Deputata UE chiede un’inchiesta sulle calunnie della lobby israeliana

Ali Abunimah

9 marzo 2018, Electronic Intifada

Un’importante esponente del Parlamento Europeo sta chiedendo un’inchiesta ufficiale sul ruolo di una funzionaria di alto livello dell’Unione Europea in una campagna di diffamazione della lobby israeliana che l’ha presa di mira.

Ana Gomes, una parlamentare portoghese di centro-sinistra, è stata denunciata da gruppi della lobby filoisraeliana come antisemita dopo che li ha pubblicamente criticati per aver tentato di bloccare il suo invito al militante per i diritti umani dei palestinesi Omar Barghouti per una conferenza al Parlamento Europeo la scorsa settimana a Bruxelles.

Le accuse dei gruppi della lobby filoisraeliana sono state poi amplificate da Katharina von Schnurbein, la più importante funzionaria dell’UE incaricata di combattere l’antisemitismo, e dall’ambasciata UE a Tel Aviv, nota ufficialmente come la “Delegazione dell’Unione Europea in Israele”.

Gomes ha fatto la sua richiesta mercoledì con una lettera a Jean-Claude Juncker, il presidente della Commissione Europea – il governo dell’UE – e alla responsabile della diplomazia dell’UE Federica Mogherini. “Chiedo un’inchiesta sulla campagna diffamatoria diretta contro di me, in quanto MEP (membro del Parlamento Europeo) eletta, da parte di qualcuno della Delegazione UE in Israele e dalla signora von Schnurbein,” afferma la lettera.

Gomes vuole l’indagine per definire se questi funzionari abbiano violato i loro doveri in base al regolamento del personale e alle norme dell’UE sui social media.

In linea con la prassi comune nei sistemi democratici, ai funzionari dell’UE viene richiesto di rimanere politicamente neutrali, il che rende l’attacco pubblico a Gomes – una politica eletta – da parte di von Schnurbein e dell’ambasciata UE a Tel Aviv una grave violazione del loro dovere.

Gomes ha anche sporto la propria denuncia al difensore civico europeo, un ente indipendente incaricato di indagare su accuse di comportamento scorretto presso le istituzioni europee.

Una “lobby perversa”

Il 28 febbraio Gomes ha ospitato un seminario sul movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) [contro Israele] con Omar Barghouti.

Barghouti è uno dei fondatori della campagna di base non violenta per i diritti umani e vincitore nel 2017 del “Gandhi Peace Award” [Premio Gandhi per la Pace].

All’inizio del seminario Gomes ha sottolineato che discussioni sui diritti umani dei palestinesi erano molto più frequenti, “ma sono diventate sempre più rare in questo parlamento in seguito ad una lobby molto perversa che tenta di intimidire le persone.”

Gomes ha aggiunto di essere stata sottoposta a simili pressioni nei giorni precedenti il seminario da parte di gruppi che “dicono molte falsità” e “fraintendono le parole di molti studiosi.”

In risposta l’“AJC Transatlantic Institute” [Istituto Transatlantico AJC] ha denunciato le notazioni di Gomes come “antisemite”, sostenendo che lei stava “demonizzando le organizzazioni della società civile ebraica” e ha chiesto “un’azione disciplinare” contro di lei da parte del suo gruppo parlamentare.

L’ “AJC Transatlantic Institute” è l’ufficio di Bruxelles dell’”American Jewish Committee” [Commissione Ebraica Americana], un’organizzazione lobbystica che afferma di “appoggiare Israele ai più alti livelli” dai “corridoi dell’ONU a New York a quelli dell’Unione Europea.”

Una delle sue principali attività è insabbiare i crimini di guerra israeliani.

Katharina von Schnurbein, dell’UE, ha ritwittato l’attacco dell’“AJC Transatlantic Institute”, sostenendo che le obiezioni di Gomes per essere stata censurata da gruppi politici che lavorano per Israele rappresentano “abominevoli espressioni antisemite.”

A loro volta, i tweet di von Schnurbein che attaccavano Gomes sono stati ritwittati da @EUinIsrael, l’account ufficiale dell’ambasciata UE a Tel Aviv.

In almeno uno dei propri tweet, l’ambasciata ha fornito il proprio appoggio implicito alle critiche a Gomes.

Allineata con Israele

In realtà uno dei suoi [di von Schnurbein] principali obiettivi è stato aiutare la lobby filoisraeliana a combattere l’attivismo solidale con i palestinesi diffamando come antisemite le critiche contro l’occupazione, la colonizzazione di insediamento e l’apartheid di Israele.

Ha sostenuto senza prove che le attività del BDS hanno portato ad un incremento di episodi antisemiti nei campus universitari.

In risposta ad una richiesta di informazioni da parte di “Electronic Intifada”, la Commissione Europea ha fornito il proprio pieno appoggio a von Schnurbein in seguito al suo attacco contro Gomes.

La Commissione Europea rimane ferma contro l’antisemitismo – così come più in generale contro il razzismo e la xenofobia – e il lavoro della coordinatrice nella lotta contro l’antisemitismo è una parte importante dei nostri sforzi a questo proposito,” ha detto un portavoce.

Questa settimana von Schnurbein era a Londra per partecipare alla cena di un gruppo lobbystico israeliano, il “Community Security Trust”, insieme all’ambasciatore israeliano Mark Regev.

L’ambasciata UE a Tel Aviv si è anche schierata con opinioni di estrema destra: lo scorso anno ha ingaggiato un sostenitore israeliano del genocidio dei palestinesi perché comparisse in un video in cui reclamizzava i benefici della cooperazione tra UE ed Israele.

Tentativi di bloccare la conferenza

Nella lettera in cui chiede l’inchiesta, Gomes afferma che l’annuncio del seminario con Barghouti “ha provocato tentativi da parte di alcune organizzazioni di bloccarlo, di etichettare esso, il signor Barghouti e me con l’insulto di “antisemiti”.

Oltre all’”AJC Transatlantic Institute”, Gomes afferma che le “organizzazioni che hanno condotto questa campagna diffamatoria” includono gruppi della lobby filoisraeliana come l’“European Coalition for Israel”, l’“European Jewish Congress” e l’“European Leadership Network”.

Come riportato da Electronic Intifada, l’“European Leadership Network” ha una politica di collaborazione con politici dell’estrema destra europea, compresi neonazisti e negazionisti dell’Olocausto, nella misura in cui sono filoisraeliani.

Anche l’“Israel Project”, un’importante organizzazione antipalestinese, si è dato da fare contro la conferenza di Barghouti, definendo “vergognoso” che il Parlamento Europeo “legittimi il suo antisemitismo.”

Coraggio morale

Insistendo perché io parlassi al Parlamento Europeo, resistendo alle intimidazioni ed ai tentativi menzogneri della lobby dell’UE filoisraeliana, Ana Gomes ha dimostrato il proprio coraggio morale e il suo fermo impegno per i diritti umani,” ha detto Barghouti a “Electronic Intifada”.

Ha aggiunto: “Lei ha anche rappresentato la crescente ripulsa della società civile europea e di base nei confronti delle gravissime violazioni dei diritti umani da parte di Israele contro il popolo palestinese e, in modo decisivo, della complicità dell’UE nel consentire e rafforzare il sistema pluridecennale di oppressione coloniale e apartheid di Israele.”

Nella sua conferenza al seminario – il cui testo Gomes ha postato sul suo sito – Barghouti ha detto che “solo consistenti pressioni da parte della società civile europea possono porre fine a questa complicità dell’UE.”

Anche Israele lo sa, ed è la ragione per cui i lobbysti di Bruxelles ed i loro alleati all’interno della burocrazia dell’UE appaiono così determinati a calunniare chiunque resista loro.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Cosa c’è nel documentario segreto di Al Jazeera a proposito della lobby USA-Israele?

Asa Winstanley

5 marzo 2018, The Electronic Intifada

L’inchiesta di Al Jazeera sulla lobby israeliana negli USA di prossima messa in onda rivelerà che l’eminente gruppo neoconservatore di esperti “Foundation for Defence of Democraties” [Fondazione per la Difesa della Democrazia] sta operando come agente del governo israeliano.

Secondo una fonte che ha visto il documentario segreto, esso contiene immagini di un potente funzionario israeliano che sostiene: “Abbiamo l’FDD. Abbiamo altri che ci lavorano.”

Si dice che Sima Vaknin-Gil, ex-ufficiale dell’intelligence militare israeliana, affermi che la fondazione sta “lavorando” a “progetti per Israele, compresi “raccolta dati, analisi informative, lavori su organizzazioni di attivisti, tracciatura dei soldi. È qualcosa che solo un Paese, con le sue risorse, può fare al meglio.”

In base alla “Legge sulla Registrazione di Agenti Stranieri”, comunemente nota come “FARA”, organizzazioni ed individui che lavorano a favore di governi stranieri devono registrarsi alla sezione del controspionaggio del Ministero di Giustizia.

Una ricerca sul sito web del “FARA” mostra che la “Foundation for Defence of Democraties” non è registrata.

