Barcellona interrompe i rapporti con Israele e sospende il gemellaggio con la città di Tel Aviv

Marc Rovira

8 febbraio 2023 – El País

Ada Colau invia al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu una lettera in cui lo accusa di imporre al popolo palestinese un sistema di apartheid

Barcellona rompe i rapporti con Israele. Il gesto vuol essere una ritorsione contro l’azione del suo governo, non un rimprovero contro “un popolo, una comunità, né contro una religione”. Così si è giustificata la sindaca Ada Colau in una audizione che lei stessa ha presentato come “eccezionale”. L’annuncio ha provocato reazioni a catena e per il momento il PSC [Partito Socialista Catalano], partito alleato dei comunes [membri del gruppo politico della Colau Barcelona en Comú, ndt.] nel governo municipale, ha definito un “gravissimo errore” la decisione “unilaterale” della sindaca. L’annuncio intende rappresentare una protesta contro il regime di dominazione ai danni della Palestina e il consiglio comunale di Barcellona ha deciso di troncare ogni rapporto con lo Stato di Israele.

È stato sospeso anche il gemellaggio che da 25 anni ha stabilito un rapporto fraterno tra Barcellona e la città di Tel Aviv. “Speriamo che sia provvisorio”, ha cercato di smussare le polemiche Colau, mentre lanciava una dura critica contro il governo guidato da Benjamin Netanyahu: “Questa situazione di apartheid è intollerabile.”

La sindaca ha affermato che la decisione – “complicata e difficile”, ha detto – è appoggiata da più di un centinaio di organizzazioni e dalle firme di 4.000 cittadini. Ha informato di aver mandato al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu una lettera in cui gli espone i motivi dell’iniziativa presa dal consiglio comunale. Il contenuto della lettera allude alla “violenza che subisce il popolo palestinese” e gli rimprovera il fatto che le vessazioni durano “da oltre 70 anni”.

Laia Bonet, vice-sindaca del PSC, ha evidenziato il disaccordo dei socialisti riguardo alla risoluzione ed ha criticato duramente la sindaca. “Quello che è successo oggi è molto grave,” ha detto, ed ha avvertito che avrà l’effetto indesiderato di “indebolire il ruolo di Barcellona nel mondo.” Il gruppo municipale del PSC nel Comune di Barcellona presenterà al consiglio comunale di questo mese di febbraio una proposta per ristabilire i rapporti della capitale catalana con Tel Aviv.

Da parte sua il candidato a sindaco di Junts [per Catalunya, partito indipendentista di centro destra, all’opposizione, ndt.], Xavier Trias, ha definito un “grave errore” questa sospensione temporanea dei rapporti. In una nota sul suo account di Twitter ha sostenuto che è “uno dei motivi, tra molti altri, per cui è necessario un cambiamento nel Comune” ed ha aggiunto che “Barcellona deve lavorare per la concordia, senza settarismo, evitando lo scontro, puntando al dialogo e alla comprensione.” L’Associazione Catalana degli Amici di Israele ha affermato che Colau ha preso la decisione “per decreto e senza passare per il consiglio comunale” e ha definito un “atto xenofobo” il rifiuto nei confronti di Israele. Lior Haiat, portavoce del ministero degli Esteri di Israele, ha reagito affermando che Barcellona ha preso “una decisione sventurata” che alimenta l’antisemitismo.

Colau, che aspira a ottenere un terzo mandato nelle elezioni municipali di maggio, ha censurato Israele perché pratica da decenni “violazioni sistematiche dei diritti umani” senza rispettare le risoluzioni e i dettami delle Nazioni Unite. In varie occasioni la sindaca ha utilizzato il termine apartheid per denunciare la pressione israeliana sui palestinesi ed ha giustificato il rifiuto di Barcellona con la tradizione di solidarietà della città “con i popoli oppressi”. In questo senso ha detto di sperare che esso “inviti alla riflessione e all’azione”. Nella lettera inviata a Netanyahu menziona la volontà di dare un esempio: “La storia ci ha insegnato che le città devono prendere posizione e avere un ruolo attivo nella costruzione della pace e nella difesa dei diritti umani.”

