Eyad Hallaq: il lutto impossibile

Gideon Levy

17 luglio 2020 – Chronique de Palestine

La madre di Eyad Hallaq dorme nel letto di suo figlio morto. Suo padre rifiuta di mangiare. Hanno un messaggio per la polizia israeliana….

Un mese dopo l’assassinio di Eyad Hallaq, un giovane palestinese autistico, la sua famiglia è ancora paralizzata dal dolore e prega perché l’agente della polizia di frontiera che lo ha ucciso paghi per il suo crimine.

L’erba verde nel piccolo cortile fuori dalla casa è ingiallita e secca. Anche le piante in vaso sono appassite, dopo essere rimaste senza acqua per un mese. Prima, Eyad le innaffiava tutti i giorni in estate, ma ora non c’è più nessuno che se ne occupi. Rana, la madre in lutto, non smette di guardare sul suo telefonino un piccolo filmato di suo figlio, in piedi in giardino con in mano un tubo di irrigazione, un leggero sorriso sulle labbra.

Il suo sorriso è più accentuato in un altro filmato, in cui lo si vede preparare il fatteh – un piatto di hummus con carne e pinoli – per i suoi genitori. Aveva imparato a cucinarlo nel centro per persone disabili Elwyn El Quds, che frequentava nella città vecchia di Gerusalemme, poco prima di venire ucciso.

Guardate che figlio ho avuto”, dice Rana guardando la sua foto.

Suo marito Khairy è cambiato in modo impressionante da quando lo abbiamo incontrato nella tenda del lutto il giorno dopo l’assassinio del figlio. È molto dimagrito, emaciato e pallido. Fuma due pacchetti di sigarette al giorno; Rana quasi tre. Quasi non mangia, Rana non cucina. La loro vita si è brutalmente fermata.

Era il 30 maggio poco dopo le 6,30 del mattino, quando la loro vita è stata irrimediabilmente distrutta. Due agenti della polizia di frontiera (israeliana) – un ufficiale e una nuova recluta – hanno sparato sul loro figlio mentre lui si trascinava a terra sul pavimento di un locale per i rifiuti vicino alla via Dolorosa nella città vecchia, con l’assistente che se ne occupava che accanto a lui gridava invano: “É un disabile, è un disabile!”.

Per Rana e Khairy Hallaq il figlio autistico di 32 anni era la pupilla dei loro occhi. Hanno anche due figlie, Joanna e Diana, entrambe insegnanti. Ma Eyad, il figlio disabile, era tutto per loro.

C’è un solo figlio maschio, non ne abbiamo altri”, ci dice Rana in ebraico. “È la mia seconda anima. Eyad ed io siamo da tempo una sola anima, da molti anni.”

Dopo la sua morte lei dorme nel letto di Eyad ed esce raramente dalla sua stanzetta; a volte indossa anche i suoi vestiti. Quando le abbiamo fatto visita in questa settimana ci ha ricevuti dicendo: “Non posso fare niente – riesco solo a stendermi sul suo letto e guardare le sue foto, i suoi vestiti e la sua stanza e ricordare la sua vita.”

Poi, con le mani tremanti, ci mostra nuovamente delle fotografie di lui; questa volta lo si vede mentre tiene due piante tra le braccia. Le aveva piantate durante l’isolamento dovuto al coronavirus, quando è stato costretto a rimanere a casa, nel quartiere di Wadi Joz a Gerusalemme est.

Ora, dice Rana, “le piante sono morte”.

I genitori vivono dolorosamente una presenza che è rimasta intatta. Un’atmosfera di profondo dolore senza lacrime scende sul salone della famiglia, i cui muri adesso sono tappezzati di foto del figlio e del fratello deceduto. Sul divano c’è una foto di Eyad accanto ad una di George Floyd [afroamericano ucciso la stessa settimana dalla polizia di Minneapolis, ndtr.].

George Floyd è stato ucciso perché era nero ed Eyad perché palestinese”, dice il padre. “Ma guardate la differenza tra la reazione negli Stati Uniti e in Israele,” aggiunge sua moglie.

Effettivamente enormi ondate di proteste hanno attraversato l’America dopo l’assassinio di Floyd a Minneapolis, mentre in Israele vi è stata la solita indifferenza, benché segnata da qualche accento di rammarico per lo sparo mortale, perché la vittima era autistica. Qui non vi è stata alcuna protesta e non si è riscontrata nessuna opinione in qualche modo diffusa, secondo cui l’uccisione di Eyad è stata il risultato di una politica deliberata, e non una “disgrazia”.