Pare che il documentario di Al Jazeera identifichi un certo numero di gruppi lobbystici che lavorano con Israele per spiare cittadini americani utilizzando tecniche sofisticate di raccolta dati. Pare anche che il documentario metta in luce tentativi segreti di diffamare ed intimidire americani considerati troppo critici con Israele.

Gruppi della lobby israeliana hanno esercitato pesanti pressioni sul Qatar, che finanzia Al Jazeera, perché archivi il documentario, suscitando dubbi sul fatto che venga mai trasmesso.

Agenti segreti di Israele

Sima Vaknin-Gil, che nell’esercito israeliano ricopre il grado di brigadiere generale, è ora la principale funzionaria presso il ministero degli Affari Strategici di Israele.

Il ministero è incaricato di condurre una campagna segreta di sabotaggio contro il BDS, il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni in appoggio ai diritti umani dei palestinesi.

Il capo di Vaknin-Gil al ministero è Gilad Erdan, uno stretto alleato del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

Poco dopo essere stata nominata a dirigere il ministero all’inizio del 2016, Vaknin-Gil ha promesso di “creare una comunità di lottatori” che avrebbe “inondato internet” di propaganda israeliana ma ufficialmente non legata al governo.

Oltre ad essere finanziata da Sheldon Adelson, il miliardario anti-palestinese e principale donatore della campagna elettorale di Donald Trump, la “Foundation for Defence of Democraties” ha stretti legami con gli Emirati Arabi Uniti.

In messaggi hackerati lo scorso anno l’ambasciatore degli Emirati a Washington ha incoraggiato la fondazione ad attivarsi per spostare una base militare USA dal Qatar al suo Paese.

Il documentario mostrerebbe anche immagini segrete di un lobbista israeliano di minor rango che si vanta di quanto siano stretti i rapporti di Israele con gli Emirati Arabi Uniti e altri regimi del Golfo.

Rapporti sempre più stretti tra gli EAU e Israele

Pare che nel film si veda Max Adelstein affermare che la lobby ha aiutato Israele e gli Emirati Arabi Uniti a sviluppare “di nascosto” rapporti di sicurezza.

Adelstein era stagista presso lo studio lobbystico di Washington “Harbour Group”. I clienti dello studio includono gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia saudita.

Durante i sei mesi terminati il 30 settembre 2017 essa ha ricevuto 2.2 milioni di dollari dagli EAU e più di 300.000 dollari dall’Arabia saudita.

Adelstein ora dice di lavorare per l’AIPAC, il più potente gruppo della lobby israeliana a Washington, la cui conferenza annuale inizia domenica.

Il documentario mostrerebbe Adelstein vantarsi che i rapporti tra gli Emirati Arabi Uniti ed Israele stiano “andando sempre meglio, e nessuno lo sa.”

Ha detto ad un reporter di Al Jazeera in incognito che “i governi si devono coordinare sulla sicurezza. È tutto sottobanco. Ma su commercio, tecnologie, medicina, c’è molta cooperazione.”

Secondo la fonte di “Electronic Intifada”, nelle immagini prese di nascosto si vede Adelstein spiegare che si stava organizzando un “viaggio di studio” di un Comitato Ebreo-Americano sulla “cooperazione reciproca” negli Emirati Arabi Uniti.

In gennaio la conferenza dei presidenti delle maggiori organizzazioni ebree-americane, una riunione di gruppi della lobby israeliana a cui partecipa anche l’“American Jewish Committee”, ha annunciato di aver inviato una “folta delegazione” di dirigenti negli Emirati Arabi Uniti, dove hanno “incontrato tutte le personalità ai più alti livelli.”

L’ulteriore chiave per comprendere la disponibilità degli Emirati Arabi Uniti verso i gruppi della lobby israeliana è che le attività della ricca monarchia sono di nuovo sottoposte a Washington a indagini.

Sabato il New York Times ha informato che il consigliere speciale Robert Mueller sta estendendo le sue indagini dalle presunte ingerenze russe nelle elezioni presidenziali USA “includendo le influenze degli Emirati sull’amministrazione Trump” attraverso il genero e consigliere del presidente Jared Kushner.

L’accusa di antisemitismo non è più come una volta”

Pare che in una ripresa girata di nascosto si veda Jonathan Schanzer, importante vice presidente della “Foundation for Defense of Democracies”, istruire i nuovi aderenti su come calunniare i gruppi di solidarietà con la Palestina che appoggiano il movimento BDS negli Usa.

Secondo la fonte, Schanzer ammette al reporter in incognito che “il BDS ha preso tutti di sorpresa.”

Definisce la reazione dei gruppi della lobby israeliana “un pasticcio totale”, aggiungendo: “Penso che nessuno stia facendo un buon lavoro. Neppure noi stiamo facendo un buon lavoro.”

Secondo la fonte, Schanzer lamenta il fatto che i tentativi di calunniare “Students for Justice in Palestine” [Studenti per la Giustizia in Palestina] e “American Muslims for Palestine” [Musulmani Americani per la Palestina] come legati al terrorismo estremista islamico non siano riusciti a guadagnare terreno.

Si dice anche rammaricato perché la tattica usuale della lobby israeliana di pretendere che gli attivisti della solidarietà con la Palestina siano motivati da odio contro gli ebrei sta perdendo efficacia.

Personalmente ritengo che l’accusa di antisemitismo non è più quella di una volta,” pare dica al giornalista in incognito.

Le opinioni di Schanzer riprendono un rapporto segreto ufficiale del governo israeliano e distribuito ai dirigenti della lobby israeliana lo scorso anno. Questo rapporto, di cui è trapelata una copia pubblicata da Electronic Intifada, conclude che i tentativi israeliani di arginare la crescita del movimento di solidarietà con la Palestina sono in gran parte falliti.

Documentario rimandato

Nell’ottobre dello scorso anno Clayton Swisher, il responsabile dei reportage d’inchiesta di Al Jazeera, ha in un primo tempo annunciato che il canale satellitare del Qatar aveva infiltrato un giornalista in incognito nella lobby israeliana degli USA.

Swisher ha fatto l’annuncio poco dopo che l’autorità britannica per la regolamentazione delle trasmissioni ha respinto ogni denuncia contro il documentario di Al Jazeera “The Lobby”.

Quel documentario, trasmesso nel gennaio 2017, denunziava la campagna occulta di Israele in Gran Bretagna per influenzare il partito Conservatore, al governo, e quello Laburista, all’opposizione. Il documentario ha rivelato che un agente dell’ambasciata israeliana tramava con un funzionario britannico per “demolire” un ministro del governo visto come troppo critico con Israele.

Benché Swisher abbia promesso che il film sugli USA sarebbe stato reso pubblico “molto presto”, circa cinque mesi dopo deve ancora essere trasmesso.

La lobby israeliana in Qatar

Nello stesso periodo un’ondata di lobbysti israeliani ha visitato il Qatar su invito del sovrano, l’emiro Tamim bin Hamad Al Thani.

Tra costoro c’erano alcune figure di difensori di Israele negli USA della destra più estrema, compresi il professore di diritto di Harvard Alan Dershowitz e Morton Klein, il capo della “Zionist Organization of America” [Organizzazione Sionista d’America].

Il mese scorso varie fonti della lobby israeliana hanno detto al giornale israeliano Haaretz di aver ricevuto alla fine dello scorso anno assicurazioni dai dirigenti del Qatar che il documentario di Al Jazeera non sarebbe stato trasmesso.

Il Qatar ha negato.

I gruppi filoisraeliani hanno intrapreso un’offensiva per cercare di impedire che Al Jazeera mostri il documentario.

Non usiamo mezzi termini in merito a quello che è stato – un’operazione di spionaggio professionale e ben finanziata messa in atto dal Qatar sul suolo americano,” ha affermato Noah Pollak, direttore esecutivo del neoconservatore “Comitato per Israele”.

Ironicamente, i membri filoisraeliani del Congresso stanno ora facendo pressione sul ministero di Giustizia per obbligare Al Jazeera a registrarsi come braccio del Qatar, in base alla “Legge per la Registrazione degli Agenti Stranieri”, come recentemente è stata obbligata a fare la rete RT finanziata dalla Russia.

Se queste pressioni avranno successo nell’insabbiare per sempre il documentario, sarà probabilmente la prova definitiva dell’influenza della lobby israeliana che i giornalisti di Al Jazeera volevano mettere in evidenza.

Asa Winstanley è un giornalista investigativo e co-redattore di Electronic Intifada.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Incoraggiato da Trump, Israele stringe la presa su Gerusalemme

Tamara Nassar

15 febbraio 2018, Electronic Intifada

Israele ha iniziato i lavori per un nuovo grande progetto di insediamento nella Gerusalemme est occupata. Secondo il “Palestinian Center for Human Rights” [“Centro Palestinese per i diritti umani”, ndt.] (PCHR), lo scorso martedì pomeriggio sono iniziati i lavori per la costruzione di un centro per studi religiosi ebraici nella Città Vecchia di Gerusalemme.

