L’Autorità Palestinese fa il lavoro sporco per Israele: è per questo che fu creata

Asa Winstanley

30 Ottobre 2019 Middle East Monitor

Nonostante ciò che ne avrete sentito dire, l’Autorità Nazionale Palestinese non è un “governo palestinese”. Infatti, “Autorità Nazionale Palestinese” è una denominazione impropria, perché l’organismo non è dotato di autorità vera e propria e non agisce nell’ interesse della maggioranza dei palestinesi.

Innanzitutto, non è sicuramente un’istituzione democratica. Sono almeno 14 anni che non si tengono elezioni per l’Autorità Nazionale Palestinese, se escludiamo le votazioni interne.

L’ultima volta che il parlamento fittizio dell’ANP ha indetto elezioni effettivamente democratiche è stato nel 2006. Dal punto di vista dell’imperialismo USA e dei suoi alleati, però, vinse il partito sbagliato. Il Movimento Islamico di Resistenza, Hamas, vinse grazie a un programma di welfare e lotta alla corruzione, con una lista di candidati chiamata Change and Reform [Cambiamento e Riforma, ndt]. Gli elettori palestinesi votarono per Hamas vedendo in esso un cambiamento rispetto alla corruzione, ritenuta dilagante nel partito di maggioranza Fatah di Mahmoud Abbas.

Anche il fallimento della strategia del “processo di pace” del presidente dell’ANP, cioè la resa ad Israele attraverso i negoziati, ebbe un certo peso nella sorprendente sconfitta del suo partito. Eppure, invece di riflettere sul messaggio forte e chiaro inviato dagli elettori, e prepararsi a vivere all’opposizione, Fatah rifiutò di accettare il risultato delle elezioni “libere e democratiche” e di trasferire il potere ad Hamas, il nuovo governo eletto. La leadership di Fatah venne incoraggiata a questa pericolosa reazione dagli americani, dagli europei, dalla Giordania e dall’Arabia Saudita. Il risultato fu la spietata guerra civile palestinese del 2007.

Le forze armate a Gaza, guidate da Mohammed Dahlan, all’epoca influente personaggio di Fatah, erano pronte a realizzare un colpo di stato contro Hamas e i suoi combattenti. Hamas scoprì il piano ed espulse da Gaza Dahlan e i suoi uomini. Venne quindi organizzato da Abbas un colpo di stato in Cisgiordania contro il governo eletto di Hamas.

Nonostante anni di interminabili e intermittenti negoziati tra Hamas e Fatah per un “governo di unità nazionale”, da allora non ci sono state elezioni, né legislative né presidenziali. L’“Autorità Nazionale Palestinese”, quindi, non ha alcun mandato democratico. E, di fatto, non lo ha nemmeno Abbas; il suo incarico avrebbe dovuto concludersi nel 2009.

Ancor più importante, l’ANP non ha il mandato della totalità dei palestinesi, la maggior parte dei quali vivono in esilio, come rifugiati. I loro diritti non sono tutelati dall’Autorità Nazionale Palestinese. Secondo il fallimentare processo degli Accordi di Oslo, iniziato negli primi anni ‘90, il loro legittimo diritto al ritorno non è stato rispettato né tutelato.

Inoltre, anche relativamente alla limitata sfera d’influenza e alla parte di popolazione palestinese che sostiene di rappresentare nei territori occupati di Cisgiordania e Gaza – che insieme costituiscono appena il 22% della Palestina storica – l’Autorità Nazionale Palestinese agisce per far rispettare la volontà di Israele. Il settore più attivo e meglio finanziato dell’autorità è quello della sicurezza, con circa 70.000 funzionari che operano in una mezza dozzina di servizi di sicurezza.

Gli addetti alla sicurezza dell’ANP vengono addestrati da USA ed Europa, ed esistono unicamente per controllare il popolo palestinese. Il loro unico compito è prevenire la resistenza, armata o pacifica che sia, contro Israele, proteggere Israele e tutelare i leader dell’ANP. Gli ordini loro impartiti sono di farsi da parte se, sulla scena di qualsiasi evento, arriva il personale della sicurezza israeliano.

Nel 2014 Abbas definì “sacro” il coordinamento per la sicurezza tra ANP e Israele. Con il passare degli anni, però, ha più volte minacciato di porre fine a tale collaborazione con Israele, di solito quando sono stati a rischio i finanziamenti all’ANP. Eppure è rimasto fedele al suo discorso del 2004, e il coordinamento per la sicurezza tra ANP e Israele rimane ben saldo.

L’ ANP, quindi, può essere ragionevolmente considerato una marionetta, un organismo collaborazionista che esegue gli ordini dell’occupazione israeliana. Non sorprende, quindi, scoprire che sta impedendo la libertà di parola e agendo in modo autoritario e oppressivo. In questo, l’ ANP è complementare alla politica israeliana nei confronti dei palestinesi, che è sempre stata dittatoriale.

Con la sua ultima mossa autoritaria, l’ANP ha oscurato un gran numero di siti e social network palestinesi e arabi. Su richiesta del Procuratore Generale dell’ANP, il 17 ottobre la pretura di Ramallah ha ordinato il blocco di altri 59 siti web e pagine di notizie in rete.

Secondo l’ordinanza, i siti violavano la legge sui crimini informatici, approvata dall’ANP nel 2017. I gruppi per i diritti umani hanno definito la legge uno “strumento per mettere a tacere la legittima libertà di espressione e la critica alle autorità”.

La lista dei siti oscurati include Arab48, Wattan TV, Shebab News Agency, Quds News Network, Gaza Now e Metras. È da sottolineare che nessuno dei siti oscurati è israeliano.

L’Autorità Nazionale Palestinese sta nascondendo la testa sotto la sabbia, cercando di impedire la libertà di espressione e rispedendo i media nazionali in quell’oscurità in cui aveva tentato di relegarli l’occupazione israeliana, senza riuscirci”, ha dichiarato Husam Badran, portavoce di Hamas. “Il nuovo divieto può significare solo che l’ ANP e l’occupazione stanno lottando dalla stessa parte contro l’espressione nazionale palestinese, che denuncia le violazioni da parte dell’occupazione, la corruzione e il crimine”.

L’ANP si vende come strumento utile all’occupazione israeliana; riesce a fare cose che Israele non può fare. Eppure, gli israeliani considerano l’ANP sempre più irrilevante. Perché dovrebbero impiegare un subappaltatore per l’occupazione, quando possono direttamente portarla avanti loro? Questo è il dilemma in cui si trova l’ANP, da qui le periodiche e vuote minacce di chiudere la collaborazione per la sicurezza.

Tuttavia, almeno per ora, possiamo aspettarci che l’Autorità Nazionale Palestinese continuerà a fare il lavoro sporco per Israele. Dopotutto, è esattamente il motivo per cui fu creata.

Le opinioni espresse nell’articolo appartengono all’autore e non rispecchiano necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Elena Bellini)




L’ultima àncora di salvezza: la vera ragione dell’appello di Abbas alle elezioni

Ramzy Baroud

14 ottobre, 2019 – Middle East Monitor

L’appello alle elezioni nei territori occupati da parte del Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese [ANP] Mahmoud Abbas è uno stratagemma politico. Non ci saranno elezioni veramente democratiche sotto la leadership di Abbas. La vera domanda è: innanzitutto, perché lo ha fatto?

Il 26 settembre Abbas ha scelto la sede politica più importante al mondo, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, per proporre “elezioni generali in Palestina – in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza.”

Il leader palestinese ha fatto precedere al suo annuncio una nobile enfasi sulla centralità della democrazia nei suoi pensieri. “Fin dall’inizio abbiamo creduto nella democrazia come fondamento della costruzione del nostro Stato e della nostra società”, ha detto con inconfondibile disinvoltura. Ma, a conti fatti, è stata solo Hamas a rendere impossibile la missione democratica di Abbas – non Israele, e certo non il retaggio antidemocratico, evidente e corrotto della stessa ANP.

Al suo rientro da New York Abbas ha creato una commissione il cui compito, secondo i media ufficiali palestinesi, è di svolgere consultazioni con varie fazioni palestinesi riguardo alle elezioni che ha promesso.

Hamas ha immediatamente accettato l’invito alle elezioni, pur chiedendo maggiori delucidazioni. La principale richiesta del gruppo islamico, che controlla la Striscia di Gaza assediata, è di svolgere elezioni che comprendano contemporaneamente il Consiglio Legislativo Palestinese (CLP), la presidenza dell’ANP e soprattutto il Consiglio Nazionale Palestinese (CNP) – la componente legislativa dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP).

Mentre l’OLP è caduta sotto lo stretto controllo di Abbas e di una cricca interna al suo stesso partito Fatah, le altre istituzioni hanno operato senza alcun mandato democratico e popolare per quasi 13 anni. Le ultime elezioni del CLP si sono tenute nel 2006, seguite da uno scontro tra Hamas e Fatah che ha portato all’attuale rottura politica tra i due partiti. Quanto al mandato di Abbas, anch’esso è scaduto nel 2009. Ciò significa che Abbas, che apparentemente crede “nella democrazia come fondamento della costruzione del nostro Stato”, è un presidente che regna in modo antidemocratico senza alcun mandato per governare i palestinesi.

Non è che i palestinesi rinuncino a esplicitare i propri sentimenti. Più volte hanno chiesto ad Abbas di andarsene. Ma l’ottantatreenne è deciso a rimanere al potere – per quanto si possa definire ‘potere’ sotto il giogo dell’occupazione militare israeliana.

L’opinione prevalente dopo la richiesta di Abbas di elezioni è che, date le circostanze, una simile impresa sia semplicemente impossibile. Tanto per cominciare, dopo aver ottenuto il riconoscimento degli USA di Gerusalemme come capitale, è difficile che Israele permetta ai palestinesi di includere Gerusalemme est occupata in qualunque futura votazione.

D’altro lato, è probabile che Hamas rifiuti l’inclusione di Gaza nelle elezioni se esse fossero limitate al CLP e escludessero la carica di Abbas e il CNP. Senza un voto per il CNP la riorganizzazione e la rinascita dell’OLP resterebbero fantomatiche, un’opinione condivisa da altre fazioni palestinesi.

