Facciamo chiarezza: Israele estende la facoltà di privare i palestinesi di cittadinanza e residenza

Adalah

 20 febbraio 2023 – +972 Magazine

Una nuova legge, approvata da una schiacciante maggioranza della Knesset, fa parte di un processo in corso di consolidamento di sistemi giuridici diversi per ebrei e palestinesi.

Il 15 febbraio la Knesset ha approvato un nuovo disegno di legge intitolato “Legge per la revoca della cittadinanza o dello stato di residenza a un terrorista che riceva fondi per aver commesso un atto di terrorismo, 2023”.

Secondo la legge, approvata con una netta maggioranza di 94 membri della Knesset sia della coalizione di governo che del blocco di opposizione e solo 10 voti contrari, il ministero dell’Interno israeliano sarà autorizzato a revocare la cittadinanza o la residenza a una persona se condannata o detenuta per aver commesso un’ ” azione terroristica”, a condizione che abbia percepito fondi, o che qualcun altro li abbia percepiti per suo conto, dall’Autorità Palestinese (AP). La legge consente inoltre l’espulsione di queste persone nella Cisgiordania occupata o nella Striscia di Gaza se soddisfano i criteri di cui sopra.

Nello stesso giorno il plenum della Knesset ha approvato in lettura preliminare un altro disegno di legge volto a deportare le famiglie dei “terroristi”, che il Comitato giuridico ministeriale aveva promosso all’inizio di quella settimana. È difficile stabilire se questo disegno di legge, a cui il procuratore generale si è opposto, possa andare avanti o meno; tuttavia, proprio come per l’altra legge, hanno votato a favore parlamentari sia della coalizione di governo che dell’opposizione.

È impossibile negare la portata delle violazioni di diritti fondamentali contenuti nella nuova legge, in particolare quelli dei cittadini palestinesi di Israele e dei residenti palestinesi di Gerusalemme est. Il diritto alla cittadinanza è noto come “diritto ad avere diritti”, da cui derivano i diritti civili più basilari.

La negazione di questo diritto fondamentale è una misura gravissima e renderà apolidi le persone, in violazione della Convenzione delle Nazioni Unite del 1961 sulla riduzione dell’apolidia. La revoca della residenza dei palestinesi a Gerusalemme Est contravviene anche alla Quarta Convenzione di Ginevra in quanto, secondo il diritto internazionale, Gerusalemme Est è un territorio occupato che è stato annesso illegalmente da Israele.

Oltre a queste violazioni la nuova legge amplia enormemente i motivi in base ai quali si potrà usare la misura. Ciò costituirà una punizione addizionale oltre a ogni condanna che un individuo riceverà dal sistema legale penale israeliano, costituendo quindi una doppia punizione che contravviene ai principi più basilari dello stato di diritto, inclusa la finalità dei procedimenti giudiziari.

Israele ha già un meccanismo legale che in sé è problematico e che è stato recentemente confermato dalla Corte Suprema, per cui lo Stato può revocare la cittadinanza dei palestinesi in Israele così come meccanismi legali aggiuntivi per revocare la residenza dei palestinesi di Gerusalemme est. Ma si pensa che la nuova legge approvata la scorsa settimana amplierà in modo significativo l’ambito di tali meccanismi e nel far ciò consoliderà ulteriormente due sistemi legali separati per ebrei e palestinesi su entrambi i lati della Linea Verde  [il confine tra Israele e Cisgiordania prima dell’occupazione nel 1967, ndtr.] .

Qual è stato finora il metodo di revoca della cittadinanza e residenza secondo la legge israeliana?

Secondo l’emendamento alla legge sulla cittadinanza del 2008 il ministero degli Interni israeliano è autorizzato, su raccomandazione del Procuratore Generale e con l’approvazione di un tribunale distrettuale, a revocare la cittadinanza a individui che abbiano commesso un atto che costituisce “una violazione della lealtà verso lo Stato di Israele.”

Questo emendamento era stato esaminato dalla Corte Suprema per la prima volta con una sentenza emanata nel luglio 2022 nel caso di Alaa Zayoud, in cui si concludeva che l’emendamento soddisfa i principi costituzionali israeliani anche se la revoca comporta apolidia di qualcuno, sempre che il ministero degli Interni gli conceda la residenza permanente in Israele. Sebbene lo Stato alla fine di quel caso non abbia privato Zayoud della cittadinanza, la sentenza della corte ha affermato e legittimato la disposizione razzista della legge che viola gravemente i diritti umani e contravviene al diritto internazionale, basandosi solo su norme giuridiche israeliane.

Un emendamento del 2018 alla Legge sull’ingresso in Israele ha portato a una disposizione simile riguardo alla revoca della residenza ai palestinesi di Gerusalemme est, dopo che la Corte Suprema aveva accettato un ricorso da parte di membri del Consiglio Legislativo palestinese, il parlamento dell’Autorità Palestinese a cui i permessi di residenza erano stati negati; piuttosto che emanare una decisione finale sul caso, la corte diede alla Knesset l’opportunità di creare una nuova legislazione che avrebbe soddisfatto i criteri costituzionali. La Knesset ha quindi approvato una legge che deve essere ancora rivista dalla Corte Suprema, ma che è già in vigore e che permette al ministero degli Interni di revocare la residenza di una persona dopo essersi consultato con un comitato creato dal ministero.

Ci sono ulteriori strade che consentono a Israele di revocare la residenza ai palestinesi di Gerusalemme est. Nel 1988 una commissione di giudici della Corte Suprema, presieduta da Aharon Barak, confermò la revoca della residenza di Mubarak Awad, un accademico e fondatore del Centro Palestinese per lo Studio della Nonviolenza, sulla base del fatto che aveva spostato il “centro della sua vita” lontano da Gerusalemme. Sulla scia di questa sentenza seguirono molte centinaia di casi simili.

Cosa costituisce “terrorismo” o altri reati che potrebbero essere motivo di revoca? 

Sia la Legge sulla Cittadinanza che la Legge sull’ingresso in Israele contengono tipologie di reati che costituiscono una “violazione della lealtà,” e una condanna per queste tipologie offre al ministero degli Interni la possibilità di approvare la revoca di cittadinanza o residenza. La prima è commettere un “atto di terrorismo,” come definito dalla Legge sul Controterrorismo del 2016; istigare o aiutare un tale atto; avere un ruolo attivo in un’organizzazione “terroristica” o in una organizzazione definita “terroristica”. La seconda categoria si riferisce ad atti che costituiscano “tradimento” o “spionaggio grave” ai sensi del codice penale. In casi di revoca della cittadinanza c’è anche una terza categoria: acquisire la cittadinanza di uno “Stato nemico” (la lista degli “Stati nemici” è la stessa usata per proibire la riunificazione familiare per i palestinesi).

L’uso frequente del termine “terrorista” nel contesto israeliano, sia nella revoca di cittadinanza e residenza che nel contesto di misure punitive aggiuntive contro i palestinesi, richiede ulteriori spiegazioni di come la legge israeliana definisca un “atto di terrorismo.” Non c’è una lista precisa di reati che sono definiti come inclusi nell’ambito della Legge sul controterrorismo, ma piuttosto una sorta di filtro che etichetta certi reati come “terrorismo” se soddisfano una combinazione di criteri: avere un motivo e commettere o minacciare di commettere un atto. Secondo questi criteri molto ampi un atto come lanciare pietre a una manifestazione può essere considerato “terrorismo.”

Considerare “atto terroristico” un reato, espone le persone accusate a trattamenti più severi nel processo giudiziario e nella pena e può anche essere applicato retroattivamente a precedenti condanne penali. Dopo l’emanazione della Legge sul controterrorismo Adalah [ong israeliana che difende i diritti dei palestinesi con cittadinanza israeliana, ndt.] ha messo in guardia che la definizione di “atto di terrorismo” previsto dalla legge era troppo ampia e vaga. Il documento sostiene che in base a questa definizione la Legge sul controterrorismo potrebbe includere atti commessi da palestinesi durante proteste politiche legittime, contro l’occupazione, la discriminazione, il razzismo, lo spossessamento e l’oppressione che affrontano.

Ci sono parecchi segnali che questa definizione è stata ideata per applicare sanzioni discriminatorie contro i palestinesi. Per esempio dati ufficiali del pubblico ministero relativi agli eventi del maggio 2021 confermano che la proporzione di imputati palestinesi accusati di aver commesso un “atto di terrorismo” era significativamente più elevata di quella degli imputati ebrei in circostanze simili.

Inoltre la clausola di revoca nella Legge sulla Cittadinanza chiaramente prende di mira i palestinesi. Come parte del procedimento nel caso di Zayoud il ministero dell’interno aveva passato dati alla Corte Suprema che mostravano che, dei 31 casi in cui lo Stato aveva preso in considerazione la revoca della cittadinanza, nessuno di essi riguardava un cittadino ebreo. Nonostante ciò, il presidente della Corte Suprema, Esther Hayut, dichiarò nella sentenza che, dato che solo tre richieste di revoca della cittadinanza erano state sottoposte dal ministero degli Interni all’approvazione della corte, non c’erano motivi sufficienti per provare la discriminazione.

Come la nuova legge cambia l’attuale quadro giuridico?

La legge approvata la scorsa settimana aggiungerà un ulteriore meccanismo per la revoca della cittadinanza e della residenza oltre a consentire l’espulsione in Cisgiordania o a Gaza. Con il nuovo meccanismo le persone che potranno essere soggette alla revoca includeranno individui condannati e incarcerati per aver commesso un atto di “terrorismo” o un atto di “tradimento,” e, ove sia “comprovato in modo soddisfacente per il ministero dell’Interno”, quanti vengano accusati di aver ricevuto fondi dall’Autorità Palestinese “per violare la lealtà [allo Stato di Israele, ndt.]”.

La legge include anche il presupopsto che chiunque riceva pagamenti dall’ANP non sia da considerare apolide perché avrebbe uno status nell’ANP. Questo è un chiaro tentativo di aggirare gli obblighi imposti dalla Corte Suprema sul ministero degli Interni nella sentenza Zayoud per assicurare che la persona la cui cittadinanza sia revocata mantenga uno status permanente in modo da non renderla apolide.

La legge inoltre non prevederà l’approvazione del procuratore generale, ma piuttosto quella del ministero della Giustizia e richiederà che la corte risponda entro 30 giorni alla richiesta del ministero dell’Interno per la revoca, a meno che la corte sia convinta che la richiesta sia ingiustificata. Nei casi in cui la residenza permanente sia revocata, l’individuo avrà solo sette giorni di tempo per opporsi alla condanna. Secondo la legge coloro che hanno seguito la procedura descritta saranno deportati quando la loro condanna al carcere sarà scontata.

Perché questa legge è razzista?

Questi reati di “violazione della lealtà” sono basati sulla definizione di un “atto di terrorismo” che in se stesso è un modo di prendere di mira in modo differenziato i palestinesi. Le condizioni che devono essere soddisfatte per dare come risultato l’espulsione sono dirette in modo evidente contro i palestinesi in virtù del requisito che abbiano ricevuto fondi specificatamente dall’AP.

I sostenitori della legge hanno dichiarato che essa intende impedire ai palestinesi condannati di un atto di terrorismo o ai membri delle loro famiglie di essere “ricompensati” per il loro atto. Tuttavia, ai sensi della legge esistente, il ministero della Difesa ha già la possibilità, che è frequentemente utilizzata, di confiscare tali fondi trasferiti dall’ANP, quindi è difficile non concludere che le disposizioni di questa legge vogliono ottenere uno scopo diverso.

Solo recentemente un’inchiesta ha rivelato la rete di raccolta fondi di un’organizzazione israeliana che sostiene finanziariamente gli assassini dell’ex primo ministro Yitzhak Rabin, della famiglia Dawabshe, di Shira Banki e altri ebrei condannati per crimini nazionalisti (l’organizzazione, inizialmente registrata con il nome Hanamel Dorfman, attuale capo del personale del ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir,). Questi prigionieri ebrei-israeliani e altri come loro non saranno colpiti dalle condanne imposte dalla nuova legge.

Distinzioni razziste di questo tipo sono già state sostenute in una sentenza del giudice Noam Sohlberg in risposta a un ricorso riguardante la demolizione della casa di cinque palestinesi. Sohlberg ha respinto le affermazioni secondo cui sarebbe stata applicata una politica discriminatoria e ha sostenuto che le ragioni per cui le case degli ebrei che hanno ucciso palestinesi non sarebbero state distrutte “è perché nel settore ebraico non c’è la stessa necessità di deterrenza generale che è la base delle demolizioni delle case.” Circa le uccisioni della famiglia Dawabshe e di Muhammed Abu Khdeir il giudice ha sostenuto che quando esse sono avvenute c’è stata una “potente e decisiva condanna da parte degli ebrei che non c’è dalla parte opposta (palestinese).”