Il centro è a poca distanza dalla moschea di Al-Aqsa, uno dei luoghi più sacri per l’Islam. Il PCHR ha affermato che il progetto è una diretta violazione dei diritti palestinesi su Gerusalemme, e che “altererebbe e cambierebbe gravemente le caratteristiche storiche della città.”

Fa parte di un piano per eliminare la cultura palestinese, reinventare la storia di Gerusalemme in base ad una narrazione sionista ed espellere i palestinesi dalla città.

Il progetto è iniziato nello stesso momento in cui le autorità israeliane stanno installando un posto di blocco militare alla Porta di Damasco, una delle entrate della Città Vecchia, frequentemente utilizzata dai palestinesi.

La decisione del presidente Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele sembra aver dato “via libera alle autorità israeliane per espropriare il territorio palestinese, in particolare nella Gerusalemme occupata, a favore dei progetti di colonizzazione,” ha aggiunto il PCHR.

Le autorità israeliane hanno approvato il piano nel 2015. Il progetto prevede la costruzione di un edificio di tre piani su 2.800 m2 a Gerusalemme est.

La costruzione di questa colonia violerebbe le leggi internazionali.

Violerebbe anche una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU approvata nel dicembre 2016, che afferma che Israele deve “cessare immediatamente e completamente ogni attività di colonizzazione nei territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme est.”

L’Autorità Nazionale Palestinese ha chiesto ai governi del resto del mondo di bloccare la costruzione del progetto e di fare pressioni su Israele perché rispetti le leggi internazionali.

Imposizione di tasse alle Chiese palestinesi

I palestinesi stanno anche condannando la decisione di Israele di iniziare a raccogliere tasse dalle Chiese e dalle istituzioni delle Nazioni Unite a Gerusalemme.

Le autorità dell’occupazione israeliana hanno preso questa iniziativa – che è l’ultima aggressione contro la nostra capitale, Gerusalemme occupata, e contro i suoi abitanti originari – per realizzare le illusioni delle autorità occupanti di espellerli a forza,” ha affermato Yousef al-Mahmoud, un portavoce dell’Autorità Nazionale Palestinese.

La decisione del consiglio comunale di Gerusalemme controllato da Israele si basa su una richiesta da parte di Gabriel Hallevy, un professore israeliano di diritto, secondo cui le esenzioni di imposta per le Chiese riguardano solo le proprietà utilizzate per il culto o per insegnare la religione.

Il consiglio comunale ha iniziato a raccogliere circa 186 milioni di dollari da 887 proprietà a Gerusalemme che sono di Chiese e delle agenzie ONU, dopo aver congelato i loro conti bancari.

Le organizzazioni colpite comprendono l’UNRWA, l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi.

Il municipio ha già sequestrato circa 3 milioni di dollari dalla Chiesa cattolica, 2 milioni da quella anglicana, 500.000 dollari da quella armena e 161.000 dalla Chiesa greco ortodossa.

Svuotare Gerusalemme

I capi religiosi hanno affermato che Nir Barkat, il sindaco israeliano di Gerusalemme, sta violando i trattati internazionali che esentano le Chiese dalle tasse statali.

Al-Ahmoud dell’ANP ha affermato che non ci sono leggi al mondo che impongono tasse su luoghi di preghiera, tranne le leggi dell’occupazione.

Ora Israele cerca di reinterpretare queste leggi, che sono rimaste in vigore fin dai giorni dell’Impero Ottomano.

Atallah Hanna, un arcivescovo della Chiesa greco ortodossa, ha affermato che l’imposizione di tasse segna l’ultimo tentativo di Israele di svuotare Gerusalemme dalle sue istituzioni religiose e dagli abitanti palestinesi.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele demolisce un’altra scuola finanziata dall’Unione Europea

Tamara Nassar,

6 febbraio 2018, The Electronic Intifada

Il 4 febbraio le forze d’occupazione israeliane hanno demolito due edifici scolastici nella comunità di Abu Nuwwar, situata nella cosiddetta area E1 della Cisgiordania occupata, ad est di Gerusalemme.

La distruzione lascia più di 25 bambini di terza e quarta elementare senza un posto dove studiare.

“La demolizione di strutture scolastiche è uno degli strumenti che Israele usa nel tentativo di espellere le comunità palestinesi dalle loro case, in modo da poter concentrare i residenti in enclaves e utilizzare il territorio per i propri scopi”, ha dichiarato l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem.

Secondo B’Tselem, il 13 dicembre le forze d’occupazione hanno emesso un ordine di demolizione per l’aula di quarta elementare e la demolizione è proseguita domenica nonostante fosse in corso un procedimento legale contro l’ordine [di demolizione].

Le fotografie postate su Twitter da media palestinesi mostrano bambini seduti in mezzo alle macerie della loro scuola distrutta.

Uno di loro tiene un cartello che dice: “Ho il diritto di studiare. No alla demolizione della mia scuola. Siamo i bambini di Abu Nuwwar.”

Un testimone dice nel video che le forze occupanti israeliane hanno confiscato i cellulari prima della demolizione.

Complicità dell’Unione Europea

La scuola è stata costruita a settembre con il finanziamento dell’Unione Europea e dell’Autorità Nazionale Palestinese, ma nessuna delle due ha fatto nulla per rendere responsabile Israele della distruzione delle aule.

Questo è in linea con l’inazione dell’UE relativamente alle decine di milioni di dollari di progetti che essa ha finanziato e che Israele ha distrutto negli ultimi anni.

L’UE non ha emesso alcuna dichiarazione di condanna della demolizione.

È la quinta volta che Israele demolisce quella scuola. Secondo la Reuters, ogni volta è stata ricostruita con l’aiuto di fondi dell’UE e di organizzazioni non governative.

Il braccio burocratico dell’occupazione militare israeliana, il COGAT (Coordinamento delle Attività Governative nei Territori Occupati, ndtr.), ha affermato che “la struttura è stata costruita illegalmente e senza i permessi necessari.”

Israele nega il permesso praticamente ad ogni costruzione palestinese in area C, dove si trova Abu Nuwwar, costringendo molti a costruire senza l’autorizzazione militare ed a vivere nella costante paura che la propria casa venga demolita.

Secondo l’agenzia di informazioni ufficiale palestinese Wafa, oltre agli edifici, Israele vieta ai palestinesi di Abu Nuwwar anche di costruire strade che “permetterebbero ad uno scuolabus di accedere alla comunità e portare in modo sicuro i bambini avanti e indietro da scuola.”

L’area C include circa il 60% della Cisgiordania ed è sotto il totale controllo militare israeliano, in base a quanto previsto dagli accordi di Oslo firmati da Israele e dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina nei primi anni ’90.

Espulsione forzata

I politici israeliani stanno invocando sempre più spesso l’annessione permanente dell’area C, che lascerebbe la maggioranza dei palestinesi della Cisgiordania imprigionata in piccole isole territoriali.

La comunità di Abu Nuwwar, come molte altre nell’area C, ha subito continue aggressioni da parte dell’esercito israeliano nel tentativo di espellerle con la forza.

In ottobre le forze israeliane hanno confiscato le porte delle aule che hanno demolito domenica.

In agosto, le forze israeliane hanno dichiarato la comunità di Abu Nuwwar zona militare chiusa ed hanno confiscato i pannelli solari che fornivano elettricità all’asilo.

L’area E1 [ad est di Gerusalemme, ndt.] è destinata da Israele all’espansione della sua mega colonia di Maaleh Adumim, che completerebbe l’accerchiamento di Gerusalemme ed isolerebbe l’una dall’altra le aree settentrionale e meridionale della Cisgiordania.

Abu Nuwwar è una delle 12 comunità palestinesi, con un totale di circa 1.400 abitanti, nell’area est di Gerusalemme, che rischia l’espulsione da parte di Israele. Le altre includono Jabal al-Baba e Khan al-Ahmar.

Sempre in agosto Israele ha distrutto due scuole finanziate dall’Europa in Cisgiordania.

La mancanza di un’efficace risposta dell’UE ha quindi incoraggiato Israele a procedere con la demolizione di domenica.

Susiya sotto minaccia

Intanto il console generale francese ha visitato il villaggio di Susiya nell’area C, “per sostenere gli abitanti minacciati di trasferimento forzato”, secondo un tweet del consolato francese di Gerusalemme di lunedì.

Tali visite simboliche intendono segnalare la disapprovazione internazionale delle demolizioni di massa pianificate da Israele delle case della comunità – un crimine di guerra.

Ma in passato Israele le ha ignorate, con la certezza di non venire mai chiamato a rispondere di crimini di guerra ed altre violazioni contro i palestinesi.

La settimana scorsa la senatrice USA Dianne Feinstein ha twittato che è stato “un colpo al cuore” il fatto che l’Alta Corte israeliana abbia “approvato la demolizione di sette edifici nel villaggio palestinese di Susiya, distruggendo le case di 42 persone, metà delle quali sono bambini o malati.”

