I soldati israeliani uccidono una donna palestinese

Tamara Nassar

3 maggio 2021  The Electronic Intifada

Domenica un palestinese non identificato ha presumibilmente ferito tre israeliani in quella che l’esercito israeliano ha detto essere stata una sparatoria da un’auto in corsa vicino a Nablus, nella Cisgiordania occupata.

Nello stesso giorno le forze di occupazione hanno colpito a morte una donna palestinese che, a quanto sostenuto da Israele, stava tentando di attaccare i soldati ad un checkpoint militare vicino a Betlemme.

L’emittente di Stato israeliana Kan ha postato il video di una vicina videocamera di sorveglianza che pare abbia ripreso la sparatoria da un’auto in corsa presso il checkpoint all’incrocio di Tapuach vicino a Nablus.

Le immagini mostrano un SUV color argento che si avvicina ad una guardiola bianca dove delle persone stanno scaricando una macchina.

Intanto due uomini camminano verso la guardiola seguite da un soldato israeliano.

Il veicolo argentato si ferma brevemente davanti alla guardiola e sembra esserci un trambusto a seguito di un’evidente sparatoria.

Allora sembra che il soldato israeliano spari contro il veicolo, ma questo esce di scena.

Nella sparatoria sono rimasti feriti tre israeliani.

I media israeliani hanno riferito che uno di essi versa in condizioni critiche, un altro in condizioni gravi e il terzo è stato dimesso dall’ospedale.

Tutti e tre sono studenti diciannovenni del collegio religioso di Itamar, uno degli insediamenti coloniali israeliani costruiti nella Cisgiordania occupata in violazione del diritto internazionale.

I media locali hanno riferito che il veicolo sospettato di essere coinvolto è stato trovato lunedì a Aqraba, una cittadina palestinese vicino a Nablus.

Fotografie circolate sui social media mostrano le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese che arrivano sulla scena, probabilmente per cercare i presunti aggressori in coordinamento con le forze di occupazione israeliane.

Il veicolo sembra essere stato dato alle fiamme poco dopo da gente del posto.

Minacce mantenute

L’esercito israeliano ha detto che avrebbe incrementato le forze in tutta la Cisgiordania occupata per cercare i presunti aggressori.

Il numero esatto delle persone coinvolte non è chiaro.

Naftali Bennett, avvocato israeliano e capo del partito di destra Yamina [La Destra, partito estremista dei coloni, ndtr.], ha detto che Israele deve rispondere “col pugno di ferro […] mantenendo la nostra presa sulla terra di Israele.”

Bennett si era in precedenza vantato di aver “ucciso un sacco di arabi”.

In risposta all’incidente il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha minacciato che Israele “colpirà duramente i nostri nemici”.

Lunedì le forze di occupazione e i coloni israeliani hanno messo in atto queste minacce.

Coloni della colonia di Shilo hanno attaccato il villaggio palestinese di Jalud vicino a Nablus palesemente per vendetta.

I coloni hanno lanciato pietre e appiccato fuochi nel villaggio e hanno forato i pneumatici di diversi veicoli della polizia israeliani.

L’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ha diffuso filmati del villaggio bruciato il giorno seguente: i coloni hanno anche infranto automobili e finestre palestinesi.

Dove era l’esercito?” ha detto B’Tselem, “C’era e si è unito agli aggressori.”

Nonostante gli aggressori del villaggio palestinese fossero i coloni, le forze israeliane hanno sparato con proiettili d’acciaio ricoperti di gomma e con altre armi contro i palestinesi.

Le forze israeliane hanno arrestato 11 palestinesi e nessun colono israeliano, secondo quanto riferisce The Times of Israel.

Donna uccisa

Intanto domenica le forze israeliane hanno colpito a morte una donna palestinese all’incrocio di Gush Etzion vicino a Betlemme.

L’esercito israeliano ha sostenuto che Fahima al-Hroub, di 60 anni, stava tentando di accoltellare dei soldati quando le hanno sparato.

Il video diffuso sui social media mostra al-Hroub che si avvicina lentamente a due soldati israeliani al checkpoint.

Porta una borsetta al braccio destro e sembra avere un oggetto nella mano sinistra, ma non è chiaro che cosa sia.

I soldati le ordinano di fermarsi e di alzare le mani, e alla fine uno di loro spara un colpo di avvertimento in aria.

Al-Hroub sembra sobbalzare al rumore dello sparo, ma continua ad avanzare lentamente verso i soldati.

La persona che sta filmando l’incidente si allontana e il momento in cui i soldati israeliani sparano a al-Hroub non appare nella ripresa.

Quando le immagini riprendono, al-Hroub è stesa a terra mentre soldati israeliani sono in piedi accanto a lei.

Uno dei soldati ha sparato a al-Hroub nella parte superiore del corpo, secondo quanto riferito dai media israeliani che hanno citato un’organizzazione medica.

Al-Hroub è stata portata al Centro Medico Shaare Zedek a Gerusalemme, dove è stata constatata la sua morte.

In nessun momento il video mostra al-Hroub abbastanza vicina ai soldati ben armati tanto da rappresentare una minaccia mortale, ed era chiaramente a diversi metri di distanza quando è stato sparato il colpo di avvertimento.

Come in altri incidenti in cui le forze di occupazione sono ricorse all’uso di forza letale contro un palestinese, i soldati palesemente non hanno cercato di bloccarla con mezzi non letali.

L’esercito ha confermato che nessun soldato israeliano è stato ferito durante l’incidente, come in molti casi precedenti in cui è stato ucciso un presunto aggressore palestinese.

L’esercito israeliano ha postato su Twitter una fotografia del coltello che a suo dire aveva al-Hroub.

Al-Hroub proveniva dal vicino villaggio di Husan.

Il mese scorso Israele ha annunciato la confisca di ampie porzioni di terra a Husan e nel villaggio adiacente di Nahalin allo scopo di espandere la colonia ebraica di Beitar Illit e la sua strada di accesso.

Il fratello di al-Hroub ha detto al quotidiano di Tel Aviv Haaretz che lei aveva dei disturbi mentali ed aveva tentato il suicidio dopo essere stata licenziata dal suo salone di bellezza a causa della pandemia da coronavirus.

Gli incidenti di domenica sono avvenuti dopo che in aprile sono circolati allarmanti video che mostrano un gran numero di giovani ebrei israeliani scatenati in tutta Gerusalemme est occupata che aggrediscono i palestinesi.

Più di 100 palestinesi sono stati feriti in seguito alle molte violenze provocate dal gruppo ebraico di estrema destra Lehava.

Tamara Nassar è vice caporedattore di The Electronic Intifada

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




La repressione israeliana vuole mettere a tacere i giornalisti palestinesi

Greg Shupak 

13 aprile 2021 Electronic Intifada

Le operazioni di insediamento dei coloni mirano a impedire agli espropriati di documentare le loro esperienze, e sono parte del tentativo più ampio di dominarli e disumanizzarli e annullare ogni aspetto della loro indipendenza.

La violenza di Israele contro i giornalisti palestinesi ne è un esempio.

Nel 2019 il Congresso mondiale della Federazione Internazionale dei Giornalisti ha adottato una mozione del Sindacato dei Giornalisti Palestinesi che “condanna le continue violazioni della libertà di stampa nei Territori Occupati palestinesi”.

Israele reprime con violenza i giornalisti che documentano i suoi crimini contro i palestinesi – prendendo di mira principalmente i giornalisti palestinesi ma non esclusivamente – perché il controllo delle narrazioni è una componente cruciale del controllo politico.

Violenza

Secondo il Centro Palestinese per lo Sviluppo e la Libertà dei Media, MADA, tra il 2000 e il settembre 2018 Israele ha ucciso 43 giornalisti in Cisgiordania e Gaza.

Durante i primi sei mesi della Grande Marcia del Ritorno di Gaza, una serie di proteste iniziate nel marzo 2018, Israele ha effettuato decine di attacchi contro i giornalisti, incluso il caso di un cecchino israeliano che ha ucciso il giornalista Yaser Murtaja mentre si trovava a circa 350 metri dal confine di Gaza con indosso un giubbotto e un casco che lo identificavano chiaramente come membro della stampa.

Una settimana dopo, in circostanze identiche i soldati israeliani hanno sparato ad Ahmad Abu Hussein che si trovava a diverse centinaia di metri dal confine e indossava un giubbotto e un casco che lo contraddistinguevano come giornalista. Abu Hussein ha subito una serie di operazioni ma è morto circa due settimane dopo.

Israele ha inflitto una miriade di ferite gravi ai giornalisti palestinesi durante le proteste. Yasser Fathi Qudih è stato colpito all’addome, ciò che ha portato all’asportazione di parte della milza. Abdullah al-Shourbaji è stato colpito al bacino e ha perso parte dell’intestino. Yasmin al-Naouq è stata colpita alla schiena.

Decine di giornalisti sono stati sottoposti ad amputazioni a causa delle ferite riportate.

MADA ha riscontrato che in totale, nel 2018 in soli due mesi dal 30 marzo, primo giorno della Grande Marcia del Ritorno, al 30 maggio, ci sono stati 46 giornalisti feriti a Gaza con munizioni vere o proiettili esplosivi.

Questo elevato bilancio, conclude MADA, è “un risultato diretto dell’impunità dell’esercito e degli ufficiali di occupazione israeliani per i crimini commessi negli ultimi anni”.

“Massimo danno “

Il Centro Palestinese per i Diritti Umani ha riscontrato ulteriori 25 feriti fra i giornalisti che coprivano la Grande Marcia del Ritorno tra il 1 ° maggio 2019 e il dicembre dello stesso anno, quando le proteste furono sospese. Tutte le ferite erano imputabili all’esercito israeliano. Cinque di quei giornalisti sono stati colpiti da proiettili veri.