Nelle prime discussioni dei comitati della Knesset lo scopo della legge appena approvata è stato apertamente dichiarato. Per esempio, il parlamentare del Likud Hanoch Milwidsky ha detto: “Non penso di dovermi giustificare sul fatto di essere nello Stato degli ebrei che preferiscono gli ebrei” e ha ulteriormente chiarito cosa intendesse dire nella risposta ad Ahmad Tibi, parlamentare di Ta’al [“Movimento arabo per il rinnovamento”, uno dei componenti della Lista Unita, ndtr.]: “Io preferisco i killer ebrei ai killer arabi.”

Durante la stessa discussione, Limor Son Har-Melech, parlamentare di Otzma Yehudit [Potere Ebraico, partito di estrema destra, N.d.T.] che era fra i promotori della legge, ha criticato persino l’idea che ricevere denaro dall’ANP sarebbe una condizione per l’espulsione. Secondo lei la cittadinanza dovrebbe essere revocata “a ogni terrorista che uccide un ebreo perché è un ebreo,” aggiungendo che la condanna appropriata per un tale delitto dovrebbe essere la condanna a morte.

L’accordo di coalizione di Otzma Yehudit con il Likud include una legge per la pena di morte ai “terroristi,” anch’essa intesa a colpire esclusivamente i palestinesi: l’accordo chiarisce che sarà applicata solo agli “atti di terrorismo mirati a danneggiare lo Stato di Israele come Stato del popolo ebraico.”

Conclusioni

La nuova legge dovrebbe essere vista come nient’altro che parte di un processo in corso per rafforzare sistemi legali separati per ebrei e palestinesi sotto il controllo israeliano. Questa tendenza è stata ulteriormente evidenziata dai principi guida dell’attuale governo e dall’accordo di coalizione firmato in occasione del suo insediamento, che include una lunga lista di misure aggiuntive per espandere ulteriormente sistemi separati di applicazione delle leggi ed esecuzione delle pene.

In uno studio pubblicato da Adalah che analizza i documenti fondanti della coalizione è chiaro che questi documenti vedono la supremazia ebraica e la separazione razziale come principi fondamentali del regime israeliano. Queste caratteristiche dell’apartheid sono chiaramene visibili nella nuova legge sulla revoca [della cittadinanza o della residenza, ndt.].

Uno degli iniziatori della legge, Yinon Azoulai, parlamentare di Shas [partito politico di ebrei ortodossi ashkenaziti, ndt.] spiegando il suo scopo ha detto alla Knesset: “Che tutti quelli che si ribellano contro di noi capiscano questo: in questo Stato noi, gli ebrei, siamo i signori della terra.” E, come ha detto il primo ministro Benjamin Netanyahu all’inizio di un incontro governativo la scorsa settimana, la nuova legge serve “ad affondare più profondamente le nostre radici nella nostra terra.” Ma è importante ricordare che il sostegno a questa legge, come a molte altre leggi razziste, in Israele arriva da ogni fazione sionista della Knesset, sia dalla coalizione di governo che dall’opposizione.

Adalah – Il centro legale per i diritti della minoranza araba in Israele è un’organizzazione indipendente per i diritti umani e un centro legale. Adalah lavora nei tribunali israeliani e presso gli organi decisionali internazionali per promuovere e difendere i diritti umani di tutti i palestinesi sottoposti alla giurisdizione dello Stato di Israele.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




I residenti di Sheikh Jarrah rifiutano l’accordo con i coloni

 I residenti di Sheikh Jarrah rifiutano l’accordo “tirannico” con i coloni

I residenti di Sheikh Jarrah hanno respinto una proposta della Corte Suprema israeliana che li avrebbe resi “inquilini protetti” nelle loro stesse case e avrebbe aperto la strada a future evacuazioni da parte dei coloni israeliani.

 Yumna Patel  

 2 novembre 2021 Mondoweiss

 

Martedì i residenti di Sheikh Jarrah hanno annunciato che avrebbero respinto la proposta della Corte Suprema israeliana che li avrebbe resi “inquilini protetti” nelle loro stesse case, aprendo la strada a future evacuazioni delle loro famiglie da parte dei coloni israeliani.

Dopo aver mancato all’inizio di quest’anno di pronunciarsi in merito all’appello delle famiglie contro gli sgomberi, la Corte Suprema ha presentato ad agosto una proposta di “compromesso” tra le famiglie palestinesi e Nahalat Shimonim, l’organizzazione di coloni che cerca di sfrattarli dalle loro case.

L’accordo mirava a dichiarare i residenti palestinesi “inquilini protetti”, che avrebbero pagato un canone annuo di 2.400 shekel (750 dollari) all’organizzazione dei coloni per poter rimanere nelle loro case.

Accettare lo status di residenti protetti riconoscerebbe in effetti la proprietà della terra ai coloni, una condizione che i residenti hanno categoricamente rifiutato.

L’accordo offriva comunque ai residenti tale status solo per altre due generazioni, dopodiché le famiglie sarebbero state nuovamente costrette allo sfratto da parte di Nihalat Shimonim, che sostiene che la terra appartenga a coloni ebrei.

“È ora che la nostra Nakba finisca”

In una dichiarazione, le famiglie hanno definito la proposta un “accordo tirannico”, in cui la “espropriazione sarebbe comunque incombente e le nostre case sarebbero comunque considerate appartenere a qualcun altro”.

“Tali ‘accordi’ distraggono dal crimine in corso: la pulizia etnica perpetrata da una magistratura coloniale e dai suoi coloni”, afferma la dichiarazione.

Martedì, in conferenza stampa, Muna El-Kurd ha affermato che il rifiuto delle famiglie deriva “dalla convinzione della giustizia della nostra causa e dei nostri diritti alle nostre case e alla nostra patria”.

Le famiglie hanno accusato il tribunale di “eludere la responsabilità a pronunciarsi sul caso” e di costringere i residenti a prendere una decisione – qualcosa che secondo loro ha creato “l’illusione di essere noi ad avere la palla”.

Con il rifiuto delle famiglie, il tribunale dovrà ora pronunciarsi sulla causa di sfratto. Se la corte suprema deciderà a favore dei coloni, i residenti palestinesi del quartiere saranno allontanati con la forza dalle loro case e sostituiti dai coloni, una realtà che è già stata imposta a diverse famiglie di Sheikh Jarrah.

Il caso attuale riguarda solo quattro famiglie, ma una sentenza contro i residenti palestinesi aprirebbe la strada alla futura espulsione di più di una dozzina di altre famiglie di Sheikh Jarrah, anch’esse già sottoposte a ordini di sfratto.

La lotta delle famiglie di Sheikh Jarrah è piombata sulla scena mondiale all’inizio di quest’anno, attirando massicce proteste in Palestina e all’estero e l’attenzione dei leader mondiali.

Durante le proteste nel corso dell’estate, è stato documentato che le forze israeliane attaccavano violentemente i residenti locali e anche i giornalisti che seguivano gli eventi.

Sembrerebbe che la crescente attenzione internazionale che circonda Sheikh Jarrah abbia evitato per un po’ qualsiasi sgombero forzato, ma i residenti sostengono che occorre intraprendere un’azione effettiva per proteggerli.

“La comunità internazionale ha a lungo sostenuto che l’espansione dei coloni e l’espulsione forzata da Sheikh Jarrah sono crimini di guerra. Pertanto, deve rispondere a tali gravi violazioni del diritto internazionale con reali ripercussioni diplomatiche e politiche”, afferma la dichiarazione delle famiglie, aggiungendo che “la cultura dell’impunità non deve continuare”.

“È tempo che la nostra Nakba finisca”, hanno detto le famiglie. “Le nostre famiglie meritano di vivere in pace senza il fantasma incombente di un’imminente espropriazione”.

La Corte Suprema confisca terreni per il comune

Lunedì, in una sentenza separata, la Corte Suprema ha deciso di confiscare ai residenti di Sheikh Jarrah un pezzo di terra all’ingresso del quartiere e di consegnarlo alla municipalità israeliana di Gerusalemme.

Il terreno confiscato misura circa 4.700 metri quadrati e, secondo quanto riferito, dovrebbe utilizzarsi come terreno “pubblico” del comune.

In una dichiarazione a The New Arab, Hashem Salaymeh, membro del consiglio locale di Sheikh Jarrah, ha affermato che la decisione di confiscare la proprietà e consegnarla al comune è stata “estremamente dannosa” per la causa dei residenti.

“Questo manda il messaggio che Sheikh Jarrah è preso di mira da tutti gli attori israeliani: dal governo, dal comune e dai coloni privati. Questo rende il caso di Sheikh Jarrah ancora più complicato”, ha detto Salaymeh.

 

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)

 




Diventa virale il cortometraggio su Sheikh Jarrah girato da un regista palestinese

Aziza Nofal

22 giugno 2021 – Al Monitor

Il giovane regista palestinese Omar Rammal continua a raccogliere commenti positivi per “The Place,” [Il Posto], il corto che ha prodotto e postato sui social durante i recenti eventi nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme.

RAMALLAH, Cisgiordania — Il 15 maggio, quando il regista palestinese Omar Rammal, 23 anni, ha postato il corto “The Place,” [Il posto] sul suo canale YouTube, non si aspettava che diventasse virale. “Credevo che avrebbe ricevuto vari apprezzamenti, ma non così tanti,” ha detto Rammal ad Al-Monitor.

Il video apparso il 15 maggio sul suo account Instagram ha totalizzato più di 6 milioni di visualizzazioni e parecchi altri canali l’hanno condiviso. Rammal l’ha postato senza copyright in modo che fosse disponibile a chiunque volesse ripostarlo, per fare conoscere in tutto il mondo la realtà della Palestina, e di Sheikh Jarrah in particolare.

In “The Place”, che dura solo un minuto e mezzo, Rammal sintetizza l’espulsione di 28 famiglie palestinesi nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est, dove gruppi di coloni israeliani stanno tentando di espandersi.

Rammal ha deciso deliberatamente di postare il suo video proprio il giorno dell’anniversario della Nakba [la Catastrofe, la pulizia etnica operata dai sionisti nel ’47-’48, ndtr.] per dire che il furto delle case palestinesi continua da allora e che il quartiere di Sheikh Jarrah non sarà l’ultimo, perché ogni “posto” in Palestina è preso di mira in vista della continua occupazione.

Nel suo film si concentra sulla storia di una famiglia palestinese che parla della propria casa: c’è la mamma che dice che la sua cucina è “condita con amore”, la ragazzina che ama la sua cameretta e i suoi giocattoli, il ragazzo che rappresenta i giovani palestinesi e il padre che l’ha ereditata insieme a un albero nel giardino piantato dal nonno, la cosa che ama di più della casa.

Alle spalle di queste immagini “normali”, si vedono i coloni che stanno portando via i ricordi della famiglia a cui stanno rubando la casa.

Rammal ha voluto mettere i sottotitoli in inglese con un commento semplice alla fine che riassumesse il messaggio del film: “Il posto siamo noi … la nostra esistenza … i nostri ricordi e il nostro futuro.”

Quando a Rammal è venuta l’idea per “The Place,” ne ha parlato con il suo amico sceneggiatore Suleiman Tadros che l’ha aiutato a trasformarla in un copione. Il produttore Abdel Rahman Abu Jaafar e l’intera troupe, inclusi gli attori, sono tutti volontari che hanno contribuito, ognuno nel proprio ruolo, per sostenere la lotta palestinese.

Le riprese sono durate tre giorni, ma Rammal non ha pensato che il film fosse abbastanza potente fino a quando non hanno girato la scena della mamma, interpretata dall’attrice giordana Hind Hamed. “Riguardandola dopo le riprese mi sono venuti i brividi. È stato in quel momento che mi sono detto che avrebbe avuto un enorme impatto,” ha concluso Said.

Rammal crede che, oltre ad aver postato il film sui social in un momento in cui il mondo stava mostrando grande solidarietà alla causa palestinese e al quartiere di Sheikh Jarrah, il segreto del suo successo stia nel modo in cui ne ha trasmesso il messaggio umanitario.

Rammal osserva che il cinema palestinese e arabo, nonostante la carenza di risorse, se usato in modo intelligente e sensibile, può comunicare i temi palestinesi in tutto il mondo.

