Una funzionaria delle Nazioni Unite si dimette in seguito alle pressioni per ritirare il rapporto sull’apartheid di Israele

Ali Abunimah 17 marzo 2017 Electronic Intifada

Un’alta dirigente delle Nazioni Unite si è dimessa in seguito alle pressioni ricevute dal Segretario generale Antonio Guterres perché ritirasse il rapporto pubblicato all’inizio di questa settimana, che rapprensenta una pietra miliare, in quanto riconosce Israele colpevole di apartheid.

Rima Khalaf , presidente della Commissione economica e sociale per l’Asia occidentale [Economic and Social Commission for Western Asia (ESCWA)], che ha pubblicato il rapporto, ha annunciato le sue dimissioni venerdì 17 marzo in una conferenza stampa tenutasi a Beirut.

L’Agenzia Reuters riferisce che Khalaf ha preso questa decisione “dopo quello che ha definito come pressioni ricevute dal Segretario Generale perché ritirasse il rapporto che accusa Israele di imporre un “regime di apartheid” sui palestinesi”

Mi sono dimessa perché è mio dovere non nascondere un crimine evidente e approvo tutte le conclusioni del rapporto” ha detto Khalaf.

Fino a venerdì 17 un comunicato stampa che annunciava il rapporto è rimasto visibile sul sito dell’ESCWA, ma il collegamento dal comunicato stampa al rapporto non è più attivo.




Mahmoud Abbas governa temendo la democrazia

Omar Karmi The Electronic Intifada22 settembre 2016

Comunque le si veda, le elezioni municipali per la Cisgiordania occupata e Gaza in programma in ottobre sarebbero state di fatto un referendum sulla leadership di Mahmoud Abbas e, in modo molto minore, su Hamas.

Forse per questo sono state annullate.

Sicuramente questa è stata l’impressione data dai partiti rivali, Fatah e Hamas, una volta che l’Alta corte di giustizia palestinese di Ramallah ha stabilito che le elezioni non si potevano tenere a causa di “ostacoli procedurali” a Gaza e con Israele che impedisce di votare a Gerusalemme est.

Usama al-Qawasmi di Fatah ha accusato Hamas di aver deliberatamente sabotato il voto con “organi giurisdizionali privati” per impedire ai candidati di Fatah di presentarsi a Gaza. Sami Abu Zuhri, un rappresentante di Hamas, ha denunciato una decisione “politicamente motivata”della corte destinata a “venire in aiuto di Fatah”.

Ovviamente l’Alta corte sostiene strenuamente la propria indipendenza e rigetta la convinzione che le pressioni politiche abbiano influito sulla decisione. Tuttavia la corte non può essere seriamente vista come apolitica, dato che i suoi giudici sono stati nominati dal presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, una carica che Abbas ha ricoperto dal 2005.

Oltretutto il ragionamento della corte secondo cui le elezioni non si possono svolgere se non si tengono a Gerusalemme est non aveva impedito la realizzazione delle elezioni municipali nel 2012.

Dunque almeno qualche considerazione politica probabilmente ha influenzato la sentenza.

Quindi cos’è successo?

Le elezioni sono state annunciate in giugno e, inizialmente, sembravano destinate ad essere una riedizione delle elezioni municipali del 2012, che Hamas aveva boicottato. Il voto nel 2012 era limitato alla Cisgiordania – esclusa Gerusalemme est.

Ma in luglio Hamas ha annunciato che questa volta avrebbe invece partecipato. Dal momento in cui Hamas ha deciso di prendervi parte era chiaro che queste elezioni avrebbero riguardato molto più che l’erogazione di servizi locali.

Il voto avrebbe dovuto essere la prima contesa elettorale diretta in 10 anni, salvo che nelle università, tra Fatah, al potere nelle principali città della Cisgiordania, e Hamas, che governa all’interno di Gaza. Hamas aveva vinto la precedente tornata elettorale, le elezioni del 2006 per il Consiglio Legislativo palestinese.

Se le elezioni di quest’anno si fossero tenute, gli elettori avrebbero avuto la possibilità di esprimere il proprio parere sui risultati di entrambi i partiti. E in questo quasi- referendum, Abbas, che guida Fatah, un movimento diviso e scontento, avrebbe avuto molto più da perdere che Hamas, che ha il pieno controllo di Gaza.