L’associazione conclude che Israele “ha preso di mira i giornalisti per infliggere loro il massimo danno” – giornalisti come Sami Jamal Taleb Misran, che è stato colpito a un occhio con un proiettile rivestito di gomma e alla fine ha perso la vista a quell’occhio. Grazie al suo giubbotto antiproiettile Misran era già sopravvissuto una settimana prima a un colpo diretto al petto.

La violenza contro i giornalisti non è affatto limitata a Gaza e alle proteste della Grande Marcia del Ritorno.

Il Centro Palestinese per i Diritti Umani riporta, nell’anno esaminato, 15 casi di soldati israeliani che hanno ferito giornalisti in Cisgiordania con proiettili veri, proiettili rivestiti di gomma o bombolette di gas lacrimogeni sparati direttamente contro di loro.

In uno di questi casi, le forze israeliane hanno sparato a Moath Amarneh negli occhi mentre copriva le proteste contro le confische di terra vicino a Hebron. Ha perso un occhio.

I soldati israeliani attaccano spesso i giornalisti mentre svolgono il loro lavoro.

Nell’anno esaminato dal Centro Palestinese per i Diritti Umani quattordici giornalisti “sono stati sottoposti a percosse e altre forme di violenza e trattamenti inumani e degradanti da parte delle forze israeliane”, incluso Mashhoor Wahwah dell’agenzia di stampa Wafa che, nell’ottobre 2019, stava riferendo di un’incursione israeliana a sud di Hebron quando un soldato israeliano lo ha picchiato con il calcio del fucile e lo ha costretto a lasciare l’area.

Soltanto un giorno dopo i soldati israeliani hanno attaccato fisicamente sei giornalisti mentre riferivano di una protesta pacifica di decine di civili a Gerusalemme est in solidarietà con i prigionieri palestinesi in sciopero della fame.

Israele ha arrestato quattro giornalisti – uno dell’agenzia turca Anadolu e gli altri dei canali palestinesi Alkofiya Satellite Channel e del quotidiano al-Quds – e ha costretto tutti gli altri giornalisti a lasciare l’area.

Arresti, detenzioni e intimidazioni

Israele arresta e imprigiona regolarmente i giornalisti. MADA riporta che dall’inizio del 2014 alla metà del 2017 ci sono stati 93 arresti e detenzioni di operatori dei media e giornalisti.

Fra questi 18 casi riguardano 15 persone sottoposte a detenzione amministrativa, la pratica di tenere qualcuno in carcere senza accusa o processo e per la quale Israele è stato criticato dalle Nazioni Unite.

Nel 2018 Israele ha arrestato quattro giornalisti palestinesi – Ala Rimawi, Mohammad Ulwan, Husni Injass e Qutaibah Hamdan – che lavoravano per la televisione Al-Quds in Cisgiordania, dopo aver definito la rete una “organizzazione mediatica terroristica” per i suoi legami con Hamas, una mossa condannata dalla Federazione Internazionale dei Giornalisti.

I soldati israeliani hanno anche sequestrato dalle loro case due automezzi e attrezzature tecniche, inclusa una telecamera.

Un mese dopo Israele ha prorogato la detenzione amministrativa di Ali Dar Ali, un popolare giornalista della TV palestinese. Ali era stato arrestato settimane prima per presunta “istigazione alla violenza contro i soldati israeliani” per aver pubblicato un video sulla sua pagina Facebook ufficiale che mostrava le forze di occupazione israeliane all’opera nel campo profughi di al-Amari.

Il Centro riferisce che nell’anno esaminato Israele ha detenuto o arrestato 26 giornalisti “in servizio o a casa loro… perché erano giornalisti”.

Nel marzo 2020 Israele ha arrestato Abdulrahman Dhaher e lo ha detenuto per mesi senza accusa. Una settimana prima del suo arresto aveva pubblicato un video sui social media con interviste raccolte per strada sulla storia dell’occupazione israeliana di Gaza.

Lo scorso novembre Christine Rinawi, corrispondente da Gerusalemme di Palestine TV, si è dimessa in seguito a quelle che Reporter Senza Frontiere ha descritto come “ripetute minacce giudiziarie e di polizia” da parte di Israele.

Rinawi se n’è andata dopo che la polizia israeliana l’ha convocata per l’ottava volta in un anno per interrogarla. Israele l’accusava di aver violato il divieto di lavorare a Gerusalemme. La polizia ha detto che l’avrebbero incarcerata se avesse continuato a lavorare per Palestine TV, che ha sede a Ramallah e – con l’importante eccezione di Gerusalemme – opera nei territori occupati.

Reporter Senza Frontiere ha descritto la vessazione nei confronti di Rinawi come “eccessiva e ingiustificata”.

Censura

Israele censura i palestinesi usando anche un’altra serie di strumenti.

Il Centro Palestinese per i Diritti Umani documenta la messa al bando di due giornali, al-Resalah e Palestine, pubblicati a Gaza ma stampati da al-Ayyam in Cisgiordania.

Nel maggio 2014, prima del sanguinoso assalto israeliano a Gaza dell’estate, le forze israeliane hanno fatto irruzione negli uffici di al-Ayyam a Beitunia, a ovest di Ramallah, per informare i proprietari che non avrebbero più avuto l’autorizzazione a stampare o distribuire alcun giornale che provenisse da Gaza.

Lo scorso novembre Israele ha prolungato di sei mesi la chiusura dell’ufficio di Palestine TV a Gerusalemme est, estendendo quello che in origine era un divieto di 12 mesi.

L’emittente era stata chiusa all’inizio per il crimine di trasmettere “contenuti anti-israeliani e anti-sionisti”. (Evidentemente Israele garantisce ai palestinesi il diritto di esprimersi sempre che non si tratti di ingratitudine per essere oggetto di pulizia etnica!)

I giornalisti palestinesi cittadini di Israele operano in un contesto caratterizzato sia da censura totale che da un’economia politica che agisce come forma di censura.

Quando Israele ha definito Al-Quds TV un’organizzazione “terrorista” a causa della sua adesione ad Hamas, lo Stato ha vietato alla rete di svolgere attività all’interno di Israele o in Cisgiordania. Una conseguenza è stata l’eliminazione di potenziali opportunità di lavoro per i giornalisti palestinesi che vivono in Israele.

Il giorno in cui è stato annunciato il divieto, la polizia israeliana ha convocato il personale di una società palestinese di produzione di media che forniva servizi alla TV Al-Quds e li ha interrogati per diverse ore.

Musawa è l’unico canale televisivo palestinese rivolto specificamente ai palestinesi all’interno di Israele. Ma è legato all’Autorità Nazionale Palestinese e, secondo un dipendente di Musawa, le critiche all’ANP non sono ammesse nelle trasmissioni.

Nel frattempo Makan, la versione in lingua araba dell’emittente nazionale israeliana Kan, impiega arabi e fornisce salari più alti e più risorse rispetto alle strutture arabe in Israele. Tuttavia a Makan parole come “occupazione” e “Nakba” sono proibiti.

La pratica della liberazione

Uccidere, mutilare, aggredire, imprigionare, minacciare e censurare i giornalisti palestinesi nella portata sopra descritta si sommano al sistematico tentativo israeliano di assicurarsi il controllo sulle narrazioni che circolano degli eventi nella Palestina storica.

Sembrerebbe che tali incessanti minacce ai mezzi di sostentamento, alla libertà, al benessere mentale e fisico e alla sopravvivenza dei lavoratori dei media palestinesi potrebbero avere l’effetto di un blocco. Eppure i palestinesi persistono nel produrre giornalismo di notevole quantità e qualità.

Il fatto che il loro lavoro continui non prova che Israele sia una democrazia che consente lo scambio aperto di idee e informazioni.

Suggerisce piuttosto che il giornalismo palestinese va compreso non solo come un modo di documentare i fatti su ciò che il sionismo significa per loro come popolo, ma anche come mezzo per aiutare a preservare proprio la possibilità di parlare dei palestinesi come popolo.

In questo senso il giornalismo palestinese è sia uno strumento nella lotta per la liberazione sia una pratica effimera ma viva che Israele, nonostante i suoi strenui sforzi, non è riuscita a spegnere.

Greg Shupak è autore di narrativa e analisi politica e insegna Media Studies e Inglese all’Università di Guelph-Humber. Ha scritto The Wrong Story: Palestine, Israel, and the Media [OR Books 2018, Una storia sbagliata: Palestina, Israele e i media, ndtr.]

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




“The Present” mette totalmente a nudo la realtà palestinese

William Parry

12 aprile 2021 – The Electronic Intifada

La regista anglo-palestinese Farah Nabulsi ha vissuto un paio di settimane straordinarie.

Il mese scorso il suo cortometraggio, The Present (Il Regalo) – il suo debutto come regista – è stato il primo selezionato per un premio dell’Accademia Britannica delle Arti Cinematografiche e Televisive (BAFTA), prima di ottenere, alcuni giorni dopo, la nomination per un premio oscar, che verrà assegnato a fine aprile.

Poi è giunta la notizia che Netflix stava trasmettendo in streaming il film.

Infine il 10 aprile il corto di 24 minuti ha vinto il BAFTA, aggiungendosi ai numerosi premi e riconoscimenti ricevuti dalla sua uscita lo scorso anno.

Che cosa significa tutto ciò per Nabulsi?

Per me la priorità era che il film fosse visto. È da questo che traggo veramente la mia soddisfazione. Quindi tutto questo significa una maggiore visibilità, che è già stata ampia – e per un cortometraggio, sotto molti aspetti senza precedenti nella nostra storia. In questo senso sono molto, molto soddisfatta”, ha detto a Electronic Intifada in videocollegamento.