Poiché Eyad era scrupoloso riguardo all’ordine e alla pulizia, la famiglia non osa spostare niente nella sua stanza. Sul letto rimane da un mese lo stesso copriletto, le bottiglie del dopobarba e altri prodotti di toilette sono sullo scaffale accanto, i suoi vestiti sono piegati con cura nell’armadio e anche il barattolo di caramelle Smiley che gli piacevano è pieno. Un caricabatterie per il cellulare posato a caso su un tavolo attira l’attenzione del padre che lo rimette subito a posto. “Se lui lo avesse visto qui si sarebbe molto arrabbiato,” dice Khairy.

E di nuovo, un silenzio opprimente.

Tutto quel che vogliamo adesso è stare tranquilli”, dicono i genitori. Passano la maggior parte delle loro giornate stesi a letto con lo sguardo fisso, non vedono quasi nessuno e accendono la televisione solo quando vengono a trovarli i nipoti. Diana arriva con i quattro figli ogni pomeriggio per cercare di tirarli su di morale, ma presto ripiombano nel loro dolore.

Il poco cibo che mangiano viene ordinato in un ristorante. Rana non riesce ad entrare in cucina, dove Eyad si esercitava a preparare i piatti che aveva imparato nei corsi di cucina a Elwyn. Tutte le sere cucinava il piatto che aveva imparato nella giornata.

Il personale del centro era impressionato dalle sue capacità e progettava di farlo assumere come aiuto cuoco in un hotel o un ristorante della città.

Khairy da parte sua non lavora da anni, da quando è stato ferito in un incidente sul lavoro in una fabbrica di marmo. Ora fa fatica a salire le scale che conducono alla tomba appena costruita di suo figlio al cimitero di Bab al-Zahara, dietro all’ufficio postale di via Saladin a Gerusalemme est.

Rana dice che se potesse si trasferirebbe al cimitero. È andata quattro o cinque volte sulla tomba di Eyad, dove è già stata eretta una lapide.

Tuttavia la coppia non riesce a decidersi a visitare il luogo, appena all’interno della Porta dei Leoni, dove lui è stato ucciso. Khairy, che era solito andare ogni settimana a pregare alla moschea Al-Aqsa, non ci va più, perché il percorso passa dal luogo dell’omicidio. Anche Rana ha molto timore a recarvisi.

Come si può guardare il posto dove hanno ammazzato vostro figlio? Ho paura che laggiù la polizia mi uccida,” dice. “Hanno persino ucciso Eyad, che era un ragazzo tranquillo…”

Qualche giorno fa gli amici del centro Elwyn sono venuti a deporre delle foglie di palma in sua memoria nel luogo del suo assassinio, ma la polizia li ha subito cacciati ed ha tolto le foglie di palma. Eyad non avrà evidentemente alcuna commemorazione, neanche improvvisata.

La polizia ha restituito ai genitori il telefono portatile del ragazzo, dopo averne cancellato tutto il contenuto. Khairy e Rana dicono che Eyad amava filmare il suo tragitto tra la scuola e la casa per mostrare loro le immagini quando tornava. Ha forse filmato anche il suo ultimo percorso verso la scuola?

Martedì Nir Hasson e Josh Breiner, del quotidiano Haaretz, hanno riferito che l’unità investigativa del Ministero della Giustizia non aveva filmati dell’incidente di una telecamera di sicurezza, anche se ci sono almeno sette telecamere nei paraggi – di cui due nel locale della spazzatura dove è avvenuto l’assassinio.

Intanto il principale sospettato è stato liberato ed è stato interrogato dalla polizia una sola volta.

Khairy: “Non ci sono telecamere, non ci sono immagini. Perché? Che cosa posso dire? Avete visto che la settimana scorsa sono state pubblicate tutte le immagini del posto di controllo di Abu Dis nell’arco di un’ora?”, chiede, riferendosi al [presunto] tentativo di investire un’agente di polizia di frontiera ad un blocco militare all’esterno di Gerusalemme.

Lunedì scorso erano trenta giorni dalla tragedia incorsa agli Hallaq. La loro casa in via Yakut al-Hamwai, che durante i quattro giorni del lutto era invasa dai visitatori, era vuota quando siamo arrivati insieme ad Amer ‘Aruri, un ricercatore sul campo dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem. Amer ‘Aruri aveva consegnato la testimonianza dell’assistente di Elwyn, Warda Abu Hadid, che si trovava accanto a Eyad quando la polizia lo ha ucciso.

