Solidarietà con lo sciopero generale palestinese in tutta la Palestina storica

Comitato Nazionale Palestinese BDS

17 maggio 2021

Nota dell’editore: ciò che segue è un comunicato del Comitato Nazionale Palestinese BDS.

Mondoweiss a volte pubblica comunicati stampa e dichiarazioni di organizzazioni, nel tentativo di richiamare l’attenzione su questioni trascurate.

Ecco 5 azioni che potete fare per mostrare solidarietà con lo sciopero generale in Palestina il 18 maggio.

I palestinesi di Gerusalemme e di tutta la Palestina storica oggi partecipano ad uno sciopero generale per protestare contro i massacri a Gaza e la repressione e la pulizia etnica dell’apartheid contro le comunità palestinesi in ogni luogo.

Smantellare il regime israeliano di occupazione militare, colonialismo di insediamento ed apartheid sta nelle nostre mani.

I palestinesi chiedono una significativa solidarietà con il nostro sciopero generale. Smantellare il regime israeliano di occupazione militare, colonialismo di insediamento ed apartheid sta nelle nostre mani. E anche nelle vostre. Contiamo su di voi per mettere fine alla complicità dei vostri Stati, istituzioni, organizzazioni, unioni, chiese, eccetera, con i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità di Israele perpetrati contro il popolo autoctono palestinese. Il silenzio e l’equidistanza sono immorali, in quanto rafforzano l’impunità criminale di Israele.

Ecco 5 azioni che potete fare per mostrare che smantellare il regime israeliano di oppressione è anche nelle vostre mani:

  1. Inondate, tra gli altri, i deputati, i funzionari eletti a tutti i livelli, gli amministratori dell’università, i capi dei sindacati, di lettere che chiedono il loro sostegno a sanzioni mirate per smantellare l’apartheid israeliana, a partire da un embargo bilaterale su tutto il commercio di sicurezza militare e ricerca militare congiunta. Se fate parte di un sindacato portuale, mobilitatevi per bloccare gli imbarchi israeliani, in particolare quelli militari.

2. Indossate una kefiah palestinese come simbolo di solidarietà, o appendetela alla finestra o postatela sui vostri social media (profili), se li avete.

3. Unitevi ad un gruppo BDS nelle vicinanze, o formatene uno se non ne esistono. Fare campagne sostenibili e strategiche è la forma più efficace di realizzare una seria solidarietà.

4. Dichiarate la vostra comunità, chiesa, unione, quartiere, associazione, Zona Libera da Apartheid, che rifiuta di acquistare prodotti e servizi di imprese israeliane e internazionali che sono complici dell’apartheid e del colonialismo israeliani.

5. Iniziate/intensificate l’organizzazione della prossima Giornata Globale di Azione di massa per sabato 22 maggio, basandovi sulle manifestazioni globali dell’ultimo weekend. Dimostrate ai palestinesi a Gaza e ovunque, ancora una volta, che non sono soli.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Israele reso furioso dal premio francese per i diritti umani

Adri Nieuwhof

14 dicembre 2018, Electronic Intifada

La Francia ha insignito Al-Haq e B’Tselem [due organizzazioni per i diritti umani, una palestinese e l’altra israeliana, ndtr.] con il prestigioso “Premio della Repubblica Francese per i Diritti Umani”.

Ciò è avvenuto nonostante le pesanti pressioni da parte di Israele sul governo francese perché togliesse il riconoscimento alle due associazioni che documentano i crimini di guerra e i soprusi israeliani contro i palestinesi.

Tuttavia la ministra della Giustizia francese Nicole Belloubet ha ceduto alle pressioni e si è rifiutata di partecipare alla cerimonia di premiazione a Parigi lo scorso lunedì [10 dicembre, ndtr.].

Il gruppo della lobby franco-israeliana CRIF ha scritto a Belloubet sostenendo che i due vincitori “chiedono il boicottaggio di Israele,” ed ha affermato che per il ministero della Giustizia francese dare loro il premio “anche in assenza della ministra è un insulto alla giustizia.”

Nel suo discorso di ringraziamento il direttore esecutivo di B’Tselem Hagai El-Ad ha definito “isterica” la risposta del governo israeliano.