Nabulsi si inserisce in un elenco di registi il cui lavoro è ineluttabilmente legato all’identità palestinese. La piccola storia di Nabulsi mostra, con dettagli che spezzano il cuore, il controllo fisico brutale ed umiliante che Israele esercita quotidianamente su milioni di palestinesi, e la fatica fisica, emotiva e mentale che deriva dal suo essere implacabile.

Tuttavia, curiosamente, mentre i suoi film sono inestricabilmente legati alle realtà palestinesi, Nabulsi dice che le sue influenze culturali hanno poco a che fare con la cultura palestinese ed araba.

Cresciuta a Londra e avendo frequentato una “scuola veramente inglese”, Nabulsi dice di non avere conosciuto molto l’arte o la musica araba. Pur amando gli scritti di Edward Said e la poesia di Mahmoud Darwish, dice di aver letto le loro opere “attraverso la lente di chi non legge molto bene l’arabo, ed ha quindi fatto ricorso alle traduzioni.”

Prima di diventare regista, le piacevano i film di Annemarie Jacir e Hany Abu-Assad [due registi palestinesi, ndtr.], ma ammette ridendo che William Shakespeare e altri artisti occidentali sono stati importanti e in vari modi più formativi nella sua crescita culturale.

Il modo in cui affronto il mio lavoro è leggermente diverso”, dice Nabulsi. “Che mi piaccia o no, mantengo un piede in occidente, sempre. Quindi quando scrivo e creo le mie storie e le dirigo, penso di subire una certa influenza dalla mia educazione e anche dalle mie influenze occidentali, forse più che da quelle palestinesi, se devo essere onesta. Non intendo far finta che non sia così.”

I tempi stanno cambiando?

Con un cortometraggio che mostra senza veli la brutale realtà dell’apartheid israeliano sulla vita quotidiana dei palestinesi ottenendo attenzione internazionale – e con una nuova amministrazione USA guidata da Joe Biden e la promessa di tenere quest’estate le elezioni palestinesi a lungo rimandate – Nabulsi trova motivi di ottimismo?

Non vedo reali differenze tra Biden e Trump”, dice Nabulsi. “Sono teste dello stesso serpente, solo che uno indossa una maschera e l’altro no.”

Tuttavia ritiene che i quattro anni di presidenza di Donald Trump abbiano rivelato chiare prese di posizione politiche che quelli che mantengono una posizione neutrale non possono più negare, inclusi alcuni sionisti progressisti.

È diventato molto chiaro che quando si pensa a Trump, a Netanyahu in Israele, a Orban in Ungheria, a Bolsonaro in Brasile, a Modi in India, subito si pensa ‘fascisti!’ e si vede chiaramente chi siano questi compari e che cosa stiano facendo.”

Di conseguenza, sostiene Nabulsi, “questa trasversalità tra altri movimenti per i diritti e antirazzisti è venuta sempre più allo scoperto e questa fratellanza e sorellanza sono state di aiuto. Perciò sono molto contenta dei tempi che stiamo vivendo, ma non di Biden.”

Riguardo alle elezioni palestinesi previste in estate, Nabulsi ammette che “le piace l’idea” di Marwan Barghouti candidato alla presidenza dalla sua cella di un carcere israeliano.

Certo,” dice. “Dà davvero una lieve sensazione alla (Nelson) Mandela, ma non mi faccio illusioni che ciò non possa concludersi del tutto o non vada invece a finire in niente.”

Dice che se l’attuale leadership avesse sinceramente a cuore gli interessi dei palestinesi, “dovrebbe entrare nel XXI secolo e stare al gioco.” Aggiunge che non riesce a capire perché non abbiano buttato la palla direttamente nel campo di Israele molto tempo fa.”

Perché non hanno dichiarato collettivamente: “Sapete che c’è? Ecco: un solo Stato. Prendetevi cura di noi, riprendetevi l’occupazione, riprendetevi tutto questo. Oslo? [gli Accordi di Oslo del 1993 da cui è nata l’Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.] Lo avete ucciso, è defunto ed eccone tutti i motivi: le colonie, questo, quello e quell’altro: fatto. Quindi è tutto inutile.”

Anche l’Autorità Nazionale Palestinese è vuota. I leader palestinesi adesso devono chiedere agli israeliani di “vivere con voi. Devono farlo con molta sincerità e dire seriamente: ‘Ecco ciò che vogliamo!’ e mettere Israele di fronte a una scelta.”

Così devono decidere: ‘Oh no! No, no, no! Ecco il vostro Stato!’, oppure devono fare i conti con un’inequivocabile apartheid.”

I due Stati, dice, “erano una buona idea quando era praticabile, ma adesso chiaramente non lo è. Ma il peccato originale ideologico di Israele è il colonialismo di insediamento, quindi, a meno che non lo abbandonino, loro non vogliono i due Stati. Non è mai stata la loro intenzione.”

Primi germogli

Nonostante gli scenari politici che influenzano l’attuale situazione, Nabulsi scorge guadagnare terreno segni autentici di progresso – che alla fine incominceranno ad influenzare, dal basso verso l’alto, quegli stessi scenari politici.

Cita alcuni esempi recenti, compresi il rapporto “Questo è apartheid” dell’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, la recente decisione della Corte Penale Internazionale di indagare sui crimini di guerra israeliani e negli ultimi anni il cambiamento di ex sionisti progressisti come il giornalista americano Peter Beinart [noto editorialista ebreo americano che nel 2020 ha affermato di non credere più in uno Stato ebraico, ndtr.].

Sono una di quelle persone che credono che si tratti veramente di tutte le gocce dell’oceano che si uniscono. Non è un solo movimento o un individuo o un rapporto – certo, ci sono momenti di svolta e ci sono individui chiave, ma alla fine si tratta di una miscela di tutte queste cose.”

Senza questo ottimismo, dice, fare film sarebbe inutile.

William Parry è un giornalista e fotografo freelance che vive nel Regno Unito. È autore di ‘Against the wall: the art of resistance in Palestine’ [Contro il muro: l’arte della resistenza in Palestina] e coautore del documentario breve ‘Breaking the generations: palestinian prisoners and medical rights’ [Spezzare le generazioni: i prigionieri palestinesi e il diritto a cure mediche].

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Il francese Libération censura l’autrice Sarah Schulman su Gaza?

Ali Abunimah  

6 aprile 2021 – Electronic Intifada

Il quotidiano francese Libération è stato co-fondato da Jean-Paul Sartre sulla scia delle proteste radicali del maggio 1968. Pubblicato dal 1973, è ancora orgoglioso di “schierarsi dalla parte dei cittadini e dei loro diritti contro tutte le forme di ingiustizia e discriminazione, individuali e collettive.”

Tuttavia, come per molte istituzioni progressiste, la volontà di sfidare i potenti a favore degli oppressi sembra passare in secondo piano quando si si tratta della Palestina.

Almeno questo è ciò che la pluripremiata autrice americana Sarah Schulman ha scoperto dopo essere stata intervistata per Libération all’inizio di marzo, in occasione della pubblicazione dell’edizione francese del suo libro del 2016 Conflict is not Abuse [Conflitto non significa sopraffazione] .

L’intervista è stata eliminata da Libération, e a Schulman è stato detto che era in parte a causa delle sue critiche agli attacchi di Israele contro Gaza.

Conflict is not Abuse è per circa un terzo sulla Palestina e in particolare sulla guerra a Gaza del 2014″, ha detto Schulman a The Electronic Intifada. “Sarebbe impossibile discutere del libro senza parlare dell’efferatezza israeliana e del sostegno degli Stati Uniti a quelle gravi ingiustizie”.

The Electronic Intifada ha visto le due versioni del testo dell’intervista: una prima bozza e una versione finale. La guida etica di Libération prescrive ai giornalisti di inviare il testo delle interviste agli intervistati prima della pubblicazione per verificarne l’accuratezza.

Gli aggressori si proclamano vittime

Nell’intervista per Libération con il giornalista freelance Cyril Lecerf Maulpoix, Schulman illustra i temi centrali del suo libro, in particolare la sua analisi di metodi riparatori, inclusivi e meno punitivi per risolvere i conflitti e ottenere giustizia.

Sostiene che il conflitto è una lotta per il potere senza la quale le ingiustizie non possono essere superate, anche se le parti hanno un livello diseguale di potere e responsabilità in una data situazione. In un conflitto, tuttavia, le parti hanno ancora la capacità di agire e interagire, anche evitando il ricorso alla violenza.

La sopraffazione, al contrario, è l’esercizio del potere dall’alto. Può essere sperimentato nella sfera personale o familiare, ma esiste anche a un livello più ampio: il razzismo, l’islamofobia o l’antisemitismo sono sopraffazioni sistemiche che nessun individuo può eliminare.

Schulman osserva che gli aggressori spesso cercano di evitare responsabilità invertendo i ruoli: si considerano vittime dipingendo le loro vittime prive di potere come una pericolosa minaccia.

I suoi esempi includono Michael Brown ed Eric Garner, la cui uccisione da parte della polizia americana nel 2014 ha suscitato il movimento Black Lives Matter, e la violenza di Israele contro i palestinesi.

“Volevo dimostrare che dalla scala più privata alla relazione geopolitica tra uno Stato e una popolazione si può vedere lo stesso paradigma, in cui nel contesto di un conflitto l’aggressore si presenta come se fosse stato attaccato semplicemente perché qualcuno gli resiste”, sono le parole di Schulman citate nella bozza finale di Lecerf Maulpoix.

Oltre a parlare delle giustificazioni israeliane alla propria violenza contro i palestinesi, Schulman estende questo quadro alla Francia, dove il presidente Emmanuel Macron sta attualmente conducendo una guerra contro la vessata minoranza musulmana del Paese all’insegna della difesa della laicité – laicismo – contro lo spettro di un islamo-gauchisme – “islamo-sinistra” – e di un presunto separatismo musulmano.