Rana e Khairy ci hanno detto di essere stati molto toccati dalle manifestazioni di solidarietà e di dolore di migliaia di persone in tutto il mondo, tra cui le condoglianze da parte di numerosi israeliani. Sono stati profondamente emozionati dalla reazione di altri genitori di bambini autistici.

Sottolineano che non hanno niente a che fare con l’espulsione dalla tenda del lutto del militante del Monte del Tempio ed ex membro del Likud, deputato Yehuda Glick, ma hanno detto loro che stava per farsi dei selfie, il che era scioccante.

Centinaia di israeliani sono venuti a condividere il loro dolore, dicono. La sera in cui Glick, che era venuto a presentare le condoglianze, è stato espulso da un gruppo di giovani palestinesi, sono arrivate decine di poliziotti a perquisire la loro casa. Era la seconda perquisizione, quattro giorni dopo la prima, il giorno stesso dell’omicidio.

A parte questo, gli Hallaq non hanno ricevuto la minima informazione da parte della polizia riguardo all’uccisione del loro figlio.

Altre immagini: Eyad a scuola è chinato su una grande pentola di zuppa, mentre pela delle carote – uno dei rari momenti in cui si può scorgere un raggio di felicità passare sul suo viso. “Riposa in pace, angelo mio”, hanno scritto dei ragazzi disabili della città araba israeliana di Taibeh, che hanno portato ai genitori una sua foto ingrandita. L’illustratrice israeliana Einat Magal Smoly ha inviato loro un quadro di Eyad con il suo nome in arabo ed ebraico, insieme ad una lettera di condoglianze.

Rana e Khairy dicono di non essere interessati ad un risarcimento economico, ciò che vogliono è che i poliziotti responsabili vengano giudicati. Parecchi avvocati, tra cui l’avvocato specializzato nella difesa dei diritti umani Michael Sfard, si sono offerti di aiutarli.

Questi avvocati sono otto, ma noi sappiamo che non accadrà niente anche se ce ne fossero cinque o sei in più,” dice Khairy. “Non credo che il poliziotto andrà in prigione. Se avesse pensato che sarebbe andato in prigione, non avrebbe fatto una cosa del genere. Credetemi.”

Gli chiediamo che cosa vorrebbe che succedesse. Ride amaramente. “Israele è un Paese che rispetta le leggi, no? Israele è una democrazia, no? Aspettiamo di vedere. Io aspetto di vedere la legge dello Stato di Israele. Che sia esattamente la stessa che se fosse accaduto il contrario: se Eyad fosse stato un ebreo ucciso da un arabo, ci sarebbe già stato un processo. Noi non chiediamo indennizzi. Tutto ciò che vogliamo è che questo non accada a nessun altro.”

Rana dice che vuole inviare un messaggio alla polizia e all’esercito israeliani: “Prendetevi tempo prima di usare le vostre armi…” Mostra nuovamente dei video, con Eyad che si lava i denti, che fa ginnastica, che si confonde nel contare da 1 a 15.

Un video realizzato dal ‘Monitoraggio euro-mediterraneo dei diritti umani’ mostra l’ultima ora della sua vita. Eccolo che cammina sulla via Dolorosa di Gesù, mascherina anti coronavirus sul viso, guanti sulle mani [il fatto che portasse i guanti secondo gli agenti che l’hanno ucciso lo rendevano sospetto, ndtr.]. Qui si vedono i poliziotti che lo inseguono e là sono sopra di lui nel locale della spazzatura, per ucciderlo.

Non ci sono parole…” gli diciamo.

Ce ne sono tantissime”, ci risponde Rana.

Gideon Levy, nato nel 1955 a Tel Aviv, è un giornalista israeliano e membro della direzione di Haaretz. Vive nei territori palestinesi occupati.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Le forze israeliane uccidono un giovane palestinese mentre va al matrimonio di sua sorella

Akram Al-Waara

Abu Dis, Cisgiordania occupata

23 giugno 2020 – Middle East Eye

Ahmad Erekat stava andando a prendere sua madre, sua sorella e dei fiori quando gli hanno sparato a morte, dice la famiglia.