Essendo consapevole di questi ostacoli, Abbas sa già che le possibilità di reali elezioni eque, libere e veramente inclusive sono minime. Ma la sua proposta è l’ultima, disperata mossa per fermare il crescente risentimento tra i palestinesi e la sua incapacità per decenni di utilizzare il cosiddetto processo di pace per ottenere i diritti del suo popolo a lungo negati.

Ci sono tre principali ragioni che spingono Abbas a compiere questa mossa in questo specifico momento.

Primo, la fine del processo di pace e della soluzione dei due Stati, attraverso una serie di iniziative israeliane e americane, hanno lasciato l’ANP, e soprattutto Abbas, isolati e con scarse disponibilità finanziarie. I palestinesi che hanno sostenuto simili illusioni politiche non sono più la maggioranza.

Secondo, lo scorso dicembre la corte costituzionale dell’ANP ha stabilito che il presidente avrebbe dovuto indire le elezioni entro i prossimi sei mesi, cioè entro giugno 2019. La corte, anch’essa sotto il controllo di Abbas, ha inteso fornire al leader palestinese uno strumento giuridico per sciogliere il parlamento precedentemente eletto – il cui mandato è scaduto nel 2010 – e predisporre nuove basi per la sua legittimazione politica. Tuttavia egli non ha rispettato la decisione della corte.

Terzo, e più importante, il popolo palestinese è chiaramente stufo di Abbas, della sua autorità e di tutti gli intrighi politici delle fazioni. Infatti, secondo un sondaggio dell’opinione pubblica svolto a settembre dal Centro palestinese per la Ricerca Politica e di Opinione, il 61% di tutti i palestinesi in Cisgiordania e Gaza vuole che Abbas si dimetta.

Lo stesso sondaggio indica che i palestinesi rifiutano l’intero discorso politico che è stato alla base delle strategie politiche di Abbas e della sua ANP. Inoltre, il 56% dei palestinesi è contrario alla soluzione dei due Stati; quasi il 50% ritiene che l’azione dell’attuale governo dell’ANP di Mohammed Shtayyeh sia peggiore del precedente e il 40% vuole che l’ANP venga sciolta.

Significativamente, il 72% dei palestinesi vuole che le elezioni legislative e presidenziali si svolgano in tutti i territori occupati. La stessa percentuale vuole che l’ANP interrompa la sua partecipazione all’assedio imposto alla Striscia di Gaza.

Abbas si trova ora nella posizione politica più debole da quando ha preso il potere, molti anni fa. Privo del controllo sugli esiti politici che sono decisi da Tel Aviv e Washington, ha fatto ricorso ad una vaga richiesta di elezioni che non hanno possibilità di successo.

Mentre l’esito è prevedibile, Abbas spera che, per ora, potrà ancora una volta apparire come il leader impegnato che rivolge l’attenzione al consenso internazionale e ai desideri del suo popolo.

Ci vorranno mesi di spreco di energie, di contese politiche e di un imbarazzante circo mediatico prima che l’imbroglio delle elezioni vada in pezzi, lasciando il campo ad un gioco al massacro tra Abbas ed i suoi rivali che potrebbe durare mesi, se non anni.

È difficile che questa sia la strategia che il popolo palestinese – che vive sotto una brutale occupazione ed un soffocante assedio – necessiti o desideri. La verità è che Abbas e qualunque classe politica egli rappresenti sono diventati un vero ostacolo nel cammino di una nazione che ha un disperato bisogno di unità e di una strategia politica seria. Ciò che il popolo palestinese chiede con urgenza non è una timida chiamata al voto, ma una nuova leadership, una richiesta che ha ripetutamente espresso, benché Abbas rifiuti di ascoltare.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Cosa c’è dietro la campagna saudita contro Hamas?

Adnan Abu Amer

23 settembre 2019 Al Jazeera

Attraverso i ripetuti  arresti dei suoi sostenitori e l’interruzione dei i flussi finanziari verso Gaza, Riyadh cerca di mettere Hamas colle spalle al muro

Il 9 settembre Hamas ha rilasciato una sorprendente dichiarazione ufficiale che condanna gli arresti di alcuni dei suoi sostenitori residenti in Arabia Saudita. Da aprile, decine di palestinesi, giordani e cittadini sauditi sono stati arrestati e accusati di appartenere e sostenere Hamas attraverso la raccolta di donazioni a favore del movimento.

Alcuni sono stati presumibilmente torturati, altri sono stati espulsi; a molti sono state congelate le attività e monitorati i trasferimenti finanziari. Inoltre, sono stati imposti controlli severi sulle rimesse verso i territori palestinesi, cosa che durante l’estate ne ha determinato un blocco quasi completo.

Per mesi, Hamas è rimasto per lo più silenzioso, sperando che la mediazione politica potesse risolvere il problema. Importanti dirigenti di Hamas si sono rivolti ripetutamente alle autorità saudite in merito alla questione chiedendo anche la mediazione di vari funzionari arabi.

La dichiarazione ufficiale che condanna la campagna saudita contro i suoi sostenitori suggerisce che gli sforzi di mediazione siano falliti e che le tensioni non siano state risolte. Sembra che questa crisi sia stata scatenata dall’alleanza saudita con l’amministrazione Trump e il suo “accordo del secolo”, insieme alla sua campagna diplomatica contro l’Iran.

 Relazioni tra Arabia Saudita e Hamas

Dopo la costituzione di Hamas negli anni ’80, la sua leadership ha intrattenuto per anni buoni rapporti con l’Arabia Saudita. Sebbene le autorità saudite non abbiano mai inviato al partito finanziamenti diretti, hanno consentito la raccolta di fondi sul proprio territorio.

All’inizio degli anni 2000, Hamas ha iniziato ad avvicinarsi all’Iran, il che ha inevitabilmente influenzato le relazioni con l’Arabia Saudita. Nel 2007, in seguito alla vittoria di Hamas alle elezioni legislative palestinesi e agli scontri con Fatah a Gaza, Riyadh ha cercato di mediare la riconciliazione tra i due, ma non è riuscito a farlo, il che ha inasprito ulteriormente l’atteggiamento saudita nei confronti della leadership di Hamas.

Quando nel 2011 è scoppiata la primavera araba e le proteste di massa contro il regime di Assad si sono diffuse in tutta la Siria, Hamas si è trovata sempre di più in conflitto con l’Iran. Mentre i disordini si trasformavano in una guerra civile, il movimento ha deciso di appoggiare l’opposizione siriana, interrompendo di fatto i rapporti con Teheran, schierata con Damasco.

Questo sviluppo  gradito ai sauditi è stato oscurato dal colpo di stato militare del 2013 in Egitto e dalla rimozione del presidente egiziano Mohamed Morsi. Il sostegno saudita all’allontanamento del primo presidente egiziano eletto democraticamente e la contrarietà di Hamas hanno esacerbato le loro relazioni, interrompendo le visite ufficiali della leadership di Hamas a Riyadh.

Il nuovo regime al Cairo ha accresciuto la pressione su Gaza, mentre si approfondiva la crisi nelle relazioni con Fatah. Di conseguenza, sentendosi sempre più isolato, nel 2017 Hamas ha iniziato a riprendere i contatti con l’Iran.

Da allora, le relazioni con Teheran sono notevolmente migliorate, come dimostrato da una visita ufficiale di una delegazione di Hamas nel Paese nel luglio di quest’anno e dal suo incontro con il leader supremo l’ayatollah Ali Khamenei.

Una nuova crisi

L’inizio del riavvicinamento tra Iran e Hamas ha coinciso approssimativamente con la svolta della strategia americana nei confronti dell’Iran. L’amministrazione Trump si è ritirata dall’accordo nucleare e ha annunciato una politica di “massima pressione” verso Teheran, che sia l’Arabia Saudita che Israele hanno accolto con favore.

Allo stesso tempo, Washington ha legato essenzialmente la sua politica verso l’Iran ai suoi sforzi per far passare un “accordo di pace” tra israeliani e palestinesi, che prevede il sostegno da parte degli Stati arabi e la normalizzazione dei loro rapporti con Israele. L’Arabia Saudita ha mostrato abbastanza esplicitamente il suo sostegno al piano.

In questo contesto, gli atteggiamenti ufficiali nei confronti della Palestina hanno cominciato a cambiare.

Il principe ereditario Mohammed bin Salman (MBS) ha iniziato a fare pressioni sull’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) perché accettasse l’accordo americano già nel 2017. Nel 2018, circolavano delle voci secondo le quali [MBS] avrebbe minacciato il presidente palestinese Mahmud Abbas e gli avrebbe offerto  sostegno finanziario per incoraggiarlo ad accettare i termini dell’accordo americano.

Quindi, all’inizio di quest’anno, Riyadh ha rivolto il suo sguardo su Gaza. Ad aprile hanno avuto luogo i primi arresti dei sostenitori di Hamas, inclusa la detenzione del dott. Mohammed al-Khodary, da oltre 20 anni responsabile delle relazioni bilaterali. Ciò è stato seguito da un chiaro cambiamento nel linguaggio saudita sui social media e su quelli tradizionali.

A maggio, il quotidiano saudita La Mecca ha pubblicato un elenco di 40 personaggi islamici in tutto il mondo descritti come terroristi influenzati dalle idee dei Fratelli Musulmani. Tra questi, il fondatore di Hamas, lo sceicco Ahmed Yassin, l’ex leader Khaled Meshaal, l’attuale leader Ismail Haniya, e i suoi comandanti militari Mohammad al-Deif e Yahya al-Sinwar.

Quindi, durante l’offensiva israeliana contro Gaza, nello stesso mese, attivisti e blogger sauditi hanno scritto tweet di solidarietà con Israele e hanno attaccato Hamas, accusandolo di lavorare per l’Iran e la Turchia e chiedendo a Israele di contrastare quello che hanno definito il “terrorismo” del “sangunario” Hamas. Queste affermazioni sono state unanimemente accolte con favore da Israele.