“Stiamo vivendo in un periodo molto repressivo, in cui i fascisti si stanno espandendo ovunque e gli aggressori affermano di essere vittime perché è in corso un cambiamento”, afferma Schulman nella prima bozza.

“Possiamo vederlo anche in Francia, col panico dell’islamo-sinistra”, aggiunge, sottolineando con evidente ironia “Suppongo di essere un’ebrea di islamo-sinistra”.

Tutto questo era evidentemente troppo per Libération.

Troppo radicale”

Una settimana fa, circa tre settimane dopo l’intervista, Schulman ha ricevuto un messaggio di scuse da Lecerf Maulpoix.

“Dopo l’invio di due diverse versioni, alla fine il redattore della rubrica Idées [Idee] ha deciso di non pubblicare l’intervista per ragioni che trovo ancora difficili da capire”, scriveva Lecerf Maulpoix.

“Alcune sono quelle che ho catalogato come politiche (su aspetti che trovano troppo radicali, il ruolo della polizia, Israele e Gaza)”, ha aggiunto.

Il giornalista ha scritto a Schulman della sua frustrazione per essere stato incapace di accogliere le richieste degli editori, nonostante “alcune riscritture per adeguare l’intervista alle loro opinioni”.

Entrambe le bozze viste da The Electronic Intifada, in francese, sono ben scritte e trasmettono le idee di Schulman in modo chiaro e conciso.

La versione finale menziona ancora Israele e Gaza, anche se nel complesso è probabilmente più moderata – forse un riflesso degli sforzi infruttuosi del giornalista per accontentare il giornale.

Cécile Daumas, redattrice della sezione Idee di Libération, non ha risposto alle richieste di The Electronic Intifada di un commento.

In assenza di una spiegazione dal giornale, Schulman si è trovata a trarre le proprie conclusioni.

“So che ci sono sforzi internazionali per equiparare falsamente le critiche a Israele e il sostegno ai diritti dei palestinesi con l’antisemitismo, e presumo che Libération sia caduta in quella palude”, ha detto a The Electronic Intifada.

“Ogni giorno sentiamo parlare di persone palestinesi o che stanno con la Palestina che vengono messe a tacere, e questa repressione è in aumento”.

Ali Abunimah è co-fondatore di The Electronic Intifada e autore di The Battle for Justice in Palestine [La battaglia per la giustizia in Palestina], ora uscito per i tipi di Haymarket Books.

Ha scritto anche One Country: A Bold-Proposal to End the Israeli-Palestinian Impasse [Una Nazione: una proposta audace per porre fine all’impasse israelo-palestinese].

Le opinioni espresse sono solo dell’autore.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Israele allaga le fattorie di Gaza?

Amjad Ayman Yaghi

25 marzo 2021 The Electronic Intifada

Le terre palestinesi vengono deliberatamente allagate da Israele?

Da molti anni i contadini di Gaza lamentano la distruzione dei loro raccolti a causa di improvvisi flussi d’acqua.

Un recente rapporto del gruppo per i diritti umani Al Mezan [organizzazione non governativa con sede a Gaza, ndtr] esclude che per numerosi casi documentati di inondazioni la causa “…sia di origine naturale.”

Samir Zaqout, esponente di Al Mezan, ha dichiarato che tale conclusione si basa su ciò che ricercatori dell’organizzazione hanno osservato “sul campo” quest’anno.

I ricercatori avevano notato dopo forti precipitazioni un “flusso d’acqua”all’interno della barriera che separa Gaza da Israele, acqua che successivamente hanno visto entrare a Gaza dal lato di Israele.

“Riteniamo che ci siano grandi vasche d’acqua usate [all’interno di Israele] per la raccolta di acqua piovana e che quando queste sono piene, l’acqua venga scaricata in direzione della Striscia di Gaza,” ha affermato Zaqout.

“Perso in un batter d’occhio”

A febbraio dei contadini che lavorano vicino al confine fra Gaza e Israele avevano programmato di raccogliere le verdure da vendere al mercato, ma la mattina in cui sono andati al lavoro hanno trovato i loro terreni – situati ad est della città di Gaza – allagati.

“Il raccolto stagionale era andato perso in un batter d’occhio,” ha dichiarato Musad Habib, contadino di quella zona. Il raccolto comprendeva melanzane, pomodori, lattuga e patate.

Il cinquantaquattrenne Musad imputa ad Israele la responsabilità dell’allagamento.

I militari israeliani vogliono impedire le attività agricole vicino al confine in modo da avere “una visuale più chiara dell’area per scopi militari,” afferma Musad.

“Hanno già aperto il fuoco contro di noi diverse volte,” aggiunge.

“Stanno cercando di costringerci a lasciare i nostri terreni.”

E’ già stato documentato come l’esercito israeliano abbia impiegato aerei da irrorazione per spargere diserbanti ritenuti cancerogeni lungo il confine orientale di Gaza, oltre a spianare terreni agricoli e residenziali all’interno di Gaza per aumentare il campo visivo dei soldati.

Musad aveva pensato di fare una piccola festa proprio il giorno in cui ha scoperto che il raccolto era stato distrutto. Se il raccolto fosse stato abbondante, avrebbe ordinato una cena da asporto al ristorante da godersi in relax con la famiglia.

Invece quel giorno tornò a casa dai campi in preda ad un profondo senso di tristezza.

La distruzione del raccolto ha aggravato i suoi già seri problemi economici. Con sette figli, due dei quali sposati, è sostanzialmente lui a mantenere la numerosa famiglia.

“Neppure i pennuti sono al sicuro

Hussein Habib possiede un’azienda avicola vicino ai campi di Musad Habib.

Nelle prime ore dello stesso giorno di febbraio un altro contadino telefonò a Hussein per avvisarlo che molti terreni erano stati allagati.

Hussein andò di corsa nella sua azienda. Lo aspettava una scena veramente angosciante.

Cercò immediatamente di salvare tutte le galline che poteva. Ne riuscì a salvare circa metà, ma per le rimanenti era già troppo tardi. Erano annegate.

Neppure i pennuti sono al sicuro dall’occupazione di Israele,” afferma Hussein. “Gaza è densamente popolata e non c’è molto spazio per coltivare o per allevare galline. Ecco perché i contadini devono lavorare nella zona al confine, perché è lontana dalle abitazioni.”

“Sappiamo che è pericoloso e che gli occupanti israeliani possono aprire il fuoco in qualsiasi momento,” prosegue. “Ma non abbiamo altra scelta. E’ estremamente difficile riuscire a campare a Gaza.”

Prima delle perdite patite da Hussein e dai suoi colleghi, quest’anno Israele era già stato accusato un’altra volta di avere deliberatamente allagato i terreni di Gaza.

“Angosciato”

Lo scorso gennaio le coltivazioni di melanzane, lattuga, pomodori, cetrioli, prezzemolo e crescione di Muhammad Abu Asir furono allagate.

Cercò di salvare il salvabile e cosparse terriccio sul terreno agricolo in affitto sperando di ricavare qualcosa, per quanto scarso, al momento del raccolto, ma il terreno venne allagato di nuovo il mese successivo.

Il cinquantenne Abu Asir ha già sofferto molto a causa della violenza di Israele. La sua casa di al-Shujaiyeh, quartiere della città di Gaza, fu distrutta nel 2014 durante un massiccio attacco israeliano.

“Corro costantemente il rischio di venire ucciso,” afferma. “I miei quattro figli mi hanno chiesto di mollare l’attività agricola. Ma non ci sono altri lavori che possa fare. Tutta la mia vita è legata alla terra.”

“Sono profondamente angosciato,” aggiunge. “Anche i contadini israeliani hanno i nostri stessi problemi? Se ci fossero attacchi contro di loro, Israele accuserebbe di terrorismo i palestinesi. I continui attacchi di Israele contro i palestinesi che lottano per sopravvivere sono terrorismo.”

Secondo Al Mezan, Israele ha deliberatamente allagato le proprietà agricole di Gaza sette volte nel corso del 2020, danneggiando così circa cinquanta acri di terra.

I difensori dei diritti umani hanno raccolto le prove che i militari israeliani hanno perseguito una politica di allagamenti intenzionali nel corso dello scorso anno. Amit Shohanski, consulente legale dell’esercito di Israele, ha replicato che esso ”non era responsabile dell’amministrazione e gestione delle riserve idriche nelle aree adiacenti alla Striscia di Gaza.”

I militari, dichiara Shohanski, “non hanno mai messo in atto alcun intervento al fine di regolare o deviare l’acqua dagli invasi situati sul lato israeliano in direzione della Striscia di Gaza, se davvero ciò sia mai accaduto.”

Samir Zaqout di Al Mezan ha osservato che non è la prima volta che i soldati israeliani “negano i loro crimini.”

“Se ammettessero questi crimini, allora avrebbero la responsabilità di risarcire i contadini per i danni provocati. Ed i contadini potrebbero citare in giudizio Israele. Non è quindi una cosa che gli israeliani ammetteranno mai.”

Amjad Ayman Yaghi è un giornalista che vive a Gaza.

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




Perché non posso vivere con il trauma di Gaza

Tamam Abusalama

15 marzo 2021 – Electronic Intifada

Mio padre rispose a una telefonata che lo avvertiva che tutta la nostra famiglia doveva evacuare la nostra casa. Stava per essere bombardata.

La chiamata veniva da qualcuno che lavorava per il comitato internazionale della Croce Rossa. Arrivò un giorno durante l’operazione Piombo Fuso, una pesante offensiva israeliana contro Gaza tra la fine del dicembre 2008 e le prime settimane del gennaio 2009.

Non ricordo la data esatta della chiamata. In quel periodo tutti i giorni sembravano uguali.