Alla fine dello scorso anno David Bondia, il Síndic de Greuges di Barcellona, il difensore del popolo della città, aveva sollecitato il Comune a revocare l’accordo di “amicizia e cooperazione” tra la capitale catalana e le città di Gaza e Tel Aviv sottoscritto nel 1998. Dopo aver studiato quell’accordo aveva stabilito che il gemellaggio ha perso validità. “Non ha tenuto in considerazione il cambiamento delle circostanze che si è prodotto dopo la sua stipula, non garantisce l’impegno nei confronti dei diritti umani e non favorisce relazioni internazionali che promuovano la giustizia globale,” aveva affermato.

Secondo quanto si evince dal sito del Comune, da gennaio del 2000 Barcellona continua ad avere un “protocollo di amicizia e cooperazione” con la città iraniana di Isfahan. “L’obiettivo del gemellaggio è promuovere la cooperazione reciproca tra le due città,” evidenzia il consiglio di Barcellona. Nel marzo dello scorso anno il Comune ha annunciato che, come reazione contro l’invasione russa dell’Ucraina, sono stati sospesi i rapporti con la città di San Pietroburgo e tutte le attività che si potrebbero realizzare nel contesto dell’accordo di gemellaggio che dal 1985 unisce la capitale catalana alla città russa.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




La cooperante Juana Ruiz esce dal carcere dopo 300 giorni di detenzione in Israele

Juan Carlos Sanz

07 febbraio 2022 – El País

Il peggio è stato all’inizio, stavo per arrendermi”, afferma l’operatrice umanitaria spagnola dopo essere stata liberata a un posto di blocco in Cisgiordania

Jenin (Cisgiordania) – “In carcere il peggio è stato all’inizio, mi sono sentita vacillare e stavo per arrendermi”. Così ha detto, con le lacrime agli occhi per l’emozione, la cooperante spagnola Juana Ruiz Sánchez, di 63 anni, una volta in territorio palestinese dopo essere uscita lo scorso lunedì al pomeriggio dalla prigione di Damon ad Haifa, nel nord di Israele. “Sono stati momenti orribili,” ha ricordato così il suo “doloroso” periodo di detenzione nelle carceri israeliane.

Era stata arrestata in casa sua a Beit Sahur (nei pressi di Betlemme) più di 300 giorni fa. L’operatrice umanitaria ha accolto di buonumore i giornalisti che l’aspettavano al posto di blocco militare israeliano di Yamala, a Jenin (Cisgiordania), dove, dopo la sua scarcerazione, è stata accolta da un diplomatico del Consolato Generale di Spagna a Gerusalemme.

Si è subito dimostrata contenta della libertà appena riconquistata. Poche ore prima la procura israeliana aveva deciso di non presentare ricorso contro la decisione di concederle la libertà condizionale adottata la settimana scorsa da una commissione penitenziaria a Nazareth (nel nord).

In seguito l’operatrice umanitaria spagnola ha potuto ritrovare suo marito, il palestinese Elías Rishmawi, e i suoi figli Maria e George in un ristorante della zona di Jenin. “Adesso voglio solo stare con loro,” ha affermato dopo essere stata definitivamente liberata al muro di separazione tra Israele e la Palestina.

Sicuramente ci sarà molto da raccontare, ma ora l’unica cosa di cui ho bisogno è un po’ di riposo, di riprendermi moralmente e fisicamente e stare di nuovo con la mia famiglia,” ha dichiarato ai mass media. Tra qualche tempo andrà in Spagna per cercare di cambiare aria.

Ha spiegato di essere stata quasi sul punto di crollare, finché non ha potuto trovarsi nella stessa cella con altre detenute palestinesi, dopo essere rimasta varie settimane in isolamento. Ricorda l’aiuto che ha ricevuto dalle sue compagne di reclusione e le visite di rappresentanti consolari come momenti fondamentali per riuscire a non perdersi d’animo durante tutti questi mesi dietro le sbarre.

Dopo aver passato quasi 10 mesi in prigione e aver dovuto accettare una condanna per evitare una lunga permanenza in carcere in attesa di essere giudicata, Juana Ruiz ha insistito sulla sua innocenza: “Ho lavorato solo per la salute dei palestinesi e le autorità israeliane lo sanno,” ha affermato dopo essere stata liberata. Ora la cooperante dovrà tornare a casa sua in Cisgiordania. “È stata un’esperienza fortissima e molto dolorosa,” ha confessato.

A casa mia, dove vivono persone che hanno più di 60 anni, sono arrivati 25 soldati alle 5 del mattino. L’occupazione è questo,” ha ricordato così il suo arresto, il 13 aprile dell’anno scorso.