Lui paragona il successo di “The Place” a quello del suo primo film del 2019, “Hajez” (“Checkpoint”), che parla delle sofferenze quotidiane dei palestinesi ai checkpoint israeliani. Sebbene entrambi illustrino una realtà palestinese, il primo non era stato accolto molto bene a causa dell’esplicito messaggio politico.

Il successo di questo film pone Rammal davanti a una scelta: lui non vuole essere visto come un regista palestinese che fa solo vedere la lotta palestinese, dato che invece crede che si debba mostrare l’altro lato della vita dei palestinesi che non è diversa da quella di qualsiasi altra persona in qualunque altro posto. “È vero che la vita dei palestinesi è complicata dall’occupazione, ma noi viviamo la nostra quotidianità come chiunque altro.”

Lui sostiene che i registi palestinesi non dovrebbero solo presentare tematiche palestinesi o mostrare i palestinesi solo sotto una luce negativa o in modo superficiale, ma piuttosto dovrebbero concentrarsi nel rispecchiarne il lato umano e la vita quotidiana.

Rammal viene da Salfit, nella Cisgiordania settentrionale, e ha completato i suoi studi in cinematografia nella capitale giordana, Amman. Nel 2018 ha diretto: “Fatimah,” un breve documentario su una ragazza siriana sfollata in Giordania e ha partecipato a vari festival arabi e internazionali, come il film festival franco-arabo, l’Elia film festival di corti e il Winter Film Awards a New York.

“The Place” non ha solo trasmesso un messaggio palestinese in tutto il mondo. Ha anche dimostrato che il cinema palestinese può comunicare un’autentica storia palestinese usando in modo intelligente gli strumenti disponibili e i social per contrastare la narrazione israeliana che falsa l’immagine dei palestinesi.

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)




Non solo a Sheikh Jarrah: i palestinesi rischiano sfratti ovunque

Redazione di MEE

11 maggio 2021- Middle East Eye

Le famiglie palestinesi hanno subito per decenni continue minacce di sfratti in Israele e nei territori occupati

Nelle ultime settimane la situazione nella Città Vecchia di Gerusalemme e dintorni è peggiorata e la repressione attuata dalle forze di sicurezza israeliane contro i manifestanti palestinesi che protestavano a causa degli sfratti è diventata progressivamente sempre più brutale.

Lunedì mattina le forze israeliane hanno ancora una volta fatto irruzione nella moschea di Al-Aqsa sparando proiettili di acciaio ricoperti di gomma e lanciando lacrimogeni all’interno del complesso, ferendo centinaia di palestinesi.

L’escalation di violenza sta avvenendo nel contesto della prevista espulsione di 40 palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah, della Gerusalemme Est occupata.

Sin dall’inizio dell’anno scorso i tribunali israeliani avevano ordinato lo sfratto di 13 famiglie palestinesi del quartiere, basandosi su una deliberazione di un tribunale di prima istanza agli inizi del 2021 a favore di rivendicazioni vecchie di decenni su lotti di terra da parte di coloni israeliani.

Un’udienza della Corte Suprema per un appello palestinese era stata fissata per lunedì, ma il ministero della Giustizia israeliano l’ha rinviata a causa delle crescenti tensioni nelle ultime settimane.

Da quando Israele ha occupato Gerusalemme Est durante la guerra del 1967, le organizzazioni di coloni israeliani hanno rivendicato la proprietà di terre a Sheikh Jarrah e hanno presentato con esito positivo vari ricorsi per sfrattare i palestinesi dal quartiere.

Quattro delle 38 famiglie della zona rischiano lo sfratto imminente, mentre tre saranno probabilmente sfrattate il 1 agosto.

Quelle rimanenti si trovano a stadi diversi nell’iter giudiziario in vari tribunali israeliani in uno scontro frontale con potenti gruppi di coloni israeliani.

Nonostante l’attenzione recentemente sia concentrata su Sheikh Jarrah, molte famiglie palestinesi in Israele, a Gerusalemme Est e nella Cisgiordania occupata devono affrontare l’imminente pericolo di espulsione, il che evidenzia l’annoso schema di trasferimenti forzati ed espropriazioni di palestinesi da parte di Israele.

Qui di seguito elenchiamo varie zone dove i palestinesi stanno lottando per rimanere.

Silwan

Come a Sheikh Jarrah, i coloni israeliani hanno avanzato rivendicazioni simili per ottenere la proprietà di terre di palestinesi situate vicino alla Città Vecchia di Gerusalemme.

Israele ha una strategia di insediamenti detta “Bacino Sacro”, che prevede unità abitative per i coloni e una sfilza di parchi intitolati a località e personaggi della Bibbia nei dintorni della Città Vecchia di Gerusalemme. Il piano richiede la rimozione degli abitanti palestinesi dal quartiere di Silwan.

A novembre un tribunale israeliano ha ratificato lo sfratto di 87 palestinesi dalla zona di Batan al-Hawa a Silwan, a sud della moschea di al-Aqsa, a favore del gruppo di coloni israeliani di Ateret Cohanim.

Questo gruppo, che mira a espandere la presenza di coloni nei quartieri a maggioranza palestinese di Gerusalemme Est, intorno e all’interno della Città vecchia, ha fatto causa agli abitanti di Batan al-Hawa, sostenendo che, durante il periodo ottomano e fino al 1938, quando le autorità del mandato britannico le spostarono a causa di tensioni politiche, quei terreni erano di proprietà di ebrei yemeniti.

Anche gli abitanti di Wadi al-Rababa, un’altra zona che ospita circa 800 palestinesi gerosolimitani, sono da tempo in guerra con i bulldozer israeliani. A gennaio alcuni abitanti hanno riferito a Middle East Eye che soprusi e tentativi di demolizione da parte delle autorità israeliane sono aumentati durante la pandemia da Covid-19.

L’avanzata dei coloni israeliani a Silwan è cominciata nel 2004, quando furono fondati due avamposti di coloni. Il numero di avamposti era arrivato a sei nel 2014, da appartamenti isolati a interi caseggiati.

Le autorità israeliane hanno annunciato a novembre un piano di scavi per la costruzione di una funivia sopra Silwan. Il controverso progetto altererebbe drasticamente il paesaggio della storica Città Vecchia ed espanderebbe la presenza israeliana nella zona, facilitando l’accesso dei turisti al Muro Occidentale a spese dei negozianti palestinesi della Città Vecchia

Sin dal 1995, l’Autorità israeliana per le antichità scava dei siti a Silwan con il sostegno della fondazione dei coloni “Ir David”, ufficialmente per creare una nuova attrazione turistica e trovare testimonianze dell’esistenza della “Città di Davide” risalente a tremila anni fa.

Il completamento del progetto della “Città di Davide” che include un “viale” in stile romano costruito sulle strade che per generazioni sono state dei palestinesi, consoliderebbe la posizione illegale dei 450 coloni  che attualmente vivono a Silwan e marginalizzerebbe i 10.000 abitanti palestinesi del quartiere.

Giaffa

Altrove, a Giaffa, nella zona costiera a sud di Tel Aviv, Middle East Eye ha riportato ad aprile che Amidar, un’impresa immobiliare israeliana statale, sta progettando di espellere gli abitanti palestinesi dalle proprie proprietà per venderne alcune a Eliyahu Mali, il capo di una sinagoga militante a Giaffa che sta cercando di impadronirsene per trasformarle in una sinagoga.

Decine di cittadini palestinesi di Israele, che costituiscono il 20% della popolazione del Paese, sono stati attaccati lo stesso mese dalla polizia israeliana e dai seguaci di Mali.

Mali è a capo di “Settling in the Hearts“, [insediarsi nei cuori], un progetto di espansione di colonie israeliane che preme per stabilire avamposti nel cuore di città a maggioranza palestinese e nei quartieri della Gerusalemme Est occupata, in Cisgiordania e in Israele, come al-Ajami.

In aprile Mahmoud Abed, giornalista e attivista di Giaffa, ha detto a MEE che nella zona si stava attuando da parte delle autorità israeliane “un trasferimento silenzioso” di famiglie palestinesi risultante in “una mancanza di sicurezza personale e di una vita dignitosa” per i palestinesi.

Il 70% dei palestinesi che abitano a Giaffa vive in proprietà di cui Israele si è impadronito nel 1948 tramite società statali, come Amidar. Queste imprese possiedono un terzo della proprietà mentre gli abitanti ne possiedono i due terzi,” ha detto Abed.

In anni recenti Israele ha messo all’asta proprietà a Giaffa e chiesto agli abitanti palestinesi di fare delle offerte in concorrenza con ricchi investitori israeliani sulla quota di un terzo detenuta dalle società statali israeliane.

Nessuno può mettere insieme un milione e mezzo di dollari in 60 giorni per restituirli alle compagnie. Quasi 40 famiglie palestinesi se ne sono andate da Giaffa perché non possono comprare o affittare una casa nella zona,” ha detto Abed a MEE.

Umm al-Fahm

Anche Umm al-Fahm, una cittadina nella regione di Wadi Ara vicino ad Haifa, nel nord di Israele, dove recentemente i manifestanti hanno dimostrato contro la violenza e l’inerzia della polizia israeliana [nei confronti della delinquenza locale, ndtr.], ha visto tentativi di sfratto e demolizioni.

I cittadini palestinesi di Israele protestano da tempo che le proprie città e paesi sono poco serviti dalle autorità israeliane, mentre i permessi di costruzione per fornire alloggi per le comunità in espansione sono difficili da ottenere.

Secondo Arab48 [sito di notizie in arabo, ndtr.] la famiglia Eghbarieh, per esempio, da oltre dieci anni è bloccata da dispute con le autorità israeliane riguardo alla demolizione della loro casa. La famiglia ha recentemente presentato ricorso contro lo sfratto.

Secondo Bldtna, sito web palestinese di notizie che ha riferito di parecchie attività commerciali e case nella zona di Wadi Ara a cui recentemente sono state presentate ingiunzioni di demolizione e sfratto perché non avevano un permesso edilizio, lo scorso agosto bulldozer israeliani hanno demolito un edificio in costruzione a causa di una presunta mancanza di licenza edilizia.

Molti palestinesi hanno dovuto demolire loro stessi le proprie case e attività, di fronte all’alternativa fra il farlo loro stessi o pagare le demolizioni attuate dalle autorità israeliane.

Khan al-Ahmar

Prima di Sheikh Jarrah nel 2021, il destino di Khan al-Ahmar aveva attirato l’attenzione mondiale nel 2018.

Il villaggio si trova in Cisgiordania, fra Gerusalemme Est e le colonie illegali israeliane di Maale Adumim e Kfar Adumim.

Nel settembre del 2018, nonostante richieste di Paesi europei, organizzazioni per i diritti umani e attivisti affinché Israele bloccasse il progetto, la Corte Suprema israeliana ha approvato la demolizione di Khan al-Ahmar.

I piani per demolire Khan al-Ahmar fanno parte del cosiddetto piano E1, che prevede la costruzione di centinaia di unità abitative per collegare Kfar Adumim e Maale Adumim con Gerusalemme Est, nell’Area C della Cisgiordania controllata da Israele.

Se implementato completamente, il piano E1 di fatto dividerebbe a metà la Cisgiordania, separando Gerusalemme Est dalla Cisgiordania e costringendo i palestinesi a fare una deviazione ancora più lunga per andare da un posto all’altro, mentre le colonie illegali potrebbero continuare ad espandersi.

Nel 2018, causa della pressione internazionale, Israele ha sospeso i piani di demolire Khan al-Ahmar, ma a marzo il quotidiano israeliano Yedioth Athronoth ha rivelato che i funzionari stavano di nuovo pianificando di sfrattare i palestinesi dal villaggio.

Gli abitanti di Khan al-Ahmar appartengono alla tribù degli Jahalin, un gruppo di beduini espulso dal deserto di Naqab, anche detto Negev, durante la guerra arabo-israeliana del 1948. Gli Jahalin si sono poi stabiliti sulle pendici orientali di Gerusalemme.

La comunità di Khan al-Ahmar comprende circa 35 famiglie, le cui abitazioni e scuole di fortuna, fatte di ondulato e legno, sono state demolite parecchie volte in anni recenti dall’esercito israeliano.

Legislazione delle colonie

Dall’annessione di Gerusalemme Est nel 1967, Israele ha usato due leggi principali per sfrattare i palestinesi dalle loro case.