Per le strade vuote non c’era gente. Ma erano piene di macerie degli edifici che erano stati distrutti o danneggiati.

Nell’aria si sentiva l’odore degli esplosivi.

Era inquietante, ma non silenzioso.

I carri armati e gli elicotteri israeliani erano estremamente rumorosi. Più rumorosi di qualunque altra cosa riuscissimo a sentire.

Al-Saftawi, il quartiere in cui vivevano a nord di Gaza, era buio e spaventoso. Non c’erano acqua, cibo e quasi per niente energia elettrica.

Panico

Il giorno in cui abbiamo ricevuto quella chiamata ha lasciato una cicatrice nella mia anima.

Ricordo mio padre gridare il mio nome e quelli dei miei fratelli e sorelle. Doveva avvertire anche le altre persone che vivevano nel nostro caseggiato.

Sentivo il panico nella sua voce.

Ricordo i vicini affrettarsi verso di noi per aiutarci.

Uno mi teneva per mano mentre correvo. Ero scalza.

Avevo riempito una borsa con quelle poche cose che io, allora quindicenne, consideravo preziose.

In quella borsa finirono i miei vestiti preferiti e il mio diario. Avevo anche messo delle cose che mi avrebbero ricordato i miei migliori amici.

Ma ho dovuto abbandonare la borsa.

Quando ho implorato mio padre di permettermi di portarla, mi disse di uscire immediatamente.

Tutti quelli che abitavano nel nostro edificio si rifugiarono in un altro davanti a casa nostra.

Aspettammo.

Aspettavamo che Israele bombardasse tutto quello che avevamo.

La nostra casa aveva cinque piani e un giardino paradisiaco, con olivi, limoni, fichi e palme. Era stata costruita dai miei genitori con soldi guadagnati duramente. Sul retro avevamo un’altalena. Da bambina mi faceva sentire una privilegiata.

In casa avevamo una foto incorniciata dei nostri nonni. Era un ricordo costante delle traversie della nostra famiglia, di come noi fossimo dei rifugiati perché i nostri nonni erano stati espulsi dai loro villaggi natii di Beit Jirja e Isdud [il primo era un villaggio distrutto dagli israeliani nel 1948, la seconda è l’attuale città israeliana di Ashdot, n.d.tr.] dalle forze sioniste nel 1948.

Le affiliazioni politiche della nostra famiglia erano ovvie dalle foto sui muri.

La fotografia dei miei nonni era appesa accanto a quella di George Habash, il fondatore del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina [storico gruppo marxista-leninista della resistenza palestinese, n.d.tr.].

La mia casa rappresentava tutto per me. Ora stavo aspettando che venisse fatta saltare in aria.

Aspettammo per quella che ci sembrò un’eternità. Non successe niente. Fortunatamente.

Non c’è tempo per rimarginare le ferite

L’operazione Piombo Fuso durò tre settimane, durante le quali Israele uccise circa 1400 palestinesi, principalmente civili, inclusi più di 300 minorenni.

Quando finì, avrei voluto che tutto si fermasse per alcuni giorni, così avremmo potuto elaborare quello che avevamo passato, la crudeltà a cui gli israeliani ci avevano sottoposto.

Ma non c’era tempo per metabolizzare. La vita doveva andare avanti.

I palestinesi a Gaza, me inclusa, devono fare i conti con paura e perdite fin da piccoli.

Dopo ogni evento traumatico si continua con le faccende quotidiane. Poi, inaspettato, si verifica un altro evento traumatico.

Dopo l’operazione Piombo Fuso ho fatto quello che ho potuto per vivere una vita ordinaria. Son tornata a scuola e ho fatto finta che tutto fosse a posto.

Ma non era così.

Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a sfuggire a quello che era successo il primo giorno dell’operazione Piombo Fuso. Il rumore degli elicotteri israeliani ronzava ancora nella mia testa.

Io e mia sorella Shahd eravamo a scuola il giorno in cui gli israeliani hanno attaccato una località vicina.

Siamo scappate da scuola insieme, ma fuori ci siamo separate. Per la strada continuavo a chiamare Shahd, ma non riuscivo a trovarla.

Fortunatamente, ci siamo ritrovate dopo poco. Ma da allora mi ha accompagnata il pensiero che quel giorno Shahd sarebbe potuta essere uccisa.

Sono ancora perseguitata anche dall’immagine dei miei compagni di scuola che correvano di qua e di là cercando disperatamente riparo.

E non dimenticherò mai come la nostra famiglia dovette dare la terribile notizia a una nostra amica che allora stava a casa nostra. Anche suo padre stava con noi e fu ucciso durante un’incursione aerea israeliana mentre andava a fare la spesa.

Abbiamo dovuto informare la mia amica e i suoi fratelli della morte del loro padre.

Nessun futuro

Anche se non riuscivo a togliermi queste cose dalla testa, sono riuscita a vivere con un certo grado di normalità fino agli inizi del 2011. Poi sono scoppiate le rivolte in Egitto e Tunisia.

I giovani a Gaza sono stati ispirati da quelle rivolte. Ci spronavano a lottare per i nostri diritti.

Abbiamo iniziato a progettare le nostre proteste e abbiamo cominciato a mobilitarci sui social.

Le attività politiche mi distraevano dai miei studi. Passavo le mattine a scuola e il resto del giorno nelle proteste o organizzandole con gli altri attivisti.

Quell’anno a marzo, abbiamo protestato per tre giorni consecutivi prima che le autorità guidate da Hamas mettessero fine alla nostra protesta. Poliziotti in borghese ci hanno picchiati.

Quel poco di ottimismo nato dalla rivolta egiziana e tunisina a Gaza non è durato a lungo.

L’assedio imposto da Israele ed Egitto ha continuato ad avere un effetto soffocante sulle nostre vite.

I giovani hanno continuato ad essere disperati. La disoccupazione era ancora alta e quasi tutte le famiglie dipendevano da aiuti alimentari, particolarmente delle Nazioni Unite.

Alla fine del 2011 mi sono iscritta all’università di al-Azhar a Gaza City. Ho cominciato un corso di laurea in letteratura inglese e francese.

Andare all’università dovrebbe essere un’esperienza gioiosa ed emozionante. Eppure sentivo che né io né qualsiasi altro giovane avrebbe potuto avere un bel futuro a Gaza.

Per le ragazze è ancora più difficile che per i loro coetanei maschi. Le autorità a guida Hamas non vedono di buon occhio, per usare un eufemismo, donne politicamente attive come me.

Decenni di colonizzazione israeliana hanno reso più pronunciata la cultura patriarcale a Gaza.

Il blocco totale imposto da Israele dal 2006 ci ha isolati dal resto del mondo.

Una conseguenza è che la società è diventata più conservatrice. L’uguaglianza di genere non è considerata come una priorità da molti nel momento in cui peggiorano le condizioni economiche.

Dopo meno di un anno all’università di al-Azhar, ho deciso di lasciare Gaza e trasferirmi in un posto più sicuro. Un posto dove avrei potuto vivere più libera.

Sono andata in Turchia, dove ho studiato giornalismo all’Università di Ankara.

Dalla Turchia ho fatto vari viaggi in Europa. Mi sono poi trasferita in Belgio, dove adesso studio francese.

Ora manco da Gaza da otto anni. Quasi la metà di questo periodo l’ho passato a Bruxelles, dove mi hanno concesso lo status di rifugiata.

Eppure gli orrori di cui sono stata testimone a Gaza non mi hanno abbandonata.

Ho spesso problemi a dormire. Quando riesco ad addormentarmi, spesso ho degli incubi.

Sono regolarmente assalita da paura e ansia. Mi sento insicura, instabile e incerta.

Ho dei flashback delle facce dei miei genitori quando ci hanno detto di andarcene di casa. Erano terrorizzati e impotenti, impossibilitati a compiere il loro dovere fondamentale di proteggere i loro figli.

Ho paura di perdere qualcuno che amo, o cose preziose che mi sono guadagnata con fatica.

Una sensazione di pericolo incombe su di me da molto tempo.

Sono ossessionata dal pensiero di programmare i giorni e talvolta persino le ore seguenti. Se le cose non vanno come avrei voluto, ho degli attacchi di panico.

Trauma complesso

Il trauma che ho subito è complesso e ho deciso che non posso conviverci.

La psicologia occidentale ha dei limiti quando si tratta di quello che i palestinesi hanno vissuto.

Spesso sentiamo che il disturbo da stress post-traumatico è prevalente a Gaza. Il prefisso “post” implica che il trauma è dietro di noi, mentre invece in realtà è costante.

Nonostante i limiti della psicologia occidentale, ho cominciato una terapia cognitivo-comportamentale in Europa occidentale.

Ho cominciato sapendo che il processo di guarigione sarebbe stato lungo e difficile, specialmente perché la violenza inflitta a Gaza sta continuando. Ma il processo è stato facilitato perché ho trovato la terapista giusta che ha capito che il mio trauma è simultaneamente personale e il risultato di quello che i palestinesi hanno vissuto per molte generazioni.

Il mio trauma è parte della memoria e della coscienza collettiva dei palestinesi.

Durante i miei incontri psicoterapeutici, ho imparato di più sull’origine di ognuna delle emozioni che provo.

Ciò mi ha aiutato a sviluppare una strategia. Cerco di affrontare, accettare ed esprimere le paure, invece di evitarle.

Sono costantemente conscia che devo vivere nel presente, invece di lasciare che i ricordi prendano il controllo.

La resilienza del mio popolo mi dà la forza e la speranza che mi servono per continuare.

Riconoscere il trauma che ho subìto mi ha fatta quello che sono oggi e ha modellato la mia consapevolezza delle altre ingiustizie nel mondo. Mi ha resa più forte.

Guerra psicologica

Israele combatte una guerra psicologica che fa parte dell’occupazione. È parte di una strategia deliberata.

