il catalizzatore della seconda Intifada.

“Mi prendo ogni responsabilità per quanto successe durante il mio incarico come primo ministro, compresi gli avvenimenti del 2000, quando vennero uccisi cittadini arabi di Israele e un palestinese di Gaza,” ha detto martedì Barak alla radio pubblica israeliana.

“Non c’è ragion d’essere per l’uccisione di manifestanti da parte della sicurezza e delle forze di polizia dello Stato di Israele, il loro Stato. Esprimo il mio rincrescimento alle famiglie (delle persone uccise) e alla comunità araba,” ha aggiunto.

Attualmente Barak guida il partito “Israele Democratico” e sta facendo di tutto per garantirsi un altro mandato come primo ministro.

In settembre si terranno nuove elezioni dopo che l’attuale primo ministro Benjamin Netanyahu non è riuscito a formare un nuovo governo dopo il voto di aprile.

Barak è stato incalzato da notizie riguardanti la sua collaborazione in affari e il suo rapporto personale con Jeffrey Epstein, il finanziere americano condannato per reati sessuali che deve affrontare imputazioni per traffico sessuale di minori dai 14 anni in su.

Non vogliamo essere una foglia di fico”

Le scuse di Barak sono state viste come un tentativo di corteggiare il voto dei palestinesi cittadini di Israele. Il suo ruolo nelle uccisioni dell’ottobre 2000 si è dimostrato un ostacolo per la formazione di una coalizione con il partito della sinistra sionista Meretz. Esawi Frej, un deputato del Meretz nel parlamento israeliano e palestinese cittadino dello Stato, ha detto che “gli arabi non vogliono essere una foglia di fico e un salvagente. Vogliamo essere partner.” Frej ha anche citato l’incarico di Barak come ministro della Difesa durante la presidenza di Netanyahu. Era titolare di quella carica durante l’inizio dell’offensiva israeliana contro Gaza nel dicembre 2008 [l’operazione “Piombo Fuso”, ndtr.].

Più di 1.400 palestinesi, compresi circa 1.200 civili, vennero uccisi durante l’offensiva di tre settimane.

“Se ci alleassimo con lui, mi dovrei difendere dagli sputi nelle strade arabe,” ha aggiunto Frej.

I padri di due palestinesi uccisi nell’ottobre 2000 dalla polizia in seguito agli ordini di Barak hanno rifiutato le scuse.

“Per noi è stato lui che ha ucciso i nostri figli e ha dato gli ordini, e lui, come altri ufficiali e comandanti, deve andare in prigione,” ha detto al quotidiano di Tel Aviv Haaretz Ibrahim Siyam, il cui figlio Ahmad era tra le vittime.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Il dibattito fra destra e sinistra in Israele è sulla velocità della colonizzazione, non su come concluderla

Jonathan Ofir

13 dicembre 2018 Mondoweiss

Bibi, è tempo di divorziare dai palestinesi” dice uno striscione dell’organizzazione dei sionisti liberali Comandanti per la Sicurezza di Israele, ora anche nella loro home page sul web, dopo essere stato sui manifesti di tutta Israele.

L’organizzazione, sostenuta dall’ex primo ministro Ehud Barak, ha promosso una campagna simile l’anno scorso, con cartelloni pubblicitari in arabo con i colori palestinesi e con dei palestinesi che dicono “saremo presto la maggioranza”.

Manifestano un gusto davvero particolare, o piuttosto la mancanza di esso, per essere gli espedienti che dovrebbero avere presa sui cervelli nazionalisti israeliani – ed è molto importante sottolineare che questo non è il sionismo di destra, questi sono la sinistra e il centro.