Una sicura vittoria per Hamas?

Hamas ha giocato le sue carte con prudenza, annunciando che non avrebbe partecipato con proprie liste in Cisgiordania, ma avrebbe comunque appoggiato suoi iscritti o simpatizzanti indipendenti. Se ne sarebbe potuto ricavare scarse indicazioni. Un buon risultato avrebbe suggerito che se la fazione avesse presentato una lista di partito ciò avrebbe dato un risultato anche migliore.

Secondo Diana Buttu, un’ ex-consulente legale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, sarebbe stata una vittoria sicura per Hamas. Sostiene che i timori riguardo i risultati di elezioni locali erano anche un segno che le divisioni interne di Fatah sono al momento una delle principali preoccupazioni di Abbas.

“Abbas teme la frammentazione di Fatah ed è ossessionato dalla possibilità di aprire la porta a una sfida alla sua leadership da parte di (Mohammed) Dahlan,” sostiene Buttu, riferendosi all’allora capo di Fatah a Gaza che era stato espulso dalla Striscia dopo che nel 2007 membri di Fatah vi tentarono un fallito colpo di stato sostenuto dagli USA contro Hamas.

Dahlan, che gode dell’appoggio degli Emirati Arabi Uniti e di altri Paesi della regione, è spesso citato come il principale rivale di Abbas e possibile successore, nonostante non viva nei Territori palestinesi da quando è stato espulso da Fatah nel 2011 e la sua base elettorale interna sia principalmente a Gaza.

Ad accentuare tali problemi, dal 2009 c’è stato uno scarso ricambio tra i ranghi di Fatah e nessuna elezione per l’organo dirigente della fazione, il comitato centrale.

“Ogni dirigente locale ambizioso di Fatah si è trovato la strada bloccata,” afferma Buttu. ” L’unica possibilità di fare carriera era presentarsi come indipendenti.”

Tuttavia ciò ha minacciato di replicare le elezioni del 2006, quando una fazione dissidente, al-Mustaqbal (“Il futuro” in arabo), guidata da Marwan Barghouti, in prigione ma molto popolare, e che includeva molti membri importanti di Fatah, si era iscritta per partecipare come lista separata.

Era stato trovato un compromesso all’ultimo momento, ma le divisioni all’interno di Fatah erano tutte molto evidenti e hanno giocato un ruolo in quello che è diventato un vantaggio per Hamas.

Stavolta il vantaggio di abbandonare la nave ammiraglia è arrivato in fretta. Il comitato centrale di Fatah aveva avvertito già prima dell’iscrizione finale all’inizio di settembre di quest’anno che chiunque avesse corso come indipendente sarebbe stato espulso dalle liste del partito.

E un giorno dopo che l’Alta corte ha annullato le elezioni, Abbas ha immediatamente espulso due membri di Fatah ad Hebron, l’ex assessore della giunta comunale Khalid Fahd al-Qawasmi e il vice sindaco del Comune di Hebron, Jawdi Abu Sneineh, che si erano proposti come indipendenti.

Leadership vacillante

Questi non sono stati gli unici espulsi. D’altronde, lo scorso anno, Abbas ha rimosso dalle loro cariche molti funzionari, in Fatah, nell’OLP -di cui è anche presidente – o nelle istituzioni dell’ANP.

Ad agosto sono filtrate notizie che Abbas aveva espulso molti membri del comitato centrale. Ciò era stato preceduto dall’espulsione in aprile del governatore di Nablus Akram Rajoub.

E lo scorso anno ha estromesso Yasser Abed Rabbo dalla sua posizione di numero due dell’OLP.

Tale svolta sempre più autocratica è arrivata insieme a sondaggi che mostravano ripetutamente che Abbas era meno popolare del suo avversario di Hamas, Ismail Haniyeh.

L’ultimo di questi sondaggi – realizzato in giugno dal Centro Palestinese di Politica e Ricerca – indicava che Abbas avrebbe perso in un ballottaggio diretto con Haniyeh, che ha la sua base a Gaza.