La Legge sulla Proprietà degli Assenti del 1950 classifica i palestinesi che sono stati espulsi o che hanno lasciato il Paese dopo il novembre 1947 come “assenti” mette le loro proprietà sotto il controllo dello Stato israeliano.

La Legge e Ordinanza Amministrativa del 1970 permette il trasferimento di proprietà perdute a Gerusalemme Est nel 1948 solo agli ebrei.

I palestinesi non possono rivendicare diritti su beni posseduti prima del 1948.

La politica israeliana di insediare i propri civili nei territori palestinesi occupati e cacciando la popolazione locale viola norme fondamentali della legislazione umanitaria internazionale,” ha rilevato Amnesty International, citando le Convenzioni dell’Aia e la Quarta Convenzione di Ginevra.

L’ong aggiunge che “stabilire insediamenti comporta atti importanti”, compresa l’ingiustificata “massiccia distruzione e appropriazione di proprietà” e “trasferimento… da parte della potenza occupante di parti della propria popolazione civile nei territori che occupa, o la deportazione o il trasferimento di tutta o parte della popolazione del territorio occupato all’interno o all’esterno di questo territorio” costituisce crimini di guerra secondo lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale.

Amnesty ha anche criticato quello che chiama “urbanistica e sistema di zone discriminatori” da parte di Israele.

Nel frattempo, dagli Accordi di Oslo del 1993 la Cisgiordania è stata divisa in Aree A, B e C, con la maggior parte della popolazione palestinese nelle Aree A e B. L’Area C, che rappresenta il 60% della Cisgiordania, è sotto totale controllo militare israeliano, con comunità palestinesi più piccole che nella zona vengono regolarmente minacciate di demolizioni delle proprie case, mentre le colonie israeliane nelle vicinanze prosperano.

Nell’Area C, dove si trova la maggior parte della costruzione delle colonie, Israele ha allocato il 70% della terra alle colonie e solo l’1% ai palestinesi,” secondo Amnesty, mentre a Gerusalemme Est, “Israele ha espropriato il 35% della città per la costruzione di colonie, permettendo ai palestinesi di costruire su solo il 13% della terra.”

Mentre continua la lotta per Sheikh Jarrah nei tribunali e nelle strade, il fato di altre comunità palestinesi mostra che il problema non comincia né finisce con questo quartiere di Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Tribunale israeliano aggiudica ai coloni proprietà della chiesa a Gerusalemme

Tamara Nassar

3 luglio 2020 – Electronic Intifada

Il mese scorso un tribunale israeliano ha respinto una petizione presentata dalla chiesa greca ortodossa per annullare la vendita di proprietà immobiliari a Gerusalemme a un’organizzazione estremista di coloni israeliani.

La decisione dà nuovamente il via libera ad Ateret Cohanim, un gruppo di destra coinvolto in città nella colonizzazione di terra palestinese, per impossessarsi delle tre proprietà.

Lo scorso agosto, la Corte distrettuale di Gerusalemme aveva sentenziato a favore del gruppo di coloni che cerca di far sì che ci sia una maggioranza ebraica nella Città Vecchia, attraverso la colonizzazione e l’espulsione con la forza di nativi palestinesi.

Ateret Cohanim sostiene di aver stipulato contratti in leasing nel 2004 per terreni della chiesa con Ireneo I, all’epoca il patriarca greco ortodosso. I contratti sarebbero scaduti dopo 99 anni.

La chiesa ha detto che ricorrerà in appello contro la decisione del 24 giugno presso la Corte Suprema israeliana e ha accusato la Corte distrettuale di Gerusalemme di aver ignorato “varie nuove prove di comportamenti criminali, come estorsione, frode e inganno ” riguardanti i contratti del 2004.

Il pronunciamento della Corte è stato una sorpresa ed è arrivato questa mattina a meno di 24 ore dalla conclusione dell’udienza, senza che si fossero esaminate le prove e senza averne consentito l’audizione,” ha detto il patriarcato.

Noi crediamo che la Corte Suprema accoglierà il nostro caso dopo aver riesaminato le prove e ribalterà la decisione della Corte distrettuale.”

Ma questa fiducia è probabilmente mal riposta, dato che in precedenza la Corte aveva già deciso a favore dell’organizzazione dei coloni autorizzando il passaggio di proprietà.

La battaglia legale di Ateret Cohanim contro la chiesa per tentare di impossessarsi degli immobili nei pressi della Porta di Giaffa nella Città Vecchia si protrae da 16 anni.

Due delle tre proprietà, l’hotel New Imperial e l’hotel Petra, sono al momento occupate da organizzazioni palestinesi che Ateret Cohanim cerca di sfrattare.

Sono due degli edifici più antichi della città e si affacciano sulla Cupola della Roccia e la Basilica del Santo Sepolcro.

Ireneo I era stato rimosso dalla chiesa perché accusato di aver approvato le transazioni.

I tre siti sono stati concessi in leasing per molto meno del loro valore e dei funzionari della chiesa erano stati accusati di essere stati pagati dal gruppo dei coloni per mandar avanti l’operazione.

Nel 2005 una commissione formata dall’Autorità Nazionale Palestinese aveva esaminato il fatto e scagionato Ireneo I.

L’indagine concludeva affermando che, dato che gli accordi non erano stati approvati dal Sinodo di Gerusalemme, ciò li rendeva “legalmente nulli in quanto incompleti.”

Ireneo I sostenne che la sua estromissione era illegale e continuò a considerarsi il patriarca.

Theofilo III, che ora è il patriarca, ha bloccato le vendite che il suo predecessore avrebbe approvato perché c’erano di mezzo bustarelle e corruzione. Dopo la sua nomina la chiesa ha acquisito i siti.

Il patriarcato sostiene che Ateret Cohanim abbia corrotto Nikolas Papadimos, il direttore delle finanze, per mandare avanti l’accordo.

La chiesa greca ortodossa è fra i maggiori proprietari terrieri nel Paese.

Mentre cerca di impedire che i coloni israeliani si impossessino delle tre proprietà, lo stesso Theofilo III è accusato di cercare di vendere altri beni ecclesiastici, spesso ad acquirenti misteriosi, inclusi investitori israeliani.

Per questo motivo i palestinesi cristiani hanno richiesto la sua estromissione dalla carica di patriarca.

(traduzione dall’inglese Mirella Alessio)




Annessione della valle del Giordano

I palestinesi della valle del Giordano: “Le nostre terre sono già state annesse”

La promessa di Netanyahu di formalizzare il controllo di fatto di Israele sulla valle del Giordano provoca inquietudine tra gli abitanti palestinesi

di Arwa Ibrahim

12 settembre 2019 – Al Jazeera

 

Ras Ain al-Auja, valle del Giordano – Tra le vaste terre aride della valle del Giordano, che si estendono a nord del Mar morto e a ovest dei confini della Cisgiordania con la Giordania, sorge il piccolo villaggio palestinese di Ras Ain al-Auja.

Se il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu porterà a compimento il suo piano, annunciato martedì, di annettere la valle del Giordano e le zone a nord del Mar morto, il villaggio di circa 350 residenti e i suoi fertili terreni agricoli diventeranno parte di Israele.

Alcuni osservatori hanno liquidato il piano di Netanyahu come una bravata da campagna elettorale prima delle elezioni generali della prossima settimana. Ma gli abitanti di Ras Ain al-Auja dicono che le parole di Netanyahu sono minacciose in quanto il suo piano potrebbe formalizzare il controllo israeliano sulla zona.

“Non è una novità. Le nostre terre sono già state annesse e stiamo vivendo sotto l’occupazione israeliana,” afferma ad Al Jazeera il quarantottenne Ahmed Atiyat, un contadino di Ras Ain al-Auja.

“Tutte queste terre e le palme sono degli israeliani,” dice indicando distese di terre coltivate punteggiate di cespugli verdi e palme da dattero che si estendono verso il Mar Morto.

Il progetto di Netanyahu intende annettere il villaggio e altre parti della valle del Giordano, tuttavia non includerebbe Gerico, la città palestinese più vicina a  Ras Ain al-Auja.

L’annessione di Gerico lo obbligherebbe ad occuparsi là della condizione di migliaia di cittadini palestinesi. L’attuale piano tendenzialmente taglierebbe fuori Gerico da altre città palestinesi nella Cisgiordania occupata.

 

Occupazione di fatto

La popolazione di Ras Ain al-Auja comprende soprattutto contadini che hanno lavorato su quella terra da generazioni. Dicono che risorse idriche in esaurimento e restrizioni alla costruzione e ai collegamenti da parte dell’esercito israeliano hanno reso difficili le condizioni di vita.

“Tutte le nostre sorgenti d’acqua sono sotto controllo israeliano. Abbiamo pochissima acqua potabile, per non parlare dell’acqua per i nostri orti,” afferma Atiyat, che racconta che la sua famiglia si è spostata nella zona dopo essere stata espulsa dall’esercito israeliano dalle sponde del fiume Giordano nel 1967.

Hussein Saida, un altro contadino e membro del locale Comune, è d’accordo.

“Dobbiamo affrontare continue difficoltà, soprattutto quando si tratta di aver accesso e di fare la manutenzione ai nostri pozzi per innaffiare in nostri orti. Essi sono di fatto sotto il controllo israeliano,” dice Saida. Secondo molte Ong palestinesi e israeliane, Israele nega accesso alla terra, all’acqua e all’elettricità ai palestinesi che vivono nella valle del Giordano, così come in altre aree nella Cisgiordania occupata, rendendo le condizioni di vita difficili.

“Israele ha annesso di fatto la zona della valle del Giordano. Gran parte di essa è destinata ad uso militare, per cui i palestinesi non possono viverci. Se lo fanno, vengono espulsi” dice Roi Yellim, direttore della diffusione al pubblico di B’Tselem, una Ong [israeliana, ndtr.] per i diritti umani.

“C’è anche un continuo tentativo da parte di Israele di rendere difficili le condizioni di vita dei palestinesi nella valle del Giordano, in modo che la maggior parte di loro lasci le proprie terre,” aggiunge, sottolineando che tali condizioni vengono applicate in tutta la Zona C, che costituisce il 60% della Cisgiordania occupata.

L’area che Netanyahu progetta di annettere costituisce circa il 30% della Cisgiordania occupata. Più di 65.000 palestinesi e circa 11.000 coloni israeliani illegali vivono nella zona.

Maha Abdullah, una ricercatrice giuridica e avvocatessa di Al-Haq, un’Ong palestinese, dice che queste condizioni potranno solo peggiorare se l’area viene annessa, portando i palestinesi a pensare di lasciare le proprie case. “Queste zone rendono molto all’economia israeliana e quindi conviene sfruttarne le risorse e le terre,” afferma Abdullah. “Al contempo, creare un contesto costrittivo per i palestinesi che vi vivono attraverso la demolizione di case e la fornitura ridotta di acqua e di elettricità spingerà i palestinesi ad andarsene,” dice, facendo un confronto con l’annessione di Gerusalemme est nel 1967.

Ai palestinesi della Gerusalemme est occupata non è stata concessa la cittadinanza israeliana, dato che le annessioni e il loro status rimangono controversi e irrisolti.

Futuro Stato palestinese

Il piano minaccia anche la formazione di un futuro Stato palestinese, in quanto i palestinesi rivendicano i 2.400 km2 della valle del Giordano come confine orientale di un futuro Stato palestinese nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza.

Saeb Erekat, segretario generale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, denuncia il progetto di annessione, dicendo ad Al Jazeera che “seppellirebbe ogni restante prospettiva di una pace e di uno Stato palestinese fattibile e indipendente.”

La minaccia per il futuro della Palestina è avvertita anche ad un livello più locale.

 

“Anche se si trattasse solo di parole, per il momento, il progetto di Netanyahu di annettere le terre più fertili della Palestina e parti di un futuro Stato palestinese è molto pericoloso,” dice ad Al Jazeera Salah Frijat, capo dell’autorità locale di Auja, che è il Comune più esteso da cui dipende

Ras Ain al-Auja. “Ci sono continue violazioni delle nostre terre e delle nostre risorse idriche. Vogliono vederci andar via in quanto la vita diventa più dura e le colonie intorno a noi aumentano,” aggiunge.

Israele ha ripetuto le sue intenzioni di mantenere il controllo militare sulla zona, che ha conquistato nella guerra del 1967, anche se venisse raggiunto un accordo di pace con i palestinesi.

Lo scorso anno il presidente USA Donald Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele. Oltre a ciò la sovranità di Israele sulle Alture del Golan occupate, che le sue forze hanno conquistato dalla Siria nel 1967, ha fatto temere a molti osservatori che prima o poi questo piano possa effettivamente essere messo in atto.