L’organizzazione, che sostiene la “separazione” unilaterale dai palestinesi, ha iniziato la recente campagna la scorsa settimana con video trasmessi da un canale Youtube, “Israele israeliano”, presumibilmente un’etichetta privata, intesa a sottolineare una tendenza sionista ultra-nazionalista. Il logo presenta la parodia di una foto di matrimonio, strappata a metà. La serie di video contiene clip (ebraiche) di mezzo minuto di persone che si suppone parlino delle loro vite private. Ad esempio uno recente (di ieri), riprende un uomo intorno ai 30 anni, che dice:

“Sto cercando di ricordare quando è stata l’ultima volta che siamo stati bene insieme. Cerco, cerco, cerco e non ci riesco. Penso al nostro futuro e vedo solo nero, e sono stanco di tutto questo … stanco! Questa non è la vita che voglio. Non voglio la mediazione, non voglio consulenze, non c’è nessuno a cui parlare! Voglio la libertà, voglio vivere, e non voglio più aspettare – voglio divorziare “.

Poi appare una diapositiva che dice “è ora di divorziare e separarsi da milioni di palestinesi”, rivelando il nome dell’organizzazione (Comandanti per la Sicurezza di Israele) e invitando a visitare il sito web.

Tutti i video seguono fondamentalmente questo schema, con l’ultima frase “Voglio divorziare” e la promozione della campagna.

La visione – Bantustan, con un appaltatore

In una recente intervista con il conduttore televisivo Avri Gilad, uno dei leader dell’organizzazione, Uzi Arad, ex capo dell’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale, ha esposto la visione del gruppo e ha detto che sperano che la campagna possa “risvegliare la consapevolezza” delle persone. L’idea è che il concetto di uno Stato “ebraico e democratico” sia minacciato – una minaccia demografica. L’intera discussione è centrata sull’ipotesi di annessione dell’area C della Cisgiordania, che comprende oltre il 60% dell’area e circonda 165 enclave palestinesi in un arcipelago bantustanizzato. La zona C sotto pieno controllo israeliano è un progetto degli accordi di Oslo della metà degli anni ’90. I sostenitori principali della sua immediata annessione sono persone come il ministro della Giustizia Ayelet Shaked e il ministro dell’Istruzione Naftali Bennett (entrambi ebrei), a destra di Netanyahu. Queste aree ospitavano circa 300.000 palestinesi in un conteggio ONU del 2014, probabilmente oggi vicini a 350.000. Shaked dice che Israele può permettersi di “assorbire” questa popolazione.

Nell’intervista con Gilad, Arad afferma che l’annessione dell’area C avrà implicazioni disastrose. Fa menzione di diverse questioni che ritiene centrali in questo “divorzio”, e del perché l’annessione danneggerebbe Israele:

1) Il “tasso di natalità” dei palestinesi (2:58).

2) Le “tensioni continue”, perché “la parte palestinese ‘si agiterà’ in seguito all’annessione”.

Gilad risolve l’ultimo argomento suggerendo che forse, quando quei palestinesi avranno la cittadinanza israeliana, si “calmeranno”. Arad risponde che “allora Israele sarà meno ebreo”.

Questo è ciò che circola. È una preoccupazione centrale dei sionisti: il massimo di territorio, ma con il minimo di palestinesi – proprio come dice Yair Lapid, un parlamentare “liberale di centro”.

Quindi Gilad presenta scenari spaventosi, confutando la presunta “soluzione a due Stati”:

“Qual è l’opzione? Dare loro uno Stato in quella zona, nelle loro zone, e allora le masse vi si precipitano, tutti i possibili profughi palestinesi e simili, Hamas prende il sopravvento, i razzi sull’aeroporto – questa è più o meno la sceneggiatura, no?”

Contro simili teorie da giorno del giudizio, a cui sono molto inclini Gilad e i sionisti in generale, Arad sembra disperatamente in cerca di un confortante messaggio di “sicurezza”. Così assicura:

“È chiaro che Israele ha bisogno di mantenere un controllo di sicurezza su tutta l’area, e una situazione come quella che suggerite non si può realizzare”.

Arad sta suggerendo che a causa di questa “separazione”, l’Autorità Nazionale Palestinese “fiorirà e prospererà”. In altre parole, la Bantustanizzazione continuerà, con un appaltatore.