Tuttavia il distacco tra i due uomini si è ridotto lievemente se confrontato con un sondaggio realizzato tre mesi prima. In una competizione tra i due personaggi, il 48% di chi ha risposto ha detto che avrebbe votato per Haniyeh rispetto al 52% nella precedente inchiesta. Circa il 43% ha affermato che avrebbe votato per Abbas, in aumento rispetto al 41% di pochi mesi prima.

Circa due terzi del campione nel sondaggio di giugno voleva che Abbas desse le dimissioni, mentre la maggioranza considerava l’Autorità Nazionale Palestinese “un peso per il popolo palestinese.” Un totale dell’80% pensava che le istituzioni dell’ANP fossero corrotte.

Ma il sondaggio di giugno ha anche scoperto che Fatah era leggermente avanti rispetto ad Hamas, e che se Marwan Barghouti fosse stato il leader, Fatah avrebbe vinto un’elezione presidenziale.

Tuttavia Barghouti rimane in una prigione israeliana. Un anziano Abbas è ancora al potere, aggrappato ad una strategia – se questo è il termine appropriato – di “negoziati, negoziati, negoziati”.

Questi negoziati non hanno fatto niente per porre fine alla costruzione ed espansione delle colonie israeliane e al peggioramento delle condizioni di vita dei palestinesi.

E Hamas? Le elezioni sarebbero state la prima volta dal 2006 che il movimento islamico avrebbe potuto misurarsi contro Fatah.

Il periodo in cui Hamas ha governato la Striscia di Gaza assediata è stato sfortunato, con tre gravi attacchi militari israeliani, migliaia di morti, decine di migliaia di feriti e senza casa, uno dei più alti livelli di disoccupazione al mondo e un allarme dell’ONU che la Striscia costiera potrebbe diventare inabitabile entro il 2020.

Tuttavia il movimento è ancora in grado di presentare un fronte coeso, una cosa che Fatah non ha saputo fare dalle elezioni del 2006. Hamas ha anche una dimensione regionale per la sua affiliazione alla più ampia “Fratellanza musulmana”, benché osteggiata.

Fatah è diventata un insieme di singole personalità. E Abbas sembra essere sempre più timoroso che le elezioni possano mettere in evidenza questa situazione.

Imbarazzanti domande potrebbero anche essere fatte sulla sua legittimità a governare – sono passati 11 anni da quando è stato eletto presidente. Il suo mandato è terminato nel 2009.

Le elezioni municipali di ottobre avrebbero potuto essere un primo passo per tornare alla “piscina democratica”. Alcune figure di alto livello nell’apparato dell’ANP hanno deciso di non avvicinarsi a questa “piscina” – forse perché hanno temuto di annegare.

Omar Karmi è un ex corrispondente da Gerusalemme e da Washington del quotidiano “The National”.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’apartheid idrico israeliano asseta la Cisgiordania

Electronic Intifada

Charlotte Silver – 1 agosto 2016

La mancanza d’acqua non è una novità per i palestinesi. Sia nella Striscia di Gaza occupata che in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, la fornitura di acqua che scorre nelle case palestinesi è rigidamente limitata od ostacolata da Israele.

Appena durante l’estate la temperatura sale, i rubinetti si prosciugano. Clemens Messerschmid, un idrologo tedesco che ha lavorato per due decenni con i palestinesi nel loro servizio idrico, chiama la situazione ” apartheid idrico”.

Quest’anno la giornalista israeliana Amira Hass ha pubblicato dati che provano che l’Autorità Idrica Israeliana ha ridotto la quantità di acqua distribuita ai villaggi della Cisgiordania.

In alcuni luoghi l’approvvigionamento è stato ridotto alla metà. I suoi dati contraddicono le smentite ufficiali che la fornitura d’acqua alle città e villaggi palestinesi sia stata tagliata durante l’estate, benché neanche questo sia una novità.

Quest’estate cittadine e piccoli villaggi sono rimasti fino a 40 giorni senza acqua corrente, obbligando quelli che se lo possono permettere a rifornirsi da cisterne d’acqua.

Quando Israele ha occupato la Cisgiordania nel 1967 ha anche preso il controllo dell’Acquifero Montano della Cisgiordania, la principale riserva naturale d’acqua del territorio.