Ariel Sharon, ex leader politico e militare israeliano, ha sviluppato una filosofia di quello che è stato definito “mantenere l’incertezza.”

L’analista Alastair Crooke ha scritto di come, implementando la filosofia di Sharon, Israele abbia “ripetutamente esteso e poi limitato lo spazio in cui i palestinesi possono operare attraverso un’imprevedibile combinazione di regolamenti mutevoli fatti rispettare in modo selettivo.”

La Palestina stessa è stata divisa con la costruzione di colonie israeliane e una rete di strade riservate per i coloni. Tutto ciò è inteso a indurre nei palestinesi un senso di “provvisorietà permanente,” scrive Crooke.

La guerra psicologica israeliana è diventata più estrema dopo l’operazione Piombo Fuso.

Durante i pesanti attacchi contro Gaza del 2012 e 2014, Israele ha adottato tattiche più possenti di quanto non ne abbia precedentemente impiegate per tormentare e perseguitare. Le forze israeliane hanno telefonato a palestinesi con messaggi ostili, lanciato da aerei volantini con contenuti intimidatori e interrotto programmi radiotelevisivi palestinesi per trasmettere propaganda israeliana.

La decisione della Corte Penale Internazionale di aprire un’indagine sui crimini nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza è significativa. Finalmente Israele potrebbe essere chiamato a rispondere di alcuni dei suoi crimini.

La decisione solleva anche domande.

Perché la CPI ha impiegato così tanto tempo ad arrivare a questa decisione?

Perché la CPI vuole indagare sulle attività sia di Israele che dei gruppi armati palestinesi? Perché sta trattando “entrambe le parti” – l’occupante e l’occupato – come se fossero uguali?

Perché l’indagine è limitata a eventi che sono successi dopo il giugno 2014? Ciò significa che molti dei crimini israeliani– inclusi quelli commessi durante l’Operazione Piombo Fuso – sono stati ignorati.

Finirà veramente mai l’impunità israeliana? Le vite dei palestinesi importeranno mai ai governi e alle istituzioni più potenti al mondo?

I palestinesi sanno molto bene che gli USA e l’Unione Europea sono complici dei crimini commessi contro di loro. Essi si presentano come avvocati dei diritti umani, eppure finanziano e consentono le violazioni israeliane dei diritti basilari dei palestinesi.

Alcuni dei protagonisti dell’operazione Piombo Fuso godono di una rispettabilità immeritata.

Gabi Ashkenazi, il generale che ha comandato l’offensiva, è ora ministro degli Esteri israeliano. Ciò significa che detiene la carica che Tzipi Livni ha occupato nel 2008 e agli inizi del 2009, quando incoraggiò le truppe israeliane a comportarsi con estrema violenza durante l’attacco contro Gaza.

Oggi, Livni siede nel consiglio di amministrazione dell’International Crisis Group [ong transazionale con sede a Bruxelles e che ha tra i fondatori George Soros, n.d.tr.]. Il sito web dell’International Crisis Group afferma che esso sta “lavorando per prevenire guerre e definire politiche che costruiranno un mondo più pacifico.”

Israele ha sempre agito come se fosse al di sopra del diritto internazionale. Sin dalla sua costituzione, Israele tratta i palestinesi fin dalla culla come una “bomba demografica ad orologeria”.

Sebbene Israele abbia sviluppato e messo in pratica una gamma di tecniche differenti per contenere e spezzare i palestinesi, noi non siamo andati via.

Come ha scritto Tawfiq Ziyad, uno dei nostri grandi poeti:

Qui noi rimarremo

Un muro sopra il nostro petto
affamati, nudi, cantiamo canzoni
riempiamo le strade
con dimostrazioni

e le prigioni con orgoglio
noi generiamo ribellioni
una dopo l’altra
come se fossimo una ventina di impossibilità restiamo

A Lydda, Ramleh, Galilea.

Tamam Abusalama è nata e cresciuta nella Striscia di Gaza. Ora vive in Belgio.

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)




Vaccinare i palestinesi solo se è funzionale a Israele

Maureen Clare Murphy

12 marzo 2021 – The Electronic Intifada

Come direbbero i ragazzini, Il COGAT [Coordinatore delle attività governative nei territori: unità del ministero della difesa israeliano che coordina le questioni civili tra il governo di Israele, le forze di difesa israeliane, le organizzazioni internazionali, i diplomatici e l’Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.] ricomincia con le sue stronzate.

All’inizio di questa settimana l’ente militare israeliano ha twittato foto di lavoratori palestinesi mentre vengono vaccinati contro il COVID-19 ai posti di blocco in Cisgiordania.

Il COGAT, famigerato per la sua propaganda mediocre e strumentale, ha affermato che l’iniziativa sui vaccini “è un passo importante per assicurare la salute pubblica e la stabilità economica”.

“Fatevi vaccinare!” ha implorato il COGAT, il quale troppo spesso ritarda o nega ai palestinesi i permessi di viaggio per accedere alle cure mediche.

Tuttavia la stragrande maggioranza dei palestinesi che vivono sotto l’occupazione militare israeliana, anche se lo volesse, non potrebbe essere vaccinata.

Mentre Israele si vanta della sua campagna di vaccinazione di tutti i suoi cittadini, ha rifiutato di fornire il vaccino ai palestinesi che vivono sotto occupazione, in base a quanto previsto dalla Quarta Convenzione di Ginevra.

Vaccinare i palestinesi a vantaggio di Israele

Israele ha recentemente iniziato a fornire vaccini a circa 130.000 palestinesi che lavorano nelle sue fabbriche, nei suoi cantieri e nelle sue colonie, il lavoro sottopagato e sfruttato da cui dipende l’economia israeliana.

Ma Israele non fornirà vaccini ai restanti oltre 5 milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Come ha detto un palestinese alla Reuters “ Anche i lavoratori palestinesi che [gli israeliani] hanno vaccinato, lo hanno fatto a vantaggio della comunità israeliana, non in funzione del benessere dei lavoratori”.

 

Omar Shakir, direttore del programma di Human Rights Watch [organizzazione non governativa internazionale che si occupa della difesa dei diritti umani, ndtr.] ha osservato che “vaccinare solo quei palestinesi che entrano in contatto con israeliani rafforza [l’idea] che per le autorità israeliane la vita palestinese conti solo nella misura in cui influisca sulla vita ebraica”.

Nel frattempo le unità di terapia intensiva degli ospedali di alcune aree della Cisgiordania stanno attualmente operando al 100% della capacità, poiché nelle comunità palestinesi del territorio i casi di COVID-19 sono in aumento.

Nelle ultime due settimane le città palestinesi hanno introdotto blocchi totali per controllare la crescita del numero delle infezioni da COVID-19, proprio mentre il vicino Israele ha iniziato a revocare le restrizioni procede con una delle campagne di vaccinazione più veloci al mondo”, ha riferito la Reuters.

Apartheid sanitario

La disparità nell’accesso ai vaccini COVID-19 è un chiaro esempio del regime israeliano di apartheid imposto dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo.

“Il regime israeliano mette in campo leggi, pratiche e violenze di Stato progettate per cementare la supremazia di un gruppo – gli ebrei – su un altro – i palestinesi”, ha affermato l’associazione per i diritti umani B’Tselem [organizzazione israeliana non governativa che documenta le violazioni dei diritti umani nei territori palestinesi occupati, ndtr.] in un recente studio.

La distribuzione del vaccino è una dimostrazione scioccante di come gli strateghi israeliani si muovano in modo di volta in volta differente riguardo ai gruppi sottoposti alle sue norme inique.

Mentre i palestinesi con cittadinanza o residenza israeliana hanno diritto a ricevere i vaccini da Israele, i palestinesi in possesso di documenti di identità della Cisgiordania sono stati cacciati dai siti di vaccinazione gestiti da Israele.

L’apartheid sanitario nei territori sotto il controllo di Israele non è una novità.

Physicians for Human Rights-Israel [Medici per i diritti umani: ONG no profit con sede negli Stati Uniti che utilizza medicina e scienza per documentare le gravi violazioni dei diritti umani in tutto il mondo, ndtr.] ha affermato che le disparità nelle condizioni della salute tra israeliani e palestinesi derivano direttamente dall’occupazione.

Uno studio del 2015 dell’organizzazione ha rilevato che l’aspettativa di vita dei palestinesi nella Cisgiordania occupata e a Gaza è di circa 10 anni inferiore a quella in Israele.

Lo stesso studio ha rilevato che la mortalità infantile e la mortalità materna erano quattro volte superiori in Cisgiordania e Gaza rispetto a Israele.

Nello stesso anno, uno studio dell’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, ha individuato nell’assedio da parte di Israele una delle ragioni dell’aumento a Gaza, per la prima volta in 50 anni, del tasso di mortalità infantile.

Le organizzazioni palestinesi per i diritti umani affermano che il regime dell’apartheid israeliano “ha portato per decenni alla frammentazione e al deterioramento del sistema sanitario” della Cisgiordania e di Gaza.

Ciò ha “negato ai palestinesi il diritto al soddisfacimento di standard ottimali di salute fisica e mentale”.

Vaccini al posto di blocco

La salute dei palestinesi è profondamente intrecciata con l’occupazione israeliana. Il COGAT lo dimostra inconsapevolmente nei suoi tweet sui lavoratori palestinesi che ricevono le vaccinazioni ai posti di blocco militari, che chiama eufemisticamente “punti di passaggio“.

Qualsiasi vaccino che i palestinesi ricevano, sia da Israele che da qualunque altro organismo, dovrebbe passare attraverso i posti di blocco israeliani.

Israele ha rallentato il primo trasferimento di dosi di vaccino agli operatori sanitari a Gaza poiché alcuni parlamentari hanno cercato di condizionare la spedizione a concessioni politiche da parte di Hamas.