Era appena prima del suo matrimonio, e Eman Erekat stava ricevendo gli ultimi ritocchi ai capelli e al trucco nel salone di bellezza di Betlemme, quando il telefono di sua madre è squillato.

Sua madre ha risposto pensando di sentire suo figlio che diceva di essere là fuori pronto a portarle a casa. Invece ha sentito una voce dall’altra parte che le comunicava la tremenda notizia: suo figlio era stato ucciso.

Mentre stava andando a prendere sua madre e sua sorella, Ahmad, di 27 anni, era stato colpito e ucciso dalle forze israeliane al checkpoint militare ‘Container’, tra Betlemme e la casa della famiglia Erekat nella città di Abu Dis, fuori Gerusalemme est.

In una dichiarazione la polizia israeliana ha sostenuto che, quando è stato colpito, Ahmad aveva tentato di investire dei poliziotti israeliani che presidiavano il checkpoint. Sembra che una soldatessa sia rimasta lievemente ferita e sia stata trasferita in un ospedale di Gerusalemme.

Ma la sua famiglia ha detto di non poter assolutamente immaginare che Ahmad possa aver compiuto un simile attacco, ancor meno nel giorno delle nozze di sua sorella.

Quando abbiamo saputo la notizia non ci potevamo credere. Siamo ancora sotto shock”, ha detto a Middle East Eye Emad Erekat, cugina di Ahmad. “Ahmad non avrebbe mai potuto progettare di attaccare i soldati, come loro sostengono.”

La spiegazione più logica dello sbandamento fuori strada dell’auto di Ahmad, ha detto la famiglia, è che Ahmad aveva sicuramente fretta, e potrebbe aver avuto un lieve guasto o aver perso il controllo dell’auto, cosa che i soldati hanno scambiato per un attacco.

Aveva tempi stretti per prendere sua sorella, i fiori e tante altre cose da Betlemme”, ha detto Emad, aggiungendo che Ahmad guidava un’auto a noleggio con targa palestinese, che ha affittato apposta per fare acquisti nel giorno del matrimonio.

Siamo certi al cento per cento che non avrebbe mai fatto ciò. Perché avrebbe dovuto farlo nel giorno delle nozze di sua sorella?”, si chiede Emad.

Gli hanno sparato senza nemmeno pensarci’

Ad Abu Dis centinaia di familiari ed amici si sono radunati presso la casa degli Erekat per piangere la morte di Ahmad che, secondo la sua famiglia, era fidanzato e aveva programmato di sposarsi proprio il mese prossimo.

Nessuno qui riesce a crederci, la gente è sconvolta”, dice Emad. “Sua sorella Eman è svenuta quando ha saputo la notizia. Non riesce nemmeno a parlare, è in totale stato di shock”.

Doveva essere il giorno più felice della sua vita, ma ora è diventato il giorno del funerale di suo fratello”, afferma.

La cugina di Ahmad Noura Erekat, avvocatessa per i diritti umani e docente associata presso la Rutgers University del New Jersey, nel tardo pomeriggio di martedì ha condiviso i suoi pensieri con una serie di commossi post su Twitter.

Mentite. Uccidete. Mentite. Questo è il mio cuginetto”, ha detto.

Gli unici terroristi sono i vigliacchi che hanno sparato per uccidere un bellissimo giovane e lo hanno accusato di questo”.

E’ stato riferito che testimoni oculari della scena hanno detto all’agenzia [palestinese] M’an News che “ciò che è accaduto al [posto di controllo] ‘Container’ non è stato un tentativo di investire (i soldati), bensì l’auto ha sbattuto sul bordo dello spartitraffico dove si trovavano i soldati, facendo sì che le forze d’occupazione israeliane sparassero all’automobile.

Noi non abbiamo visto l’accaduto, ma pensiamo che Ahmad abbia perso il controllo dell’auto per un secondo, e quindi i soldati gli hanno subito sparato senza pensarci due volte”, ha detto Emad.

Organi di informazione locali palestinesi hanno riferito che Ahmad è stato lasciato steso in terra per molto tempo e non ha ricevuto cure mediche dai soldati. Quando le ambulanze israeliane sono arrivate, riportano le notizie, Ahmad era già morto.

Lo hanno lasciato morire’

Un video diffuso sui social media, presumibilmente ripreso da un testimone oculare dell’incidente, mostra Ahmad ferito che giace a terra, curvo in posizione fetale, con una scia di sangue che gli esce dal corpo.