Gli accordi di Oslo dei primi anni ’90 hanno concesso ad Israele l’80% delle riserve dell’Acquifero. I palestinesi avrebbero dovuto avere il restante 20%, ma negli ultimi anni hanno potuto avere a disposizione solo il 14%, in conseguenza delle restrizioni israeliane alle perforazioni.

Per garantire le necessità minime della popolazione, l’Autorità Nazionale Palestinese è obbligata a comprare il resto dell’acqua da Israele. Ma anche così, non è sufficiente.

Israele ha intenzione di vendere solo una limitata quantità di acqua ai palestinesi. In conseguenza di ciò, i palestinesi utilizzano molta meno acqua degli israeliani, e un terzo in meno rispetto alle raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Salute di 100 litri a testa al giorno per uso domestico, ospedali, scuole e altre istituzioni.

“Electronic Intifada” ha parlato della programmata scarsità d’acqua per i palestinesi in Cisgiordania con Clemens Messerschmid, che ha lavorato nel settore idrico in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza fin dal 1997.

Charlotte Silver: la causa della crisi idrica in Cisgiordania è la scarsità d’acqua nella zona? O la scarsità è programmata?

Clemens Messerschmid: Ovviamente non c’è scarsità d’acqua in Cisgiordania. Quello che noi soffriamo in conseguenza di questa scarsità indotta si chiama l’occupazione. Questo è il regime imposto ai palestinesi subito dopo la guerra del giugno 1967.

Israele governa attraverso ordini militari, che hanno il diretto ed intenzionale risultato di tenere i palestinesi a corto d’acqua. Non si tratta di una costante e graduale espropriazione come con la terra e le colonie, ma è stato fatto in un colpo solo grazie all’ordine militare n° 92 dell’agosto 1967.

La Cisgiordania possiede una vasta falda acquifera. Ci sono grandi precipitazioni a Salfit, nella Cisgiordania settentrionale, ora nota per restrizioni idriche particolarmente drastiche.

La Cisgiordania beneficia di un tesoro di acque sotterranee. Ma questo è anche la sua maledizione, perchè Israele l’ha preso di mira immediatamente dopo averne assunto il controllo.

Quello di cui abbiamo bisogno è semplice: pozzi freatici per accedere a questo tesoro. Ma l’ordine militare israeliano n° 158 proibisce rigidamente di scavare pozzi o qualunque altro lavoro di carattere idrico, comprese le sorgenti, condutture, reti, stazioni di pompaggio, pozze utilizzate per l’irrigazione, riserve d’acqua, semplici cisterne per la raccolta dell’acqua piovana, che raccolgono la pioggia che cade sui tetti.

Ogni cosa è proibita, o piuttosto non “permessa”, dall’Amministrazione Civile, il regime di occupazione di Israele. Anche riparare o fare la manutenzione dei pozzi richiede permessi militari. E semplicemente noi non li otteniamo.

E’ semplicemente un caso di apartheid idrico – ben oltre qualunque altro regime del passato di cui io sia a conoscenza.

CS: Israele ha incrementato la quantità di acqua che vende ai palestinesi, ma non è ancora sufficiente ad evitare che i villaggi rimangano a secco. A parte il fatto che il controllo di Israele sulle risorse dell’Acquifero è un grave problema, perchè Israele non vuole vendere più acqua ai palestinesi?

CM: Innanzitutto Israele ha drasticamente ridotto la quantità di acqua a disposizione dei palestinesi. Ha vietato ogni accesso al fiume Giordano, che ora è letteralmente prosciugato nei pressi del lago di Tiberiade.

Inoltre Israele impone una quota sul numero di pozzi e nega metodicamente i permessi per le più indispensabili riparazioni dei vecchi pozzi dei tempi giordani – la Giordania ha amministrato la Cisgiordania dal 1948 fino all’occupazione israeliana -, soprattutto i pozzi per l’agricoltura. Ciò significa che il numero dei pozzi è costantemente in diminuzione. Ne abbiamo meno che nel 1967.

Ora, l’unica cosa che è aumentata è la dipendenza dall’acquisto di acqua dagli espropriatori, Israele e Mekorot, la società idrica pubblica israeliana.