A dicembre Feinstein ed altri nove senatori hanno fatto appello direttamente al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu perché bloccasse le demolizioni.

Tamara Nassar è assistente redattrice di The Electronic Intifada.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Politica, bugie e registrazioni audio

Omar Karmi

20 gennaio 2018, Electronic Intifada

Le ripercussioni del caotico lavoro di demolizione della soluzione dei due Stati da parte del presidente USA Donald Trump continuano.

Vi è invischiata una regione già in preda a caos e confusione. Vecchie certezze sono state sradicate e tradizionali alleati ed alleanze, alle quali il processo di pace forniva una copertura di comodo per non fare niente, sono stati sconvolti.

Il 14 gennaio persino Mahmoud Abbas, il leader dell’Autorità Nazionale Palestinese, finora così fiducioso in un processo della cui creazione e salvaguardia è stato determinante, è stato spinto a dichiarare che “oggi è il giorno in cui gli accordi di Oslo sono finiti.”

In un rabbioso discorso di due ore e mezza da Ramallah, egli ha annunciato poche conseguenze concrete e gli uomini del suo apparato inviati in seguito a spiegarle sono stati altrettanto vaghi (cosa mai può significare “congelare il riconoscimento di Israele”?).

Tuttavia la frustrazione era reale, e la sua descrizione dello stato delle cose – benché ovvia e in ritardo – esatta.

L’ANP è in effetti un’”autorità senza potere”; a Israele è sicuramente consentita – con la complicità dell’ANP, avrebbe dovuto aggiungere, ma non l’ha fatto – un’“occupazione senza nessun costo”; l’ambasciatore USA in Israele David Friedman è, in effetti, “un colono che si oppone al termine ‘occupazione’” e indubbiamente “un essere umano prepotente.”

Abbas ha avuto anche parole dure per i governi arabi, sostenendo che, se non offriranno ai palestinesi un “aiuto concreto”, possono “andare tutti all’inferno.”

Un problema si muove in Arabia

Non è un segreto che i Paesi arabi, soprattutto, ma non solo, quelli detti “moderati” che includono l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, l’Egitto e la Giordania – che sono definiti tali dai circoli occidentali, soprattutto per la loro posizione verso Israele – sono stati per lo più tutto fumo e niente arrosto quando si tratta di Palestina.

Tuttavia essi hanno anche e pubblicamente da tempo tenuto (per lo più) drastiche linee rosse: a parte i Paesi confinanti come Giordania ed Egitto, non ci saranno relazioni diplomatiche complete con Israele finché la “questione” palestinese non sarà risolta. E le ricette per questa soluzione devono includere una (vagamente definita) “soluzione giusta” del problema dei rifugiati, così come (precisata più chiaramente) la costituzione di uno Stato e l’indipendenza per i palestinesi su tutta la Cisgiordania e la Striscia di Gaza con capitale a Gerusalemme est.

Quest’ultima non è mai stata vista come una questione solamente palestinese, ma come più generalmente araba e musulmana. Di conseguenza, la risposta ufficiale alla dichiarazione di Trump a dicembre che Gerusalemme è la capitale di Israele è stata unanime e priva di ambiguità.

Il 13 dicembre l’Organizzazione della Cooperazione Islamica, composta da 57 membri, che include i Paesi arabi e musulmani del mondo, ha inequivocabilmente respinto come illegale la posizione del presidente americano su Gerusalemme e ha dichiarato capitale della Palestina Gerusalemme est.

Poi il 6 gennaio la Lega Araba ha annunciato che gli Stati arabi avrebbero intrapreso un’iniziativa diplomatica alle Nazioni Unite per chiedere il riconoscimento internazionale dello Stato palestinese entro i confini del 1967, con Gerusalemme est come sua capitale.

Fin qui, come molte altre volte. Stavolta, tuttavia, per almeno alcuni di questi Paesi, pare che questa non sia solo vuota retorica: è una totale menzogna.

Il nuovo ordine del mondo (arabo)

Prendete l’Egitto. Mentre l’incontro d’emergenza dell’OIC [Organizzazione della Cooperazione Islamica, ndt.] a Istanbul ha visto la partecipazione di alcuni importanti capi di Stato della regione, compreso il presidente turco che l’ospitava, Recep Tayyip Erdogan, così come del re di Giordania Abdullah e del presidente iraniano Hassan Rouhani, erano significative anche le assenze. Non erano presenti né il re dell’Arabia Saudita Salman (o il suo principe ereditario Mohammad bin Salman) né il presidente egiziano Abdulfattah al-Sisi.

Infatti, anche se il Cairo ha condannato la nuova posizione USA su Gerusalemme, un ufficiale dell’intelligence egiziana sarebbe stato registrato in audio mentre cercava di persuadere importanti personaggi della televisione egiziana a convincere i loro telespettatori ad accettarla, sostenendo in pratica che Ramallah è un posto altrettanto valido di Gerusalemme per stabilirvi la capitale.

Il Cairo ha negato l’informazione, il procuratore di Stato egiziano ha annunciato un’inchiesta sull’articolo del New York Times che ha fatto la denuncia e le personalità della televisione di cui sopra hanno da allora ritrattato alcuni dei commenti fatti in precedenza.

Ma il Times ha confermato le proprie informazioni e, nell’attuale clima politico, non suonano per niente false. E non ci dovrebbe essere alcun dubbio che quello che alcuni governi arabi stanno sostenendo in merito al destino di Gerusalemme evidenzi fino a che punto i dirigenti e governi arabi siano diventati vulnerabili alle pressioni esterne.

La debolezza degli Stati arabi corrisponde in generale ad una caratteristica in tutta la regione: scarsa capacità di governo come risultato di sistemi statali autocratici e clientelari che resistono alle idee che vengono da fuori ma dipendono dai finanziamenti e dalla protezione esteri o economie basate su una sola risorsa. Ne conseguono logicamente corruzione, nepotismo, servilismo e stagnazione, con – per parafrasare – il settarismo, l’ultima risorsa delle canaglie.

Gli ultimi anni di rivoluzioni, controrivoluzioni, guerre civili, guerre e invasioni nelle regioni arabe hanno anche visto la questione palestinese scivolare in fondo alla lista delle priorità e perdere il suo ruolo come sfogo sicuro per la rabbia popolare. E poi c’è l’Arabia Saudita.

Rivoluzione a Ryadh

L’assunzione di una posizione di rilievo del principe ereditario Mohammad bin Salman, spesso indicato come MBS, ha sconvolto la tradizionale politica regionale e scosso le antiche alleanze e certezze. Decisa a quanto pare a rivolgersi a viso aperto verso uno scontro con l’Iran, la posizione di Riad su altre questioni regionali è improvvisamente diventata imprevedibile.

Yemen, Libano, Siria ed Egitto hanno risentito a vari livelli dei freddi venti del cambiamento in quanto il nuovo potere a Riad sonda il terreno e persegue quelli che ha identificato come gli interessi sauditi, giusti o sbagliati, con energia incontenibile e in modi senza precedenti per l’Arabia Saudita. Sono presunte informazioni saudite sulla prospettiva finale dell’amministrazione Trump per un accordo di pace – qualcosa meno di uno Stato per i palestinesi, non basato sulle frontiere del 1967 e senza Gerusalemme – che questa settimana hanno spinto davvero Abbas a perdere il controllo e gli hanno fatto venire un colpo apoplettico.

Oltretutto fonti vicine ad Abbas hanno fatto sapere che, durante una recente visita, MBS ha fatto pressione sul leader dell’ANP perché accetti il piano di Trump, indicando che Riad ora attribuisce molta più importanza al potenziale aiuto di Israele contro l’Iran rispetto ad ogni pressione per i diritti dei palestinesi.

Per quanto audaci, simili pressioni, su Abbas e su altri, probabilmente falliranno, così come finora sono fallite le recenti avventure saudite in politica estera in altre parti della regione.

In parte, un simile clamoroso scostamento è un cambiamento decisamente troppo rapido da assorbire per i pigri sistemi dello Stato arabo, soprattutto di fronte alla disapprovazione profonda e generalizzata dell’opinione pubblica. E in parte, mentre ciò potrebbe funzionare solo nei Paesi del Golfo, isolati dal denaro, né Egitto né Giordania sono probabilmente in grado di collaborare, anche se i loro dirigenti lo volessero.

Quello che i soldi non possono comprare

Al momento l’Egitto è semplicemente troppo instabile per assorbire troppi sconvolgimenti del sistema. Ancora scosso dalla rivoluzione del 2011 e dalla controrivoluzione del 2013, il Cairo se la deve vedere anche con la contagiosa guerra civile nella vicina Libia, con tensioni in Sudan, con una disputa con l’Etiopia per una diga sul Nilo che potrebbe avere effetti drammatici in Egitto e con una sempre più sanguinosa rivolta nel Sinai.

Al-Sisi potrebbe voler tentare di adeguarsi alla pressione di USA e Arabia Saudita. Le umilianti registrazioni del capitano Ashraf al-Kholi che implora i suoi interlocutori di spiegare la differenza tra Gerusalemme e Ramallah suggeriscono che il Cairo ci ha provato. Semplicemente non può.

