La guerra all’innocenza: bambini palestinesi nei tribunali militari israeliani

Ramzy Baroud |

7-agosto 2019 – Foreing Policy Journal

Non si deve permettere ai tribunali militari israeliani di continuare a brutalizzare impunemente i bambini palestinesi.

E’ stato riportato che il 29 luglio, nella Gerusalemme occupata, Muhammad Rabi Elayyan, di 4 anni, è stato convocato dalla polizia israeliana per essere interrogato.

La notizia, originariamente riportata dalla Palestinian News Agency (WAFA), è stata successivamente smentita dalla polizia israeliana, probabilmente per ridurre il successivo impatto mediatico disastroso.

Gli israeliani non negano la vicenda nel suo complesso, ma sostengono piuttosto che non sia stato convocato il bambino, Muhammad, ma suo padre, Rabi ‘, che sarebbe stato convocato presso la stazione di polizia israeliana in Salah Eddin Street a Gerusalemme, per essere interrogato riguardo alle azioni di suo figlio.

Il bambino è stato accusato di aver lanciato una pietra contro i soldati israeliani di occupazione nel quartiere di Issawiyeh, un obiettivo abituale delle violenze israeliane. Il quartiere è stato anche il luogo tragico della demolizione di case con il pretesto che i palestinesi avessero costruito senza i permessi. Naturalmente, a Issawiyeh, o ovunque a Gerusalemme, la stragrande maggioranza delle richieste di costruire dei palestinesi viene respinta, mentre i coloni ebrei possono costruire senza ostacoli sulle terre palestinesi.

A tale proposito, Issawiyeh non è nuovo a comportamenti assurdi e illegali da parte dell’esercito israeliano. Il 6 luglio, una madre residente nel quartiere assediato è stata arrestata per fare pressione sul figlio adolescente, Mahmoud Ebeid, affinché a sua volta si consegnasse. La madre “è stata arrestata dalla polizia israeliana come pedina di scambio”, ha riferito Mondoweiss, citando il Wadi Hileh Information Center di Gerusalemme.

Le autorità israeliane hanno ragione di sentirsi in imbarazzo per l’intero episodio riguardante il bambino di 4 anni, da cui il tentativo di insinuare dubbi sulla vicenda. Il fatto è che il corrispondente di WAFA a Gerusalemme aveva, in effetti, verificato che il mandato era a nome di Muhammad, non di Rabi.

Mentre alcune fonti di notizie hanno sposato l’ “hasbara” [propaganda in ebraico, ndtr] israeliana, trasmettendo prontamente le proteste da parte israeliana su “false notizie”, bisogna tenere presente che questo evento non è certo un incidente isolato. Nei confronti dei palestinesi, notizie riguardanti detenzioni, percosse e uccisioni di bambini sono tra le caratteristiche più ricorrenti dell’occupazione israeliana dal 1967.

Proprio il giorno dopo la convocazione di Muhammad, le autorità israeliane hanno interrogato anche il padre di un bambino di 6 anni, Qais Firas Obaid, dello stesso quartiere di Issawiyeh, dopo aver accusato il bambino di aver gettato il contenitore di carta di un succo contro i soldati israeliani.

L’International Middle East Media Center (IMEMC) ha rivelato che “secondo fonti locali a Issawiyeh, l’esercito (israeliano) ha inviato un mandato di comparizione alla famiglia di Qais perché si recasse per essere interrogato presso l’ufficio di polizia di Gerusalemme mercoledì (31 luglio) alle 8 di mattina”. In una foto, il bambino è raffigurato mentre gli viene sottoposto davanti ad una telecamera un ordine militare israeliano scritto in ebraico.

Le storie di Muhammad e Qais sono la norma, non l’eccezione. Secondo il gruppo di difesa dei prigionieri, Addameer, attualmente nelle carceri israeliane ci sono 250 minori, e circa 700 minori palestinesi che hanno a che fare ogni anno con il sistema giudiziario militare israeliano. “L’accusa più comune rivolta contro i minori, riferisce Addameer, è il lancio di pietre, un reato punibile in base alla legge militare [con la reclusione] fino a 20 anni”.

In effetti, Israele ha molto di cui essere imbarazzato. Dall’inizio della Seconda Intifada, la rivolta popolare del 2000, circa 12.000 minori palestinesi sono stati arrestati e interrogati dall’esercito israeliano.