Secondo i funzionari di Hamas con cui ho parlato, l’Arabia Saudita ha affermato che Hamas deve “risolvere i suoi problemi con gli americani”. Sebbene non sia chiaro cosa significhi in modo specifico, la leadership di Hamas ritiene che questa campagna miri a spingerla ad accettare “l’accordo del secolo” dell’amministrazione Trump e a cessare la sua resistenza armata contro l’occupazione israeliana.

Oltre che cercare di soddisfare il desiderio americano di esercitare pressioni sul movimento e di prosciugarne le fonti di finanziamento, la campagna saudita contro Hamas sta anche tentando di frenarne il riavvicinamento all’Iran.

 E adesso?

La decisione di Hamas di rendere pubblica la campagna saudita contro i suoi membri mostra chiaramente il suo rifiuto di perseguire migliori relazioni con l’Arabia Saudita attraverso il taglio delle relazioni con l’Iran. In passato [Hamas] ha mantenuto relazioni equilibrate con entrambi i Paesi e vuole che ciò continui.

La resistenza di Hamas alle pressioni saudite potrebbe spingere Riyad a intensificare la sua campagna contro il movimento. La sua demonizzazione nei media sauditi probabilmente continuerà, così come gli sforzi per tagliare i suoi canali di finanziamento.

Il regno potrebbe anche esercitare pressioni politiche ed economiche su altri Paesi arabi per dare un giro di vite su Hamas e fare pressioni affinché la Lega araba lo definisca come un’organizzazione terroristica, come fece con Hezbollah nel 2016.

Se la pressione saudita persistesse e aumentasse, ciò inciderebbe senza dubbio sulla precaria situazione di Hamas nella regione e rafforzerebbe le sue relazioni con l’Iran, il quale ha ripristinato il suo sostegno militare e finanziario a favore del movimento.

Mentre Hamas si sentirà sempre più con le spalle al muro, il popolo palestinese sarà quello che ne pagherà il prezzo, poiché nella Striscia di Gaza le condizioni di vita e il disastro economico continueranno a peggiorare .

Per ora, nonostante le attuali tensioni, Hamas appare desideroso di non interrompere completamente le sue relazioni con l’Arabia Saudita. Tenterà di resistere alla tempesta nella speranza che la situazione politica nel regno e nella regione cambi e ci si avvii a un eventuale disgelo nelle relazioni.

Nel contesto del crescente allineamento arabo con le posizioni statunitensi e saudite, questa crisi è vista dai palestinesi come un’ulteriore indicazione del fatto che [essi] sono stati in gran parte lasciati in balia dei loro occupanti e dei loro sostenitori occidentali dai governi arabi.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Il Dr. Adnan Abu Amer è il responsabile del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Ummah a Gaza.

(Traduzione di Aldo Lotta)




Nuovo sondaggio: più del 60% dei palestinesi vuole che Abbas lasci

The Palestine Chronicle – 18 settembre 2019

Secondo un sondaggio, il 60% dei palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza vuole che il Presidente Mahmoud Abbas si dimetta.
Felesteen.ps riferisce che, da una ricerca condotta dal Centro Palestinese di Ricerca Politica e Sondaggi tra l’11 e il 14 settembre, emerge che il 50% dei palestinesi vorrebbe tornare all’Intifada armata, data la mancanza di passi avanti nel processo di pace, mentre il 40% chiede lo scioglimento dell’Autorità Palestinese.

Tra il 32 e il 50% degli intervistati ritiene che i risultati del governo siano peggiori di quelli del suo predecessore.
Il 56% è contrario alla soluzione dei due Stati, con il 37% che preferisce la resistenza armata e il 32% a favore di una soluzione nonviolenta della questione palestinese.

I contrari all’accordo di pace USA, l’“Accordo del Secolo”, raggiungono il 69% e il 72% boccia il coinvolgimento americano nella risoluzione della crisi dei rifugiati palestinesi.


Circa i tre quarti – il 72% – chiedono che si tengano elezioni legislative e presidenziali e vogliono che l’Autorità Palestinese tolga le sanzioni che ha imposto alla Striscia di Gaza sotto assedio.
Il sondaggio ha rilevato che il 63% dei palestinesi di Gaza si sente al sicuro, rispetto al 52% della Cisgiordania; a Gaza, il 43% ha dichiarato di sentirsi libero di criticare Hamas, mentre in Cisgiordania è il 36% che si sente libero di criticare Fatah.

(Middle East Monitor, PC, Social Media)

 

(Traduzione di Elena Bellini)




Ricordare il “disimpegno” di Israele da Gaza

Rebecca Stead

15 agosto 2019 – Middle East Monitor

Cosa: Israele smantellò le sue colonie nella Striscia di Gaza, ritirando tutti i coloni e le truppe di terra dall’enclave.

Dove: Nella Striscia di Gaza, Palestina occupata.

Quando: Il 15 agosto 2005

Cos’è successo?

Il 15 agosto 2005 Israele iniziò il suo disimpegno dalla Striscia di Gaza, che aveva occupato dalla guerra dei Sei Giorni del 1967. Nel corso di 38 anni Israele aveva creato circa 21 colonie nell’enclave costiera e trasferito nel territorio circa 9.000 coloni, in violazione delle leggi internazionali.

Di fronte a costi in vertiginosa ascesa per l’amministrazione del territorio, Israele decise di far uscire dalla Striscia le sue forze armate e i coloni illegali. Mentre le telecamere di tutto il mondo li riprendevano, i coloni che non volevano andarsene vennero portati via a forza dalle proprie case, un momento perfetto di propaganda che dimostrava la “volontà” di Israele di ritirarsi dai territori occupati nel tentativo di “riannodare” il processo di pace.

Quattordici anni dopo Israele non si è in realtà disimpegnato da Gaza: conserva il controllo dei suoi confini terrestri, dell’accesso al mare a allo spazio aereo. La popolazione di 1,9 milioni di Gaza rimane sottoposta a un’occupazione a “controllo remoto” e a un rigido assedio, che ha distrutto l’economia locale e soffocato l’esistenza dei palestinesi.

Il grande piano di Sharon

Benché il disimpegno sia iniziato nel 2005, la politica era già in atto da tempo. Nel mezzo della Seconda Intifada – una rivolta popolare nei territori palestinesi che ebbe luogo tra il settembre del 2000 e gli inizi del 2005 – l’allora primo ministro Ariel Sharon propose il disimpegno dalla Striscia di Gaza.

Prima delle elezioni israeliane del 2003, Sharon aveva manifestato il proprio appoggio alla continuazione della colonizzazione del suo Paese nella Striscia, affermando che “il destino di Tel Aviv è quello di Netzarim”, una colonia nel sud della Striscia di Gaza. Eppure dopo la sua elezione Sharon sembrò aver cambiato parere, spiegando nel dicembre di quell’anno che “l’obiettivo del piano di disimpegno è ridurre il più possibile il terrorismo e garantire ai cittadini israeliani il massimo livello di sicurezza.”

Proseguì: “Il processo di disimpegno porterà a un miglioramento della qualità di vita (degli israeliani), aiuterà a rafforzare l’economia israeliana, (…) incrementerà la sicurezza degli abitanti di Israele e ridurrà la pressione sulle IDF (Forze di Difesa Israeliane) e sulle forze di sicurezza.”

In una lettera dell’aprile 2004 all’allora presidente USA George Bush, Sharon sottolineò la sua visione del disimpegno, proponendo che Israele “trasferisse le installazioni militari e tutti i villaggi e cittadine israeliane dalla Striscia di Gaza.” Il piano includeva l’eliminazione di quattro colonie illegali dalla Cisgiordania settentrionale.

Nell’ottobre di quell’anno, la Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] approvò in via preliminare alla proposta di Sharon. Uno dei più accesi critici fu il ministro degli Affari Esteri Benjamin Netanyahu, che minacciò di dimettersi dal governo salvo che Sharon non avesse sottoposto il progetto a un referendum. Alla fine fece marcia indietro, citando la “nuova situazione” presentata dalla prevista dipartita del leader palestinese di lungo corso Yasser Arafat, che morì l’11 novembre 2004.

Nel febbraio 2005 il piano di disimpegno venne approvato ufficialmente dalla Knesset, mentre in marzo ai cittadini israeliani che non vivessero già nella Striscia di Gaza venne vietato di insediarsi nel territorio. La scena era pronta.

Luci, motore, azione

Il 15 agosto Israele iniziò a realizzare il disimpegno. Gush Katif – un blocco di colonie nel sud della Striscia – venne dichiarato zona militare chiusa e il valico di Kissufim, la principale arteria che collegava la colonia a Israele, venne chiuso.

Alle 8 ora locale (le 5 ora di Greenwich) forze israeliane entrarono a Gush Katif, andando di casa in casa con l’ordine che i coloni se ne dovevano andare. Alcuni accettarono di farlo in modo pacifico, essendogli stato offerto un pacchetto di misure di indennizzo fino a 500.000 dollari. Altri si rifiutarono di andarsene, obbligando l’esercito israeliano a portarli via con la forza dalle loro colonie.

Immagini di coloni portati via a calci dalle loro abitazioni e che gridavano vennero diffuse in tutto il mondo. Alcuni bambini dei coloni lasciarono le proprie case con le mani in alto, con stelle di David gialle simili a quelle che contraddistinguevano gli ebrei durante l’Olocausto. Questi “fiumi di lamenti” vennero descritti dalla stampa israeliana come “kitsch” e “squallidi”, mentre molti israeliani criticarono duramente l’invocazione dell’Olocausto da parte dei coloni.

Come notò Donald Macintyre – l’ex capo dell’ufficio dell’“Independent” [giornale britannico di centro sinistra, ndtr.] a Gerusalemme – nel suo libro “Gaza: preparandosi all’alba”: “C’era qualcosa di teatrale in questo congedo forzoso – e in tutto il ritiro israeliano da Gaza.”

Il 22 agosto l’evacuazione era stata in buona misura completata. Le forze israeliane distrussero con i bulldozer migliaia di case, edifici pubblici e luoghi di culto; persino i cadaveri nei cimiteri ebraici vennero esumati e sepolti di nuovo in Israele.