“Separare il bianco dal tuorlo”

“Separazione” è ora una parola chiave per i sionisti liberali. Recentemente, il leader dell’opposizione centrista Tzipi Livni ha paragonato la separazione tra israeliani e palestinesi alla “separazione tra il tuorlo e il bianco” di un uovo, per fare “una buona torta”.

Le persone che fanno parte del cartello di Comandanti per la Sicurezza di Israele hanno sostenuto questa “separazione” anche per “salvare la Gerusalemme ebraica”. Due anni fa, in un video islamofobico e spaventosamente razzista, il Movimento per la Salvezza di Gerusalemme Ebraica ha suggerito uno scenario in cui i residenti palestinesi di Gerusalemme est vanno a votare in massa ed eleggono un sindaco palestinese. Questo è essenzialmente lo stesso allarme di Netanyahu, “gli arabi stanno andando a votare in massa”, alla vigilia delle ultime elezioni, però è pronunciato da persone che generalmente si identificano come il “campo della pace”. Il concetto della clip è che i terroristi arabi useranno la democrazia israeliana come un’arma. La soluzione è quindi di isolare i 28 villaggi palestinesi della Cisgiordania che Israele ha annesso come parte di Gerusalemme est (espandendo i confini municipali di dieci volte dal 1967), mantenendo però tutti gli insediamenti ebraici nell’area, al fine di migliorare la “giudaizzazione” della Grande Gerusalemme. Il gruppo comprende Shaul Arieli, uno dei principali negoziatori dei Colloqui di Ginevra, e Ami Ayalon, ex capo dello Shin Bet [servizi segreti israeliani, ndtr.] e parlamentare del Partito Laburista che con Sari Nusseibeh ha lanciato nel 2003 un’iniziativa di pace a due stati. Entrambi sono stati importanti nella costituzione di Comandanti per la Sicurezza di Israele.

In altre parole, più o meno tutto ciò che viene dai sionisti, di destra e di sinistra, riguarda sempre l’apartheid, ed è sempre spaventosamente razzista.

Il “campo della pace” sionista non può catturare l’attenzione di coloro che stanno nel loro gruppo o più a destra, con altro mezzo che la volgarità, per “risvegliare la consapevolezza” – la consapevolezza sionista, che una massa di arabi stia minacciando lo Stato ebraico. Il sionismo non ha una soluzione per questo, perché i suoi aderenti non riescono a trovare in se stessi nemmeno la capacità di concepire una separazione dal sionismo. I discorsi sul “divorzio dai palestinesi” sono ipocriti fin dall’inizio, tanto per cominciare perché non è che Israele li abbia “sposati”. Allo stesso modo, la soluzione del “divorzio” non è una vera e propria separazione in cui ognuno va per la propria strada, ma una separazione in cui Israele continua il controllo coloniale e la sottomissione dei palestinesi “divorziati”. L’intrinseco squilibrio razzista non viene mai preso in considerazione.

La “piaga” dei matrimoni misti

Si potrebbe anche avere l’impressione che la campagna sul “divorzio” sia solo un eufemismo per un problema schiettamente nazionale e impersonale. Eppure echeggia una generale vena isolazionista sionista che entra fin nell’intimo della vita privata degli individui, e questo da sinistra e dal centro del sionismo.

All’inizio di quest’anno, l’ex leader della sinistra e dell’opposizione, Isaac Herzog, ha ammonito che i matrimoni misti, specialmente negli Stati Uniti, sono una “piaga”. Come reazione a un recente matrimonio tra ebrei e musulmani famosi, Tzahi Halevy e Lucy Aharish, il menzionato “centrista-liberale” Yair Lapid si è lamentato solo del fatto che le condanne del matrimonio (dei principali ministri israeliani) non fossero state riservate a una settimana dopo il matrimonio; nel 2014, Lapid ha risposto ad un altro presunto “matrimonio misto” (supposto, perché la donna si era convertita all’Islam e l’uomo era musulmano), dicendo:

“Mi darebbe fastidio se mio figlio sposasse un non ebreo … Mi darebbe molto fastidio.”