“Anche se quello che Netanyahu ha detto fosse davvero una bravata elettorale, probabilmente procederà a una sorta di annessione perché ha l’appoggio dell’amministrazione di Trump,” sostiene Yellim.

Nonostante queste difficili condizioni e minacce, Atiyat dice che non lascerà mai la sua terra.

“Anche se la vita continua ad essere sempre più dura, moriremo qui piuttosto che andarcene o essere di nuovo cacciati dalle nostre terre,” dice ad Al Jazeera.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

 

 




Negazionismo e Nakba

Quando scoppia la bolla del negazionismo: un kibbutz israeliano di fronte alla Nakba

Salman Abu Sitta

5 settembre 2019 – Mondoweiss

 

Cosa succede quando un popolo è rinchiuso in una bolla in cui la “verità” ha un solo libro da leggere, da seguire e a cui ubbidire, e poi improvvisamente la bolla scoppia e il sole risplende su una verità completamente nuova, verificabile, chiara e corretta?

Ciò è quello che succede ai kibbutz [comunità agricole sioniste con proprietà collettiva, ndtr.] di Nirim, Nir Oz, Magen e Ein Hashloshla. Questi quattro kibbutz vennero fondati dopo la Nakba del 1948 sulla mia terra, Al Ma’in (65,000 dunum – 6.500 ettari). Al Ma’in è stato ed è da secoli il luogo d’origine della mia famiglia, Abu Sitta, ora rifugiata nella Striscia di Gaza e altrove.

Eitan Bronstein Aparicio, fondatore di “De-Colonizer” [De- Colonizzatore] (fondatore in precedenza di “Zochrot”, un gruppo israelo-palestinese che insegna la Nakba agli israeliani), ha fatto scoppiare la bolla. Eitan ha allestito una mostra piccola e semplice. Ha raccolto mappe, libri, video e una foto aerea della RAF [aviazione militare britannica, ndtr.] di Al Ma’in nel 1945, che mostra campi e l’aspetto principale del villaggio e le ha collocate in due stanze e un cortile. La mostra si è tenuta il 25 luglio 2019 nella “Casa Bianca”, l’unico edificio palestinese sopravvissuto alla demolizione del villaggio da parte degli israeliani nel 1948 e trasformata da Haim Peri, un artista di Nir Oz, in una galleria d’arte.

Eitan ha invitato i coloni di Al Ma’in e della zona circostante ad andare a vedere la mostra. Il suo messaggio era semplice. Quella era la gente che viveva qui e che ora è rifugiata a due chilometri di distanza dietro il filo spinato nella Striscia di Gaza. La presentazione lasciava intendere che Israele aveva preso la loro proprietà ed ora ci vivete voi.

Nonostante il fatto che il numero dei visitatori è stato modesto, probabilmente tra quaranta e cinquanta, le reazioni sono state indicative di gente a cui è stata negata la verità, le vittime del fatto di aver messo a tacere la Nakba.

Le considerazioni, e persino le minacce, più irate sono venute da un vecchio abitante di un kibbutz, di più di 80 anni, che aveva assistito e partecipato all’attacco contro Al Ma’in. La milizia Haganah [principale gruppo armato sionista prima della nascita di Israele, ndtr.] attaccò Al Ma’in il 14 maggio 1948 con 24 veicoli blindati, distrusse e bruciò case, demolì la scuola costruita nel 1920, fece saltare in aria il pozzo e il mulino a motore. Ad essa resistettero coraggiosamente per alcune ore 15 difensori palestinesi armati di vecchi fucili. Da bambino vidi le rovine fumanti del mio villaggio mentre ero ammassato insieme ad altri bambini e donne in una forra lì vicino. Non avevo mai visto un ebreo prima di allora e non sapevo chi fossero gli aggressori o perché fossero venuti a distruggere le nostre vite.

Il 14 maggio 1948 diventai un rifugiato.

Quel giorno sulle rovine del mio Paese, la Palestina, Ben Gurion proclamò lo Stato di Israele.

In seguito all’attacco e all’occupazione, nel periodo tra il 1949 e il 1955 sulla terra di Al Ma’in vennero costruiti i quattro kibbutz. La famiglia Abu Sitta, che era allora composta da circa 1.000 persone ed ora da circa 10.000, diventò rifugiata, per lo più nella Striscia di Gaza.

I coloni anziani, che erano presenti nel 1948, hanno accusato Eitan di eversione e gli hanno consigliato di trovare un altro Paese in cui emigrare. Hanno minacciato di dire alle autorità di negare l’ingresso a visitatori stranieri che potrebbero andare proprio per vedere la mostra. Ironicamente questi anziani sono stati i primi a visitare la mostra, probabilmente per trovare il modo di spiegare la loro storia negazionista.

Ovviamente la loro storia non merita neppure una replica. Hanno detto che lì non c’era nessuno: “Siamo arrivati dove c’era un deserto vuoto.” Come spiegare i campi coltivati nelle foto aeree? Chi li aveva seminati? La casa in cui è stata sistemata la mostra, il pozzo e il mulino a motore, le rovine che si trovano ancora lì, come li possono spiegare?

Il colono più anziano di Nirim, Solo (cioè Chaim Shilo o Solo Weicheck), 94 anni, un tedesco di origini russe, era indignato quando un giornalista britannico gli ha chiesto ripetutamente: “Perché non permettete alla famiglia Abu Sitta di tornare a casa?”

I coloni anziani hanno detto che quelle case erano state costruite dagli inglesi. Si tratta di una strana affermazione, in quanto chiunque abbia una conoscenza anche approssimativa della storia palestinese sa che abbiamo combattuto contro i britannici fin dalla [dichiarazione] Balfour. In particolare, il mio fratello maggiore Abdullah era il leader della rivolta del 1936-1939 nel distretto meridionale. Lui e i suoi compagni espulsero i britannici dal distretto di Beer Sheba per un anno, dall’ottobre 1938 al novembre 1939.

I coloni anziani sostengono di aver comprato le terre. Ma nessuno potrebbe fornire una prova di essere proprietario, legalmente o in altro modo, di un solo appezzamento di terreno per miglia e miglia.

La risposta più comune di giovani e anziani è stata: “Abbiamo vinto la guerra. Quando mai il vincitore ha restituito quello che ha vinto?”

Affermare che essere forti nella vittoria contro una controparte debole sia una giustificazione per un crimine solleverebbe la Germania nazista dai suoi crimini perché avrebbe potuto commettere e commise quei crimini. In base alla stessa argomentazione, i britannici sarebbero assolti da ogni colpa per il massacro di Amritsar  del 1919 [le truppe inglesi spararono contro la folla che assisteva ad un comizio nella città indiana, uccidendo più di 300 persone, ndtr.], i russi per aver giustiziato ufficiali polacchi nella foresta di Katyn nel 1940 [truppe sovietiche sterminarono più di 20.000 tra ufficiali e prigionieri polacchi, ndtr.] e i francesi per aver gettato in mare centinaia di prigionieri algerini da voli della morte con elicotteri nel 1957 [durante la “battaglia di Algeri” combattuta dal movimento di liberazione algerino, ndtr.].

I coloni hanno ripetuto il solito vecchio ritornello: “Noi abbiamo accettato il piano di spartizione [della Palestina tra arabi ed ebrei, approvato dall’ONU nel 1947, ndtr.], voi no. Sarebbe possibile che la Francia concedesse più di metà del Paese agli immigrati africani?”

Se i coloni fossero stati informati, avrebbero saputo che il piano di spartizione era una semplice raccomandazione, senza alcun valore giuridico vincolante. L’ONU non aveva l’autorità di dividere Paesi e lo disse. Oltretutto l’ONU, e sorprendentemente gli USA, lasciarono cadere il piano di spartizione a favore dell’amministrazione fiduciaria sulla Palestina da parte dell’ONU.

Nessuna fonte israeliana lo cita. I poveri coloni sarebbero gli ultimi a saperlo.

I coloni hanno sostenuto che “se non ci aveste fatto una guerra, tra di noi ci sarebbe stata la pace.” Ciò è molto strano. Non ricordo che la mia famiglia o qualunque altro gruppo di palestinesi abbia schierato un esercito ed abbia marciato verso la Polonia e la Russia per attaccarvi gli ebrei. É vero il contrario. Allora, chi ha scatenato la guerra? Non sanno rispondere.

Ciò che sicuramente non sanno è che l’abbandono del piano di spartizione a metà del marzo 1948 innescò un fondamentale avvenimento nella storia della Nakba. Ben Gurion [leader sionista e primo capo del governo israeliano, ndtr.] decise di conquistare la Palestina e ordinò di mettere in pratica immediatamente il piano Dalet [che prevedeva l’espulsione dei palestinesi dalla Palestina, ndtr.].

Di conseguenza iniziò l’invasione sionista della Palestina. In sei settimane, dal primo di aprile al 14 maggio 1948, l’Haganah conquistò località cruciali in Palestina e fondò sul terreno Israele, dopo che Herbert Samuel [politico ebreo sionista inglese nominato alto commissario del Mandato britannico sulla Palestina, ndtr.] (1920-1925) [periodo in cui Samuel fu alto commissario in Palestina, ndtr.] aveva definito le sue fondamenta giuridiche 28 anni prima.

In quelle sei settimane 220 villaggi, comprese molte cittadine, vennero attaccati e spopolati, quasi metà di tutti i rifugiati palestinesi vennero espulsi e vennero commessi 22 degli oltre 50 massacri avvenuti nel corso della Nakba. Durante quelle stesse sei settimane vennero condotte 17 operazioni militari da nove brigate. In ogni attacco ci fu una superiorità numerica di 10 a 1 contro i difensori. In totale Israele organizzò 31 operazioni militari per occupare parecchie regioni della Palestina, incrementando così il proprio controllo dal 6% della Palestina alla fine del Mandato [britannico] al 78% a metà del 1949. Vennero occupate nuove terre per formare una solida spina dorsale dalla pianura della costa centrale fino a Merj bin Amer e alle rive occidentali del fiume Giordano da Beisan a Metulla.

Quella fu la vera invasione della Palestina. Fu un’invasione sionista.

Ecco Adele Raemer, una nuova colona di Nirim. Arrivò dal Bronx [quartiere di New York, ndtr.] nel 1975 per insediarsi sulla mia terra. Scrive un blog sulla sofferenza dei kibbutz nell’‘enclave di Gaza’ e si lamenta degli aquiloni palestinesi che incendiano i ‘suoi’ campi di grano. Ho risposto dicendo che quelli sono i miei campi di grano. Le ho detto che ricordo che da bambino mi veniva permesso di sedermi sulla nostra mietitrebbia.

Ha voluto sapere: “Da quanto tempo la famiglia Abu Sitta ha vissuto ad Al Ma’in?”

Mi sono rifiutato di rispondere. Avrei potuto replicare che il nome Abu Sitta era sulle mappe di Allenby [generale britannico che sconfisse i turchi in Medio Oriente, ndtr.] quando conquistò Beer Sheba nel 1917, che il mio trisnonno fu citato per nome in un documento ottomano del 1845 riprodotto al Cairo e a Gerusalemme. Avrei potuto dirle che il nome Abu Sitta (Padre di Sei) venne coniato verso il 1720 in considerazione del fatto che il mio progenitore era un ben noto cavaliere accompagnato dalla scorta di sei compagni.

Mi sono rifiutato di rispondere perché non devo provare la mia discendenza a una colona i cui parenti sono arrivati di nascosto su una nave da uno shtetl [villaggio ebraico dell’Europa dell’est, ndtr.] sulle spiagge della Palestina nel cuore della notte.

Le sue lamentele sulla dura vita a Nirim sono state riprese da suo cugino, Gil Troy, un docente di storia all’università McGill [università canadese con sede a Montreal, ndtr.]. La formazione accademica non lo salva dai limiti della bolla della negazione. In risposta al devastante attacco israeliano contro Gaza dell’agosto 2014 [l’operazione “Margine protettivo”, ndtr.] ha scritto che Nirim venne fondato nel 1946, cioè prima della Nakba. Falso. Venne fondato sulla mia terra nella primavera del 1949, dopo che fummo attaccati ed espulsi. Egli ammira la “vera comunità di coltivatori”, ma omette di menzionare che venne fondata su una proprietà rubata e che i proprietari la vedono da dietro il filo spinato a due chilometri di distanza. Egli loda i coloni in quanto “agricoltori che persino sotto il continuo fuoco tendono la mano ai loro vicini gazawi, sconcertano il mondo con la loro straordinaria generosità ebraica, sionista e democratica.”