La maggior parte dell’apparato militare israeliano venne rimosso e il 21 settembre il governo dichiarò che la Striscia di Gaza era territorio extragiudiziale e designò i valichi nell’enclave come confini internazionali che richiedevano documenti di viaggio.

Nei giorni seguenti i palestinesi camminarono per le vie delle colonie ora abbandonate che erano state loro vietate per decenni. I bambini raccolsero palloni e giocattoli lasciati dai bambini israeliani per portarli a casa ai propri fratelli. Alcuni erano felici che l’occupazione se ne fosse andata, mentre altri corsero al mare che prima non potevano raggiungere. I festeggiamenti non sarebbero durati a lungo.

Come evidenziò Macintyre, benché il disimpegno “rappresentasse certamente un precedente storico, il paradosso era che segnava anche l’inizio di un decennale e opprimente blocco economico di Gaza e di tre attacchi militari da parte di Israele più devastanti di ogni altro nella turbolenta storia del territorio.”

Forse i semi di quello che stava per avvenire erano stati seminati nel settembre 2005. Meno di una settimana dopo che Israele aveva dichiarato Gaza territorio extragiudiziale, aerei da guerra israeliani bombardarono la Striscia, uccidendo parecchi palestinesi, tra cui il comandante della Jihad islamica Mohammed Khalil. Gli attacchi israeliani colpirono anche una scuola e altri edifici che [Israele] sosteneva fossero stati usati per costruire razzi.

La narrazione di Israele riguardo al disimpegno sostiene che, in seguito alla sua decisione di lasciare la Striscia, ai palestinesi era stata offerta una grande opportunità di diventare economicamente prosperi. Questa narrazione spesso ricorda le serre lasciate dai coloni che, a quanto si dice, vennero immediatamente distrutte dai palestinesi con un caratteristico delirio di imprevidenza.

Tuttavia, anche se qualche serra venne depredata di alcune parti, esse rimasero in grande misura intatte. Il raccolto di novembre rese un valore di 20 milioni di dollari in frutta e verdure pronte da esportare in Europa e altrove, molte delle quali marcirono per il caldo autunnale in quanto rimasero in attesa dei controlli di sicurezza al valico di confine di Karni. Secondo stime dell’ONU, solo il 4% del raccolto stagionale venne esportato.

Occupazione a controllo remoto

Nel gennaio 2006 nella Striscia di Gaza e nella Cisgiordania occupata si tennero le elezioni per il consiglio legislativo palestinese (CLP). Hamas, all’epoca un movimento popolare palestinese, vinse 74 dei 132 seggi, battendo tra i più votati Fatah – che aveva dominato la politica palestinese per decenni. Ismail Haniyeh, del movimento islamico, venne eletto primo ministro dell’ANP.

A febbraio Israele sospese il trasferimento dei dazi doganali all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), imponendo limitazioni agli spostamenti dei membri di Hamas a Gaza. Dopo che Fatah rifiutò di collaborare con il governo guidato da Hamas – e una fazione all’interno di Fatah venne sostenuta da Israele e dagli USA per fare un colpo di stato contro Hamas – ne seguì una guerra civile di fatto, che portò a una definitiva divisione del governo nel giugno 2007 e al consolidamento del potere di Hamas nella Striscia, con Fatah che continuò a governare a Ramallah sotto Mahmoud Abbas. La fine del 2007 vide Israele chiudere totalmente i confini di Gaza, sottoponendola a un duro assedio che continua fino ad oggi.

Nel corso dell’assedio, arrivato ormai ai 12 anni, Israele ha continuato a strangolare Gaza a distanza. Dopo tre pesanti offensive militari israeliane – in cui sono stati uccisi circa 4.000 palestinesi – e innumerevoli attacchi aerei, le infrastrutture e il sistema sanitario della Striscia sono a pezzi. Circa il 54% della popolazione di Gaza ora è disoccupata, mentre il 53% vive al di sotto della soglia ufficiale di povertà di 2 dollari al giorno.

Invivibile”, “prigione a cielo aperto” e occupazione “a controllo remoto” sono diventati luoghi comuni quando si descrive oggi l’enclave costiera. Gaza rimane un territorio occupato, senza controllo sui suoi confini, sulle acque del territorio o sullo spazio aereo. Nel contempo Israele rispetta ben poche delle sue responsabilità in quanto potere occupante, non provvedendo alle necessità fondamentali dei civili palestinesi che vivono nel territorio.

In Israele il disimpegno viene generalmente visto come un errore, non a causa delle misere condizioni umanitarie che colpiscono i palestinesi in conseguenza di ciò, ma perché non ha portato alcun “vantaggio per la sicurezza o diplomatico” a Israele.

Oggi importanti personalità del sistema politico israeliano, compresa la ministra della Cultura Miri Regev e il presidente della Knesset Yuli Edelstein, hanno manifestato pentimento per il disimpegno di Israele da Gaza. Politici di destra come la leader di “Yemina”, Ayelet Shaked, e il ministro dei Trasporti Bezalel Smotrich hanno chiesto l’annullamento del disimpegno e la ricostruzione delle colonie israeliane illegali là.

Nella corsa alle elezioni politiche israeliane del settembre 2019, le seconde quest’anno, il reinsediamento nella Striscia di Gaza è stato propagandato da quei ministri di destra come modo per rimediare all’errore storico di Sharon. Con gli stessi politici che invocano attivamente l’annessione dell’Area C della Cisgiordania a Israele, il prossimo mandato della Knesset potrebbe vedere Israele ri-colonizzare la Striscia di Gaza e porre ancora una volta la popolazione palestinese sotto diretto potere militare [israeliano].

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele, gli Stati Uniti e il rompicapo della successione nell’ANP

Adnan Abu Amer

28 luglio 2019 – Al Jazeera

Gli USA e Israele vogliono estromettere dal potere il presidente Mahmoud Abbas, ma questo potrebbe non essere per loro la soluzione migliore.

Da quando a gennaio 2017 si è insediata l’amministrazione Trump, la pressione sul presidente palestinese Mahmoud Abbas perché si dimetta è salita. E’ ormai chiaro che Washington non vuole più trattare con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) sotto la sua direzione.

Il principale consigliere della Casa Bianca, Jared Kushner, di recente ha definito la decisione di Abbas di boicottare il convegno in Bahrain, in cui è stato presentato l’aspetto economico del piano di pace, “isterica e incoerente.”

Nel frattempo anche diversi dirigenti israeliani hanno fatto capire che sperano che Abbas lasci l’incarico. Alcuni, come l’ex Ministro degli Esteri Dore Gold, sono arrivati a sostenere che entro i prossimi sei mesi gli stessi palestinesi chiederanno un cambio di leadership.

L’attuale governo israeliano ha tentato attivamente di destabilizzare l’ANP attraverso diverse misure ostili, compreso il blocco del versamento di 140 milioni di dollari di entrate fiscali destinate al pagamento mensile dei salari. Questo, insieme ai tagli degli aiuti USA, ha posto Ramallah sotto una crescente pressione finanziaria.

Mentre è evidente che i governi americano e israeliano stanno cercando di spingere Abbas sull’orlo del precipizio, il loro piano per dopo la sua caduta è come minimo piuttosto vago. Anzi, diversi soggetti all’interno dell’apparato di sicurezza israeliano hanno avvertito che una simile mossa potrebbe avere conseguenze pericolose.

La lotta per la successione

Il dibattito sulla successione per la leadership nell’Autorità Nazionale Palestinese prosegue da dieci anni. Il termine della presidenza Abbas è ufficialmente scaduto nel 2009 ed è stato provvisoriamente prorogato in quell’anno dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina [che riunisce le principali fazioni della resistenza palestinese tranne Hamas, ndtr.]. Da allora la Palestina non è stata in grado di svolgere elezioni presidenziali e parlamentari a causa dei continui dissidi tra Fatah e Hamas.

L’ottantatreenne presidente palestinese ha finora fatto resistenza non solo a dare le dimissioni, ma anche a nominare un suo vice e delineare un chiaro percorso per la sua sostituzione. Ma dato che la sua salute sta peggiorando, prima o poi la questione della successione dovrà essere risolta. Le forti pressioni da parte delle manovre americane e israeliane probabilmente accelereranno il processo, mentre all’interno della Cisgiordania sta crescendo il malumore, che negli ultimi due anni ha provocato molte grandi proteste di piazza.

Ci sono parecchie figure importanti all’interno di Fatah che negli ultimi anni sono emerse come contendenti per la carica di Abbas.

Mahmoud al-Aloul, vice capo del partito [al-Fatah, ndtr.] e governatore di Nablus, è uno dei favoriti. È assai popolare tra i sostenitori di Fatah per la sua posizione anti israeliana e finora ha anche evitato di essere coinvolto in scandali per corruzione.

Un altro candidato è Jibril Rajoub, uno dei principali leader di Fatah, presidente della Federazione Calcio palestinese ed ex capo delle forze di sicurezza preventive in Cisgiordania. È noto che ha molta influenza nell’ambito dei servizi di intelligence palestinese e gode della fiducia delle agenzie di sicurezza sia USA che israeliane.

Majed Faraj, capo del Servizio Generale di Intelligence, è un altro candidato forte alla successione di Abbas. E’ stato fidato collaboratore del presidente palestinese e ha guidato la delegazione palestinese che ha incontrato dirigenti americani, nonostante l’attuale boicottaggio dei colloqui con l’amministrazione Trump da parte dell’ANP.

Anche Saeb Erekat, segretario generale dell’OLP, è stato dato come possibile candidato. Tuttavia nel 2011 indiscrezioni note come ‘Palestinian Papers’, che hanno rivelato la volontà di Erekat di fare maggiori concessioni a Israele durante i negoziati, hanno lasciato una macchia indelebile sulla sua reputazione ed è improbabile che raccolga molto consenso popolare. Allo stesso modo Mohammed Dahlan, a lungo arcinemico di Abbas, è stato anch’egli un aspirante alla sua carica, almeno in passato. Ma le sue chances si sono recentemente ridotte a causa dei suoi stretti legami con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, che attualmente sono impopolari in Palestina perché premono per la normalizzazione con Israele.

