Farsi una canna nella base militare in Israele

Farsi una canna nella base militare in Israele

Forse i soldati si rendono conto che c’è qualcosa di totalmente sbagliato nel prestare servizio in un’istituzione il cui compito è opprimere 4 milioni di persone

Haaretz

Amira Hass |

26 giugno 2018

Il consumo di cannabis tra i soldati israeliani (sia nell’esercito che in servizio di leva) è in aumento. Secondo un articolo del quotidiano Yediot Ahronoth [quotidiano di centro, uno dei più letti in Israele, ndtr.] , basato su un’indagine dell’Autorità anti droga di qualche mese fa,  nel 2017 non meno del 54% delle truppe ne faceva uso.

Come dovremmo interpretare l’aumento dell’uso di marijuana e hashish tra i soldati? Forse tutti i discorsi sulla legalizzazione lo hanno agevolato? Si tratta di una politica più flessibile di repressione e punizione dei fumatori nell’esercito? L’articolo di Yedioth non prende in esame le motivazioni del maggior uso, perciò dobbiamo basarci su ipotesi.

Il giornalista, Amir Shouan, ha parlato con soldati di entrambi i sessi in diverse unità ed ha appreso che ci sono anche comandanti che si drogano e comandanti che sanno quali tra i loro soldati fanno uso di cannabis. E ci sono soldati che guadagnano soldi facili utilizzando applicazioni per vendere hashish. Gli spacciatori fanno persino sconti ai soldati.

L’uso di droga non si limita ai periodi di licenza. “In molte unità, alcune delle quali operative e riservate, fumare cannabis è diventato un fatto diffusopersino all’interno delle stesse basi”, scrive Shouan.

L’istinto immediato è trovare una spiegazione positiva al fenomeno. I soldati, per quanto giovani e programmati, si rendono conto che quello che stanno facendo è male: irrompere nelle case; svegliare i bambini nel cuore della notte puntandogli contro i fucili; sparare agli abitanti di quella prigione che è Gaza, che siano manifestanti, pescatori, pastori o agricoltori; proteggere le demolizioni delle case e dei serbatoi d’acqua della gente; o rimanere passivi in base agli ordini mentre ebrei mascherati attaccano pastori e contadini palestinesi.

Una sorta di conferma di questa interpretazione viene da una soldatessa di nome Shira, che ha detto a Shouan di soffrire di turbe emotive a causa del suo servizio militare. “E allora la sola cosa che ti aiuta è  drogarti. La cannabis ti aiuta a rilassarti, a sopportare il dolore – mentale e fisico – e i pensieri. E quando lo fai con un’altra persona, quando c’è qualcuno che ti è complice nel reato, per un momento dimentichi tutti i tuoi problemi.”

Yuval, un soldato in prima linea, spiega perché i soldati si drogano: “E’ un modo gradevole, divertente, per sopportare la situazione. A volte molte cose non hanno senso, ordini noiosi o tutte quelle cose che dobbiamo fare e con cui non siamo d’accordo. Quando sei fatto, ti butti tutto alle spalle. Dici ‘tutto bene, fantastico.”

I pensieri, il dissenso: Bertolt Brecht scrisse una poesia ottimista nel 1938, intitolata “Generale, il tuo carro armato…”: “Generale, l’uomo può fare di tutto / può volare e può uccidere / ma ha un difetto / può pensare.”

Forse i soldati si rendono conto che c’è qualcosa di essenzialmente sbagliato nel prestare servizio in un’istituzione il cui compito è opprimere 4 milioni di persone che si oppongono al governo da dittatura militare che è loro imposto. Forse la droga li aiuta a coprire l’ipocrisia. I soldati sono dipinti come i difensori del popolo, mentre sanno che la loro missione è assicurare la tranquillità e l’espansione dell’impresa di colonizzazione.

L’interpretazione ottimistica suggerisce che i soldati sperimentano in ogni istante il contrasto tra la pretesa moralità di Israele e ciò che in realtà si richiede loro di fare. Sballarsi attenua piacevolmente la vergogna. Il crescente uso di cannabis deriva da un diffuso senso di colpa.

L’interpretazione pessimistica ci ricorda che siamo molto lontani dal 1938, e che Brecht si sbagliava. I soldati pensano che i loro generali abbiano ragione. Si identificano con il loro ruolo e la loro missione, ed anche con Israele. Cercano solo un modo per migliorare le proprie prestazioni.