Lo ha fatto mentre trasferiva vaccini in altri Paesi in cambio del loro sostegno politico:

giovedì i palestinesi di Gaza hanno ricevuto 40.000 dosi del vaccino russo Sputnik V.

Secondo quanto riferito, le dosi costituivano una donazione da parte degli Emirati Arabi Uniti, assicurata da Muhammad Dahlan, l’ex capo dell’intelligence dell’Autorità Nazionale Palestinese diventato signore della guerra e rivale del leader dell’ANP Mahmoud Abbas all’interno della fazione di Fatah.

Dahlan ha condotto una breve e sanguinosa guerra civile a Gaza dopo la vittoria di Hamas nelle elezioni legislative palestinesi del 2006. Le sue forze sono state sconfitte e Dahlan ora vive in esilio nello Stato del Golfo ricco di petrolio.

Secondo la Reuters, Dahlan ha dichiarato che metà della spedizione di vaccini a Gaza sarebbe stata assegnata ai palestinesi in Cisgiordania.

I pochissimi vaccini che sono arrivati ​​in Cisgiordania non sono stati distribuiti equamente dall’Autorità Nazionale Palestinese che, secondo quanto riferito, li ha assegnati alle élite del partito di Fatah, agli organi di informazione allineati e ai loro familiari.

Resta da vedere se Israele consentirà il trasferimento delle dosi da Gaza alla Cisgiordania, o se il COGAT scoprirà in esso una utilità propagandistica.

E così i palestinesi che vivono sotto l’occupazione militare continueranno ad aspettare mentre la loro salute viene gestita da Israele, da Dahlan e dall’Autorità Nazionale Palestinese in termini di battaglia politica e mentre i Paesi terzi stanno a guardare senza far nulla.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Dopo l’accusa calunniosa di “antisemitismo” di Netanyahu l’UE sostiene la CPI

Ali Abunimah

4 marzo 2021 – The Electronic Intifada

L’Unione Europea sembra respingere le denunce di Benjamin Netanyahu contro la Corte Penale Internazionale dopo che mercoledì la procuratrice capo Fatou Bensouda ha confermato l’avvio di un’indagine formale sui crimini di guerra in Palestina.

Il primo ministro israeliano ha definito le indagini come “l’essenza dell’antisemitismo” e altri leader israeliani si sono scagliati contro con termini analoghi.

Alla domanda di The Electronic Intifada sulla reazione dell’UE ai commenti di Netanyahu, il portavoce dell’Unione Peter Stano non ha risposto in modo diretto riguardo al leader israeliano.

Tuttavia Stano ha affermato che “la CPI è un’istituzione giudiziaria indipendente e imparziale senza obiettivi politici da perseguire”.

Ha anche ribadito che l’UE “rispetta l’indipendenza e l’imparzialità della corte” – un rimprovero implicito alle stravaganti accuse di Israele di pregiudizi antiebraici.

Stano ha osservato che la Corte Penale Internazionale è “un tribunale di ultima istanza, una rete di sicurezza fondamentale per aiutare le vittime a ottenere giustizia laddove ciò non è possibile a livello nazionale, quindi quando lo Stato coinvolto è veramente riluttante o incapace di svolgere le indagini o l’azione penale. “

L’UE ha anche esortato “gli Stati aderenti allo Statuto di Roma e gli Stati non aderenti” – questi ultimi con un chiaro riferimento a Israele, che non ha firmato lo statuto istitutivo della corte – “a stabilire un dialogo” con la CPI che dovrebbe essere “non conflittuale, non politicizzato e basato sulla legge e sui fatti.”

Dato il lungo passato della UE di sostegno virtualmente incondizionato a Israele, è rimarchevole che essa abbia tenuto saldo il suo sostegno alla Corte Penale Internazionale nel momento in cui finalmente il tribunale ha preso in esame le impudenti violazioni dei diritti dei palestinesi da parte di Israele.

L’inchiesta della CPI riguarderà presunti crimini dal giugno 2014, un periodo che comprende la guerra di Israele del 2014 a Gaza e la costruzione di colonie in corso sui territori palestinesi occupati.

La posizione della UE rappresenta una rottura con alleati come Stati Uniti, Canada e Australia che si sono apertamente opposti ad indagini da parte del tribunale su presunti crimini di guerra nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza.

Nonostante il sostegno della UE alla CPI, i lobbisti israeliani si stanno consolando per il fatto che alcuni singoli Stati membri della UE, in particolare la Germania, si oppongono a un’inchiesta sui crimini di guerra.

L’opposizione degli Stati Uniti alla giustizia

Mercoledì, il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha ribadito che l’amministrazione Biden “si oppone fermamente” alla [ricerca di] giustizia e responsabilità nei confronti delle vittime palestinesi dei crimini di guerra israeliani.

Questa opposizione non sorprende dal momento che l’amministrazione Obama-Biden ha rifornito Israele di munizioni nel corso del bombardamento di Gaza dell’estate del 2014, che ha ucciso più di 2.200 palestinesi tra i quali più di 550 bambini.

La posizione di Biden allieterà Netanyahu e altri importanti leader israeliani tra cui il ministro della difesa Benny Gantz, che probabilmente saranno gli obiettivi delle indagini della Corte Penale Internazionale. Gantz era a capo dell’esercito israeliano al momento dell’attacco israeliano del 2014 a Gaza.

Tuttavia, dopo anni di ritardo e decenni di attesa per la giustizia, i palestinesi stanno finalmente osservando che il loro impegno affinché Israele sia ritenuto responsabile e i suoi crimini assodati sta recando i suoi frutti.

(tradotto dall’inglese da Aldo Lotta)




La CPI[Corte Penale Internazionale] avvia un’inchiesta per crimini di guerra in Palestina

Maureen Clare Murphy

3 marzo 2021 – Electronic Intifada

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che probabilmente nell’ambito dell’inchiesta della CPI verrà inquisito, ha definito la Corte “antisemita”.

Mercoledì la procuratrice capo Fatou Bensouda ha confermato che la Corte Penale Internazionale ha aperto un’indagine formale sui crimini di guerra in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

L’annuncio di Bensouda è stato accolto dalle associazioni palestinesi per i diritti umani che hanno guidato questi tentativi come “una giornata storica nella pluridecennale campagna palestinese per la giustizia internazionale e la definizione delle responsabilità.”

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che probabilmente verrà sottoposto a indagine dalla CPI, ha definito l’inchiesta come “l’essenza dell’antisemitismo”.

L’annuncio di un’indagine da parte della CPI è giunto meno di un mese dopo che un collegio giudicante ha confermato che la giurisdizione territoriale della Corte si estende ai territori palestinesi sotto occupazione militare da parte di Israele.

Nel dicembre 2019 Bensouda ha concluso una lunga indagine preliminare affermando che i criteri per un’inchiesta per crimini di guerra in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, e nella Striscia di Gaza erano stati rispettati.

L’indagine della Corte Penale Internazionale riguarderà crimini commessi dal giugno 2014, quando la situazione in Palestina è stata presentata al tribunale internazionale.

Obbligato ad agire”

Bensouda ha affermato che il suo ufficio “definirà delle priorità” per l’inchiesta “alla luce dei problemi operativi che dobbiamo affrontare a causa della pandemia, delle risorse limitate a nostra disposizione e del pesante carico di lavoro attuale.”

Ha aggiunto che in situazioni in cui il procuratore definisce la fondatezza di un’indagine, l’ufficio della procura “è obbligato ad agire”.

Il prossimo passo della Corte sarà la notifica a Israele e alle autorità palestinesi, che consente a ogni Stato firmatario di condurre importanti indagini “su propri cittadini o altri che ricadano sotto la sua giurisdizione” riguardo a crimini di competenza della CPI.

In base al principio della complementarietà, secondo cui “gli Stati hanno la responsabilità primaria e il diritto di perseguire crimini internazionali”, la CPI rinvia a indagini interne del Paese, ove queste esistano.

Israele ha un sistema di auto-indagine, anche se esso è descritto da B’Tselem, principale organizzazione per i diritti umani del Paese, come un meccanismo di insabbiamento che protegge la dirigenza militare e politica dal rendere conto delle proprie azioni.

Alla fine del 2019 Bensouda ha affermato che “in questa fase” il giudizio del suo ufficio “riguardo alla portata e all’affidabilità” dei procedimenti interni di Israele “è ancora in corso”.

Tuttavia “ha concluso che i casi potenziali riguardanti crimini che si presume siano stati commessi da membri di Hamas e dei GAP (Gruppi Armati Palestinesi) sarebbero al momento ammissibili.”

Nella sua dichiarazione di mercoledì Bensouda ha detto che il giudizio sulla complementarietà “continuerà” e ha suggerito che la materia venga definita da un collegio giudicante in una camera preliminare.

Dato che il processo di colonizzazione della Cisgiordania da parte di Israele è indubitabilmente una politica statale sostenuta dai governanti al più alto livello, ciò sarà probabilmente uno dei principali obiettivi dell’indagine della CPI.

Come la questione della giurisdizione territoriale, la complementarietà sarà probabilmente un punto critico fondamentale dell’inchiesta della Corte sulla Palestina.

Massima urgenza”

Mercoledì, accogliendo positivamente l’annuncio di Bensouda, le associazioni palestinesi per i diritti umani hanno raccomandato “che non ci siano indebiti ritardi e che si proceda con la massima urgenza.”

Ma Bensouda ha previsto un procedimento tutt’altro che rapido, affermando che “le indagini richiedono tempo e devono essere fondate in modo oggettivo su fatti e leggi.”

Ha invitato alla pazienza “le vittime palestinesi e israeliane e le comunità colpite,” aggiungendo che “la CPI non è una panacea.”