El-Ad ha detto che il tentativo israeliano di esercitare pressioni su dirigenti francesi “dimostra la situazione in cui lavoriamo: propaganda, menzogne e minacce da parte di un governo che crede che far tacere e nascondere consentirà ulteriori violazioni dei diritti umani.”

Il direttore di Al-Haq, Shawan Jabarin, ha detto ad Electronic Intifada che il premio è un riconoscimento per il lavoro del suo gruppo in un periodo in cui l’organizzazione è presa di mira da una campagna di calunnie da parte di Israele.

La cerimonia di premiazione del 10 dicembre ha coinciso con il settantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e il ventesimo anniversario della Dichiarazione ONU sui Difensori dei Diritti umani.

Risposta furiosa

Israele ha risposto con ira all’annuncio che la Francia stava per assegnare il prestigioso premio alle due associazioni.

“La Francia consegna il suo riconoscimento più prestigioso a B’Tselem e Al-Haq, che accusano Israele di apartheid, ci delegittimano a livello internazionale, difendono il terrorismo e sostengono il BDS,” ha affermato Michael Oren, vice ministro israeliano per i rapporti diplomatici.

BDS sta per Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni – una campagna palestinese non-violenta per rendere Israele responsabile delle violazioni dei diritti dei palestinesi, sul modello del vincente movimento internazionale di solidarietà che contribuì a porre fine all’apartheid in Sud Africa.

L’ambasciata di Israele in Francia ha twittato di essere “scioccata” per il premio ed ha asserito che Al-Haq sarebbe legata al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, un partito politico e un’organizzazione di resistenza che Israele definisce gruppo “terroristico”.

La ministra della Cultura di Israele Miri Regev ha detto che B’Tselem e i suoi membri dovrebbero “vergognarsi”, descrivendo il premio come un “simbolo di disonore”.

La viceministra degli Esteri israeliana Tzipi Hotovely ha definito il premio “deplorevole” ed ha chiesto al governo francese di ripensarci.

Hotovely ha sostenuto che anche il primo ministro Benjamin Netanyahu ha manifestato la sua opposizione durante un incontro con il presidente francese Emmanuel Macron.

Chiudere spazi

Il direttore di Al-Haq Shawan Jabarin ha parlato con Electronic Intifada all’Aia, pochi giorni prima di recarsi a Parigi per la cerimonia di premiazione.

Ha detto che il premio arriva in un momento in cui Israele sta “cercando di chiudere gli spazi” per il lavoro a favore dei diritti umani.

Il riconoscimento francese, ha detto, significa per Al-Haq ancor di più perché “giunge nello stesso giorno del settantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.”

Jabarin ha affermato che il premio è stato assegnato “alle vittime in Palestina” ed è “un riconoscimento dei loro diritti.”

Ma ha ammonito che le vittime hanno bisogno di molto più di un riconoscimento simbolico.

“La Francia deve agire in base ai propri impegni,” ha detto, in riferimento ai trattati internazionali sui diritti umani che ha firmato.

Momento di agire

A settant’anni dalla Nakba – l’espulsione dei palestinesi – e dopo 51 anni di occupazione militare della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, ha detto Jabarin, “niente è cambiato, la situazione si sta aggravando, l’occupazione si sta approfondendo, come le sofferenze.”

Il messaggio di Jabarin al governo francese è che “se vuole davvero la pace in Palestina e altrove, deve agire.”

Jabarin ha affermato che, per cambiare la situazione, ci devono essere sanzioni contro Israele, compreso il divieto di commercio dei prodotti delle colonie e un embargo sulle armi.

Gli europei non dovrebbero “lasciare che i criminali viaggino nei loro Paesi,” ha aggiunto Jabarin.

“Se i criminali non pagano il prezzo dei loro crimini, non c’è modo che ripensino o cambino le loro azioni e le loro politiche.”

La CPI propende per la narrazione israeliana?

Jabarin ha anche manifestato delusione nei confronti della Corte Penale Internazionale, che dal 2015 sta portando avanti un “esame preliminare” dei possibili crimini di guerra israeliani contro i palestinesi nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza.

“È passato molto tempo,” ha detto Jabarin.