In novembre davanti al tribunale militare israeliano di Ofer (Cisgiordania occupata) ha accettato una condanna a 13 mesi di carcere. La giustizia militare ha condannato Ruiz, che vive in Cisgiordania con suo marito palestinese da più di trent’anni, anche a una multa di 50.000 shekel (circa 14.000 euro) per i reati di “aver prestato servizio in un’ organizzazione illegale” e di “traffico di valuta in Cisgiordania”, all’interno dell’Ong sanitaria palestinese Comitato di Lavoro per la Salute, con la quale collabora.

Per accelerare il processo che l’avrebbe obbligata a passare molto tempo dietro le sbarre, Ruiz ha accettato di dichiararsi colpevole delle due accuse nel contesto di un accordo con la procura militare che ha cancellato altre tre gravi imputazioni per reati legati al terrorismo. Alla fine lo scorso dicembre un tribunale di Haifa ha ordinato il riesame della richiesta di scarcerazione dell’operatrice umanitaria perché aveva scontato due terzi della condanna, cosa che inizialmente era stata respinta dalla cosiddetta Giunta per la Libertà Condizionale di Nazareth.

Questa commissione carceraria, composta da un giudice, un’assistente sociale e uno psicologo, aveva stabilito per due voti contro uno che Ruiz avrebbe dovuto rimanere in carcere fino a metà maggio e scontare interamente la pena. Ora l’operatrice umanitaria dovrà rimanere nel territorio occupato sotto il controllo di Israele senza poter viaggiare all’estero almeno fino a che non avrà scontato tutto il tempo della sua condanna formale.

Dopo la sua liberazione il ministro degli Esteri spagnolo José Manuel Albares ha parlato per telefono con Juana Ruiz nel posto di controllo militare di Yamala, presso il muro di separazione. In seguito il capo della diplomazia spagnola ha ringraziato su Twitter il suo omologo israeliano, Yair Lapid, per la telefonata con cui gli ha confermato la notizia della liberazione della cooperante.

Nello stesso messaggio Albares ha anche sottolineato il lavoro dei funzionari consolari durante questi mesi per prestarle la loro assistenza. “Ho espresso il mio ringraziamento al popolo spagnolo,” ha raccontato Ruiz, visibilmente emozionata. “Ho detto al ministro che mi piacerebbe abbracciare tutti quanti quando andrò in Spagna,” ha spiegato.

Non so la ragione di tutto questo. È stata una prima parte (della strategia di Israele) per mettere fuorilegge tutte le organizzazioni dei diritti umani dei palestinesi,” ha concluso le sue dichiarazioni alla stampa con questa riflessione sulla sua detenzione e sul suo processo. “Io faccio parte di una di queste,” ha affermato con convinzione, “e non facciamo male a nessuno.”

Juan Carlos Sanz

Dal 2015 è il corrispondente per il Medio Oriente a Gerusalemme. Prima è stato capo di Internacional. In vent’anni come inviato di El País ha coperto conflitti nei Balcani, nel Maghreb, in Iraq e in Turchia, tra le altre destinazioni. Si è laureato in Diritto all’università di Saragozza ed ha conseguito un master in giornalismo presso l’Università Autonoma di Madrid.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




Un tribunale militare israeliano prolunga di un’altra settimana la detenzione senza accuse di una cooperante spagnola

Juan Carlos Sanz

Gerusalemme, 26 aprile 2021 – El País

L’esercito afferma che è indagata per i suoi rapporti con un gruppo terrorista, ma la giustizia militare non ha presentato un’accusa formale

Lunedì [26 aprile] il tribunale militare di Ofer, in Cisgiordania, ha prorogato di una settimana la detenzione senza imputazione di Juana Ruiz Sánchez, di 62 anni, operatrice umanitaria di una Ong palestinese, arrestata dall’esercito lo scorso 13 aprile nei pressi di Betlemme. Fonti diplomatiche e i portavoce della famiglia hanno informato che la cooperante spagnola rimarrà in carcere fino a domenica per essere ancora interrogata dallo Shin Bet, il servizio di intelligence interna di Israele. In Spagna i responsabili di una campagna per la sua liberazione affermano che è stata spostata varie volte da una prigione all’altra e sottoposta a interrogatori che durano anche sei ore, per cui temono per la sua salute.

Durante la sua quarta dichiarazione di fronte alla giustizia militare, competente sul territorio palestinese occupato, Juana Ruiz è comparsa da remoto dalla prigione ed è stata assistita dal consolato generale di Spagna a Gerusalemme, senza che sia stata ancora presentata contro di lei un’accusa formale.