Benché tutti questi candidati (eccetto Dahlan) appoggino il boicottaggio dell’attuale amministrazione USA da parte di Abbas, la loro posizione potrebbe cambiare se uno di loro assumesse la presidenza dell’ANP. Con questa prospettiva Washington ha spinto attivamente per un cambio di leadership a Ramallah.

Il futuro dell’ANP

Se l’amministrazione Trump non è riuscita a impegnarsi direttamente con nessuno dei principali contendenti alla presidenza dell’ANP, ha invece coinvolto altre importanti figure palestinesi al di fuori della cerchia di Abbas. Negli ultimi due anni vi sono stati parecchi incontri tra dirigenti USA e vari rappresentanti dell’ élite politica e imprenditoriale palestinese.

Al tempo stesso personaggi politici che pare abbiano stretti legami con Washington, compresi l’ex Primo Ministro Salam Fayyad e l’imprenditore palestinese Adnan Majali, sono riapparsi sulla scena politica. L’anno scorso il secondo si è spinto fino a tentare di mediare un accordo di riconciliazione tra Fatah e Hamas.

Prima dell’incontro in Bahrain l’amministrazione USA è riuscita a trovare un uomo d’affari palestinese disposto a saltare il fosso e a partecipare: Ashraf al-Jabari di Hebron. All’inizio di quest’anno al-Jabari, che è stato definito un “amico” dall’ambasciatore USA in Israele David Friedman, ha annunciato che stava creando un partito in Cisgiordania chiamato ‘Riforma e Sviluppo’, che si contrapporrà al programma di Fatah per costituire uno Stato.

Washington probabilmente si rende conto che nessuno di questi personaggi ha una reale possibilità di succedere ad Abbas, perché è improbabile che vincano le elezioni, ma sono comunque utili per fare pressione sull’ANP. In fin dei conti, l’amministrazione Trump vuole che la leadership palestinese accetti le sue proposte di “pace” con Israele ed è scarsamente interessata a chi prenderà il potere dopo Abbas.

D’altro lato, in Israele diversi interlocutori non solo auspicano un cambio di leadership a Ramallah, ma sperano anche in un completo crollo dell’ANP. Parecchi dirigenti israeliani, attuali e del passato, hanno ripetutamente dichiarato “morti” gli accordi di Oslo ed hanno suggerito che è ora che i palestinesi accettino la sconfitta e smettano di pretendere uno Stato. Una soluzione che è stata proposta è che parti della Cisgiordania abitate da palestinesi siano connesse alla Giordania e godano di qualche forma di autonomia amministrativa.

Altri si sono spinti oltre, suggerendo che Israele cerchi di sciogliere l’ANP e stabilisca un governo palestinese a livello comunale sulla base di clan e famiglie. Questo presuppone una forma di autogoverno in cui Israele aiuti i leader locali in varie città della Cisgiordania a gestire le questioni quotidiane, come avveniva prima della creazione dell’ANP.

Mentre è sempre più chiaro che l’establishment israeliano spinge per la fine non solo dell’ANP, ma anche di ogni apparenza di Stato nei territori palestinesi occupati, alcuni, soprattutto nel settore della sicurezza, avvertono che questo potrebbe non essere la miglior soluzione per lo Stato israeliano. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz c’è il timore che, se l’ANP iniziasse a perdere il controllo sulla Cisgiordania, il coordinamento sulla sicurezza tra Israele e Ramallah potrebbe essere compromesso e altri elementi di opposizione potrebbero cercare di assumere il controllo.

Per questo motivo le agenzie di intelligence israeliane sono state solerti nel proteggere l’ANP e la presidenza di Abbas dai tentativi di indebolirli e a volte hanno paradossalmente agito contro le politiche ufficiali sia di Washington che di Tel Aviv.

Sebbene la leadership politica israeliana e i suoi alleati USA siano felici di dichiarare morto Oslo e pensino alla dissoluzione dell’ANP, ignorano però il fatto che per decenni Tel Aviv ha tratto i maggiori benefici dalle disposizioni stabilite da questi accordi. Esse hanno di fatto indebolito la lotta palestinese, imbrigliato l’attivismo politico e reso l’ANP il principale garante della passività politica palestinese.

Se Israele e Stati Uniti riusciranno ad infrangere questo status quo con le loro politiche aggressive, ciò che avverrà dopo potrebbe non essere di loro gradimento.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera

Adnan Abu Amer è capo del Dipartimento di Scienze Politiche dell’università Ummah a Gaza.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




La dichiarazione di Abbas secondo cui sta per “sospendere ogni accordo” con Israele è accolta dai palestinesi nel loro complesso con gli occhi al cielo

Yumna Patel

26 giugno 2019 – Mondoweiss

Giovedì il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha fatto una dichiarazione radicale, annunciando di essere in procinto di “sospendere ogni accordo” con Israele a partire da venerdì.

Annunciamo la decisione della dirigenza di interrompere l’operatività degli accordi firmati con la controparte israeliana,” ha detto Abbas, in seguito a una riunione d’emergenza dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) nella città di Ramallah, nella Cisgiordania occupata.

La decisione di Abbas ha fatto seguito alla demolizione di case palestinesi da parte di Israele nelle zone sotto amministrazione dell’ANP [Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.] della città di Sur Baher, a Gerusalemme est. La natura senza precedenti delle demolizioni ha provocato polemiche e reazioni a livello internazionale.

Non cederemo ai dettami e all’imposizione di un fatto compiuto sul terreno con la forza bruta, soprattutto a Gerusalemme,” ha detto, definendo le demolizioni un crimine di guerra e un atto di pulizia etnica.

Ha continuato facendo una serie di affermazioni, compreso il rifiuto di colloqui di pace a guida americana, ed ha chiesto di riprendere tentativi falliti di riconciliazione tra Hamas e Fatah. Riguardo alla cessazione degli accordi con Israele, Abbas ha detto che la sua leadership “inizierà a predisporre meccanismi” per mettere in pratica la sua decisione, a cominciare da venerdì.

Alla luce dell’insistenza dell’autorità occupante nella negazione di ogni accordo firmato e dei suoi impegni, dichiariamo la decisione della dirigenza di smettere di lavorare in base agli accordi firmati con la parte israeliana,” ha affermato.

Abbas ha dichiarato che la sua decisione diventerà effettiva venerdì, ma molti palestinesi e critici dell’ANP non sono rimasti con il fiato sospeso.

Le sue affermazioni fanno notizia, ma non sono nient’altro, notizie,” dice a Mondoweiss Dianna Buttu, giurista e analista politica che vive a Ramallah.

Ex-consigliera di Abbas nella sua veste di presidente dell’OLP, Buttu descrive le parole del presidente come “prive di significato.” E non è l’unica.

I palestinesi hanno utilizzato le reti sociali per esprimere il proprio scetticismo riguardo alle dichiarazioni di Abbas, che secondo loro ha già fatto un numero infinito di volte, ma non vi ha mai dato seguito.

È il periodo dell’anno in cui Mahmoud Abbas dice ‘niente più accordi con Israele.’ Il risultato è sempre lo stesso: il coordinamento per la sicurezza, gli accordi commerciali, la collaborazione con l’assedio di Gaza continuano. Ma ciò fa un bel titolone,” ha twittato la scrittrice e commentatrice politica palestinese-americana Mariam Barghouti.

Mariam ha proprio ragione,” dice Buttu a Mondoweiss. “Abbas fa solo chiacchiere.”

Minacce vaghe, trite e vuote

Una delle maggiori ragioni per cui attivisti e studiosi palestinesi alzano gli occhi al cielo riguardo alle grandi dichiarazioni di Abbas giovedì, dicono gli analisti a Mondoweiss, è dovuta alla natura vaga e generica delle sue affermazioni.

Abbas ha detto che “sospenderà ogni accordo”, ma la maggior parte delle persone si chiede: cosa significa concretamente?

Prima di tutto, annullare ogni accordo con Israele non è possibile,” dice a Mondoweiss Yara Hawari, docente universitaria palestinese e collaboratrice di Al-Shabaka [sito palestinese di notizie e di dibattito, ndtr.].

In secondo luogo, nota, Abbas non è stato per niente chiaro riguardo a di quali accordi stesse parlando.

Stava parlando di Oslo? Di annullare il coordinamento per la sicurezza con Israele, i protocolli di Parigi? Abbas non ha nessun interesse a farlo,” dice Hawari, definendo le sue dichiarazioni “ridicole”.

Hawari dice di non credere che “qualcuno prenda molto sul serio le sue dichiarazioni,” evidenziando l’ironia del fatto che se stesse davvero per sospendere o annullare ogni accordo con Israele, starebbe sostenendo anche la sua stessa fine.

Se annullano tutti gli accordi, cosa significherebbe ciò per la stessa ANP? L’ANP è stata fondata in base agli accordi di Oslo. Così se dovessimo prenderlo totalmente sul serio, ciò significherebbe lo smantellamento dell’ANP.”

Sia Hawari che Buttu concordano sul fatto che Abbas “doveva fare qualcosa” in seguito alle demolizioni di Sur Bahir, in quanto sono state una chiara violazione dell’“autorità” dell’ANP.

Ma il suo modo di “fare qualcosa”, dicono, è solo una ripetizione delle sue “solite vecchie” e vuote minacce.

Dicendo che sta per sospendere ogni accordo, vuole realmente dire questo?” chiede Buttu, mettendo in evidenza il fatto che la maggior parte degli accordi tra le due parti è all’interno del quadro in cui Israele “concede” benefici all’ANP.

Cose come la distribuzione dell’acqua, come il controllo da parte dell’ANP delle aree A e B, come il rilascio di passaporti. Sono tutte cose che l’occupante attualmente “concede” all’occupato. Vuole sacrificare tutto questo? Non lo credo,” dice Buttu. Una delle poche cose che l’ANP “concede” a Israele e su cui può far leva è la sua collaborazione per la sicurezza con le autorità israeliane.