Si vede una soldatessa che cammina avanti e indietro dinanzi a Ahmad con il fucile puntato, mentre dietro la sua auto si forma una fila di auto palestinesi in attesa di attraversare il checkpoint.

Si sente l’uomo che sta filmando dire: “Sono le 15,50 al ‘Container’, un giovane uomo è stato appena fatto diventare un martire. Gli hanno sparato proprio qui davanti a noi. Che riposi in pace.”

L’uomo continua dicendo: “lo hanno lasciato steso in terra finché è morto”.

L’uccisione di Ahmad non è certo la prima di questo genere. Negli scorsi anni in tutta la Cisgiordania e a Gerusalemme est centinaia di palestinesi sono stati uccisi nel corso di presunti attacchi col coltello e con le auto ai checkpoint.

In parecchi casi le famiglie delle vittime palestinesi e i testimoni hanno sostenuto che i presunti “aggressori” sono stati colpiti dopo che incidenti stradali di poco conto sono stati scambiati per attacchi a soldati e coloni israeliani.

Tante persone sono state uccise a questo checkpoint”, dice a MEE Khuthifa Jamus, un’amica di Erekat. “Se sei palestinese, qualunque movimento sbagliato ad un checkpoint può farti uccidere”.

Ci ammazzano a sangue freddo e poi dicono che stavano solo difendendosi”, ha aggiunto Jamus.

Uccisi a sangue freddo’

Da molto tempo i soldati israeliani sono accusati da attivisti e associazioni per i diritti di uso eccessivo della forza contro palestinesi che nel momento in cui sono stati uccisi non costituivano un’immediata minaccia alla vita dei soldati.

Recentemente a Gerusalemme est la polizia israeliana ha sparato e ucciso Eyad al-Halak, un uomo palestinese autistico, mentre stava scappando dai poliziotti. Al-Halak era disarmato e la sua uccisione ha sollevato una diffusa indignazione in tutta la Palestina e all’estero, molti hanno paragonato la sua morte all’uccisione da parte della polizia di George Floyd negli Stati Uniti.

Quest’uomo è stato ucciso a sangue freddo. Stasera c’era il matrimonio di sua sorella”, ha detto martedì il segretario generale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina in una dichiarazione.

Quel che sostiene l’esercito di occupazione (l’esercito israeliano), cioè che tentava di investire qualcuno, è falso”, ha detto Erekat, un parente di Ahmad.

L’uccisione di Ahmad avviene in un contesto di accresciuta presenza dei soldati israeliani nei territori occupati in quanto Israele si prepara all’annessione [di parti della Cisgiordania, ndtr].

Mentre i generali dell’esercito israeliano prevedono una fiammata di violenza a causa delle politiche israeliane, molti soldati hanno elevato il livello di allerta per presunti attacchi da parte di palestinesi.

Anche se Ahmad avesse compiuto un attacco, cosa che non era, il problema è che i soldati e questi checkpoint prima di tutto non dovrebbero essere qui”, ha detto una commossa Jamus. “Questa è la colpa dell’occupazione, stare qui e ucciderci senza ragione, continuamente.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Eyad al-Halak: un altro crudele assassinio di un palestinese insabbiato da Israele

Gideon Levy

5 giugno 2020 – Middle East Monitor

L’uccisione da parte della polizia di un uomo palestinese autistico mette ancora una volta in luce le orribili diseguaglianze che caratterizzano lo Stato israeliano.

Quella mattina Eyad al-Halak è uscito di casa circa alle sei. I suoi familiari dicono che era di buonumore. Il video di una fotocamera di sorveglianza non lontano dalla sua casa lo mostra mentre cammina con un sacco dell’immondizia. Portava sempre fuori la spazzatura quando usciva di casa al mattino.

Halak stava andando alla struttura sanitaria dove si recava ogni mattina negli ultimi sei anni. È entrato nella Città Vecchia di Gerusalemme attraverso la Porta dei Leoni ed ha proseguito lungo via Re Faisal, l’inizio della Via Dolorosa. Era diretto a Elwyn El-Quds, un centro per persone disabili, distante qualche centinaio di metri dalla Porta dei Leoni, vicino all’entrata di piazza Al-Aqsa.

Mondo in frantumi

Sabato scorso Halak non ha mai raggiunto la sua destinazione. Poliziotti di frontiera israeliani hanno iniziato ad inseguirlo gridando: “Terrorista! Terrorista!”. Il motivo non è chiaro. Gli hanno sparato, a quanto pare colpendolo a una gamba. Preso dal panico, lui è corso in un gabbiotto per i rifiuti a fianco della strada, nel tentativo di nascondersi.