Un esame preliminare è il primo passo nel procedimento della Corte per decidere se aprire un’inchiesta formale, che può poi portare a imputazioni e a un processo.

Ma mentre un esame preliminare è portato avanti ogni volta che viene presentata una richiesta di deferimento, esso è a tempo indefinito e può continuare per anni, a discrezione del procuratore generale.

Benché la procuratrice generale, Fatou Bensouda, lo scorso aprile abbia messo in guardia i dirigenti israeliani che potrebbero dover affrontare un processo per l’uccisione di palestinesi disarmati nella Striscia di Gaza durante la Grande Marcia del Ritorno, la Corte non ha iniziato un’inchiesta formale.

Le “vittime, il popolo che sta soffrendo, non possono più attendere,” ha detto Jabarin. “Questa istituzione deve agire in base al suo mandato e non occuparsi della questione da un punto di vista politico.”

Jabarin ha definito deludente l’ultimo rapporto annuale sullo stato di avanzamento.

Il rapporto afferma che “la procura intende completare l’esame preliminare il prima possibile,” ma non fornisce nessuna data limite.

Jabarin ha descritto il rapporto come “confuso” nell’uso di terminologia e concetti giuridici. Teme che la procuratrice si sia spostata “verso la narrazione israeliana.”

Ma vede “qui e là segnali positivi.”

Spera che la procuratrice si muova rapidamente per aprire un’inchiesta formale e “persegua i criminali e successivamente emetta mandati di arresto.”

“Confido nella professionalità e nell’indipendenza della procuratrice,” ha detto Jabarin. “Il mio messaggio a lei è che il tempo passa e le sofferenze continuano. È il momento di intervenire.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




La verità dietro la corsa del Centro America per seguire lo spostamento dell’ambasciata USA

Maren Mantovani

giovedì 17 maggio 2018, Middle East Eye

Negli anni ’80 Israele fornì aiuto militare a brutali dittature latinoamericane. Il Guatemala è stato il primo a seguire lo spostamento dell’ambasciata USA. Honduras e Paraguay potrebbero presto essere i prossimi Paesi.

Mentre a Gaza – e in tutto il mondo – la gente stava ancora piangendo i 62 palestinesi uccisi, gli oltre 2.700 mutilati e feriti in un solo giorno in seguito a un altro massacro israeliano contro civili disarmati, il 16 maggio una seconda ambasciata stava tenendo la cerimonia di apertura a Gerusalemme.

Il Guatemala ha seguito le orme degli USA.

Israele ha dovuto promettere di pagare le spese dello spostamento. Il ministero degli Esteri israeliano ha coperto parte dei costi del trasferimento dell’ambasciata guatemalteca da Rishon LeZion [cittadina dell’area metropolitana di Tel Aviv, ndt.] a Gerusalemme, contribuendo con un totale di 300.000 dollari.

Jimmy Morales, il presidente di destra del Paese, a cui lo scorso mese gruppi delle società civile hanno chiesto di dimettersi in seguito ad accuse di corruzione, ha dovuto chiedere ai tribunali il permesso per suo fratello e suo figlio, entrambi sotto processo per corruzione, perché lo accompagnassero a Gerusalemme. Tuttavia i media guatemaltechi hanno già scoperto nella contabilità del loro governo voci di spesa sospette per la cerimonia di apertura dell’ambasciata.

Comunque sempre meno della grottesca esibizione offerta dalla cerimonia di apertura degli USA. Mentre Israele falciava manifestanti, armati solo della loro determinazione a tornare alle loro case piuttosto che soccombere in silenzio al brutale assedio di Gaza, Donald Trump ha annunciato in video che “stiamo veramente facendo grandi passi avanti” per un accordo tra Israele e i palestinesi.

Una realtà tragica e inumana

Se il riconoscimento da parte della Casa Bianca di Gerusalemme – che in base alle leggi internazionali non fa parte di Israele – come capitale di Israele e il conseguente spostamento dell’ambasciata USA non fosse parte di una realtà tragica e inumana imposta al popolo palestinese, lo si potrebbe definire surreale.