Dal 1984 vive con il marito, il palestinese cristiano Elías Rismawi, nella località di Beit Sahur (nella provincia di Betlemme). Da trent’anni lavora come coordinatrice di progetti di cooperazione con la Spagna per l’Ong locale Comitati di Lavoro per la Salute, che offre servizi sanitari alla popolazione palestinese attraverso una rete di cliniche ed ospedali. Come abitante della Cisgiordania le è stata applicata la legge militare in vigore sotto l’occupazione dal 1967, che consente di prolungare fino a 75 giorni l’arresto di sospettati perché vengano interrogati.

In violazione delle convenzioni internazionali, le autorità spagnole non sono state informate ufficialmente da quelle israeliane della sua detenzione. Fonti diplomatiche al corrente del suo caso affermano che dopo due settimane di arresto Juana Ruiz non ha ancora potuto ricevere gli effetti personali che i familiari le vogliono consegnare. Un medico l’ha visitata in prigione dopo che si è lamentata di aver bisogno di medicine per curare una malattia. La settimana scorsa il suo avvocato, Ibrahim al Araj, ha dichiarato all’agenzia di stampa EFE [principale agenzia di stampa spagnola, ndtr.] che lei è molto preoccupata. “Juana non sta bene, sta soffrendo molto e ogni giorno (che compare) in tribunale piange in continuazione,” ha affermato il legale.

Il ministero degli Esteri israeliano si è rifiutato di parlare della sua situazione, benché un portavoce abbia informato che la cittadina spagnola è stata arrestata “per essere indagata in quanto sospettata di aver commesso reati contro la sicurezza per attività terroristiche e finanziamento del gruppo terrorista Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP).”

In un comunicato l’ufficio del portavoce dell’esercito ha precisato che Juana Rasmawi (il suo cognome da sposata) è stata arrestata per “aver fornito servizi a un’organizzazione illegale (non identificata) affiliata al FPLP, aver avuto contatti con un agente straniero (senza precisare di quale Paese) e per reati relativi al riciclaggio di denaro.” L’esercito ha anche affermato che la cooperante non si trova in detenzione amministrativa [cioè senza accusa né processo, ndtr.] o indefinita, ma in arresto per essere interrogata.

Il tribunale militare ritiene che esistano indizi significativi che la sospettata abbia fatto parte di una rete per il riciclaggio di denaro per finanziare il FPLP,” aggiunge il comunicato stampa dell’esercito, che evidenzia che “un rappresentante del consolato ha assistito alle udienze.” Alle fonti diplomatiche e ai portavoce della famiglia contattati a Gerusalemme non risulta che le siano state comunicate queste accuse in tribunale, dove le è stato detto che era indagata per un reato grave.

Fonti diplomatiche spagnole hanno precisato che né il ministero degli Esteri né l’esercito israeliano hanno informato il consolato generale di Spagna a Gerusalemme, da cui dipendono gli spagnoli residenti in Cisgiordania, della detenzione di Juana Ruiz il 13 aprile, né della sua prima comparizione di fronte al tribunale militare di Ofer il giorno dopo, il modo che potesse offrire alla cooperante assistenza consolare. Lo si è potuto fare nelle tre udienze successive di fronte alla giustizia militare.

Situazione preoccupante e dolorosa per la famiglia”

Un comunicato della campagna spagnola per la liberazione di Juana Ruiz, appoggiata da duemila firme e da 150 organizzazioni, afferma che “la sua situazione è sempre più preoccupante e dolorosa per la famiglia” e che per questo “la diplomazia spagnola e quella europea dovrebbero dare assoluta priorità al suo caso.”

Ha anche segnalato che è sottoposta a un trattamento che può danneggiare la sua salute fisica e psicologica. Ora si trova in un carcere israeliano nei pressi della Striscia di Gaza, dove è stata spostata dalla prigione di Hasharon (al nord di Tel Aviv). “Non è il primo trasferimento che subisce, con lunghi spostamenti in veicoli della polizia,” aggiunge la nota informativa. “Si tratta di un centro penitenziario maschile, con un reparto femminile in cui è detenuta con altre due prigioniere.”

Il suo arresto è avvenuto un mese dopo che l’esercito è entrato nella sede centrale dei Comitati di Lavoro per la Salute, a Ramallah, per sequestrare documenti e computer. Nella retata è stato arrestato il capo del dipartimento di contabilità della Ong, Taysir Abu Sharbak.