La sua psicologa del Centro Elwyn, Warda Abu Hadid, che stava anch’essa andando al centro, ha cercato di nascondersi nello stesso posto per sfuggire alla polizia e ai suoi spari.

Tre poliziotti di frontiera sono arrivati velocemente all’ingresso della discarica. Halak stava disteso sulla schiena sul sudicio pavimento. La sua psicologa ha visto che la sua gamba sanguinava. I tre poliziotti stavano là, coi fucili spianati, e gridavano a Halak: “Dov’è il fucile? Dov’è il fucile?”

Abu Hadid, la sua psicologa, ha gridato loro, sia in arabo che in ebraico: ”É un disabile! È un disabile!” Halak urlava: “Sono insieme a lei! Sono insieme a lei!” Ciò è andato avanti per circa cinque minuti, finché uno dei poliziotti ha sparato a Halak col suo M-16 a distanza ravvicinata. Un proiettile lo ha colpito vicino alla cintola e ha raggiunto la spina dorsale, danneggiando diversi organi interni e uccidendolo sul colpo.

Così è finita la breve vita di Eyad al-Halak, un giovane palestinese affetto da autismo, con un viso d’angelo. Aveva 32 anni ed era la pupilla degli occhi dei suoi genitori. Si sono presi cura di lui con totale dedizione per tutti questi anni ed ora tutto il loro mondo è andato in frantumi.

Non è difficile immaginare che cosa sarebbe successo se un palestinese avesse ucciso in modo simile un israeliano con disabilità. Ma quando la vittima è palestinese è permesso quasi tutto.

Ucciso perché palestinese

Negli ultimi anni almeno altri quattro palestinesi con disabilità simili sono stati uccisi da soldati o poliziotti. Due settimane prima dell’uccisione di Halak le forze di sicurezza israeliane hanno ucciso Mustafa Younis, un cittadino palestinese di Israele con un deficit psichiatrico, all’ingresso del Centro Medico Sheba, uno dei più grandi ospedali di Israele, dopo che Younis aveva accoltellato una guardia di sicurezza.

Younis avrebbe potuto essere arrestato, ma una direttiva introdotta in Israele dai territori occupati stabilisce che sparare è la prima opzione preferenziale per le forze di sicurezza, piuttosto che l’ultima istanza.

Ma siamo chiari: il fatto che queste vittime fossero mentalmente disabili non è il vero punto. Non sono state uccise perché disabili, sono state uccise perché palestinesi.

Nello scorso anno, uno dei più tranquilli nella storia di questo sanguinoso conflitto, sono state uccise decine di palestinesi dalle forze israeliane. In quasi tutti i casi non costituivano una minaccia per nessuno; quasi tutti avrebbero potuto essere arrestati, o al limite solo feriti, piuttosto che uccisi.

Due giorni dopo l’uccisione di Halak suo padre, in lutto, mi ha detto che quando è stato informato che suo figlio era stato ferito, ha capito che era stato ucciso. “L’esercito e la polizia israeliani non si limitano mai a ferire, sanno solo uccidere”, ha detto il padre di Halak nella sua camera mortuaria nel quartiere di Wadi Joz.

Tra i palestinesi uccisi nei territori occupati nei mesi scorsi c’erano giovani donne che hanno tentato di aggredire a colpi di forbice le forze armate di sicurezza ai checkpoint; giovani uomini che hanno cercato di accoltellare un soldato ma sono a stento riusciti a colpirne uno di striscio; persone in auto che hanno danneggiato veicoli militari, forse accidentalmente, forse in attacchi intenzionali; giovani che hanno lanciato pietre e a volte bottiglie molotov che non hanno ferito nessuno né causato alcun danno; manifestanti disarmati e persone che tentavano di infiltrarsi in Israele; infine alcuni che non avevano fatto assolutamente niente, né progettato di fare niente – persone come Eyad al-Halak, il giovane che sua madre ha definito un angelo.

Collaborazionisti dell’informazione

Non è una coincidenza che proprio all’interno di Israele quasi tutte le persone erroneamente uccise dalla polizia israeliana – che diventa più violenta ad ogni anno che passa – siano stati cittadini palestinesi di Israele. A volte sono ebrei etiopi. Ogni volta che un ladro di auto o un manifestante o qualcuno il cui comportamento è ritenuto sospetto, o chiunque altro, viene ucciso dalla polizia, quasi sempre si scopre che si tratta di arabi.