Alludendo a un’argomentazione da parte di alleati di Israele secondo cui un’inchiesta danneggerebbe futuri negoziati bilaterali, Bensouda ha affermato che “il perseguimento della pace e della giustizia dovrebbero essere visti come imperativi che si rafforzano a vicenda.”

Mercoledì Bensouda ha affermato che la Corte concentrerà “la sua attenzione sui presunti colpevoli più noti o su coloro che potrebbero essere i maggiori responsabili dei crimini.”

Nella sua richiesta alla camera preliminare sulla giurisdizione territoriale Bensouda ha citato la promessa di Netanyahu durante la campagna elettorale [del 2020] di annettere territori in Cisgiordania.

I media hanno informato che il governo israeliano ha una lista di centinaia di personalità che potrebbero essere indagate e perseguite dalla Corte, che giudica individui e non Stati.

Fonti ufficiali israeliane affermano che alcuni Stati membri della CPI “hanno concordato di avvertire in anticipo Israele di ogni eventuale mandato di cattura” contro suoi cittadini al momento dell’arrivo nei rispettivi Paesi.

Far filtrare informazioni che potrebbero consentire a sospetti di sfuggire alle indagini o all’arresto violerebbe probabilmente l’obbligo che hanno gli Stati membri in base allo Statuto di Roma che ha fondato la CPI di collaborare con il lavoro della Corte.

Pressioni politiche

Mercoledì Bensouda ha detto che “contiamo sull’appoggio e sulla cooperazione delle parti (Israele e i gruppi armati palestinesi), così come su tutti gli Stati membri dello Statuto di Roma.”

Tuttavia la CPI verrà sottoposta a terribili pressioni politiche in quanto potenze come gli USA, il Canada e l’Australia si oppongono a qualunque inchiesta contro il loro alleato Israele.

Lo scorso anno il Canada ha minacciato in modo appena velato di ritirare l’appoggio finanziario alla CPI se dovesse procedere con un’inchiesta.

A Washington l’amministrazione Trump ha imposto sanzioni economiche e restrizioni dei visti contro Bensouda e membri del suo staff.

Queste misure estreme pongono il personale della Corte accanto a “terroristi e narcotrafficanti” o a individui e gruppi che lavorano a favore di Paesi sottoposti a sanzioni da parte degli USA.

Mentre il presidente Joe Biden ha firmato una raffica di ordini esecutivi che annullano misure prese dal suo predecessore, il nuovo leader USA ha consentito che rimangano in vigore le sanzioni contro la CPI.

Di fronte a pressioni per togliere le sanzioni, la Casa Bianca ha solo promesso di “analizzarle attentamente.”

Durante la sua prima telefonata con il presidente Biden, Netanyahu lo ha esortato a lasciare in vigore le sanzioni.

Nel contempo Israele ha rivolto il proprio livore contro i difensori dei diritti umani dei palestinesi, in particolare contro quanti sono coinvolti nelle istituzioni della giustizia internazionale come la CPI.

Le sue tattiche hanno incluso “arresti arbitrari, divieti di spostamento e revoca della residenza, così come attacchi contro organizzazioni palestinesi per i diritti umani, comprese irruzioni [nelle loro sedi].”

Mercoledì Balkees Jarrah, direttore aggiunto di Human Rights Watch [importante Ong internazionale per i diritti umani con sede a New York, ndtr.], ha affermato che “gli Stati membri della CPI dovrebbero essere pronti a difendere tenacemente il lavoro della Corte da ogni pressione politica.”

Jarrah ha aggiunto che “tutti gli occhi saranno puntati sul prossimo procuratore, Karim Khan, perché prenda il testimone e proceda speditamente dimostrando una salda autonomia nel cercare di chiedere conto delle loro azioni anche ai più potenti.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele imprigiona i politici palestinesi prima delle elezioni nell’Autorità Nazionale Palestinese

Tamara Nassar 

2 marzo 2021, ElectronicIntifada

In vista delle elezioni legislative e presidenziali palestinesi che si terranno nei prossimi mesi Israele sta inasprendo il giro di vite su personalità della società civile e politica palestinese nella Cisgiordania occupata.

Lunedì Israele ha condannato la parlamentare palestinese Khalida Jarrar a due anni di carcere, a una multa di 1.200 dollari [1000 € ca, ndtr.] e una pena sospesa di un anno.

Il suo crimine? Essere un membro di un partito politico di sinistra, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina.

Israele considera gruppi “terroristici” praticamente tutti i partiti palestinesi e le organizzazioni di resistenza, il che significa che qualsiasi persona politicamente attiva può essere arrestata.

“La scelta del momento non è casuale”, ha detto l’avvocato palestinese Yafa Jarrar della condanna di sua madre, riferendosi alle elezioni palestinesi.

Khalida Jarrar è stata arrestata con una imponente incursione militare notturna nella sua casa nell’ottobre 2019 e da allora è trattenuta senza accusa né processo.

La sua detenzione è avvenuta solo otto mesi dopo il suo rilascio da un precedente periodo di 20 mesi di detenzione amministrativa – senza accusa né processo.

È stata arrestata nell’ambito di quella che il gruppo per i diritti dei prigionieri palestinesi Addameer ha affermato essere una campagna israeliana iniziata nella seconda metà del 2019 contro attivisti politici e studenti.

Addameer ha aggiunto che Israele ha falsamente accusato Jarrar di essere coinvolta nell’uccisione dell’adolescente israeliana Rina Shnerb.

Shnerb è stata uccisa nell’agosto 2019 da quello che i militari israeliani hanno stabilito essere un ordigno esplosivo improvvisato vicino all’insediamento di Dolev in Cisgiordania.

Ma lunedì il procuratore militare israeliano ha cambiato l’accusa contro Jarrar includendo solo le sue attività politiche, e le accuse di coinvolgimento nell’omicidio di Shnerb sono cadute.

Jarrar ha già trascorso anni nelle carceri israeliane e le è stato proibito viaggiare a causa della sua appartenenza al FPLP.

Il primo voto in 15 anni

Le elezioni legislative e presidenziali palestinesi previste per maggio e luglio sarebbero le prime dalle elezioni legislative del 2006, quando Hamas vinse con una vittoria schiacciante battendo Fatah, fazione dell’Autorità Nazionale Palestinese al potere guidata da Mahmoud Abbas.

Tuttavia, il partito di Abbas, sostenuto da Israele, Stati Uniti, Unione Europea e alcuni stati arabi, non ha permesso ad Hamas di assumere il governo dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Invece, le milizie allineate con Fatah a Gaza, in accordo con gli Stati Uniti, hanno cercato di rimuovere Hamas dal potere con la forza.

Ma nel giugno 2007 Hamas si è preventivamente mosso contro di loro, espellendo da Gaza le forze di Fatah sostenute dagli Stati Uniti.

Il tentativo di golpe contro Hamas dopo la sua vittoria alle elezioni ha portato all’attuale divisione per cui l’ANP di Abbas sostenuta dall’occidente ha mantenuto il controllo in Cisgiordania mentre Hamas, isolata a livello internazionale, ha governato all’interno della Striscia di Gaza assediata.

Non vi è alcuna garanzia che si svolgeranno le elezioni, poiché negli ultimi anni sono state programmate numerose votazioni poi rinviate a tempo indeterminato.

Le elezioni sono largamente viste come un modo per rafforzare la legittimità dei principali partiti politici palestinesi a 15 anni dall’ultima votazione e alla luce della nuova amministrazione statunitense.

Come ha scritto di recente Ali Abunimah di The Electronic Intifada, non è chiaro perché Hamas si fidi che lo stesso partito di Abbas e Fatah che ha guidato il colpo di stato contro Hamas nel 2007 rispetterà ora i risultati.

“Qualsiasi riconciliazione o ‘unità nazionale’ può basarsi solo sul fatto che Fatah di Abbas abbandoni la collaborazione con Israele e che Hamas abbandoni la resistenza”, ha scritto Abunimah.

L’arresto dei membri di Hamas

Israele ha regolarmente incarcerato funzionari palestinesi eletti solo perché non approva il loro punto di vista, e ora sta incrementando tali arresti in vista delle elezioni programmate. Questo fa “parte dello sforzo israeliano in corso per sopprimere l’esercizio della sovranità politica e dell’autodeterminazione dei palestinesi”, ha affermato Addameer. Nelle ultime settimane Israele ha operato molti arresti di personalità appartenenti ad Hamas nella Cisgiordania occupata.

A febbraio le forze israeliane hanno arrestato Adnan Asfour e Yasser Mansour di Hamas e hanno disposto che Asfour fosse tenuto in detenzione amministrativa per sei mesi.

Mansour è anche membro del Consiglio legislativo palestinese.

Hamas ha detto che l’arresto dei suoi politici in Cisgiordania “conferma il fatto che l’occupazione ha preso di mira il processo elettorale”.

Naif al-Rajoub, membro del Consiglio legislativo palestinese, ha detto che le forze di occupazione israeliane hanno fatto irruzione nella sua casa a febbraio e gli hanno intimato di non partecipare alle elezioni.

Al-Rajoub ha detto all’agenzia di stampa Shehab che le forze israeliane gli hanno detto di non candidarsi alle elezioni e di non partecipare alla campagna elettorale e che gli permetterebbero solo di andare alle urne.

Altre figure di Hamas arrestate da Israele nelle ultime settimane includono Khalid al-Haj, Abd al-Baset al-Haj, Omar al-Hanbali e Fazee al-Sawafta.

La scorsa settimana un tribunale militare israeliano ha prorogato di quattro mesi la detenzione amministrativa di Khitam Saafin, a capo dell’Unione dei Comitati delle Donne palestinesi. Saafin è stata arrestata insieme ad altri attivisti politici palestinesi a novembre e da allora è detenuta senza accusa né processo.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)