L’ultima cosa di cui Al-Sisi ha bisogno, con tutto il resto, è di essere accusato di abbandonare Gerusalemme e i palestinesi. E solo mercoledì il presidente egiziano si è sentito obbligato a ribadire la politica egiziana di lunga data a favore dei due Stati, che rivendica Gerusalemme est come capitale palestinese.

La Giordania ha a lungo dovuto conciliare gli interessi palestinesi e giordani – o sponda ovest ed est del Giordano – e lo ha fatto in gran parte con successo. Ma la destinazione favorita da ogni rifugiato nella regione è satura, impoverita e non disposta a patteggiare la propria custodia di Al-Aqsa [la Spianata delle Moschee a Gerusalemme, ndt.] e dei luoghi sacri cristiani di Gerusalemme per avere la responsabilità di più di due milioni di palestinesi scontenti e riottosi in aree non contigue della Cisgiordania, come prospettato da qualcuno nell’amministrazione Trump.

Infatti Amman ha già messo in chiaro il proprio malcontento, e si dice che avrebbe cacciato tre principi per essere stati troppo vicini a Riad.

I soldi non possono comprarti l’amore, ma ti possono comprare un sacco di dispiaceri. E il dispiacere è ciò che attende Abbas, Abdullah e al-Sisi se dovessero stare al gioco del piano di Trump, che è un buco nell’acqua.

Probabilmente MBS lo capirà presto. Ma a quel punto il gioco sarà completamente cambiato.

Omar Karmi è un ex corrispondente da Gerusalemme e da Washington, DC, per il giornale The National [“Il Nazionale”, giornale degli Emirati Arabi Uniti, ndt.].

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Una generazione dopo, un altro crimine di guerra

Maureen Clare Murphy

19 gennaio 2018 Electronic Intifada

Un’operazione militare notturna tra la notte di mercoledì e la mattina di giovedì a Jenin, una città del nord della Cisgiordania occupata, non ha rappresentato la prima volta che Israele ha commesso un crimine di guerra mentre inseguiva un membro della famiglia Jarrar.

Più di 15 anni fa i soldati israeliani usarono un civile palestinese come scudo umano quando fecero irruzione nel nascondiglio del leader militare di Hamas Nasser Jarrar, il padre di Ahmad Nasser Jarrar, che Israele sostiene di aver ucciso nella mortale operazione di questa settimana.

Durante l’incidente del 14 agosto 2002 nella città cisgiordana di Tuba furono uccisi sia il civile palestinese, a cui sparò Jarrar, convinto che fosse un soldato israeliano, che il combattente ricercato.

Il civile ucciso era Nidal Abu Muheisen, 19 anni. Si dà il caso che Abu Muheisen fosse il nipote di Ali Daraghmeh, un ricercatore sul campo del gruppo per i diritti umani israeliano B’Tselem.

Daraghmeh, presente alla scena, disse che suo nipote era stato preso dai soldati e obbligato ad andare nella casa di Jarrar con un’arma puntata alla schiena,” affermò all’epoca B’Tselem.

Israele ha fatto frequentemente uso di civili palestinesi come scudi umani durante la Seconda Intifada, nel periodo in cui vennero uccisi Abu Muheisen e Nasser Jarrar.

Nota come la “procedura del vicino”, palestinesi che vivevano nei pressi di case prese di mira sarebbero stati obbligati a “bussare alla porta, individuare oggetti sospetti e camminare davanti ai soldati mentre l’esercito di occupazione circondava il suo obiettivo,” secondo il gruppo per i diritti umani “Adalah” [associazione arabo-israeliana formata da esperti di diritto, ndt.].

Le forze israeliane hanno ripetutamente fatto uso di minori palestinesi come scudi umani durante le invasioni a Gaza.

L’utilizzo di civili come scudi umani è un crimine di guerra in base alle leggi internazionali.

Macchinari da costruzione utilizzato per incursioni letali

Invece di utilizzare scudi umani durante la sua incursione di questa settimana, l’esercito israeliano ha portato con sé mezzi meccanici per l’edilizia e movimento terra pesanti quando ha invaso Jenin.

L’esercito sostiene che stavano cercando membri di una cellula responsabile di aver ucciso la scorsa settimana un colono israeliano nel nord della Cisgiordania.

Israele potrebbe aver utilizzato a Jenin la cosiddetta “procedura della pentola a pressione”, in cui macchinari da costruzione sono utilizzati come un’arma, insieme ad armi da fuoco ed esplosivi, per obbligare palestinesi ricercati ad arrendersi uscendo da un edificio in cui si sono nascosti.

I video postati da Jenin questa settimana sembrano mostrare l’esercito israeliano trasportare macchinari prodotti dalla ditta USA Caterpillar. Ciò include un escavatore blindato Bagger E-349, una versione bellica dell’escavatore idraulico 349E della Caterpillar.

Lo stesso macchinario della Caterpillar è stato utilizzato in una palese esecuzione extragiudiziaria nella città della Cisgiordania di Surif nel luglio 2016 e nelle distruzioni di case per punizione.

Con la procedura “della pentola a pressione”, i palestinesi che rifiutano di arrendersi vengono uccisi quando il macchinario da costruzione ed altri armamenti vengono progressivamente usati per distruggere l’edificio sopra di loro.

Testimoni hanno raccontato ai media che le forze israeliane hanno distrutto la casa di Jenin in cui si erano barricati dei palestinesi.

I mezzi di comunicazione israeliani hanno informato che uno scontro a fuoco è scoppiato quando le forze di occupazione sono arrivate alla casa in cui secondo l’esercito si erano rifugiate persone ricercate.

Tre case di proprietà della famiglia Jarrar sono state distrutte durante l’incursione.

Israele demolisce metodicamente case di proprietà delle famiglie di sospetti aggressori. Le demolizioni punitive delle case sono un atto di punizione collettiva e sono crimini di guerra in base al diritto internazionale.

Informazioni contrastanti

Giovedì ci sono state informazioni contrastanti sull’identità dell’uomo ucciso durante l’incursione di questa settimana.

Israele sostiene di aver ucciso Ahmad Nasser Jarrar, il figlio del combattente di Hamas ucciso nel 2002 e che Israele afferma sia stato responsabile dell’uccisione la scorsa settimana di un rabbino di una colonia.

Ma la famiglia Jarrar ha annunciato che Ahmad Nasser Jarrar è riuscito a scappare prima dell’incursione ed è fuggito disarmato.

Il ministro della Sanità dell’Autorità Nazionale Palestinese ha identificato la persona uccisa come Ahmad Ismail Jarrar, un cugino di Ahmad Nasser Jarrar.

La madre di Ahmad Nasser Jarrar ha detto ai media di aver visto un corpo quando ha lasciato la sua casa, “ma non ho potuto identificarlo e non confermo che si trattasse di mio figlio.”

Altri cinque palestinesi sono rimasti feriti durante l’incursione. Due soldati israeliani sono stati feriti, uno dei quali in modo grave.

Centinaia di palestinesi si sono scontrati con i soldati israeliani durante il massiccio raid durato alcune ore.

Finora quest’anno cinque palestinesi, tre dei quali minori, sono stati uccisi dalle forze israeliane. Il colono ucciso la scorsa settimana è l’unico israeliano assassinato dai palestinesi fino ad oggi nel 2018.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La notizia che il Belgio pagherà 3 anni di aiuti UNRWA in anticipo è sbagliata

Ali Abunimah

19 gennaio 2018, The Electronic Intifada

Il Belgio ha goduto di ottima stampa quando i media hanno riportato che avrebbe aumentato i fondi di sostegno ai rifugiati palestinesi a fronte dei tagli dell’amministrazione Trump agli aiuti USA all’UNRWA

Ma si scopre che tutto ciò è stato mal riferito. Il Belgio non intende versare subito i contributi di tre anni.

E il denaro che intende devolvere nei prossimi tre anni prevede un aumento solo dell’1%.

Perciò la crisi finanziari dell’UNRWA, la peggiore della sua storia, è lungi dall’essere risolta – e, con gli ulteriori tagli annunciati dagli USA, sembra peggiorerà ulterioremente.

    1. La confusione belga

Mercoledì l’Associated Press ha riferito che “il Belgio è intervenuto per aiutare l’agenzia ONU che assiste i rifugiati palestinesi, stanziando immediatamente 23 milioni di dollari [circa 19 milioni di euro] dopo che l’amministrazione Trump ha sospeso i 65 milioni di dollari di aiuti all’organizzazione internazionale.”

L’AP ha aggiunto: “19 milioni di euro sono la quota del Belgio per tre anni, ma dato che il gruppo ne ha immediato bisogno, l’ufficio di De Croo [il vice-primo ministro belga] ha deciso di erogarli immediatamente.”

Tuttavia questo non è vero, come appare ad un’attenta lettura dell’annuncio del governo begla.