Non si tratta di occupazione, né di terrorismo. Si tratta del leggerissimo tocco del dito sul grilletto quando il bersaglio è palestinese. Non c’è niente più a buon mercato nell’Israele di oggi delle vite dei palestinesi.

I media sono i più ignobili collaboratori dell’occupazione e del razzismo in Israele. I mezzi di informazione israeliani insabbiano ogni uccisione erronea, la occultano, la giustificano, quando la vittima è palestinese. La copertura mediatica di questi eventi è minima. Il messaggio è: un arabo morto, non è una notizia…..nulla di interessante o nulla di importante, o entrambe le cose.

Persino in un caso tanto scioccante come l’esecuzione di Halak la copertura mediatica è di rado adeguata. La storia in genere è trattata marginalmente o semplicemente ignorata. Gli israeliani non vogliono saperne e i media preferiscono non turbarli. Questi stessi media nel frattempo ingigantiscono con gran rumore ogni caso di ferimento di un ebreo, trasformandolo in un racconto epico da apocalisse, spinto ad un livello di decibel difficile da misurare.

Impunità delle forze israeliane

C’è poi ovviamente la questione della punizione. In generale, quando vengono uccisi dei palestinesi dalle forze israeliane, o non viene avviata alcuna indagine o questa viene annunciata, ma in seguito affossata o archiviata senza esito. Il messaggio a soldati e poliziotti è chiaro: uccideteli e non vi accadrà niente di male.

Nel frattempo in Israele vige il sempre attivo lavaggio del cervello, che include la disumanizzazione e la demonizzazione dei palestinesi. Fino a prova contraria ogni palestinese è una bomba terrorista in procinto di scoppiare. Ogni palestinese ucciso lo è legittimamente e tutti gli assassini si trovavano sotto minaccia mortale.

Persino il linguaggio usato per descrivere queste morti nei media israeliani racconta una storia diversa quando la vittima è un ebreo rispetto a quando è un palestinese. Un palestinese non viene mai “assassinato” da un soldato o da un colono. Un ebreo ucciso da un palestinese è sempre “assassinato”, anche se il soldato sta compiendo una brutale irruzione nella casa di una famiglia nel cuore della notte senza alcun motivo.

Questo occultamento operato dalla collaborazione e dal lavaggio dei cervelli da parte dei media, unitamente all’impunità e ai valori razzisti così profondamente radicati nella coscienza israeliana, crea una situazione in cui la vita umana perde valore.

Nessuna pace senza uguaglianza

Se un soldato o un poliziotto israeliano domani sparassero a un cane, chi ha sparato sarebbe quasi certamente punito più severamente che se avesse sparato a un palestinese. Anche nei media la morte di un cane randagio è comunemente una notizia più importante di un palestinese morto.

Ovviamente sparare a qualunque essere vivente è proibito – ma quando la morte di un cane crea più indignazione di quella di un palestinese, la cosa è davvero grave.

Forse sta qui il punto cruciale per il cambiamento, le cui prospettive continuano ad allontanarsi: finché le vite dei palestinesi saranno così svalutate dagli israeliani, che al tempo stesso giurano di proteggere la santità delle vite degli ebrei, nessuna soluzione politica, se mai un giorno se ne raggiungesse una, sarà praticabile.

Stanti i valori che tengono in poco conto la vita, disumanizzare “l’altro” e giustificare ciecamente la sua uccisione ignorando il suo essere vittima, non ci può essere eguaglianza nella consapevolezza, senza la quale la pace non potrà mai realizzarsi.

In verità è questa la cosa fondamentale: che loro e noi siamo esseri umani uguali con uguali diritti- e quanto lontana ed irrealistica sembri oggi questa idea.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye

Gideon Levy è un giornalista di Haaretz e membro del direttivo editoriale del quotidiano. Levy è entrato in Haaretz nel 1982 e ne è stato per quattro anni vice caporedattore. Nel 2008 ha vinto il premio giornalistico Euro-Med; nel 2001 il premio Leipzig Freedom; nel 1997 il premio Israeli Journalists’Union; nel 1996 il premio dell’Associazione per i Diritti Umani in Israele. Il suo ultimo libro, ‘La punizione di Gaza’, è stato appena pubblicato da Verso.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)