La bolla negazionista ha impedito al dotto professore di notare che la popolazione di 247 villaggi spopolati è stata ammassata nella stretta Striscia di Gaza con una densità di 7.000 persone per km2, mentre i coloni vagano sulla loro terra con una densità di 7 persone per km2.

Lo stesso Nirim ha 173 membri e le loro famiglie sfruttano 20.000 dunam (2.000 ettari) della mia terra, mentre la mia famiglia estesa, Abu Sitta, è composta da 10.000 rifugiati che vivono a due chilometri di distanza.

Il dotto professore parla del “confine” di Israele. Dovrebbe sapere che Israele non ha mai avuto un confine né per sua stessa ammissione né per le leggi internazionali. Probabilmente si riferiva alla linea dell’accordo di armistizio del 24 febbraio 1949. Ma il secondo articolo di questo accordo stabilisce che esso non concede diritti a Israele, né riguardo alla sua sovranità né alla proprietà di terre occupate.

Senza dubbio il dotto professore non sa che il confine di cui parla è solo una linea temporanea di ‘modus vivendi’ concordata nel febbraio 1950. La vera linea di armistizio è tre chilometri all’interno della terra occupata da Israele nel 1948, il che fa sì che Nirim, Ein Hashlosha e Nir Oz si trovino nella Palestina non occupata, nota ora come Striscia di Gaza.

Questo solo pensiero terrorizzerebbe i coloni e trasformerebbe la mostra di Eitan in una bomba di fatti che minerebbe tutte le loro rivendicazioni. Ma ciò non è stato citato.

È stranamente assente da ogni discussione l’orrendo stupro e l’uccisione di una ragazzina araba di 12 anni catturata da un plotone di Nirim nell’agosto 1949. I soldati di un plotone l’hanno violentata a turno, poi le hanno sparato e l’hanno sepolta. L’unico segno fu la sua mano che spuntava dalla fossa poco profonda. Ben Gurion citò brevemente questo fatto nel suo diario di guerra. Nessuno fa riferimento a questo crimine, neppure i coloni più anziani, come Solo, che all’epoca erano lì.

Ma c’è un raggio di speranza, un raggio così tenue da mettere in evidenza la dimensione della negazione. È una risposta di Efran Katz, un colono di Nir Oz. Vale la pena di citarlo integralmente:

Quello che oggi ho visto qui è stato molto toccante e persino doloroso. Nonostante abbia vissuto qui per più di 35 anni, sento la necessità e la speranza di tornare alla terra e riviverla con le emozioni passate, di riviverla con la cultura e i costumi vostri, degli abitanti.

Una terra non è un mattone. Una terra è un valore, è radici, è l’amore per un luogo. Non c’è posto per la deportazione. Il mio cuore è con voi.

Ai coloni può sembrare che la bolla della negazione sia un luogo sicuro in cui nascondersi. La logica è chiara. Se un crimine viene rivelato, chi lo ha commesso sarebbe un criminale meritevole di una punizione e obbligato a un risarcimento. La mostra di Eitan è un chiaro promemoria.

Ma ora non è rimasto molto spazio per nascondersi nella bolla della negazione. Quando tutto il mondo saprà del crimine, la giustizia li raggiungerà e il risarcimento sarà un prezzo molto pesante da pagare.

 

Salman Abu Sitta è fondatore e presidente della “Palestine Land Society” [Società Palestinese della Terra], di Londra, che si dedica alla documentazione sulla terra e il popolo palestinesi. É l’autore di sei libri sulla Palestina, compresi il compendio “Atlante della Palestina 1917-1966”, edizione in inglese e in arabo, l’“Atlante del viaggio di ritorno” e oltre 300 documenti e articoli sui rifugiati palestinesi, il diritto al ritorno, la storia della Nakba e i diritti umani. Gli viene attribuita una vasta documentazione e cartografia della terra e del popolo palestinesi di oltre 40 anni. La sua acclamata autobiografia “Mappare il mio ritorno” descrive la sua vita in Palestina e la sua lunga lotta in quanto rifugiato per tornare in patria.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

 




La polizia israeliana espelle una famiglia palestinese a Gerusalemme est, mentre entra un gruppo di coloni

Redazione di MEE

10 luglio 2019 – Middle East Eye

La famiglia Siyam ha sostenuto una battaglia legale di 24 anni sulla proprietà contro il potente gruppo di coloni “Elad”

Mercoledì la polizia israeliana ha espulso una madre con i suoi quattro figli dalla loro casa nel quartiere della Gerusalemme est occupata di Silwan per consegnarla all’organizzazione di coloni “Elad”.

Negli ultimi 24 anni Jawad Siyam, un importante attivista locale che ha condiviso la titolarità della proprietà con la sua famiglia, è stato impegnato in una interminabile battaglia legale contro la ricca e potente “Elad” riguardo alla proprietà.

Secondo i media locali, è stato arrestato durante lo sfratto di sua sorella e dei suoi figli.

Dagli anni ’90 la famiglia Siyam ha vinto vari ricorsi nei tribunali israeliani contro Elad, ma il gruppo di coloni ogni volta ha presentato appello e esibito documenti ai giudici per dimostrare il proprio possesso della proprietà.

Lo scorso mese il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha sentenziato a favore di Elad, una potente organizzazione il cui patrimonio è stimato ammontare a oltre 300 milioni di shekel (circa 74 milioni di euro).

Ora alla famiglia Siyam sono rimaste solo due unità abitative di un edificio di otto unità, dopo che Elad ne ha ottenute quattro.

Altre due unità immobiliari sono andate alla “Custodia israeliana delle proprietà di assenti” – un ente coloniale istituito in seguito alla Nakba (Catastrofe) del 1948 per prendere il controllo delle proprietà di palestinesi fuggiti dalla repressione durante la creazione dello Stato di Israele.

Secondo testimoni, mercoledì membri di Elad hanno occupato l’ultimo appartamento dei Siyam, buttando fuori gli effetti personali della famiglia, cambiando le serrature, erigendo cancelli tra loro e i Siyam e tagliando alberi in giardino.

Il capo di Elad, David Beeri, è stato filmato mentre esaminava la proprietà e poi stringeva la mano a un ufficiale della polizia israeliana. Nel 2017 Beeri ha ricevuto il Premio Israel alla carriera.

Jawad Siyam è il fondatore e direttore del centro d’informazione “Wadi al-Hilweh”, una Ong che intende fornire informazioni ai media e all’opinione pubblica sulle attività israeliane di colonizzazione nei quartieri di Silwan e Wadi al-Hilweh e e sugli scavi e i tunnel realizzati sotto le case palestinesi dalle autorità israeliane.

A lungo i palestinesi hanno accusato Israele di cercare di “ebraicizzare” la Gerusalemme est occupata e di cacciare i suoi 300.000 abitanti palestinesi per avere il controllo totale sulla città santa.

I due quartieri si trovano a sud delle mura della Città Vecchia di Gerusalemme e nei pressi della moschea di Al-Aqsa. Il quartiere è stato una zona di attività dei coloni e delle autorità israeliane, dove vengono tuttora effettuati scavi sotto le case dei palestinesi per trovare la perduta Città di Davide.

Negli ultimi 30 anni Elad ha occupato circa 75 case palestinesi. Lo scorso mese l’ambasciatore USA in Israele David Friedman e l’inviato della Casa Bianca per il Medio Oriente Jason Greenblatt hanno partecipato all’inaugurazione di un discusso tunnel sotto Silwan.

Il progetto del tunnel, chiamato dal governo israeliano “Via del pellegrinaggio”, è stato costruito nel corso degli ultimi otto anni con il sostegno di Elad. Passa sotto il quartiere in maggioranza palestinese di Wadi al-Hilweh.

Dal 1995 l’Autorità Israeliana per le Antichità, con l’appoggio della fondazione di coloni “Ir David”, ha scavato siti archeologici a Wadi al-Hilweh, ufficialmente per creare una nuova attrazione turistica e scoprire nella zona prove dell’esistenza della trimillenaria “Città di David”.

Il completamento del progetto della nuova “Città di David”, compreso un viale di stile romano costruito su strade che hanno ospitato generazioni di palestinesi, rafforzerebbe la posizione dei 450 coloni illegali che attualmente vivono a Silwan sotto scorta pesantemente armata, ed emarginerebbe i 10.000 abitanti palestinesi del quartiere.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Accordo del secolo

L’“accordo del secolo”? La benedizione americana al furto di terre e alla ghettizzazione dei palestinesi da parte di Israele

Nel corso degli ultimi 18 mesi la squadra di Trump per il Medio oriente sembra aver iniziato ad applicare il piano anche se non l’ha ancora reso pubblico

 

Jonathan Cook

 

Venerdì 10 maggio 2019 – Middle East Eye

 

Un rapporto pubblicato questa settimana dal giornale Israel Hayom che svelerebbe in apparenza “l’accordo del secolo” di Donald Trump dà l’impressione di un piano di pace che avrebbe potuto essere elaborato da un agente immobiliare o da un venditore di automobili.

Ma se l’autenticità del documento non è dimostrata, e al contrario persino messa in discussione, esistono seri motivi per credere che apra la strada a ogni futura dichiarazione dell’ amministrazione Trump.

 

Grande Israele

Si tratta soprattutto di una sintesi della maggior parte delle pretese della destra israeliana per la creazione del Grande Israele, con qualche concessione destinata ad ammansire i palestinesi – la maggior parte delle quali con l’obiettivo di alleggerire parzialmente lo strangolamento dell’economia palestinese da parte di Israele.

È esattamente ciò a cui assomiglierebbe l’“accordo del secolo” in base alle dichiarazioni del mese scorso di Jared Kushner che davano un primo quadro di questo piano.

L’organo di stampa che ha pubblicato la fuga di notizie è altrettanto significativo: Israel Hayom. Questo giornale israeliano appartiene a Sheldon Adelson, un miliardario americano dei casinò, uno dei principali donatori del partito repubblicano [USA, ndtr.] e uno dei maggiori finanziatori della campagna elettorale di Trump per la campagna presidenziale.

Adelson è anche un fedele alleato del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Nell’ultimo decennio il suo giornale non ha fatto altro che servire da portavoce dei governi ultranazionalisti di Netanyahu.

 

Netanyahu responsabile della fuga di notizie?

Adelson e Israel Hayom  hanno facile accesso alle figure più rappresentative delle amministrazioni americana e israeliana. Ed è stato ampiamente denunciato che nel giornale si scrivono poche cose interessanti senza che non siano state approvate in precedenza da Netanyahu o dal suo proprietario all’estero.

Il giornale ha rimesso in dubbio l’autenticità e la credibilità del documento, che è stato diffuso sulle piattaforme delle reti sociali, suggerendo persino che “è assolutamente possibile che il documento sia un falso” e che il ministero degli Esteri israeliano aveva deciso di occuparsi della questione.

La Casa Bianca aveva già informato che, dopo lunghi rinvii, aveva l’intenzione di svelare finalmente “l’accordo del secolo” il mese prossimo, dopo la fine del mese sacro per i musulmani del Ramadan.

Un responsabile anonimo della Casa Bianca ha dichiarato al giornale che il documento divulgato era “ipotetico” e “inesatto” – il genere di debole smentita che potrebbe ugualmente significare che il rapporto è, in effetti, in gran parte esatto.

Se il documento si rivela autentico, Netanyahu sembra essere il colpevole più probabile della divulgazione. Ha supervisionato il ministero degli Esteri per anni e Israel Hayom è spesso definito come il “Bibiton”, o il giornale di Bibi, dal soprannome del primo ministro.

Tastare il terreno

Il presunto documento, come l’ha pubblicato Israel Hayom, sarebbe un disastro per i palestinesi. Supponendo che Netanyahu ne approvi la divulgazione, le sue motivazioni non sarebbero forse molto difficili da individuare.

Da un certo punto di vista la divulgazione potrebbe costituire un mezzo efficace per Netanyahu e l’amministrazione Trump per tastare il terreno, per lanciare un ballon d’essai e decidere se osare pubblicare il documento così com’è o se devono apportarvi delle modifiche.

Ma è anche possibile che Netanyahu sia forse arrivato alla conclusione che mettere palesemente in pratica l’essenza di quello che già riesce a fare di nascosto potrebbe avere un prezzo non gradito – un prezzo che al momento potrebbe preferire evitare.