Il quale sostiene, con ulteriore enfasi: “In risposta alla richiesta del commissario generale dell’ UNRWA, il vice-primo ministro, e ministro della Cooperazione allo sviluppo, Alexander De Croo ha deciso di stanziare 19 milioni di euro nei prossimi tre anni a favore dell’UNRWA, l’ agenzia delle Nazioni Unite che fornisce aiuti umanitari ai profughi palestinesi “.

Il comunicato aggiunge: “Considerate le difficoltà finanziarie che l’UNRWA sta affrontando al momento, il contributo annuale del Belgio verrà erogato immediatamente.”

Questo non dice che l’intera somma di 19 milioni di euro verrà pagata in anticipo, solo la porzione di quest’anno – cioè poco più di 6 milioni di euro. L’UNRWA lo conferma.

Siamo riconoscenti, nella più grave crisi finanziaria della nostra storia, che il governo belga abbia preso l’iniziativa e che abbia accelerato l’erogazione della prima tranche annuale del suo impegno di tre anni, del valore totale di 23 milioni di dollari [19 milioni di euro],” ha detto il portavoce dell’agenzia Chris Gunness a The Electronic Intifada venerdì. “La prima porzione è di un terzo.”

Ma c’è un po’ di denaro in più: il precedente impegno pluriennale del Belgio, relativo al periodo 2015-2017, ammontava a 18,75 milioni di euro.

Perciò l’aumento nei prossimi tre anni sarà di 250 mila euro, ovvero dell’1.4% – che copre a malapena l’inflazione.

Anche i Paesi Bassi hanno annunciato che stanno accelerando l’erogazione del loro contributo di 16 milioni di dollari a favore dell’UNRWA per il 2018.

Date le dimensioni della crisi che sta affrontando [l’agenzia], i funzionari UNRWA apprezzeranno senza dubbio le misure tappabuchi intraprese dai donatori, ma al momento non è previsto nessun nuovo grande stanziamento di denaro.

Nel frattempo, gli Stati Uniti hanno annunciato che si tireranno indietro rispetto all’impegno assunto a dicembre nei confronti dell’UNRWA di stanziare 45 milioni di dollari per finanziare gli aiuti alimentari d’emergenza.

In questo momento, non forniremo questo [aiuto],” ha detto giovedì la portavoce del Dipartimento di Stato Heather Nauert, aggiungendo “questo non significa che non sarà fornito in futuro.” Questo taglio effettivo si aggiunge ai 65 milioni di dollari che gli USA hanno annunciato di ritirare all’inizio di questa settimana.

L’UNRWA fornisce servizi sanitari ed educativi essenziali a piu’ di cinque milioni di profughi palestinesi, inclusi mezzo milione di bambini in età scolastica.

A Gaza, metà della popolazione di due milioni dipende dagli aiuti alimentari dell’UNRWA. Questo numero è cresciuto dai soli 80 mila del 2000, conseguenza di anni di embargo israeliani e di ripetuti attacchi militari che hanno distrutto l’economia del territorio, rendendolo inabitabile. L’agenzia si è occupata anche di fornire aiuti alimentari d’emergenza e altra assistenza a centinaia di migliaia di profughi palestinesi vittime della guerra civile in Siria.

Nell’affrontare una crisi crescente, l’UNRWA sta rendendo pubblica la sua richiesta d’aiuto e ha messo in rilievo sul suo website gli appelli alle donazioni dirette.

(Traduzione di Tamara Taher)




Come lo Stato Islamico tiene in ostaggio Gaza

Hamza Abu Eltarabesh

21 dicembre 2017,The Electronic Intifada

Quando Rami Fawda ha sentito che era prevista finalmente l’apertura del valico di Rafah, la sua reazione è stata di sollievo misto a preoccupazione.

Il sollievo era dovuto al fatto che il quarantaquattrenne ingegnere vive ad Ankara, in Turchia, dove lavora da 13 anni e vi doveva tornare. Era arrivato a Gaza durante l’estate per visitare la sua famiglia, solo per la seconda volta da quando era andato via, ma era rimasto bloccato, cercando inutilmente per tre volte di ottenere il passaggio attraverso Rafah – il confine tra Gaza e l’Egitto.

Allora Fawda ha cercato di andarsene in ottobre, quando le autorità egiziane hanno annunciato l’apertura prevista di Rafah in seguito ai tanto sbandierati negoziati preliminari di unità da poco conclusi tra i partiti palestinesi Fatah ed Hamas al Cairo. Ma anche questa possibilità è naufragata, questa volta a causa di un attacco ad un posto di controllo dell’esercito egiziano nel Sinai che ha causato 30 vittime, compresi sei soldati, attribuito al gruppo dello Stato Islamico.

Quell’attacco del 15 ottobre era la ragione della preoccupazione di Fawda. Negli ultimi mesi le rarissime aperture – il valico di Rafah è rimasto in funzione per soli 30 giorni circa in tutto il 2017 – sono state temporanee e di nuovo annullate in seguito ad attacchi di miliziani nel Sinai.

L’effetto concreto significa che i militanti del Sinai, molti dei quali hanno dichiarato la propria adesione allo Stato Islamico, con le loro azioni possono tenere in ostaggio due milioni di palestinesi di Gaza.

Non è più un problema egiziano

Fawda ha avuto maggiore fortuna a novembre, ma per un pelo. Il valico è stato aperto il 18 novembre per tre giorni, ed ha cercato di ottenere un permesso per andarsene. Se avesse tardato una settimana, quando il Cairo ha annunciato altri tre giorni di apertura, sarebbe di nuovo rimasto deluso. Il 24 novembre uomini armati hanno attaccato una moschea nel Sinai, uccidendo più di 300 persone. Il valico di Rafah è rimasto chiuso fino alla scorsa settimana.

Fawda ha parlato di controlli di sicurezza e di una ingente presenza militare al confine sul lato egiziano. Quando è stato raggiunto per telefono, ha detto ad Electronic Intifada che l’Egitto ha “la stessa paura che abbiamo noi.” Fawda ha affermato che i miliziani salafiti del Sinai, in precedenza di “Ansar Beit al-Maqdis”, che nel 2014 è diventato Stato Islamico – Provincia del Sinai, hanno di fatto unito le loro forze a Israele nell’ “assediare Gaza”.

Hanno sicuramente trovato un modo per fare pressione sia sull’Egitto che su Hamas. Hamas, spinto dalla necessità di aprire Gaza al mondo esterno, ha stipulato una serie di accordi con il Cairo per aiutare l’Egitto a combattere quella che è diventata una vera e propria insurrezione nel Sinai.

Questi includono la costituzione di una zona di sicurezza lungo il confine tra Gaza e il Sinai e l’arresto di miliziani del Sinai a Gaza e hanno già provocato la rottura dei rapporti da tempo difficili tra Hamas e i salafiti nella stessa Gaza che si è riacutizzata negli ultimi 10 anni.

Secondo Mukhaimer Abu Saada, un analista politico e docente all’università Al-Azhar di Gaza, Hamas ha pagato un prezzo per aver migliorato i suoi rapporti con l’Egitto. “Quando Hamas si è scagliata contro i militanti salafiti, lo Stato Islamico nel Sinai ha iniziato delle ritorsioni, minacciando le operazioni di Hamas lì, compresi i suoi interessi commerciali e il contrabbando di armi,” dice Abu Saada.

Il conflitto nel Sinai è quindi diventato una lotta più vasta, che ha un impatto diretto su Gaza. A Gaza Israele è universalmente visto come il principale beneficiario dell’ostilità tra lo Stato Islamico e Hamas.

E le tensioni generano altre tensioni. Le forze di sicurezza di Hamas hanno arrestato sospetti membri dello Stato Islamico nella zona di Tal al-Sultan a Rafah in risposta al primo attacco suicida rivendicato dallo Stato Islamico a Gaza in agosto. Che a sua volta è arrivato dopo che Hamas si è scagliato contro le infiltrazioni dentro e fuori Gaza.

Da allora il numero di arresti ha iniziato ad aumentare. Ashraf Issa, un ufficiale dei servizi di sicurezza interni di Gaza diretti da Hamas, ha detto a Electronic Intifada che ora ci sono 550 sospetti combattenti dello Stato Islamico in carcere a Gaza.

Ma in cambio ciò minaccia alcuni degli interessi vitali di Hamas, non ultimo il sistema di rifornimento attraverso il Sinai, da lungo tempo utilizzato come rotta di contrabbando per ogni genere di beni ed esigenze, così come di armi e munizioni.

Prendere di mira Hamas

Sicuramente questa è la minaccia che lo Stato Islamico vorrebbe rappresentare. Secondo uno dei dirigenti dello Stato Islamico del Sinai che opera con il nome di battaglia di Muhammad al-Yamani e che è stato raggiunto grazie al telefono di un parente, ogni operazione dello Stato Islamico “è una risposta alle azioni di Hamas e dell’Egitto contro i nostri membri.”

Al-Yamani ha giurato di continuare a colpire le posizioni militari egiziane nel Sinai e ha messo in guardia Hamas che, se continua ad arrestare membri dello Stato Islamico, “distruggeremo il loro sistema di approvvigionamento militare.”