Ciò è riportato continuamente nella stampa occidentale, perchè questo è il punto che Israele sottolinea: “Vedete quanto siamo generosi?”

Per cui, sì, da Oslo gli acquisti da Mekorot sono aumentati costantemente. Ramallah ora riceve il 100% della sua acqua da Mekorot. Neanche una goccia proviene da un solo pozzo che abbiamo noi.

La fornitura ai villaggi da parte di Israele non è stata fatta come un favore. E’ stata iniziata nel 1980 da Ariel Sharon, allora ministro dell’Agricoltura, quando è cominciata il rapido aumento della colonizzazione. La fornitura di acqua è stata “incorporata”, per rendere irreversibile l’occupazione.

Quello che più importa qui è l’apartheid strutturale, cementato e incastonato nel ferro di queste condutture. Una piccola colonia è rifornita attraverso grandi tubature di trasmissione da cui se ne dipartono altre più piccole per andare verso le aree palestinesi.

Israele è molto contento di Oslo, perchè ora i palestinesi sono “responsabili” della fornitura. Responsabili, ma senza un briciolo di sovranità sulle risorse.

La cosiddetta crisi idrica attuale non è affatto una crisi. Una crisi è un cambiamento improvviso, una novità o un punto di svolta durante lo sviluppo. La riduzione nella fornitura ai palestinesi è voluta, pianificata e accuratamente eseguita. La “crisi idrica estiva” è la più prevedibile caratteristica nel calendario dell’acqua per i palestinesi. E la quantità annuale di piogge o la siccità non hanno alcun rapporto con la presenza e le dimensioni di questa “crisi”.

Vorrei sottolineare che per quanto questo succeda regolarmente, in ogni singolo caso si tratta di una decisione consapevole di qualche burocrate e ufficio in Israele o nell’Amministrazione civile. Qualcuno deve andare sul campo e chiudere le valvole della deviazione verso il villaggio palestinese. Questo, come ogni estate, è stato fatto agli inizi di giugno. Da qui, crisi idrica in Cisgiordania.

CS: Quali fattori possono aver contribuito all’aggravamento di quest’anno nelle interruzioni della fornitura d’acqua?

CM: Sembra che la domanda [di acqua] delle colonie sia aumentata drasticamente dallo scorso anno. L’Autorità Israeliana per le Acque ha riscontrato una maggiore domanda dal 20 al 40%, che è molto significativa.

Alexander Kushnir, il direttore generale dell’Autorità per le Acque, la attribuisce all’espansione delle irrigazioni dei coloni sulle montagne melle colonie a nord della Cisgiordania, attorno a Salfit e a Nablus.

CS: Com’è possibile che la gente dell’attuale Israele sembri godere di un surplus di acqua da quando il Paese ha iniziato ad utilizzare la desalinizzazione, mentre la gente sotto occupazione in Cisgiordania è rimasta con così poca [acqua]? Si dice che anche i coloni israeliani abbiano riscontrato una riduzione nelle forniture idriche.

CM: E’ vero che per la prima volta Israele ha dichiarato qualche anno fa che ha un’economia con eccedenza d’acqua ed è interessato a vendere più acqua ai suoi vicini, a cui in primo luogo ha espropriato l’acqua.

I palestinesi stanno già comprando l’acqua che Israele ha rubato, ma, come segnalato, non in modo affidabile o in percentuali sufficienti.

Francamente non lo so. Perchè questo particolare, elevato ed aggravato desiderio di Israele di non vendere neppure acqua sufficiente alla Cisgiordania?

In alcune zone, come nella Valle del Giordano, l’acqua è attivamente utilizzata come uno strumento per la pulizia etnica. Fin dal primo giorno dell’occupazione l’agricoltura è sempre stata presa di mira.

Ma questa logica non si applica ai centri urbani palestinesi densamente popolati nella cosiddetta Area A della Cisgiordania [sotto totale controllo dell’ANP. Ndtr.], che stanno ancora lottando. Dopo 20 anni, mi lascia ancora perplesso.

E’ importante capire un altro elemento: Israele deve continuamente impartire una lezione ai palestinesi. Ogni fornitura di acqua, ogni goccia fornita deve essere intesa come un generoso favore, come un atto di pietà, non come un diritto.