Se Abu Mazen sta dicendo che sta per interrompere la collaborazione per la sicurezza, la domanda che mi resta è: lo dici sul serio?” chiede Buttu. “Tutte le volte che ne ha parlato in precedenza, non lo ha mai realmente fatto.”

In fin dei conti, indipendentemente da quante sferzanti dichiarazioni o minacce escono dalla bocca di Abbas, rimane lo stesso problema.

Non è mai chiaro,” afferma Buttu. “Tutto quello che ha sempre detto è che sta per sospendere gli accordi, ma non spiega mai i passi successivi che si stanno per fare. Le sue affermazioni devono essere seguite da fatti, e lui non lo fa mai.”

Se vuoi uccidere qualcuno, forma una commissione”

L’idea di Abbas riguardo al “prossimo passo” nella sospensione del processo, come ha affermato nel suo discorso di giovedì, era di formare una commissione per discutere possibili piani di azione.

Dichiariamo la decisione della dirigenza di smettere di lavorare in base agli accordi firmati con la controparte israeliana e di iniziare a predisporre meccanismi – a cominciare da domani – per formare una commissione per mettere in pratica ciò in accordo con le decisioni del Consiglio Centrale Palestinese,” ha sostenuto alla conclusione del discorso.

L’attivista palestinese e direttore di “BADIL”, il Centro delle Risorse per la Residenza dei Palestinesi e i Diritti dei Rifugiati, Nidal al-Azza, dice a Mondoweiss che l’idea di Abbas di formare una commissione è stata uno dei principali segnali d’allarme e segno rivelatore che non ha intenzione di prendere reali iniziative per appoggiare le sue dichiarazioni.

Oltre a non specificare quali accordi intenda sospendere, secondo al-Azza la concreta applicazione dell’ambigua decisione di Abbas è subordinata a “questa misteriosa commissione”.

(La commissione) non ha una scadenza né uno specifico mandato,” nota al-Azza. “Non sappiamo se una simile commissione ha un potere vincolante o solo quello di consigliare la dirigenza palestinese.”

Sia Hawari che Buttu si sono messe a ridere per il fatto che il primo piano d’azione di Abbas sia stato la formazione di una commissione.”

Quanto tempo si suppone ci vorrà a questa commissione di attuazione?” chiede Hawari. “Abbas ha formato un sacco di commissioni che avrebbero dovuto realizzare un sacco di cose. Non ha alcun significato.”

Riferendosi a un detto comune in arabo, Buttu dice a Mondoweiss: “Se vuoi uccidere un problema, forma una commissione.”

È quello che sta facendo. Vuole dimostrare indignazione senza prendere nessuna iniziativa concreta,” afferma.

Invece di dire ‘Oslo è finito’ e cercare di trovare un altro modo per togliere di mezzo questo giogo attorno al nostro collo, invece di aderire al BDS, cercando di liberare l’economia palestinese da quella israeliana, di insistere realmente perché [Israele] debba rispondere delle sue responsabilità,” dice Buttu, “Abbas sceglie di formare una commissione.”

È tutta la solita strategia meschina nello solito gioco.”

Yumna Patel è l’inviata in Palestina di Mondoweiss.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Gaza: come è stata strangolata l’enclave palestinese

Chloé Benoist

21 giugno 2019 Middle East Eye

Decenni di colloqui falliti con Israele e le divisioni interne hanno lasciato gli abitanti più disperati che mai e l’“accordo del secolo” non sembra in grado di modificare lo status quo

Isolata dalla Cisgiordania e da Gerusalemme est occupate; sotto assedio da oltre un decennio; sottoposta a discordie politiche interne, Gaza svolge il più complicato dei ruoli nel conflitto israelo-palestinese.

La sua posizione, sia come teatro di una catastrofica crisi umanitaria che come sede del potere di Hamas – l’organizzazione palestinese di resistenza armata definita organizzazione terroristica da Israele e dai suoi alleati – ha fatto del destino di Gaza uno dei nodi centrali di ogni trattativa che cerchi di occuparsi correttamente del futuro dei palestinesi

Questo articolo fa parte della serie “Done Deal [accordo fatto]” di Middle East Eye, che indaga su quanti degli aspetti attesi del cosiddetto “accordo del secolo” del Presidente USA Donald Trump rispecchino una realtà che già esiste sul terreno.

Prenderà in esame come il territorio palestinese sia già stato di fatto annesso, perché i rifugiati non abbiano prospettive realistiche di tornare un giorno nella loro patria, come la Città Vecchia di Gerusalemme sia sotto dominio israeliano, come vengano usati minacce finanziarie e incentivi per indebolire l’opposizione allo status quo e come Gaza sia tenuta in uno stato di assedio permanente.

Ma Gaza è in un vicolo cieco. Il soccorso umanitario, lo sviluppo economico e l’autodeterminazione palestinese sono considerati troppo spesso nei piani di pace come incompatibili tra loro – e questo include l’ “accordo del secolo” del Presidente USA Donald Trump.

Il ruolo dell’Egitto nell’assedio israeliano

Intrappolata tra Egitto e Israele, lo status di Gaza come enclave fin dalla creazione dello Stato di Israele ha determinato molto della sua esistenza e anche della posta in gioco.

Nel 1948 la Striscia di Gaza contava circa 80.000 abitanti – ma quel numero arrivò velocemente ad una stima di 200.000, quando i rifugiati palestinesi fuggirono dalle forze israeliane. Sessant’anni dopo Gaza ha circa due milioni di abitanti e la reputazione di essere una delle aree più densamente popolate al mondo.

Alla fine degli anni ’40 Gaza era governata dall’esercito egiziano, con un breve periodo di autogoverno ampiamente simbolico, prima di essere occupata da Israele dopo la guerra arabo-israeliana del 1967.

Come in Cisgiordania e a Gerusalemme est, Israele creò insediamenti in tutta la Striscia di Gaza contravvenendo al diritto internazionale. Fu in questo contesto che nel 1987 Hamas si impose come braccio armato della Fratellanza Musulmana nei primi giorni della prima Intifada.

Mentre nel 1993 gli Accordi di Oslo prevedevano un completo ritiro israeliano da Gaza entro un periodo di transizione di cinque anni, questa parte dell’accordo di pace – come molte altre parti – non si realizzò. Fu solo dopo la seconda Intifada, terminata nel 2005, che Israele evacuò le sue 25 colonie da Gaza: alla fine di quell’anno furono trasferiti 9.000 coloni.

Hamas vinse le elezioni legislative del 2006, ma subito dopo scoppiò il conflitto con Fatah, il partito dominante dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). La faida di fatto lasciò Gaza sotto un’ amministrazione guidata da Hamas, separata dall’ANP guidata da Fatah nella Cisgiordania occupata.

Quando Hamas ottenne il controllo della Striscia, Israele impose un rigido assedio a Gaza, sostenuto anche dall’Egitto sul confine meridionale dell’enclave.

Israele non ha più una presenza militare permanente a Gaza, ma continua ad esercitare il controllo. L’accesso all’elettricità si aggira tra le 3 e le 12 ore al giorno. Le riduzioni di combustibile mettono a rischio il funzionamento di vitali infrastrutture sanitarie. L’acqua pulita è diventata una merce rara. Oltre un milione di persone vive con 3,50 dollari, o meno, al giorno. Il mare, un tempo vitale fonte di reddito per gli abitanti di Gaza, è sottoposto a restrizioni dei diritti di navigazione e pesca che cambiano continuamente.

Dodici anni di assedio, unitamente a tre guerre, innumerevoli scoppi di violenze e la repressione di un movimento di protesta di massa dal 2018 hanno portato le Nazioni Unite a denunciare ripetutamente che Gaza è di fatto diventata “invivibile”.

L’unità dei palestinesi è andata in pezzi

A partire dalle elezioni palestinesi del 2006 Gaza è stata intrappolata tra due conflitti probabilmente irrisolvibili: quello tra palestinesi ed israeliani e quello fra gli stessi palestinesi.

L’ANP vuole consolidare il proprio potere nei territori occupati, ma Hamas teme di venire emarginata sotto un governo unificato. Vi è disaccordo tra Fatah e Hamas anche sull’atteggiamento da adottare verso Israele, soprattutto riguardo al futuro del braccio militare di Hamas.

La rottura politica che dura ormai da 13 anni ha anche impedito qualunque attività diplomatica credibile tra Israele e Palestina. Come potrebbe realizzarsi un’efficace discussione sullo Stato palestinese quando la stessa dirigenza palestinese è aspramente divisa?

Innumerevoli tentativi di riconciliazione – promossi da Egitto, Arabia Saudita, Qatar e Siria – sono falliti. Ma il fallimento di questi colloqui non è dovuto soltanto ad irreconciliabili differenze tra i due partiti palestinesi. Israele ha molto da guadagnare dal continuo dissidio tra palestinesi e spesso ha fatto pressioni militari e finanziarie quando un riavvicinamento tra le parti palestinesi sembrava alla portata.

Nel 2011 il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha reagito ad un accordo di unificazione, firmato dal Presidente dell’ANP Mahmoud Abbas e dall’allora capo dell’ufficio politico di Hamas Khaled Meshaal, definendolo “un colpo mortale alla pace e un grande regalo al terrorismo.” Israele ha quindi sospeso il trasferimento di 80 milioni di dollari di tasse che esso raccoglie per conto dell’ANP.

Il 2 giugno 2014 Abbas promise un governo tecnocratico di unità palestinese guidato dal Primo Ministro Rami Abdallah. Dieci giorni dopo tre adolescenti israeliani furono rapiti in Cisgiordania. Le forze israeliane lanciarono una feroce caccia all’uomo, accusando Hamas del rapimento: i loro corpi furono trovati due settimane dopo.

Alla fine di luglio la polizia israeliana disse che il rapimento e le uccisioni erano opera di una “cellula isolata” – ma a quel punto Israele e Hamas da tre settimane erano coinvolti in una devastante guerra a Gaza, che causò la morte di oltre 2.000 palestinesi e 70 israeliani.

Alcuni osservatori ritengono che la ricerca dei ragazzi e il conseguente attacco ad Hamas fossero meri pretesti per vanificare gli sforzi di unificazione palestinese e, di conseguenza, la creazione di uno Stato palestinese.