Mezzi d’informazione israeliani hanno affermato che nella lista per le elezioni legislative palestinesi del partito di sinistra FPLP, considerato da Israele, USA e UE un gruppo terroristico dopo la Seconda Intifada (2000-2005), è candidato Walid Hanatsha, che è stato incarcerato dopo essere stato accusato di complicità in un attentato in Cisgiordania in cui nel 2019 è morta un’adolescente israeliana. In precedenza Hanatsha era stato direttore amministrativo e finanziario dei Comitati di Lavoro per la Salute.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




Un rapporto riservato dell’UE denuncia l’ ‘apartheid’ giuridico in Cisgiordania

El País

Gerusalemme – 1 febbraio 2019

I rappresentanti europei sostengono che Israele sottopone i palestinesi a una “sistematica discriminazione”

L’adolescente Ahed Tamimi, icona della resistenza palestinese, è stata condannata a otto mesi di carcere per aver schiaffeggiato nel 2017 un militare israeliano nella sua casa di Nabi Saleh, a nord di Ramallah, capitale amministrativa della Cisgiordania. Il soldato Elor Azaria è rimasto dietro le sbarre per 14 mesi dopo essere stato condannato da un consiglio di guerra per aver giustiziato un aggressore palestinese a terra gravemente ferito nella città di Hebron (sud della Cisgiordania) nel 2016. Dopo mezzo secolo di occupazione i rappresentanti diplomatici dei 28 Paesi dell’UE constatano la “sistematica discriminazione giuridica” di cui sono vittime i palestinesi in Cisgiordania. In un rapporto riservato rivolto ai responsabili del Servizio Esteri a Bruxelles e al quale “El País” ha avuto accesso, gli ambasciatori a Gerusalemme est e a Ramallah chiedono che Israele riformi la giustizia militare per “garantire un processo e una sentenza equi in base alle leggi internazionali.”

I diplomatici che firmano il documento rappresentano governi che spesso divergono apertamente in merito al conflitto israelo-palestinese, che però concordano nel descrivere il modo di funzionare concreto dell’occupazione israeliana in Cisgiordania come un “regime duale”. Benché non figuri nel testo l’espressione apartheid giuridico, il suo contenuto dà conto di una giustizia segregata. “Il rapporto è una cartografia della situazione dei diritti nella cosiddetta Area C, sotto totale controllo israeliano e che rappresenta il 60% del territorio occupato, con una serie di raccomandazioni rivolte a Bruxelles sostenute da tutti i capi missione,” precisa una fonte europea a Gerusalemme.

Ai palestinesi vengono applicati la legge marziale e i regolamenti stabiliti da un dipartimento del ministero della Difesa, e sono sottoposti ai tribunali militari di “Giudea e Samaria”, denominazione biblica coniata in Israele per definire il territorio della Cisgiordania. Questi organi esecutivi e giudiziari si basano anche su norme ereditate dai precedenti poteri coloniali o amministrativi. Ci sono ancora in vigore leggi ottomane (per esempio per confiscare terre palestinesi apparentemente non coltivate), britanniche (per operare detenzioni amministrative, senza imputazioni e a tempo indefinito, che ora colpiscono circa 440 prigionieri) e persino giordane, quelle dell’amministrazione presente sul territorio fino al 1967, quando Israele occupò i territori palestinesi dopo la guerra dei Sei Giorni. Secondo il rapporto annuale dei tribunali militari israeliani del 2011, l’ultimo disponibile, i palestinesi sottoposti a processo penale sotto l’occupazione hanno una percentuale di condanne del 99,74%.

Documento riservato

Questo documento riservato dell’UE, con data 31 luglio scorso e che deve ancora essere preso in considerazione a Bruxelles, esamima la “la realtà di un’occupazione quasi permanente.” In Cisgiordania più di 2,5 milioni di palestinesi si vedono “privati dei loro diritti civili fondamentali” e devono far fronte a “numerose restrizioni della loro libertà di movimento.” Oltretutto da cinquant’anni l’economia palestinese è soggetta a un “sostanziale sottosviluppo”.

I rappresentanti diplomatici europei concordano nel difendere la soluzione dei due Stati come il percorso migliore verso una pace regionale. Riconoscono anche di comune accordo che lo sforzo della UE per “il processo di creazione di istituzioni statali e di sviluppo di un’economia palestinese sostenibile,” come prevedono gli accordi di Oslo del 1993, è compromesso dalle limitazioni giuridiche descritte nel rapporto, che tra i suoi destinatari ha anche i governi dei 28 Stati membri.