Uno dei danni emotivi attribuiti all’uso della cannabis è l’aumento dell’aggressività. In un esercito come il nostro, che deve continuamente ricordare a chi è assoggettato che il suo giusto ed eterno posto è in basso, l’aggressività personale non è un difetto. Fa parte dello schema di lavoro.

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




I palestinesi feriti ‘puniti’ per aver protestato a Gaza

I palestinesi feriti ‘puniti’ per aver protestato a Gaza

L’Organizzazione Mondiale della Sanità riferisce che Israele ha concesso solo a un terzo dei dimostranti feriti il permesso di attraversare il checkpoint di Erez per essere curati

Al-Jazeera

Mersiha Gadzo e Anas Jnena – 8 giugno 2018

 

Il solo modo in cui ora a Sari al-Shubaki può comunicare è aprire e chiudere le palpebre.

La mattina del 14 marzo un cecchino israeliano l’ha colpito al collo con un proiettile durante le manifestazioni a Gaza. Da allora, il ventiduenne è paralizzato. Un frammento del proiettile è rimasto fra la spalla e il collo.

Nell’ultimo mese è rimasto ricoverato in condizioni critiche nel reparto di cure intensive dell’ospedale Al Shifa della città di Gaza.

Da allora, la famiglia sta aspettando che Israele gli conceda un permesso per uscire attraverso il checkpoint di Erez a nord di Gaza, che i palestinesi chiamano Beit Hanoun, per essere curato.

Il giorno successivo a quello in cui Sari è stato colpito, i medici hanno detto che l’avrebbero trasferito in Egitto per le cure, ma la speciale ambulanza ICU necessaria per spostarlo non è mai arrivata come era stato invece promesso, dice Dawud al-Shubaki, suo padre.

“Non so se è la verità o se è perché lo considerano un caso senza speranza. Mi sembra che abbiano dei casi prioritari, visto che ci sono così tanti feriti” dice Dawuf ad Al Jazeera dall’[ospedale] Al Shifa.

Senza altra possibilità, Dawuf ha continuato a protestare nel cortile dell’ospedale per far conoscere le condizioni del figlio e ricevere aiuto.

“C’è ancora speranza. È cosciente. Ci hanno detto dall’ospedale S. Giuseppe di Gerusalemme che sarebbero pronti ad accoglierlo, ma quanto tempo ci vorrà? Il ferito che era nel letto vicino a lui è morto ieri”, dice Dawuf.

“Faccio appello a chiunque abbia ancora un cuore misericordioso perché faccia sì che mio figlio riceva le cure di cui ha bisogno. Non possiamo pensare di perderlo. Se muore sarà una catastrofe per tutta la famiglia” dice Dawuf, scoppiando in lacrime.

Dall’inizio delle manifestazioni per la Grande Marcia del Ritorno, il 30 marzo, l’esercito di Israele ha ucciso per lo meno 129 palestinesi dell’enclave costiera assediata, e ha ferito più di 13000 persone.

In mancanza di risorse adeguate per provvedere alle cure necessarie ai pazienti, i dottori dell’impoverita Striscia di Gaza normalmente derivano i malati agli ospedali di Israele, della Cisgiordania e qualche volta della Giordania.

Ma per andarci i pazienti hanno bisogno di un permesso rilasciato da Israele, che spesso lo rifiuta senza spiegazioni o ci mette troppo tempo a concederlo per condizioni sanitarie urgenti.

L’altra possibilità è di uscire attraverso la frontiera sud di Rafah per essere curati in Egitto, ma la cosa è spesso dilazionata.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO), al 3 giugno è stato concesso a 12 feriti su 22 di attraversare Rafah per essere curati in Egitto.

A causa del blocco israelo-egiziano che dura da 11 anni, i malati a Gaza affrontano da tempo ostacoli per lasciare Gaza e sottoporsi a cure indispensabili, cosa che ha causato a molti una lenta morte, ma i dimostranti feriti affrontano ora ostacoli anche più stringenti per attraversare Erez.

Secondo un nuovo rapporto del WHO, dall’inizio del movimento della Marcia del Grande Ritorno solo un terzo dei palestinesi feriti durante le manifestazioni ha avuto dalle autorità israeliane un permesso di uscita.