Ha aggiunto: “Stiamo controllando tutti i convogli che attraversano il Sinai.”

Ha riattaccato prima che il giornalista potesse fargli altre domande.

I principali bersagli dello Stato Islamico nel Sinai sono gli egiziani. Significativamente, il 24 novembre uomini armati hanno aperto il fuoco in una moschea nei pressi di El Arish nel Sinai durante le preghiere del venerdì, il peggiore attacco di questo tipo nella storia contemporanea dell’Egitto.

Ma lo Stato Islamico è stato molto attivo anche nella zona di confine tra Gaza e l’Egitto. Lo scorso ottobre tre palestinesi che lavoravano nei pressi del confine sono stati rapiti con un’operazione attribuita allo Stato Islamico. Secondo Abd al-Rahman Odeh, un responsabile della sicurezza di Hamas, sono stati picchiati ed interrogati per circa 12 ore in territorio egiziano e poi rilasciati quando è risultato evidente che nessuno di loro era membro di Hamas.

Odeh insinua che l’operazione sia stato un tentativo di fare pressione su Hamas per uno scambio di prigionieri.

Poi, più tardi in ottobre, Tawfiq Abu Naim, il capo dei servizi di sicurezza interna di Hamas, è rimasto ferito da un’autobomba che Hamas ha definito un tentativo di assassinio fallito. Due membri del gruppo salafita di Gaza sono stati arrestati dopo l’attentato. Una fonte vicina agli investigatori, che ha parlato in condizione di anonimato, ha confermato che Hamas accusa lo Stato Islamico dell’operazione.

Sabotatori ovunque

Importanti esponenti di Hamas inizialmente hanno ipotizzato che dietro all’operazione ci fosse Israele, ma probabilmente più che altro per l’opinione pubblica. Sicuramente i miliziani salafiti hanno i loro motivi. Dalla nomina di Abu Naim, centinaia di salafiti a Gaza sono stati arrestati. Abu Naim è anche responsabile della sicurezza al confine tra Gaza e l’Egitto, dove negli ultimi mesi sono state piazzate alcune decine di posti di blocco.

Ciononostante c’è chiaramente una coincidenza di interessi tra la branca dello Stato Islamico nel Sinai e Israele nella loro lotta contro Hamas. Alcuni dirigenti di Hamas ed analisti hanno suggerito una collaborazione diretta che coinvolge Israele e lo Stato Islamico. Secondo Hussam al-Dajani, un docente di politica dell’università Uammah di Gaza, entrambi hanno interesse nell’uccisione di Abu Naim.

Israele voleva eliminare qualcuno che sia attivo nella resistenza; lo Stato Islamico voleva vendicarsi degli ostacoli che stanno affrontando a Gaza,” dice al-Dajani.

Anche le operazioni dello Stato Islamico nel Sinai hanno contribuito, se non sono state la ragione principale, ai ritardi nell’apertura a lungo promessa del valico di Rafah. Si parla persino di spostare l’attuale valico più vicino alla costa per fare in modo che sia più difficile da attaccare.

Secondo Ashraf Juma, un parlamentare di Fatah, non c’è ancora una decisione a questo proposito. “Abbiamo presentato la richiesta all’Egitto e se ne è discusso, ma non abbiamo ancora ricevuto una conferma,” dice.

L’apertura del valico di Rafah è fondamentale e rimane il tallone d’Achille di Hamas. È l’unico valico per entrare ed uscire da Gaza che ha la possibilità di rimanere a breve termine sempre aperto e per ogni uso ragionevole.

Israele ha imposto un blocco di Gaza da più di 10 anni che il Cairo ha per lo più assecondato.

Questa chiusura ha avuto drammatici effetti economici e sociali su questa striscia di terra costiera stretta e sovrappopolata che è stata a lungo sull’orlo di un disastro umanitario e che le Nazioni Unite ritengono sarà inabitabile entro il 2020.

Come Hamas ha già dimostrato, sta cercando di prendere decisioni difficili, tranne consegnare le sue armi, per garantire che Gaza si apra di nuovo al mondo. Ciò include la fine formale del governo esclusivo su Gaza così come combattere i miliziani salafiti a Gaza e nel Sinai.

L’Egitto – oltre alla cooperazione per reprimere l’insurrezione nel Sinai – è interessata anche a questo. Se fatto in modo corretto, consentire l’attraversamento di Rafah potrebbe stimolare la poco soddisfacente economia aprendo un nuovo mercato per i prodotti egiziani e fornendo al contempo un centro per l’economia del Sinai, oltre al contrabbando ed al turismo.

Ma i sabotatori sono ovunque, non ultimo lo Stato Islamico- Provincia del Sinai.

Hamza Abu Eltarabesh è un giornalista e scrittore freelance di Gaza.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




L’ONU è indulgente sull’uccisione da parte di Israele di un disabile palestinese

Ali Abunimah

19 Dicembre 2017, Electronic Intifada

L’alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti si è unito alla condanna di Israele per l’uccisione di un disabile palestinese nella Striscia di Gaza occupata.

Ma mentre Zeid Ra’ad Al Hussein [alto commissario ONU per i diritti umani, ndt.] definisce l’uccisione di Ibrahim Abu Thurayya “incomprensibile” a un “atto davvero scioccante e immotivato,” il suo ufficio non procede ad imputare alcuna responsabilità reale a Israele.

Si dimostra così il doppio standard secondo cui Israele è trattato più indulgentemente dall’ONU rispetto ad altri responsabili di crimini umanitari.

Abu Thurayya, 29 anni, ha perso entrambe le gambe in un attacco aereo israeliano nel 2008. Lo scorso venerdì ha partecipato a manifestazioni a Gaza vicino alla recinzione di confine con Israele per protestare contro il riconoscimento di Gerusalemme capitale israeliana.

Abu Thurayya “protestava a circa 15 metri dalla recinzione est di Gaza quando è stato colpito da una pallottola, seduto sulla sua sedia a rotelle”, ha dichiarato il gruppo per i diritti umani Al-Haq.

Colpito a morte sulla sedia a rotelle, con in mano una bandiera

Secondo la documentazione di Al-Haq e il filmato dell’incidente, Abu Thurayya “aveva solo in mano una bandiera palestinese e non rappresentava affatto una minaccia [per le forze di occupazione israeliane]) quando gli hanno sparato alla fronte in quello che sembra essere stato un deliberato assassinio.”

Una dichiarazione rilasciata martedì dall’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Zeid Ra’ad Al Hussein riconosce i fatti e afferma che “non c’è assolutamente nulla che suggerisca che Ibrahim Abu Thurayya rappresentasse una minaccia imminente di morte o di gravi ingiurie quando è stato ucciso.”

La dichiarazione aggiunge: “Data la sua grave disabilità, che deve essere stata chiaramente visibile a chi gli ha sparato, la sua uccisione è incomprensibile – un atto davvero scioccante e immotivato.”

Tuttavia, la dichiarazione è molto lontana da ciò che ci si aspetterebbe in una situazione così grave.

Linguaggio blando

L’ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha anche dichiarato che le altre uccisioni e ferite inferte da Israele a centinaia di palestinesi nello stesso giorno sollevano “serie preoccupazioni riguardo al fatto che la forza usata dalle forze israeliane fosse adeguatamente calibrata alla minaccia.”

Questo linguaggio mite sembra giustificare e a spiegare razionalmente l’uso della forza da parte dell’esercito di occupazione contro i dimostranti civili, mentre fa cortesemente appello all’occupante ad essere un po’ meno brutale.

La cosa più preoccupante, tuttavia, è l’appello a Israele dell’ufficio ONU per i diritti umani “ad aprire immediatamente un’indagine indipendente e imparziale su questo incidente e su tutti gli altri che hanno provocato lesioni o morti, al fine di individuare i responsabili di eventuali crimini commessi.”

L’ONU sa perfettamente che Israele è assolutamente incapace di fare indagini su di sé in modo serio. La dichiarazione prende anche atto che sull’uccisione di Abu Thurayya “si è svolta un’inchiesta preliminare interna all’esercito israeliano”.

Quella “inchiesta” è già giunta alla conclusione che le forze israeliane non hanno fatto nulla di male e non hanno mostrato “alcuna mancanza morale o professionale” nello sparare a morte a un disabile.

L’ufficio di Zeid certamente sa che questo genere di impunità è sistematico.

I gruppi per i diritti umani hanno consegnato alla Corte penale Internazionale dell’Aia montagne di prove sulle violazioni israeliane, compresi crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

Sono crimini su cui Israele ha rifiutato di indagare.

Sembra che la Corte Penale Internazionale stia tergiversando nei casi che riguardano Israele.

Secondo Al-Haq, le uccisioni israeliane di manifestanti palestinesi venerdì “potrebbero rappresentare degli omicidi volontari, una grave violazione della Quarta Convenzione di Ginevra e un crimine di guerra che rientra nella giurisdizione della Corte Penale Internazionale”.