Settant’anni dopo l’inizio della Nakba – la pulizia etnica di massa del popolo palestinese – le politiche israeliane di espulsione, furto di terre e risorse, repressione e segregazione continuano giorno dopo giorno. La Grande Marcia del Ritorno, che rivendica il diritto, riconosciuto dall’ONU, al ritorno per i profughi che rappresentano più di metà del popolo palestinese, si è trasformata in un massacro.

Lo spostamento dell’ambasciata USA non è solo un attacco frontale ai diritti dei palestinesi a Gerusalemme, ma ha anche fornito una copertura diplomatica a Israele per un ulteriore massacro contro Gaza. Manda il messaggio che il regime israeliano può continuare con tutte le violazioni delle leggi internazionali e dei diritti umani fondamentali.

Ciò comprende l’attacco concreto non solo al loro diritto al ritorno, ma alle vite ed esistenze stesse dei rifugiati palestinesi a Gaza. Ciò può indurre all’impressione che Israele abbia raggiunto il massimo del suo potere, con un’impunità garantita.

Un’analisi più approfondita del potere globale che si gioca oggi sulla Palestina non cambia la conclusione secondo cui siamo arrivati ad un momento estremamente pericoloso e drammatico della storia – ma ciò fornisce qualche barlume di speranza.

A dicembre gli USA ed Israele erano profondamente isolati nel voto dell’assemblea generale dell’ONU sul riconoscimento USA di Gerusalemme come capitale di Israele. Solo altri cinque Paesi hanno votato con l’asse USA-Israele.

Stupidità politica

La legittimazione del riconoscimento USA di Gerusalemme – una città su cui in base alle leggi internazionali Israele non ha la sovranità – come capitale di Israele è un precedente che minaccia le fondamenta stesse delle relazioni internazionali. Se gli USA possono arbitrariamente decidere in materia di sovranità internazionale, verranno minacciati gli interessi di moltissimi Paesi.

Fondamentali controlli contro i capricci e la volontà del potere USA saranno eliminati. Accettarlo significherebbe la totale dipendenza dagli USA o la totale stupidità politica. Ciononostante, al momento, Israele ha previsto che oltre dieci Paesi potrebbero spostare le loro ambasciate. Oggi è in corso solo il trasloco di quella del Guatemala.

Israele spera che l’Honduras sia il prossimo a spostare la sua ambasciata.

Cosa c’è sotto il rapporto di Israele con questi Stati centroamericani, che li vede unirsi a un’iniziativa pericolosa, rifiutata dalla grande maggioranza della comunità internazionale?

I rapporti di Israele con Honduras e Guatemala divennero particolarmente stretti durante i giorni oscuri delle dittature centroamericane, quando Israele fornì generoso supporto militare ai generali guatemaltechi nel periodo del genocidio dei maya nei primi anni ’80. Addestrò le forze speciali honduregne accusate di torture e utilizzò il Paese come base per l’appoggio ai Contras [guerriglia finanziata dagli USA contro il governo sandinista, ndt.] in Nicaragua.

Oggi l’Honduras è nel bel mezzo di un ciclo di violente violazioni dei diritti umani da parte del governo di Juan Orlando Hernandez, arrivato al potere con un “colpo di Stato parlamentare”. Questo governo si è talmente macchiato di sangue che la presenza di Hernandez nel “Giorno dell’Indipendenza” di Israele ha dovuto essere annullata dopo le proteste che ha sollevato da parte israeliana.

Una prova del nove

Il presidente paraguayano, che a sua volta ha indicato l’intenzione di spostare l’ambasciata, è allo stesso modo arrivato al potere con un “colpo di Stato parlamentare”. Dato che lascerà il suo posto in agosto, pare dubbio che lo spostamento abbia effettivamente luogo.

Il tentativo della prima ministra rumena di iniziare il processo di spostamento è stato bloccato dal presidente del Paese, che per questa iniziativa ha chiesto le sue dimissioni.

La stessa cerimonia dell’ambasciata USA è stata la prova del nove senza possibilità di astensione – o gli invitati si sarebbero presentati o l’avrebbero boicottata. Persino alleati molto vicini agli USA come Australia, Canada e alcuni Stati dell’Europa occidentale hanno deciso di tenersi alla larga. Allo stesso modo, né l’India né alcuno dei principali Paesi dell’America latina hanno partecipato.