Al 3 giugno, dei 66 manifestanti feriti che hanno presentato domanda per essere trasferiti attraverso Erez, solo 22 sono stati approvati – rispetto a un tasso di approvazione del 60% nel primo trimestre del 2018.

Trentatré, cioè il 50%, hanno ricevuto un rifiuto – una percentuale significativamente più bassa rispetto all’8% del primo trimestre 2018.

I restanti pazienti stanno ancora aspettando, e intanto due di loro sono morti.

“È stato deciso che sarà rifiutata senza appello ogni richiesta di ingresso in Israele a scopo medico inoltrata da un terrorista attivo o da un dimostrante che abbia preso parte ai fatti violenti avvenuti vicino alla barriera”, ha commentato in una mail ad Al Jazeera un portavoce del COGAT, l’ente amministrativo dell’occupazione militare di Israele.

 

‘Una politica punitiva e vendicativa’

Secondo Adalah – il Centro Legale per i Diritti della Minoranza Araba -, il rifiuto di Israele di evacuare i manifestanti feriti corrisponde ad una forma di punizione.

Prima del 15 aprile, a nessuno dei feriti durante le proteste della Marcia del Grande Ritorno è stato concesso il permesso di attraversare Erez per le cure.

Il Centro Al Mezan per i Diritti Umani e Adalah hanno dovuto fare ricorso alla Corte Suprema di Israele perché i malati palestinesi potessero essere trasferiti attraverso Erez.

Il 16 aprile, tre giudici della Corte Suprema israeliana hanno unanimemente deciso che fosse consentito a Yousef Kronz, ventenne, ferito da un proiettile dell’esercito israeliano, di lasciare Gaza per cure mediche urgenti a Ramallah, per salvare la gamba rimasta.

Adalah riferisce che, a causa del ritardo imposto dall’esercito israeliano e dal tribunale riguardo alla sua iniziale richiesta di trasferimento inoltrata più di due settimane prima, Kronz ha già subito l’amputazione di una gamba.

La Corte ha deciso che Kronz non costituiva alcuna minaccia e che la sua condizione sanitaria rappresenta “un totale cambiamento nella sua vita”.

“Dalla nostra esperienza nel caso Kronz, l’esercito israeliano cerca di implementare una politica punitiva e vendicativa nel rifiutare ai residenti di Gaza accesso a trattamenti medici salvavita in Cisgiordania solo perché hanno partecipato ad una manifestazione” ha detto Mati Milstein, coordinatore per i media internazionali di Adalah.

“Di fatto, durante le udienze del tribunale, rappresentanti del governo hanno detto chiaramente che il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman ha deciso di impedire il trasferimento per trattamenti medici urgenti dei gazawi feriti che abbiano partecipato alle proteste e alle manifestazioni pacifiche – anche a rischio di un’amputazione.”

Secondo le leggi umanitarie internazionali, come forza d’occupazione Israele è obbligato ad assicurare ai palestinesi accesso alle cure e a garantire strutture mediche, ospedali e servizi nei territori occupati.

Tuttavia, per la delegazione di Medici per i Diritti Umani di Israele (PHRI) che ha visitato Gaza in aprile, lavorare nei migliori ospedali disponibili in città è stato come tornare indietro di diversi decenni.

Dr. Jamal Hijazi, del Centro Medico Shaare Tzedek di Gerusalemme, ha spiegato che non ci sono antibiotici, e i malati se li devono portare. Non ci sono nemmeno disinfettanti e lo staff medico usa al loro posto una soluzione salina, aumentando la probabilità di infezioni.

PHRI ha riferito che lo staff medico usa più volte i prodotti usa-e-getta, come pure i medicinali scaduti. Mancano anche materiali fondamentali come garza, morfina, punti di sutura chirurgici, anestetici e tutori per fratture alle gambe.

“I feriti non sono curati adeguatamente, e qualcuno paga con la vita”, ha detto PHRI nell’ultimo rapporto, in riferimento al pesante bilancio di vittime del 14 maggio.

“Costretti a frugare fra i resti delle scorte mediche e dei medicinali, su qualsiasi cosa riescano a mettere le mani, i medici si sentono come nullatenenti che chiedano l’elemosina.”