Tuttavia, nella sua dichiarazione su Abu Thurayya, l’ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite omette di richiamare la Corte Penale Internazionale affinché si opponga vigorosamente alla sistematica impunità di Israele.

Richieste di intervento

Tutto ciò è in aperto contrasto con le richieste dell’ufficio per i diritti umani al Tribunale Internazionale di occuparsi di Paesi come la Siria, il Burundi, la Corea del Nord e il Myanmar.

Zeid ha anche chiesto “un’indagine internazionale sulle violazioni dei diritti umani in Venezuela per individuare i responsabili.

La richiesta di intervento in Venezuela si basava sulla sua valutazione che “l’attuale sistema è inadeguato” e dovesse essere “riconfigurato con il sostegno e il coinvolgimento della comunità internazionale”.

La dichiarazione su Abu Thurayya non è purtroppo l’unico segno della faziosità per cui l’ONU tratta Israele con i guanti di velluto.

Su mandato del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, l’ufficio di Zeid sta stilando un database delle imprese che operano negli insediamenti israeliani sulla terra palestinese occupata.

All’inizio il database avrebbe dovuto essere pubblicato questo mese, ma l’ufficio di Zeid ha riferito di averlo accantonato in seguito a pesanti pressioni da parte di Israele e Stati Uniti, suscitando preoccupazione nei gruppi per i diritti umani.

E nel 2016, pur dicendo di essere “estremamente preoccupato” per l’uccisione senza verdetto da parte di un medico militare israeliano di un palestinese ferito, l’ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani è parso esigere che i palestinesi sotto occupazione militare debbano garantire la sicurezza dei loro occupanti.

(traduzione di Luciana Galliano)




Colono israeliano uccide un contadino ma vengono accusati dei palestinesi

Maureen Clare Murphy

19 dicembre 2017,Electronic Intifada

Un palestinese – ma ancora nessun israeliano – deve rispondere di gravi accuse in merito a uno scontro tra coloni e abitanti di un villaggio della Cisgiordania, che lo scorso mese ha lasciato un bilancio di un contadino palestinese ucciso.

Muhammad Wadi è stato accusato di tentato omicidio da un tribunale militare israeliano.

Il quotidiano israeliano Haaretz informa che l’atto di accusa sull’incidente del 30 novembre nel villaggio di Qusra sostiene che Wadi è entrato in una grotta in cui un gruppo di bambini e un adulto si erano rifugiati ed ha lanciato grosse pietre contro di loro da distanza ravvicinata, ferendo l’adulto alla testa.

Il giornale aggiunge che altri diciannove palestinesi sono stati arrestati perché sospettati di essere coinvolti [nell’episodio].

Lo scontro mortale è avvenuto quando un gruppo di bambini sono stati portati a fare un’escursione nei pressi del villaggio palestinese come parte di una festa di bar mitzvah [rito ebraico che celebra l’ingresso a pieno titolo nella comunità dei bambini maschi di 13 anni, ndt.].

I coloni sostengono che gli abitanti di Qusra li hanno attaccati e che uno degli accompagnatori dell’escursione ha sparato con il suo fucile per difendersi, uccidendo Mahmoud Zaal Odeh, di 48 anni.

Lo sparatore è stato interrogato dalla polizia in quanto sospettato di omicidio colposo e successivamente rilasciato.

Il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman ha affermato che l’israeliano ha agito “per legittima difesa”, sostenendo che un gruppo di palestinesi ha tentato di “linciare” i bambini.

I miei ringraziamenti e il mio apprezzamento alla scorta armata che ha salvato gli escursionisti da un pericolo evidente ed immediato per le loro vite,” ha aggiunto.

Gli abitanti di Qusra, tuttavia, hanno detto ai mezzi di comunicazione che Odeh stava lavorando la propria terra quando è stato colpito.

Secondo il gruppo per i diritti umani “Adalah” a insaputa e senza il permesso della sua famiglia l’esercito israeliano ha portato il corpo di Odeh a Tel Aviv per l’autopsia, prima che venisse restituito ai suoi cari per il funerale.

Una settimana dopo, decine di coloni sono tornati a Qusra per continuare l’escursione con una massiccia scorta militare e insieme al vice ministro degli Esteri israeliano Tzipi Hotovely ed al ministro dell’Agricoltura Uri Ariel:

Circa 100 coloni arrivano fuori da Qusra per terminare il percorso del bar mitzvah che era finito in scontri con palestinesi la scorsa settimana. Ad accompagnare il ragazzino del bar mitzvah è il ministro Uri Ariel.

Alla domanda se fosse proprio il caso di portare così tanti bambini in una zona che si sta ancora tranquillizzando dopo la violenza della scorsa settimana, Ariel ha detto: “Abbiamo un forte esercito e ci sentiamo sicuri ovunque andiamo sulla nostra terra.”

E si parte. Si uniscono alla festa anche il vice ministro degli Esteri Tzipi Hotovely e Itamar Ben Gvir” [citazione di una cronaca twittata da Jacob Magid, giornalista del quotidiano indipendente israeliano “Times of Israel”, ndt.]

Con loro c’era anche Itamar Ben Gvir, un colono, militante di estrema di destra e avvocato che è considerato “un amico a cui rivolgersi” per gli israeliani che hanno commesso atti di violenza contro i palestinesi, compresi due adolescenti sospettati di essere coinvolti in un attacco incendiario che ha ucciso tre membri di una famiglia palestinese in un villaggio della Cisgiordania [a Duma, nei pressi di Nablus, in cui morì anche un bambino di 18 mesi, ndt.] nel 2015.

Sarit Michaeli, responsabile internazionale del gruppo israeliano per i diritti umani “B’Tselem”, ha definito l’escursione una “sfilata provocatoria dei coloni”.

La gita si è conclusa con una foto di gruppo e un raduno alla grotta in cui i coloni accusano i palestinesi di aver assediato il gruppo di bambini.

Violenza dei coloni

Gli abitanti di Qusra sono da molto tempo vittime di violenze, danni alle proprietà e vessazioni da parte dei coloni.

Nel settembre 2011 la moschea del villaggio è stata devastata e bruciata con gomme incendiate come atto di “price tag” [lett. “pagare il prezzo”; indica le azioni di rappresaglia dei coloni contro i palestinesi, ndt.] o vendetta dopo che la polizia ha demolito tre strutture dell’avamposto non autorizzato dei coloni “Migron”.

Quello stesso mese l’abitante di Qusra Issam Badran è stato ucciso dai soldati durante scontri che sono scoppiati dopo che i coloni sono entrati nelle terre del villaggio.

Un’inchiesta dell’esercito riguardo all’uccisione di Badran è stata chiusa senza che venisse presentato un atto d’accusa. Nel gennaio 2014 gli abitanti di Qusra hanno bloccato più di dodici coloni che avevano fatto incursione nel villaggio e avevano tentato di sradicare ulivi.

Gli abitanti di Qusra sono stati anche sottoposti a incursioni notturne nelle loro case da parte delle forze israeliane come parte delle loro “procedure di mappatura” per censire tutta la popolazione civile palestinese.

Invece un minore israeliano della vicina colonia di Itamar che aveva aggredito un attivista dei diritti umani e lo aveva minacciato con un coltello è stato condannato a svolgere un lavoro socialmente utile per l’incidente dell’ottobre 2015.

L’adolescente aveva attaccato Arik Ascherman, allora capo di Rabbis for Human Rights [gruppo di rabbini che si oppone all’occupazione dei territori palestinesi, ndt.], mentre quest’ultimo stava aiutando un contadino palestinese a raccogliere le olive.

Haaretz ha informato che la giudice che ha emesso la sentenza contro il giovane “ha scritto di aver optato per i lavori socialmente utili perché una detenzione avrebbe potuto danneggiare le possibilità per il ragazzo di essere arruolato nell’esercito israeliano, e perché era convinta che avesse buone possibilità di essere rieducato.”

L’adolescente era rappresentato in giudizio da Itamar Ben-Gvir.

Bambini palestinesi arrestati da Israele per imputazioni come aver tirato pietre ai soldati non godono di una simile indulgenza.

Un crescente numero di parlamentari statunitensi sta appoggiando una legge che imporrebbe al Segretario di Stato [il ministro degli Esteri USA, ndt.] di attestare ogni anno che nessuno dei fondi USA destinati ad Israele venga utilizzato per “finanziare la detenzione militare, gli interrogatori, gli abusi o i maltrattamenti contro i bambini palestinesi.”

La legge condanna i procedimenti giudiziari israeliani contro i minori palestinesi nei tribunali militari, mentre nello stesso territorio i coloni israeliani sono sottoposti alle leggi civili.

Nella Cisgiordania occupata Israele mette in atto un sistema giuridico a due livelli: i palestinesi sono sottoposti ai tribunali militari, in cui viene loro negato un processo minimamente equo e si trovano a dover affrontare una detenzione quasi certa, mentre i coloni israeliani sono soggetti alla giurisdizione della polizia e dei tribunali civili israeliani.

(traduzione di Amedeo Rossi)