Un futuro nel Sinai?

Non vi sono segnali di una duratura riconciliazione tra Fatah e Hamas – quindi questo dove condurrà Gaza?

Lo status particolarmente delicato dell’enclave – isolata tra i due governi ostili di Netanyahu e del Presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi, e alle prese con una crisi umanitaria di proporzioni catastrofiche – ha spinto molti mediatori a cercare di affrontare le sue questioni separatamente da più ampie discussioni sull’autodeterminazione palestinese.

Nel 2015 l’ex Primo Ministro britannico Tony Blair incontrò in diverse occasioni Meshaal – la prima volta in cui Hamas fu il principale rappresentante palestinese in sede di colloqui.

Pare che Blair abbia offerto a Hamas una completa eliminazione del blocco di Gaza, aiuti per la ricostruzione dopo la guerra del 2014 e la possibilità di un porto marittimo e di un aeroporto. In cambio Hamas avrebbe dovuto accettare un cessate il fuoco illimitato con Israele. Alla fine tuttavia Blair non riuscì ad ottenere l’appoggio israeliano ed egiziano al suo piano.

Alla fine del 2018 sono emerse informazioni secondo cui, come parte dell’“accordo del secolo”, Washington ed Israele stavano facendo pressioni sull’Egitto perché trasformasse parti della regione del Sinai settentrionale in una zona industriale e di infrastrutture per dare lavoro ai palestinesi e aiutare Gaza.

L’amministrazione Trump ha negato il piano, ma non sarebbe la prima volta che è stata suggerita questa idea.

Negli anni ’50 l’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, propose che la sovrappopolazione di Gaza potesse essere alleggerita espandendo il territorio verso sud lungo la costa tra le città egiziane di al-Arish e Port Said – un piano che all’epoca fu categoricamente respinto dai rifugiati palestinesi.

Il giornalista e ricercatore palestinese Adnan Abu Amer ha detto a Middle East Eye che vent’anni dopo, facendo seguito alla guerra arabo-israeliana del 1973, Israele tentò di convincere il Presidente egiziano Anwar al-Sadat ad annettere totalmente Gaza all’Egitto.

Per quanto storico, l’ approccio a Gaza come questione a parte durante colloqui non è piaciuto a tutti. Per Saeb Erekat, il segretario generale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), gli sforzi per negoziare una tregua tra Hamas e Israele proprio mentre Israele applica misure punitive contro l’ANP stavano deliberatamente “accentuando la separazione (tra palestinesi) con tutti i mezzi possibili” nel tentativo di “distruggere il progetto nazionale palestinese consistente nella creazione dello Stato palestinese indipendente e sovrano.”

I piani finanziari falliscono

Intanto l’urgente bisogno di Gaza di soccorso economico ed umanitario è stato a lungo al centro di conferenze e colloqui di pace – ma raramente messo in pratica.

Secondo Abu Amer, nel 1991 durante la conferenza di pace di Madrid furono avanzati piani per lo sviluppo economico di Gaza . Gli Accordi di Oslo del 1993 auspicarono una cooperazione su petrolio e gas tra israeliani e palestinesi per sostenere l’industria di Gaza. Abu Amer ha detto a MEE che i progetti per un’azienda petrolifera a Gaza furono visti come un elemento centrale nella costruzione del futuro economico di un previsto Stato palestinese.

Nel corso degli Accordi di Oslo furono proposti progetti per una fabbrica, un porto marittimo ed un aeroporto a Gaza: di essi, solo l’aeroporto divenne realtà. Inaugurato dall’allora Presidente USA Bill Clinton nel 1998, l’aeroporto internazionale Yasser Arafat ebbe vita breve: nel 2000 venne distrutto dalle forze israeliane durante la seconda Intifada.

Progetti per un porto marittimo sono stati regolarmente suggeriti, anche da politici israeliani. Ma finché permane l’assedio israeliano, compreso il divieto di importazione a Gaza di prodotti “a doppio uso”, come i materiali da costruzione, le iniziative economiche possono essere solo teoriche.

Mentre Israele è stato il principale responsabile nel mantenere Gaza in condizioni di crisi umanitaria, persino personaggi israeliani hanno visto il pericolo creato da un territorio palestinese sempre più impoverito e non in grado di sopravvivere.

È stato rivelato che a settembre ufficiali della sicurezza israeliana hanno fatto pressione sul loro governo perché trovasse una fonte alternativa di aiuti per Gaza. Si temeva che la decisione di Trump di interrompere i finanziamenti all’UNRWA potesse peggiorare la situazione umanitaria dell’enclave, che poteva degenerare in una vera e propria guerra.

Intanto in Israele i politici di estrema destra, che negli ultimi anni hanno accresciuto la propria influenza nel panorama israeliano, hanno auspicato un “duro e sproporzionato” intervento militare contro Hamas.

In condizioni giudicate invivibili dalle organizzazioni internazionali e con uno stallo nei colloqui tra ANP e Israele, il futuro di Gaza e dei suoi due milioni di abitanti appare fosco.

Motasem Dalloul ha inviato corrispondenze dalla Striscia di Gaza.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Due narrazioni sulla Palestina

Le due narrazioni sulla Palestina: il popolo è unito, le fazioni no

 

Ramzy Baroud

8 maggio 2019 – Palestine Chronicle

 

Le due narrazioni sulla Palestina: il popolo è unito, le fazioni no

Ramzy Baroud

8 maggio 2019 – Palestine Chronicle

 

La conferenza internazionale sulla Palestina, tenutasi a Istanbul tra il 27 e il 29 aprile, ha riunito molti relatori e centinaia di accademici, giornalisti, attivisti e studenti, provenienti dalla Turchia e da tutto il mondo.

La conferenza è stata una rara occasione per sviluppare una discussione di solidarietà internazionale sia inclusivo che lungimirante.

Vi è stato un consenso quasi totale sul fatto che il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (contro Israele) (BDS) debba essere appoggiato, che il cosiddetto ‘accordo del secolo’ di Donald Trump debba essere respinto e che la normalizzazione debba essere evitata.

Tuttavia quando si è trattato di articolare gli obbiettivi della lotta palestinese, la narrazione si è fatta indecisa e poco chiara. Benché nessuno dei relatori abbia difeso una soluzione con due Stati, il nostro appello per uno Stato unico democratico fatto da Istanbul – o da ogni altro luogo fuori dalla Palestina – è apparso quasi irrilevante. Perché la soluzione di uno Stato unico diventi l’obiettivo principale del movimento mondiale a favore della Palestina, l’appello deve provenire da una leadership palestinese che rifletta le genuine aspirazioni del popolo palestinese.

Un relatore dopo l’altro ha invocato l’unità dei palestinesi, pregandoli di fare da guida e di articolare un discorso nazionale. Molti altri nel pubblico si sono detti d’accordo con quella posizione. Qualcuno ha addirittura lanciato la retorica domanda: “Dov’è il Mandela palestinese?” Fortunatamente il nipote di Nelson Mandela, Zwelivelile “Mandla” Mandela, era tra i relatori. Ha risposto con enfasi che Mandela era solo il volto del movimento, che comprendeva milioni di uomini e donne comuni, le cui lotte e sacrifici hanno infine sconfitto l’apartheid.

Dopo il mio intervento alla conferenza, nell’ambito della mia ricerca per il mio prossimo libro su questo argomento, ho incontrato alcuni prigionieri palestinesi scarcerati.

Alcuni degli ex prigionieri si definivano di Hamas, altri di Fatah. Il loro racconto è apparso per la maggior parte libero dal deprecabile linguaggio fazioso da cui siamo bombardati sui media, ma anche lontano dalle narrazioni aride e distaccate dei politici e degli accademici.

“Quando Israele ha posto Gaza sotto assedio e ci ha negato le visite dei familiari, anche i nostri fratelli di Fatah ci sono venuti in aiuto”, mi ha detto un ex prigioniero di Hamas. E ogni volta che le autorità carcerarie israeliane maltrattavano chiunque dei nostri fratelli, di qualunque fazione, compresa Fatah, tutti noi abbiamo resistito insieme.”

Un ex prigioniero di Fatah mi ha detto che, quando Hamas e Fatah si sono scontrate a Gaza nell’estate del 2007, i prigionieri hanno sofferto moltissimo.

 “Soffrivamo perché sentivamo che il popolo che dovrebbe combattere per la nostra libertà si stava combattendo al proprio interno. Ci siamo sentiti traditi da tutti.”

Per incentivare la divisione le autorità israeliane hanno collocato i prigionieri di Hamas e di Fatah in reparti e carceri diversi. Intendevano impedire ogni comunicazione tra i leader dei prigionieri e bloccare qualunque tentativo di trovare un terreno comune per l’unità nazionale.

La decisione israeliana non era casuale. Un anno prima, nel maggio 2006, i leader dei prigionieri si erano incontrati in una cella per discutere del conflitto tra Hamas, che aveva vinto le elezioni legislative nei Territori Occupati, e il principale partito dell’ANP, Fatah.

Tra questi leader vi erano Marwan Barghouti di Fatah, Abdel Khaleq al-Natshe di Hamas e rappresentanti di altri importanti gruppi palestinesi. Il risultato è stato il Documento di Riconciliazione Nazionale, probabilmente la più importante iniziativa palestinese da decenni.

Quello che è diventato noto come Documento dei Prigionieri era significativo perché non era un qualche compromesso politico autoreferenziale raggiunto in un lussuoso hotel di una capitale araba, ma una effettiva esposizione delle priorità nazionali palestinesi, presentata dal settore più rispettato e stimato della società palestinese.

Israele ha immediatamente denunciato il documento.

Invece di impegnare tutte le fazioni in un dialogo nazionale sul documento, il presidente dell’ANP, Mahmoud Abbas, ha dato un ultimatum alle fazioni rivali: accettare o respingere in toto il documento. Abbas e le fazioni contrapposte hanno tradito lo spirito unitario dell’iniziativa dei prigionieri. Alla fine, l’anno seguente Fatah e Hamas hanno combattuto la loro tragica guerra a Gaza.