 

Non c’è altro da fare che aspettare

Il paramedico Mazen Jabreel Hasna è stato sottoposto a sei operazioni chirurgiche per salvare la sua gamba destra dopo che è stato colpito da un proiettile a frammentazione nell’area di Malaka a Gaza.

I medici hanno detto che avrebbero trasferito il trentatreenne in Egitto o in Giordania per un’operazione chirurgica, ma questo non è ancora successo. Aspettando il permesso, ha paura che le arterie artificiali che i medici hanno usato per salvargli la gamba possano presto esplodere o guastarsi, visto che non sono della misura giusta.

“Ora sono in attesa e se Dio vorrà, potrò farlo prima che qualcosa vada storto”, dice Hasna.

Anche Omar al-Housh, di 25 anni, sta aspettando il permesso di lasciare Gaza per operarsi. Il dolore è continuo, dice. “Giorno e notte.”

Passa tutto il tempo a letto, incapace anche di usare le stampelle e tiene la gamba ferita sotto un lenzuolo; non ha il coraggio di guardarla da quando il 14 maggio un cecchino israeliano l’ha colpita con un proiettile a frammentazione.

Il fratello mostra foto della gamba colpita di Omar – una profonda ferita va dall’anca alla caviglia, muscoli e tessuti completamente esposti.

Quando è arrivato Omar l’ospedale ha chiesto urgentemente donazioni di sangue. Ha ricevuto più di 60 unità di sangue a causa delle vene e dei vasi danneggiati e ha subito tre operazioni per salvargli la gamba.

Omar ha detto che il giorno dopo esser stato colpito gli è stato negato il trasferimento in Egitto.

Attualmente è sulla lista d’attesa per operarsi in Giordania, poiché in punti di sutura usati per cucire le sue vene e i vasi sanguigni danneggiati non sono del tipo giusto e la frattura delle ossa è parzialmente scomposta.

Sta aspettando il permesso dalle autorità israeliane e giordane, ma gli è stato già più volte rifiutato l’ingresso.

“Ci vuole tanto tempo e ho paura che mi rifiuteranno ancora una volta l’ingresso in Israele o in Giordania”, dice Omar.

“I medici hanno fatto un’operazione d’urgenza, temporanea, per evitare che la mia ferita peggiorasse. Voglio poter camminare di nuovo” dice Omar, aggiungendo che la sua pena è diventata anche mentale, poiché soffre di incubi e flashback.

Omar ha lavorato occasionalmente con il fratello come pescatore, ma lui e la sua famiglia non possono pagare le medicazioni e gli analgesici, ciò che aggrava il problema.

“Tutti i giorni ha bisogno di analgesici e iniezioni, altrimenti sveglia tutto il vicinato con le sue urla, ma io non posso permettermeli”, dice il padre Younis al-Housh, insegnante.

“L’altro giorno mi ha chiesto di non prendergli le iniezioni e i medicinali perché si sente di peso. Vedete come è diventata dura la vita qui? Ma ciò che ora è importante è che vogliamo che sia curato fuori di qui e possa camminare.”

 

 

(traduzione di Luciana Galliano)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 




Sì, Israele sta commettendo esecuzioni extragiudiziarie

Nel 2016 non c’è bisogno di essere Adolf Eichmann per essere giustiziato in Israele – basta essere un’adolescente palestinese con delle forbici.

Di Gideon Levy – Haaretz – 17 gennaio 2016

Potremmo dirlo così: Israele giustizia persone senza processo praticamente ogni giorno. Ogni altra definizione sarebbe una menzogna. Se una volta c’era qui una discussione sulla pena di morte per i terroristi, ora sono giustiziati anche senza processo (e senza che se ne discuta). Se una volta c’era un dibattito sulle regole d’ingaggio, oggi è chiaro: spariamo per uccidere ogni palestinese sospetto.

Il ministro della Sicurezza Pubblica, Gilad Erdan, ha illustrato chiaramente la situazione quando ha detto: “Ogni terrorista deve sapere che non sopravviverà all’attacco che sta per compiere,” e praticamente tutti i politici lo hanno seguito con nauseabonda unanimità, da Yair Lapid [fondatore del partito di centro “Yesh Atid” (C’è un futuro). Ndtr.] in su. Non erano mai stati rilasciati tante licenze di uccidere, né il dito era stato così nervoso sul grilletto.