La fuga di notizie intende provocare un’opposizione anticipata al piano che arrivi sia da Israele che dai palestinesi e dal mondo arabo, nella speranza di impedire chee venga reso pubblico?

Forse ha sperato che le indiscrezioni, e la reazione che esse suscitano, obblighino la squadra di Trump per il Medio Oriente a rimandare di nuovo la pubblicazione del piano o a impedirne totalmente la diffusione.

Tuttavia, che “l’accordo del secolo” sia o no svelato tra poco, il documento divulgato – se è autentico – dà un’idea plausibile del pensiero dell’amministrazione Trump.

Dato che la squadra di Trump per il Medio oriente sembra aver cominciato ad applicare il piano, anche se quest’ultimo non è stato reso pubblico, durante gli ultimi otto mesi – dallo spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme al riconoscimento dell’illegale annessione da parte di Israele delle alture siriane del Golan – questa fuga di notizie permette di far luce su come si articolerebbe la “soluzione” americano-israeliana del conflitto israelo-palestinese.

 

Annessione della Cisgiordania

L’entità palestinese proposta sarebbe denominata “Nuova Palestina”, ciò che costituirebbe probabilmente una pagina del manuale di strategia di Tony Blair, ex-primo ministro britannico diventato ambasciatore della comunità internazionale in Medio oriente dal 2007 al 2015.

Negli anni ’90 Blair ha allontanato il suo stesso partito, il partito Laburista, dalla sua tradizione socialista, poi lo ha ribattezzato il partito favorevole alle imprese, che ha dato come risultato – sbiadita copia di quello che era – il “New Labour”.

Il nome “Nuova Palestina” maschera efficacemente il fatto che questa entità demilitarizzata sarebbe sprovvista dei caratteri e dei poteri normalmente attribuiti a uno Stato. Secondo le rivelazioni, la Nuova Palestina non esisterebbe che su un’infima frazione della Palestina storica.

Tutte le colonie illegali di popolamento in Cisgiordania sarebbero annesse a Israele, ciò che sarebbe in linea con l’impegno preso da Netanyahu poco prima delle elezioni legislative dello scorso mese. Se il territorio annesso comprende la maggior parte della zona C, il 62% della Cisgiordania su cui in base agli accordi di Oslo Israele si è visto accordare un controllo temporaneo e che la destra israeliana intende insistentemente annettere, alla Nuova Palestina resterebbe il controllo del 12% della Palestina storica.

In altre parole l’amministrazione Trump sembra pronta a dare la propria benedizione a un Grande Israele che comprenda l’88% delle terre rubate ai palestinesi nel corso degli ultimi 70 anni.

“Nuova Palestina”

Ma è molto peggio di questo. La Nuova Palestina esisterebbe sotto forma di una serie di cantoni separati, o Bantustan, circondati da un oceano di colonie israeliane – ormai definite parte di Israele. L’entità sarebbe fatta a pezzi e tagliata come nessun altro Paese al mondo.

La Nuova Palestina non avrebbe un esercito, ma solo una forza di polizia con armi leggere. Non potrebbe agire che come una serie di municipalità scollegate tra loro.

In realtà è difficile immaginare come la “Nuova Palestina” cambierebbe in modo sostanziale la triste situazione attuale dei palestinesi. Non si potrebbero spostare tra questi cantoni se non attraverso lunghi giri, delle circonvallazioni e dei tunnel. Più o meno come ora.

 

Municipalità osannate

Il solo vantaggio proposto dal presunto documento è un progetto di bustarelle proveniente dagli Stati Uniti, dall’Europa e da altri Stati sviluppati, anche se finanziato principalmente dai ricchi Stati petroliferi del Golfo, in modo da alleviare la loro coscienza per aver spogliato i palestinesi delle loro terre e della loro sovranità.

Questi Stati forniranno 30 miliardi di dollari (26 miliardi di euro) in cinque anni per aiutare la Nuova Palestina a creare e a gestire i suoi municipi osannati. Se vi sembra una grossa somma di denaro, ricordatevi che ciò rappresenta otto miliardi di dollari in meno rispetto all’aiuto che gli Stati Uniti consegnano da un decennio a Israele per comprare armi e aerei da guerra.

Nel documento non compare chiaramente quello che succederà alla Nuova Palestina dopo questo periodo di 5 anni. Ma, considerato che il 12% della Palestina storica attribuita ai palestinesi costituisce il territorio più povero di risorse della regione – privato da Israele di risorse idriche, di coesione economica e di risorse chiave utilizzabili come le cave della Cisgiordania – è difficile non vedere il naufragio annunciato dell’entità dopo l’affievolirsi del flusso iniziale di denaro.

Anche se la comunità internazionale accettasse di destinare più soldi, la Nuova Palestina sarebbe per sempre totalmente dipendente dagli aiuti.

Gli Stati Uniti e altri Paesi sarebbero in grado di aprire o chiudere i rubinetti in base al “buon comportamento” dei palestinesi – come avviene attualmente. I palestinesi vivrebbero in modo permanente nel timore per le conseguenze delle critiche dei guardiani della loro prigione.

Fedele al suo impegno di far pagare al Messico la costruzione del muro lungo la frontiera sud degli Stati Uniti, a quanto pare Trump vorrebbe che l’entità palestinese pagasse Israele per fornirle una sicurezza militare. In altri termini, gran parte di questo aiuto di 30 miliardi di dollari ai palestinesi si ritroverebbe probabilmente nelle tasche dell’esercito israeliano.

È interessante notare che il presunto articolo sostiene che sono gli Stati produttori di petrolio, e non i palestinesi, che sarebbero i “principali beneficiari” dell’accordo. Ciò indica come l’accordo di Trump sia venduto agli Stati del Golfo: è un’occasione per loro di legarsi totalmente a Israele, alla sua tecnologia e alle sue capacità militari, in modo che il Medio oriente possa seguire le orme delle “tigri economiche” dell’Asia.

 

Pulizia etnica a Gerusalemme

Gerusalemme è descritta come una “capitale condivisa”, ma le clausole scritte in piccolo dicono tutt’altro. Gerusalemme non sarebbe divisa, con da una parte l’est palestinese e dall’altra l’ovest israeliano, come per lo più si era previsto. Invece di ciò, la città sarebbe diretta da una municipalità unificata sotto controllo israeliano. Esattamente come ora.

La sola concessione significativa ai palestinesi sarebbe che gli israeliani non sarebbero autorizzati a comprare case palestinesi, impedendo – almeno in teoria – l’assunzione del controllo di Gerusalemme est in modo più pesante da parte dei coloni ebrei.

Ma, dato che in cambio i palestinesi non sarebbero autorizzati a comprare delle case israeliane e che la popolazione palestinese a Gerusalemme est soffre già di una grave carenza di alloggi e che un’amministrazione comunale israeliana avrebbe il potere di decidere dove le case potrebbero essere costruite e per chi, è facile immaginare che la situazione attuale – Israele che si serve del controllo della gestione del territorio per cacciare i palestinesi da Gerusalemme – semplicemente continuerebbe.

In più, siccome i palestinesi a Gerusalemme sarebbero dei cittadini della Nuova Palestina, e non di Israele, quelli che sarebbero incapaci di installarsi in una Gerusalemme sotto dominazione israeliana non avrebbero altra scelta che emigrare in Cisgiordania. Sarebbe esattamente la stessa forma di pulizia etnica burocratica che i palestinesi stanno sperimentando attualmente.

Gaza aperta verso il Sinai

Riprendendo le recenti affermazioni di Jared Kushner, genero di Trump e consigliere per il Medio oriente, i vantaggi del piano per i palestinesi sono tutti legati ai potenziali utili economici e non politici.

I palestinesi sarebbero autorizzati a lavorare in Israele, come avveniva normalmente prima di Oslo, e verosimilmente, come allora, unicamente nei lavori peggio pagati e più precari, nei cantieri edili e in agricoltura.

Un corridoio terrestre, sicuramente sorvegliato da contractors militari israeliani che i palestinesi dovranno pagare, dovrebbe ricollegare Gaza alla Cisgiordania. Confermando informazioni precedenti relative ai progetti dell’amministrazione Trump, Gaza sarebbe aperta al mondo, e sul vicino territorio del Sinai sarebbero creati una zona industriale e un aeroporto.

Questa terra – la cui estensione sarebbe da definire nei negoziati – sarebbe presa in affitto all’Egitto.

Come sottolineato in precedenza da Middle East Eye, tale decisione rischierebbe di incoraggiare progressivamente i palestinesi a considerare il Sinai, invece di Gaza, come il centro della loro vita, un altro mezzo per procedere alla progressiva pulizia etnica.

Nel contempo la Cisgiordania sarebbe collegata alla Giordania da due passaggi di frontiera – probabilmente attraverso corridoi terrestri che attraverserebbero la valle del Giordano, che dovrebbe essere annessa anch’essa a Israele. Di nuovo, con i palestinesi chiusi in cantoni non collegati e circondati dal territorio israeliano, c’è da supporre che con il tempo molti cercherebbero una nuova vita in Giordania.

Nel corso di tre anni i prigionieri politici palestinesi sarebbero liberati dalle prigioni israeliane sotto l’autorità della Nuova Palestina. Tuttavia il piano non dice niente sul diritto al ritorno per i milioni di rifugiati palestinesi, i discendenti di quelli che sono stati cacciati da casa loro durante le guerre del 1948 e del 1967.

Pistola alla tempia

Alla maniera di don Corleone, l’amministrazione Trump sembra pronta a mettere una pistola alla tempia dei dirigenti palestinesi per obbligarli a firmare l’accordo.

Secondo il rapporto divulgato, gli Stati Uniti vieterebbero qualunque trasferimento di denaro ai palestinesi dissidenti, con lo scopo di obbligarli a sottomettersi.

Questo presunto piano esigerebbe che Hamas e la Jihad islamica si disarmino consegnando le loro armi all’Egitto. Se rifiutassero l’accordo, il rapporto sostiene che gli Stati Uniti autorizzerebbero Israele ad “attentare” contro i dirigenti – per mezzo di assassini extragiudiziari che costituiscono da molto tempo il pilastro della politica israeliana riguardo ai due gruppi.

Ciò che è meno credibile è il fatto che il presunto documento suggerisce che la Casa Bianca sarebbe pronta a dimostrare la propria fermezza anche nei confronti di Israele, tagliando l’aiuto americano se Israele non rispettasse i termini dell’accordo.

Dato che Israele ha regolarmente infranto gli accordi di Oslo – e il diritto internazionale – senza dover affrontare gravi sanzioni, è facile immaginare che in pratica gli Stati Uniti troverebbero delle soluzioni per evitare che Israele debba pagare le conseguenze di ogni violazione dell’accordo.

Imprimatur americano

Il presunto documento presenta tutte le caratteristiche del piano Trump, o almeno di una sua versione recente, perché descrive nero su bianco la situazione che Israele ha creato per i palestinesi nel corso di questi ultimi vent’anni.

Ciò dà semplicemente a Israele l’imprimatur ufficiale degli Stati Uniti per il furto massiccio delle terre e la riduzione in cantoni dei palestinesi.

Dunque, se offre alla destra israeliana la maggior parte di quello che vuole, che interesse ha Israel Hayom – portavoce di Netanyahu – a compromettere il suo successo divulgandolo?

Alcune ragioni potrebbero spiegarlo.

Israele ha già raggiunto tutti i suoi obiettivi – rubare la terra, annettere le colonie di insediamento, consolidare il suo controllo esclusivo su Gerusalemme, fare pressione sui palestinesi perché se ne vadano dalla loro terra e partano per gli Stati vicini – senza annunciare ufficialmente che si tratta del suo piano.

Ha realizzato grandi progressi in tutti i suoi obiettivi senza dover ammettere pubblicamente che la creazione di uno Stato per i palestinesi è un’illusione. Per Netanyahu, la questione deve essere sapere perché dovrebbe rendere pubblica la visione globale di Israele quando può essere realizzata di nascosto.

Timore di un contraccolpo

Ma, peggio ancora per Israele, una volta che i palestinesi e il mondo che sta a guardare capiranno che l’attuale situazione catastrofica per i palestinesi non migliorerà, ci sarà probabilmente un contraccolpo.

L’Autorità Nazionale Palestinese potrebbe crollare, la popolazione palestinese scatenerebbe una nuova ribellione, la cosiddetta “opinione pubblica araba” accetterebbe probabilmente questo piano meno di quanto i suoi dirigenti o di quanto Trump non desideri, e gli attivisti solidali in Occidente, soprattutto il movimento per il boicottaggio, beneficerebbero di un’ enorme spinta per la loro causa.