Israele ha incrementato la vendita di acqua alla Cisgiordania da 25 milioni di m³ all’anno nel 1995 ai circa 60 milioni di m³ di oggi. Perchè non ne vende molta di più? Sicuramente dal punto di vista di una politica idrica oculata se lo potrebbe permettere – ha un enorme surplus.

Uno dei problemi materiali che posso riscontrare è quello del prezzo, e quindi il significato dell’acqua.

Israele vuole ottenere finalmente il prezzo più alto per l’acqua desalinizzata che vende ai palestinesi. Mentre si parla solo di qualche centinaio di milioni di shekel all’anno (qualche decina di milioni di dollari) – che per Israele non è molto -, Israele vuole chiudere una volta per tutte la discussione in merito ai diritti palestinesi sull’acqua.

Israele non chiede niente di meno che una resa totale: i palestinesi devono accettare che l’acqua sotto i loro piedi non appartiene a loro, ma per sempre agli occupanti.

Con la richiesta del prezzo intero per l’acqua desalinizzata, i palestinesi ammetterebbero ed accetterebbero una nuova formula.

Una parola sulla Striscia di Gaza: a differenza della Cisgiordania, Gaza non ha fisicamente un accesso possibile all’acqua. La circoscritta e densamente abitata Striscia non potrà mai essere autosufficiente. tuttavia Gaza non riceve simili forniture di acqua da Israele. Solo recentemente Israele ha iniziato a vendere a Gaza i 5 milioni di m³ all’anno stabiliti da Oslo. E’ stato adottato un piccolo aumento di facciata.

In un certo modo si potrebbe interpretare questo trattamento differenziato tra Gaza e la Cisgiordania come un’ammissione israeliana di un certo grado di dipendenza idrologica.

Israele riceve la maggior parte della sua acqua dai territori conquistati nel 1967, comprese le Alture del Golan, ma neppure una goccia da Gaza.

Dal punto di vista di una politica idrica oculata, Gaza non ha risorse da offrire a Israele. Ciò vale anche per la risorsa principale: la terra. Da qui un approccio molto diverso a Gaza fin da subito, nel 1967. Israele non dipende da Gaza da nessun punto di vista materiale. Fin da Oslo Israele ha chiesto a Gaza di rifornirsi da sola con i suoi mezzi, come attraverso la desalinizzazione dell’acqua di mare.

CS: In questo contesto, come si sono comportati i Paesi donatori? Hanno difeso gli standard minimi internazionali o hanno affermato e rafforzato il controllo israeliano sulle risorse idriche nella Cisgiordania occupata?

CM: Purtroppo nel secondo modo. Quando è iniziato Oslo, noi tutti ci siamo illusi che sarebbe iniziata una fase di sviluppo. Pozzi di cui era stata vietata la trivellazione per 28 anni sarebbero finalmente stati messi in funzione.

Abbiamo rapidamente imparato che Israele nei fatti non aveva mai voluto concedere “permessi…per espandere l’agricoltura o l’industria, che possano competere con lo Stato di Israele,” come l’allora ministro della Difesa Yitzhak Rabin disse nel 1986.

Quello di cui c’era bisogno allora e adesso – e tutti quanti lo sapevano – era una pressione politica per ottenere il minimo di permessi di perforazione garantiti dagli accordi tra palestini e israeliani. Questa pressione non c’è mai stata. L’Ue o il mio governo tedesco non hanno mai diramato una dichiarazione pubblica nella quale “deplorassero” o “si dispiacessero” per gli ostacoli nel settore idrico. E’ un vero scandalo.

Ma ancora peggio, qual è stata la risposta di noi occidentali a tutto ciò? Tutti i progetti finanziati dai donatori hanno addirittura abbandonato il settore vitale della perforazione di pozzi. L’ultimo pozzo finanziato dalla Germania è stato trivellato nel 1999.

Come per l’attuale cosiddetta crisi idrica, noi come donatori siamo ora impegnati a finanziare generosamente un’anacronistica distribuzione di acqua con cisterne ai centri urbani palestinesi tagliati fuori [dall’erogazione d’acqua] – adeguandoci e stabilizzando lo status quo dell’occupazione e dell’apartheid idrico.

(traduzione di Amedeo Rossi)