Nel 2016, non c’è bisogno di essere Adolf Eichmann [criminale nazista rapito in Argentina, processato e giustiziato in Israele. Ndtr.] per essere giustiziati, basta essere un’adolescente palestinese con delle forbici. I plotoni d’esecuzione sono attivi ogni giorno. Soldati, poliziotti e civili sparano a quelli che hanno accoltellato israeliani, o hanno cercato di farlo o sono sospettati di averlo fatto, e anche a coloro che hanno investito israeliani con la loro auto o sembra che lo abbiano fatto.

In molti casi, non c’era bisogno di sparare, e sicuramente non di uccidere. Nella maggior parte dei casi la vita di chi ha sparato non era in pericolo. Sparano per uccidere persone che avevano un coltello o persino forbici, o gente che ha semplicemente messo le mani in tasca o ha perso il controllo della propria auto.

Li uccidono indiscriminatamente – donne, uomini, ragazzine, ragazzini. Gli sparano mentre stanno fermi, ed anche quando non sono più pericolosi. Sparano per uccidere, per punire, per sfogare la propria rabbia e per vendicarsi. Qui c’è un tale disprezzo che questi incidenti sono a malapena raccontati dai media.

Sabato scorso [16 gennaio 2016] al checkpoint di Beka’ot (chiamato Hamra dai palestinesi), nella valle del Giordano, alcuni soldati hanno ucciso l’uomo d’affari Said Abu al-Wafa , di 35 anni, padre di 4 figli, con 11 pallottole. Contemporaneamente, hanno ucciso anche Ali Abu Maryam, un bracciante agricolo e studente di 21 anni, con tre pallottole. L’esercito israeliano non ha spiegato le ragioni dell’uccisione dei due uomini, salvo sostenere che c’era il sospetto che qualcuno avesse sfoderato un coltello. Ci sono delle telecamere di sicurezza sul posto, ma l’esercito israeliano non ha mostrato il filmato dell’incidente.

Il mese scorso altri soldati dell’IDF hanno ucciso Nashat Asfur, padre di tre figli che lavorava in un mattatoio israeliano per polli. Gli hanno sparato nel suo villaggio, Sinjil, dalla distanza di 150 metri, mentre stava camminando verso casa per un matrimonio. All’inizio di questo mese, Mahdia Hammad, quarantenne madre di 4 figli, stava guidando verso casa attraverso il suo villaggio, Silwad. Ufficiali della polizia di frontiera hanno crivellato la sua macchina con dozzine di proiettili dopo aver sospettato che volesse investirli.

I soldati non hanno avuto sospetti di nessun genere sulla studentessa di cosmetologia Samah Abdallah, 18 anni. Hanno sparato all’auto di suo padre “per sbaglio”, uccidendola; hanno sospettato il pedone sedicenne Alaa al-Hashash di volerli accoltellare. Ovviamente hanno giustiziato anche lui.

Hanno ucciso anche Ashrakat Qattanani, 16 anni, che aveva un coltello e inseguiva una donna israeliana. Prima un colono l’ha investita con la sua macchina, e quando era a terra ferita, soldati e coloni le hanno sparato per almeno quattro volte. Un’esecuzione, cos’altro?

E quando i soldati hanno sparato alla schiena a Lafi Awad, 20 anni, mentre stava scappando dopo aver lanciato delle pietre, non si è trattato di un’esecuzione?

Sono solo alcuni dei casi che ho documentato nelle scorse settimane su Haaretz. Il sito web dell’associazione [israeliana] per i diritti umani B’tselem presenta un elenco di altri 12 casi di esecuzioni.

Margot Wallström, ministra degli Esteri svedese, una dei pochi ministri al mondo che hanno ancora una coscienza, ha chiesto che si indaghi su queste uccisioni. Non c’è una richiesta più morale di questa. Avrebbe dovuto essere fatta dal nostro stesso ministro della Giustizia.

Israele ha risposto con i suoi soliti ululati. Il primo ministro ha detto che ciò era “oltraggioso, immorale e ingiusto”. e Benjamin Netanyahu comprende bene questi termini: è esattamente il modo in cui descrivere la campagna di esecuzioni criminali da parte di Israele sotto la sua guida.

(traduzione di Amedeo Rossi)