Dunque c’è qui un aspetto personale molto concreto, di isolazionismo fondamentalista, molto sionista. I “pacifisti” usano la nozione privata di “divorzio” come metafora, perché sanno che “risveglierà la consapevolezza” degli israeliani (leggi = in maggioranza ebrei), visto che li immaginano come fossero, Dio non voglia, sposati ai palestinesi (leggi = i non ebrei).

In questo atteggiamento mentale i palestinesi sono considerati con intrinseca e istituzionale ripugnanza da parte dello Stato colonialista di Israele. E nessuno di quei sionisti illuminati si preoccupa davvero di come questo rappresenti i palestinesi, perché tutto è per il sacro ideale del sionismo: la “separazione”. Perché abbiamo bisogno di essere una nazione a sé, nella “nostra terra”, come dice l’inno nazionale.

Il dibattito sulla velocità dell’ espansione

Alla fine, non c’è proprio niente di nuovo. Tutto ciò è molto in stile Barak, come quando nel 2000 Ehud Barak fece una “offerta (apparentemente) generosa” ai palestinesi, che era poi quella dei bantustan. Storicamente le lotte tra il sionismo di destra e quello di sinistra sono sempre state non tanto su uno Stato palestinese accanto a Israele, ma sulla velocità e il ritmo con cui l’espansionismo debba procedere. Un fattore essenziale è sempre la demografia ebraica, esistenzialmente importante per i sionisti, perché l’ambita e presunta natura “ebraica e democratica” dello Stato avrebbe potuto essere raggiunta solo attraverso l’espulsione e le varie forme di apartheid. Anche il “processo di pace” ha avuto un ruolo fondamentale. Come Ben White riassume nel suo recente articolo su The Arab Weekly:

“Perciò, mentre il decennio di potere del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha visto il consolidamento di uno Stato di fatto unico tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano, sono stati gli accordi di Oslo e la visione di Rabin sulla separazione a gettare le basi per l’ attuale status quo di apartheid ”.

Mentre Comandanti per la Sicurezza di Israele sta ammonendo sulle terribili conseguenze dell’annessione dell’Area C, Israele è impegnato in una lenta e continua pulizia etnica di quell’area. B’tselem, l’ONG israeliana che vigila sui diritti umani, ha una pagina dedicata permanente, con un blog dal vivo chiamato “affrontare l’espulsione”:

“Migliaia di persone – residenti in decine di comunità palestinesi situate nell’Area C, in Cisgiordania – si trovano ad affrontare un’imminente espulsione da parte delle autorità israeliane in base a un mucchio di pretesti”.

E’ così che Israele si impegna attivamente a “risolvere il problema demografico”. Mentre il centrosinistra dice che l’annessione non è una soluzione, non è così per quel che riguarda la destra e la logica sionista nel suo complesso. Anche le “non soluzioni” dei sionisti fanno parte della strategia sionista. Sulla scia della guerra del 1967, il ministro della Difesa Moshe Dayan propose di dire ai palestinesi:

“Non abbiamo una soluzione, continuerete a vivere come cani, chi vuole se ne andrà, e vediamo come funziona questa procedura”.

Questo è essenzialmente il modo di fare di Israele, che sposta i palestinesi, li espropria e crea insediamenti come “dati di fatto sul campo” per “giudaizzare” i territori in cui si espande. Tutto questo è “Sionismo 101” [programma di brevi video documentari che spiegano il sionismo, ndtr.]. La preoccupazione “liberale-sionista” riguarda sempre la velocità a cui si dovrebbe procedere, e quali soluzioni, o non soluzioni, siano accettabili in un dato momento.

Ecco perché ho divorziato dal sionismo.

Mille grazie a Ofer Neiman

Jonathan Ofir è un musicista, conduttore e blogger / scrittore israeliano che vive in Danimarca.

(Traduzione di Luciana Galliano)