Parlando con i prigionieri dopo aver ascoltato il discorso di accademici, politici ed attivisti, sono stato in grado di decifrare una mancanza di connessione tra la narrazione palestinese sul campo e la nostra percezione di tale narrazione dall’esterno.

I prigionieri mostrano unità nella loro narrazione, un chiaro senso progettuale, e la determinazione a proseguire nella resistenza. Se è vero che tutti si identificano in un gruppo politico o nell’altro, devo ancora intervistare anche un solo prigioniero che anteponga gli interessi della sua fazione all’interesse nazionale. Questo non dovrebbe sorprendere. Di certo, questi uomini e queste donne sono stati incarcerati, torturati ed hanno trascorso molti anni in prigione per il fatto di essere resistenti palestinesi, a prescindere dalle loro tendenze ideologiche e di fazione.

Il mito dei palestinesi disuniti e incapaci è soprattutto un’invenzione israeliana, che precede l’avvento di Hamas, e persino di Fatah. Questa nozione sionista, che è stata fatta propria dall’attuale primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, sostiene che ‘Israele non ha partner per la pace’. Nonostante le concessioni senza fine da parte dell’Autorità Palestinese a Ramallah, questa accusa è rimasta un elemento fisso nelle politiche israeliane fino ad oggi.

A parte l’unità politica, il popolo palestinese percepisce l’‘unità’ in un contesto politico totalmente diverso da quello di Israele e, francamente, di molti di noi fuori dalla Palestina.

‘Al-Wihda al-Wataniya’, ovvero unità nazionale, è un’aspirazione generazionale che ruota intorno a una serie di principi, compresi la resistenza come strategia per la liberazione della Palestina, il diritto al ritorno dei rifugiati e l’autodeterminazione per il popolo palestinese come obiettivi finali. È intorno a questa idea di unità che i leader dei prigionieri palestinesi hanno steso il loro documento nel 2006, nella speranza di scongiurare uno scontro tra fazioni e di mantenere al centro della lotta la resistenza contro l’occupazione israeliana.

La Grande Marcia del Ritorno, che è tuttora in atto a Gaza, è un altro esempio quotidiano del tipo di unità che il popolo palestinese persegue. Nonostante gravi perdite, migliaia di manifestanti persistono nella loro unità per chiedere la libertà, il diritto al ritorno e la fine dell’assedio israeliano.

Da parte nostra, sostenere che i palestinesi non sono uniti perché Fatah e Hamas non riescono a trovare un terreno comune è del tutto ingiustificato. L’unità nazionale e l’unità politica tra le fazioni sono due questioni differenti.

È fondamentale che non facciamo l’errore di confondere il popolo palestinese con le fazioni, l’unità nazionale intorno alla resistenza e ai diritti con i compromessi politici tra gruppi politici.

Per quanto riguarda la visione e la strategia, forse è tempo di leggere il ‘Documento di Riconciliazione Nazionale’ dei prigionieri. Lo hanno scritto i Nelson Mandela della Palestina, migliaia dei quali sono tuttora nelle carceri israeliane.

Ramzy Baroud è giornalista, autore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story [L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press, Londra, 2018). Ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è studioso non residente presso il Centro Orfalea per gli studi globali e internazionali, Università di California, Santa Barbara.

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 

 




Razzi sparati da Gaza il giorno dopo che Israele ha ucciso quattro palestinesi

4 maggio 2019 ore 16  Al Jazeera

Incursione israeliana uccide un palestinese a Gaza nel contesto di una crisi il giorno dopo che Israele ha ucciso quattro persone in due incidenti separati.

Secondo il ministero della Salute di Gaza un palestinese è rimasto ucciso durante un raid aereo israeliano nel nord della Striscia di Gaza, nel contesto di una nuova escalation tra l’esercito israeliano e i combattenti di Gaza.

Imad Nseir, di 22 anni, è stato ucciso a Beit Hanoun dopo che sabato mattina aerei da guerra israeliani hanno preso di mira varie zone nell’enclave assediata dopo che decine di razzi sono stati sparati da Gaza verso il sud di Israele.

L’ultima crisi è arrivata dopo che venerdì le forze israeliane hanno ucciso quattro palestinesi in due diversi incidenti.

Harry Fawcett, inviato di Al Jazeera da Gerusalemme, ha detto che la raffica di razzi sparati da Gaza è avvenuta dopo l’attacco nel nord della Striscia di un drone israeliano, che sabato mattina ha ferito tre persone.

Stiamo assistendo a un’altra escalation militare, la prima da quella del mese scorso in cui abbiamo visto un altro scambio di incursioni aeree e lancio di razzi da Gaza, che sembrava essere terminato con qualche speranza riguardo a una sorta di soluzione a lungo termine,” ha detto.

C’è stato un buon accordo riguardo a colloqui tra Israele e Hamas mediati dall’Egitto con un ulteriore alleggerimento della situazione da parte di Israele che probabilmente sarebbe avvenuto,” ha continuato.

Hamas dice che finora tutto quello che hanno visto è la riduzione dei controlli marittimi, che consente di pescare fino al limite di 15 miglia nautiche rispetto a 6, che ora è stato di nuovo ridotto.”

Razzi lanciati

L’esercito israeliano ha affermato che il sistema missilistico Iron Dome ha intercettato decine di razzi, aggiungendo che circa 90 razzi sono stati lanciati dalla Striscia. Ha anche detto che non ci sono notizie di vittime dal lato israeliano.

Secondo agenzie di notizie palestinesi, in seguito al lancio di razzi aerei da guerra israeliani hanno preso di mira una zona agricola a Beit Hanoun, una città del nord della Striscia, con molti raid.

Anche forze israeliane presso la barriera con Gaza hanno bombardato una serie di postazioni di osservazione a Khan Younis, nella parte meridionale della Striscia di Gaza.

Fonti mediche ufficiali di Gaza hanno anche detto che quattro palestinesi sono rimasti feriti in uno degli attacchi israeliani.

Le sirene hanno suonato nelle città israeliane di Ashdod e Ashkelon ed è stata chiusa anche la vicina spiaggia di Zikim, situata a due chilometri a nord della Striscia di Gaza.

Non c’è stata nessuna rivendicazione immediata per il razzo lanciato da Gaza.

Secondo il “Centro Palestinese di Informazione” il portavoce di Hamas, Abdullatif Al-Qanou’, ha affermato: “La resistenza rimarrà pronta a rispondere ai crimini dell’occupazione e non le consentirà di versare il sangue del nostro popolo.”

Anche il movimento della Jihad Islamica ha rilasciato un comunicato simile, dicendo che “la resistenza sta facendo il proprio dovere di proteggere e difendere il nostro popolo,” aggiungendo che “risponderà con tutte le sue capacità militari all’aggressione (israeliana).”

Nel contempo nella Cisgiordania occupata il movimento Fatah ha condannato l’escalation nella Striscia di Gaza ed ha chiesto che la comunità internazionale “contrasti l’aggressione.”

Venerdì quattro palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane in due diversi incidenti: due di loro sono stati colpiti a morte durante le settimanali proteste della Grande Marcia del Ritorno nei pressi della barriera israeliana a est di Gaza, mentre un attacco aereo ha preso di mira un avamposto di Hamas, uccidendo due membri del braccio armato del movimento.

L’esercito israeliano ha detto di aver colpito la base di Hamas dopo che due dei suoi soldati sono stati feriti da Gaza presso la barriera israeliana da colpi di arma da fuoco.

Un cessate il fuoco tra Israele e Hamas mediato dall’Egitto e dalle Nazioni Unite aveva portato a una relativa calma nel periodo delle elezioni politiche israeliane del 9 aprile.

Ma martedì, dopo che dal territorio è stato sparato un razzo, Israele ha ridotto il limite di pesca che impone alle imbarcazioni che operano al largo di Gaza.

L’esercito israeliano ha incolpato la Jihad Islamica del razzo, caduto nel Mediterraneo.

Giovedì Israele ha affermato che la sua aviazione ha colpito un complesso militare di Hamas, dopo che palloni aerostatici con bombe incendiarie ed esplosivi sono stati lanciati attraverso il confine.

Dopo l’attacco aereo l’esercito israeliano ha detto che due razzi sono stati lanciati da Gaza verso Israele, facendo suonare le sirene in alcune zone del sud.

Con il cessate il fuoco a rischio, giovedì una delegazione di Hamas guidata dal capo di Gaza Yahya Sinwar ha lasciato l’enclave per recarsi al Cairo per colloqui con funzionari egiziani per negoziare una tregua.

Il cessate il fuoco ha visto Israele consentire al Qatar di fornire milioni di dollari in aiuti per Gaza al fine di pagare i salari e finanziare la fornitura di combustibile e ridurre la grave carenza di elettricità.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu è attualmente impegnato in negoziati per formare un nuovo governo in seguito alle elezioni dello scorso mese, mentre dal 14 al 18 maggio Israele ospiterà a Tel Aviv la competizione canora “Eurovision”.

Da più di un anno palestinesi hanno partecipato a periodiche manifestazioni e scontri lungo il confine di Gaza, chiedendo ad Israele di alleggerire il suo asfissiante blocco dell’enclave.

Dall’inizio delle proteste nel marzo 2018 almeno 270 palestinesi, in maggioranza lungo il confine, sono stati uccisi da fuoco israeliano.

Nello stesso periodo sono stati uccisi due soldati israeliani.

Israele accusa Hamas di utilizzare le proteste come copertura per condurre attacchi e afferma che le sue azioni sono necessarie per difendere il confine e bloccare le infiltrazioni.

I risultati di un’inchiesta ONU diffusi alla fine di febbraio hanno stabilito che Israele potrebbe aver commesso crimini contro l’umanità in risposta alle proteste sul confine, in quanto i cecchini hanno “intenzionalmente” sparato a civili, compresi minorenni, a giornalisti e a un disabile.

Israele ha respinto “totalmente” il rapporto, mentre Hamas ha chiesto che Israele venga chiamato a rispondere delle sue azioni.

(traduzione di Amedeo Rossi)