Inoltre sarebbe impossibile per i difensori di Israele continuare a negare che Israele ha messo in atto quello che l’accademico israeliano Baruch Kimmerling aveva definito “politicidio”: la distruzione dell’avvenire dei palestinesi, del loro diritto all’autodeterminazione e della loro integrità in quanto un solo popolo.

Se questa è la versione della pace in Medio oriente proposta da Trump, egli gioca alla roulette russa – e Netanyahu esiterà forse a lasciargli premere il grilletto.

 

 

Jonathan Cook è un giornalista britannico residente dal 2001 a Nazareth. E’ l’autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese. È stato vincitore del Martha Gellhorn Special Prize for Journalism.

 

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

 

 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Abulhawa: per 36 ore sono stata in arresto su un letto sporco nella mia patria, poi sono stata espulsa  

Susan Abulhawa

4 novembre 2018, Mondoweiss

Dopo essere stata espulsa da Israele per la seconda volta in tre anni, Susan Abulhawa ieri ha postato su Facebook il seguente comunicato al festival della letteratura a cui non ha potuto partecipare.

Messaggio per il festival di letteratura palestinese Kalimat:

Vorrei esprimere la mia profonda gratitudine nei confronti del festival di letteratura palestinese Kalimat, in particolare a Mahmoud Muna, e al Kenyon Institute [istituto di ricerche britannico con sede a Gerusalemme, ndtr.] del British Council per avermi invitata ed aver sostenuto le spese perché partecipassi al festival di letteratura in Palestina di quest’anno.

Come ormai sapete tutti, le autorità israeliane mi hanno negato l’ingresso nel mio Paese e di conseguenza non posso partecipare al festival. Mi addolora molto non essere con i miei amici e colleghi scrittori per analizzare e onorare le nostre tradizioni letterarie con i lettori e tra di noi nella nostra patria. Mi addolora che ci possiamo incontrare ovunque nel mondo tranne che in Palestina, il luogo a cui apparteniamo, da cui scaturiscono le nostre storie e dove tutti i nostri viaggi alla fine ci conducono. Non ci possiamo incontrare sul suolo che è stato fertilizzato per millenni dai corpi dei nostri antenati e innaffiato dalle lacrime e dal sangue dei figli e delle figlie della Palestina che quotidianamente lottano per lei.

Dopo la mia espulsione, leggo che le autorità israeliane hanno dichiarato che mi era richiesto di “coordinare” preventivamente il mio viaggio con loro. Questa è una menzogna. In effetti all’arrivo in aeroporto mi è stato detto che mi era stato richiesto di presentare richiesta di visto per il mio passaporto USA e che questa richiesta non sarebbe stata accettata fino al 2020, almeno cinque anni dopo la prima volta che mi è stato negato l’ingresso. Hanno detto che era mia responsabilità saperlo benché non mi fosse mai stata data nessuna comunicazione di essere stata bandita. Poi hanno detto che la mia prima espulsione nel 2015 era dovuta al fatto che avevo rifiutato di specificare loro la ragione della mia visita. Anche questa è una menzogna. Questi sono i fatti.

Nel 2015 ero venuta in Palestina per costruire parchi giochi in vari villaggi e partecipare all’inaugurazione di quelli che avevamo già costruito nei mesi precedenti. Un altro membro della nostra organizzazione aveva viaggiato con me. Lei risultò essere ebrea e le consentirono di entrare. Vari funzionari israeliani che mi interrogarono mi fecero le stesse domande in forme diverse nel corso di oltre 7 ore e mezza. Risposi a tutte, come dobbiamo fare noi palestinesi se vogliamo avere una possibilità di andare a casa, anche solo come visitatori. Ma non fui abbastanza ossequiosa, né ne ero capace in quel momento. Ma ero sicuramente calma e – ciò che viene richiesto a tutte le persone violentate – “civile”. Alla fine venni accusata di non aver cooperato perché non sapevo quanti cugini avevo e quali fossero tutti i loro nomi ed i nomi delle loro mogli. Fu solo dopo che mi venne detto che mi era stato negato l’ingresso che alzai la voce e mi rifiutai di andarmene tranquillamente. Gridai e confermo ogni cosa che gridai. Secondo “Haaretz” [giornale israeliano di centro sinistra, ndtr.] Israele affermò che io “mi ero comportata con rabbia, brutalità e volgarità” nel 2015 al [valico di frontiera del] ponte di Allenby [tra Giordania e Cisgiordania, ndtr.].

Quello che dissi nel 2015 a chi mi interrogava, e che venne anche riportato all’epoca da “Haaretz”, è che avrebbero dovuto essere loro ad andarsene, non io; che sono figlia di questa terra e niente cambierà questo fatto; che la mia stessa storia affonda nella terra e non c’è modo che essi possano sradicarla; che per quanto essi evochino le favole mitologiche sioniste, non possono rivendicare un simile lignaggio personale e familiare, per quanto desiderino di poterlo fare.

Suppongo che possa suonare volgare a orecchie sioniste essere posti di fronte all’autenticità della condizione dei palestinesi in quanto autoctoni nonostante l’esilio, e affrontare la loro apocrifa, sempre cangiante narrazione colonialista.

A quanto pare la mia mancanza di deferenza e la scelta di non accettare tranquillamente la decisione arbitraria di un illegittimo guardiano della mia patria nel 2015 vennero associate al mio nome e, questa volta dopo il mio arrivo il 1 novembre, segnalate per la mia immediata espulsione.

La vera volgarità è che alcuni milioni di europei e altri stranieri vivono ora in Palestina mentre la popolazione indigena vive o in esilio o sotto il crudele giogo dell’occupazione israeliana; la vera volgarità sta nelle file di cecchini che circondano Gaza, che prendono attentamente la mira e sparano a esseri umani assolutamente indifesi, che osano protestare contro il loro imprigionamento collettivo e contro la miseria che gli viene imposta; la vera volgarità sta nel fatto di vedere i nostri giovani a terra sanguinanti, gettati nelle prigioni israeliane, privati di un’educazione, dei viaggi, dell’istruzione o di una qualche possibilità di stare pienamente al mondo; la vera volgarità è il modo in cui hanno preso e continuano a prendere tutto da noi, come ci hanno strappato il cuore, rubato tutto, occupato la nostra storia e calpestato le nostre voci e la nostra arte.

In totale Israele mi ha incarcerata per 36 ore. Non ci è stato consentito di tenere nessun apparecchio elettronico, penne o matite nella cella del carcere, ma ho trovato il modo per avere entrambi – perché noi palestinesi siamo pieni di risorse, astuti e troviamo la nostra via verso la libertà e la dignità con ogni mezzo possibile. Ho foto e video dall’interno di quel terribile centro di detenzione, che ho preso con un secondo telefono nascosto sul mio corpo, ed ho lasciato loro qualche messaggio sui muri dal letto sporco che mi hanno dato per sdraiarmi. Suppongo che troveranno volgare leggere “Palestina libera”, “Israele è uno Stato di apartheid”, o “Susan Abulhawa è stata qui e ha introdotto di nascosto nella sua cella questa matita.”

Ma la parte più memorabile di questo calvario sono stati i libri. Quando sono arrivata al carcere avevo due libri nel mio trolley e ho avuto il permesso di tenerli. Alternativamente leggevo entrambi, dormivo e pensavo.

Il primo libro era un saggio molto erudito dello storico Nur Masalha, “Palestina: una storia di quattromila anni.” Avevo previsto di intervistare Nur sul palco sulla sua epica rivisitazione della storia millenaria dei palestinesi raccontata non da narrazioni con motivazioni politiche, ma dalla narrazione archeologica e di altre discipline. È la storia di un popolo, che abbraccia le confuse e molteplici identità delle popolazioni native della Palestina dall’Età del Bronzo fino ad ora. In una cella di sicurezza israeliana, con cinque altre donne, tutte dell’Europa dell’Est e ognuna di loro con la propria sofferenza individuale, i capitoli del libro di Nur Masalha mi hanno portata attraverso il passato pluralistico, multiculturale e multireligioso della Palestina, distorto e cristallizzato da invenzioni moderne di un antico passato.

L’amara ironia della nostra condizione non mi era sfuggita. Io, figlia della terra, di una famiglia radicata da almeno 900 anni sulla terra e che ho passato la maggior parte della mia infanzia a Gerusalemme, ero stata espulsa dalla mia patria dai figli e dalle figlie di recente arrivo, venuti in Palestina qualche decennio fa con una filosofia di darwinismo razzista di origine europea, che invocava leggende bibliche e diritti di proprietà concessi dalla divinità.

Mi è venuto anche in mente che tutti i palestinesi – indipendentemente dalla nostra condizione, ideologia o luogo della nostra incarcerazione o esilio – siamo per sempre uniti in una storia comune che inizia con noi e viaggia verso l’antico passato in un posto sulla terra, come le molte foglie e i molti rami di un albero che portano ad un unico tronco. E siamo anche uniti dalla sofferenza comune vedendo gente da ogni parte del mondo colonizzare non solo lo spazio fisico della nostra esistenza, ma anche i suoi luoghi spirituali, familiari e culturali. Penso anche che traiamo forza da questa infinita, inguaribile ferita. Da lì scriviamo le nostre storie, e cantiamo là anche le nostre canzoni e le nostre dabke [musica e danza popolare mediorientale, ndtr.]. Ricaviamo arte da questo dolore. In questo posto raccogliamo fucili e penne, videocamere e pennelli, lanciamo pietre, facciamo volare aquiloni e facciamo balenare la vittoria e i pugni alzati.

L’altro libro che ho letto era l’acclamato, affascinante romanzo di Colson Whitehead “The Underground Railroad” [La ferrovia sotterranea, Sur, 2016]. È la storia di Cora, una ragazza nata in schiavitù da Mabel, la prima schiava scappata dalla piantagione Randal. In questo racconto immaginario Cora scappa dalla piantagione con il suo amico Caesar, il loro risoluto cacciatore di schiavi, Ridgeway, sul cammino lungo la ferrovia sotterranea – una metafora della vita reale resa in una vera ferrovia nel romanzo. Il trauma generazionale di una inconcepibile schiavitù è tanto più devastante in questo romanzo in quanto è raccontato realisticamente dal punto di vista dello schiavo. Un’altra incurabile ferita collettiva di un popolo messa a nudo, un passato comune atrocemente potente, anche una sede della sua potenza, una sorgente delle sue storie e delle sue canzoni.

Ora sono tornata a casa mia, con mia figlia e i nostri amati cani e gatti, ma il mio cuore non lascia mai la Palestina. Quindi, sono là, e continueremo ad incontrarci nei panorami della nostra letteratura, arte, cucina e in tutti i tesori della nostra cultura comune.

Dopo aver scritto questo comunicato, ho appreso che la conferenza stampa si è tenuta a Dar el Tifl [collegio femminile e organizzazione benefica di Gerusalemme, ndtr.]. Ho vissuto lì i migliori anni della mia infanzia, nonostante la separazione dalla mia famiglia e le condizioni a volte difficili che dovemmo affrontare sotto l’occupazione israeliana. Dar el Tifl è l’eredità di una delle donne più ammirevoli che abbia mai conosciuto – Sitt Hind el Husseini. Mi ha salvata in vari modi più di quanto penso si rendesse conto, o di quanto io abbia compreso all’epoca. Salvò molte ragazze. Ci riunì da tutti i mille pezzi della Palestina. Ci diede cibo e rifugio, ci educò e credette in noi e a sua volta ci convinse che valevamo qualcosa. Non c’è un luogo più appropriato di Dar al Tifl per leggere questa dichiarazione.

Voglio lasciarvi con un altro pensiero che mi è venuto quando ero in carcere, ed è questo: Israele è spiritualmente, emotivamente e culturalmente piccolo nonostante i lunghi fucili che punta contro di noi – o forse proprio a causa di questi. È a loro stesso discapito che non possono accettare la nostra presenza nella nostra patria, perché la nostra umanità rimane intatta e la nostra arte è magnifica e vitale, e non stiamo andando da nessuna parte se non a casa.

Su Susan Abulhawa

Susan Abulhawa è autrice del romanzo best seller internazionale “Mornings in Jenin” (Bloomsbury, 2010) [“Ogni mattina a Jenin”, Feltrinelli, 2006) – www.morningsinjenin.com – e fondatrice di “Playgrounds for Palestine” [Parchi giochi per la Palestina] – www.playgroundsforpalestine.org.

(traduzione di Amedeo Rossi)