I 400.000 coloni ebrei che si sono stabiliti in Cisgiordania sono sottoposti solo alle leggi israeliane, in base ad uno status personale ed extraterritoriale. I 300.000 palestinesi che risiedono nell’Area C devono rispondere a una legislazione penale molto più rigida. Un colono deve comparire davanti a un giudice civile israeliano entro 24 ore, mentre un palestinese può essere portato davanti a una corte militare fino a 96 ore dopo.

I palestinesi vengono discriminati anche in materia di libertà civili, come quella d’espressione e di riunione, o di diritti urbanistici di edificazione. Le riunioni di più di 10 persone devono avere il permesso del comandante militare, che di rado lo concede. La pena per aver violato il divieto arriva fino a 10 anni di carcere. “Anche la riunificazione familiare, in particolare quando uno dei membri della famiglia ha doppia cittadinanza, palestinese e di un Paese europeo, viene resa difficile dalle autorità israeliane,” sottolinea la fonte europea consultata.

Tra il 2010 e il 2014 è stato concesso solo l’1,5% delle richieste di licenza edilizia presentate dai palestinesi nell’Area C della Cisgiordania. Di conseguenza più di 12.000 costruzioni sono state demolite in quanto accusate di essere illegali dagli amministratori militari dell’occupazione. L’Ue ha finanziato direttamente 126 progetti urbanistici palestinesi nell’Area C, dei quali sono 5 sono stati approvati da Israele.

I palestinesi della Cisgiordania sono soggetti a meccanismi (legali) sui quali non hanno nessun diritto di rappresentanza”, puntualizza il documento riservato europeo, “dato che i militari israeliani sono un’entità esterna che risponde solo a un governo straniero.” Nel giugno dell’anno scorso circa 6.000 palestinesi (di cui 350 erano minorenni, come Ahed Tamini) si trovavano rinchiusi in carceri situate in territorio israeliano come “prigionieri per questioni di sicurezza”, chiamati così perché si tratta di casi di “violenza di origine nazionalista.”

Diplomatici a Gerusalemme e a Ramallah

Il rapporto dei diplomatici dell’UE a Gerusalemme e Ramallah ritiene che Israele violi la legislazione internazionale per il fatto di spostare prigionieri e detenuti fuori dalla Cisgiordania, e nel contempo rende difficile il diritto di visita dei familiari.

Per delitti identici commessi nello stesso territorio esistono due diversi parametri giuridici. Le inchieste della polizia israeliana del “distretto di Giudea e Samaria” portano ad accuse formali contro coloni ebrei sono nell’8% dei casi di attacchi contro palestinesi o danni alle loro proprietà.

Secondo il giornale [israeliano] “Haaretz” il numero di “delitti dovuti al nazionalismo” commessi da abitanti delle colonie contro i palestinesi in Cisgiordania è aumentato di tre volte l’anno scorso, quando si sono registrati 482 incidenti di questo tipo, rispetto al 2017, durante il quale se ne sono contati 140. Nei due anni precedenti si era determinata una riduzione di questi attacchi in seguito alle conseguenze prodotte nel 2015 dalla morte di un bambino di 18 mesi, bruciato vivo, e dei suoi genitori in seguito a un attacco a Duma, località che si trova a nordest di Ramallah. Due giovani coloni sono in attesa di giudizio per questo attentato incendiario.

Il presidente Abbas volta le spalle alla società civile palestinese

Il rapporto dei capi missione europei presso l’Autorità Nazionale Palestinese che si trovano a Gerusalemme e a Ramallah è critico anche nei confronti del governo del presidente Mahmoud Abbas, che riceve dalla UE aiuti finanziari essenziali per la sua sopravvivenza. La politicizzazione del sistema giudiziario, gli arresti arbitrari (anche di giornalisti), gli abusi e le torture nei centri di detenzione e l’uso sproporzionato della forza contro manifestanti pacifici, tra le altre azioni del governo palestinese, ricevono le critiche del rapporto diplomatico dell’Unione. Il rais Abbas non è sottoposto a controllo parlamentare ed emana leggi attraverso decreti su una società civile molto giovane, ma limitata dall’egemonia del dirigente ottuagenario.

(traduzione di Amedeo Rossi)