Tuttavia Israele sta facendo importanti progressi in Africa, e circa una dozzina di Paesi hanno preso parte all’iniziativa dell’ambasciata USA a Gerusalemme, tra cui Etiopia, Sud Sudan, Zambia, Kenya, Ruanda, Camerun, Repubblica del Congo, Angola, Costa d’Avorio, Tanzania e Repubblica Democratica del Congo.

Il Togo è stato l’unico Paese africano che ha votato con gli USA durante la votazione all’ONU di dicembre – ma lunedì non era presente.

La maggior parte delle ragioni per cui alcuni Paesi hanno scelto di partecipare ha poco a che fare con la Palestina. Come hanno esplicitamente ammesso commentatori dei Paesi latinoamericani coinvolti, le posizioni su Gerusalemme avevano più che altro a che vedere con la questione di garantirsi il favore degli USA, compresa l’assistenza per conservare il potere contro le loro stesse popolazioni.

Per altri si è trattato della logica prosecuzione di politiche xenofobe, di destra, suprematiste e autoritarie. Il governo dell’Austria è in larga misura emarginato in Europa per le sue politiche razziste e xenofobe, mentre Victor Orban, il primo ministro dell’Ungheria, è un noto xenofobo antisemita. Il presidente della Repubblica Ceca, Milos Zeman, è noto per la sua politica allarmistica sul terrorismo e per i suoi discorsi razzisti.

Anche la delegazione del Myanmar, che grazie all’appoggio militare di Israele dal 2015 ha intrapreso una pulizia etnica su vasta scala contro il popolo Rohingya, portando all’esilio di quasi 700.000 sopravvissuti, era tra gli ospiti.

Il fatto che Robert Jeffress, pastore evangelico USA e consigliere spirituale di Trump, universalmente accusato di sermoni antisemiti e razzisti, si sia rivolto a questa adunata pare semplicemente naturale.

L’alleanza tra Trump e Israele, sullo sfondo del massacro di Gaza, ha in effetti elevato l’appoggio all’apartheid, all’occupazione e al colonialismo di Israele a fulcro della nuova ondata di politici e partiti xenofobi, razzisti e antidemocratici arrivati al potere negli ultimi anni.

Un embargo militare contro Israele

Mentre Israele ha onorato Trump dando il suo nome a una piazza centrale di Gerusalemme, tutti quelli che sono fuori dal campo delle ideologie suprematiste, razziste ed autoritarie dovrebbero rabbrividire all’idea di esservi associati.

Per il bene della Palestina e dell’umanità, è il momento per la grande maggioranza della comunità internazionale, che non aderisce ai valori espressi nella cerimonia dell’ambasciata USA, di scrollarsi di dosso la riluttanza a prendere un’iniziativa concreta.

Resistere alle violazioni israeliane dei diritti umani e delle leggi internazionali oggi è diventata una difesa vitale dei più fondamentali valori di tolleranza, democrazia e rispetto. Siamo ancora in tempo.

Israele ha appena annunciato un’esportazione record nel 2017 di armamenti, che ha testato per decenni sul popolo palestinese. Un embargo militare contro Israele, come chiesto dal comitato nazionale del BDS palestinese e ripreso da organizzazioni dei diritti umani come Amnesty International, sarebbe un passo nella giusta direzione.

La maggior parte di queste esportazioni riguarda politiche contro i migranti ed è legata alle spese per la sicurezza dei confini dell’Unione Europea, mentre l’India da sola sta comprando il 50% delle esportazioni di armi israeliane.

L’aiuto militare USA continua ad aumentare e la cooperazione della polizia USA con Israele alimenta la discriminazione razziale e le violazioni dei diritti umani.

È tempo di ricordare lo slogan reso popolare dalla resistenza antifascista spagnola negli anni ’30 e poi ripreso da innumerevoli movimenti per la giustizia in tutto il mondo: “No pasarán!” Non passeranno.

– Maren Mantovani, coordinatrice dei rapporti internazionali per la “Campagna Palestinese dal Basso contro il Muro dell’Apartheid”.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)