Ma non sono solo i minori e le loro famiglie a essere presi di mira dai militari israeliani, ma anche coloro che prendono le loro difese. Il 30 luglio, un avvocato palestinese, Tariq Barghouth, è stato condannato a 13 anni di carcere da un tribunale militare israeliano per “aver sparato in diverse occasioni contro gli autobus israeliani e le forze di sicurezza “.

Per quanto fragile possa sembrare l’accusa riguardante un noto avvocato che spara agli “autobus”, è importante notare che Barghouth è molto stimato per le sue difese in tribunale di molti minori palestinesi. Barghouth era una fonte costante di grattacapi per il sistema giudiziario militare israeliano a causa della sua strenua difesa di un ragazzino, Ahmad Manasra.

Manasra, all’età di 13 anni, è stato processato e incriminato da un tribunale militare israeliano perché avrebbe pugnalato e ferito due israeliani vicino all’insediamento ebraico illegale di Pisgat Ze’ev nella Gerusalemme occupata. Il cugino di Manasra, Hassan, di 15 anni, è stato ucciso sul posto, mentre Ahmad, ferito, è stato processato in tribunale come un adulto.

Fu l’avvocato Barghouth a contestare e denunciare il tribunale israeliano per il duro interrogatorio e per aver filmato in segreto il bambino ferito mentre era legato al suo letto d’ospedale.

Il 2 agosto 2016, Israele ha approvato una legge che consente alle autorità di “imprigionare un minore condannato per crimini gravi come omicidio, tentato omicidio o omicidio colposo anche se ha meno di 14 anni”. La legge è stata predisposta all’uopo per trattare casi come quello di Ahmad Manasra, il quale il 7 novembre 2016 (tre mesi dopo l’approvazione della legge) è stato condannato a 12 anni di carcere.

Il caso di Manasra, i video trapelati dei maltrattamenti che ha subito da parte degli interrogatori israeliani e la sua dura condanna hanno determinato una maggiore attenzione internazionale sulla difficile situazione dei minori palestinesi all’interno del sistema giudiziario militare israeliano.

“Si ravvisa come gli interrogatori israeliani facciano uso di abusi verbali, intimidazioni e minacce a quanto pare per infliggere sofferenza mentale allo scopo di ottenere una confessione”, ha detto all’epoca Brad Parker, avvocato e responsabile ufficiale per la sensibilizzazione a livello internazionale di Defence for Children — Palestine.

La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo, di cui Israele, a partire dal 1991, è firmataria, “proibisce la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti”. Tuttavia, secondo Parker, “maltrattamenti e torture di minori palestinesi arrestati dai militari e dalla polizia israeliani sono diffusi e sistematici “.

Così sistematici, in effetti, che video e notizie sull’arresto di minori palestinesi molto giovani sono quasi una costante sulle piattaforme di social media che si occupano di Palestina e diritti dei Palestinesi.

La triste realtà è che Muhammad Elayyan, 4 anni, e Qais Obaid, 6 anni, e molti bambini come loro, sono diventati un bersaglio di soldati israeliani e coloni ebrei in tutti i territori palestinesi occupati.

Questa orrenda realtà non deve essere tollerata dalla comunità internazionale. I crimini israeliani contro i minori palestinesi devono essere efficacemente affrontati perché Israele, le sue leggi disumane e gli iniqui tribunali militari non devono poter continuare la loro incontrastata brutalità nei confronti dei minori palestinesi.

(Traduzione di Aldo Lotta)




C’è un complotto per spopolare i campi di rifugiati palestinesi in Libano?

Ramzy Baroud

19 dicembre 2018, Foreing Policy Journal

Ai rifugiati palestinesi in Libano vengono negati i diritti umani fondamentali e molti avrebbero perso le speranze di tornare nella terra d’origine come via di scampo

Ogni tanto su Facebook spunta fuori un inquietante video composto dall’audio di una preghiera registrata e dalla foto di un tal ‘Hajj Jamal Ghalaini’. La voce è quella di un presunto sceicco religioso, che prega per il benessere dell’uomo nella foto perché salvi la gioventù palestinese nei campi di rifugiati in Libano, agevolando la loro partenza per l’Europa.

Il video sarebbe solo l’ennesimo strano post sui social media, se non fosse per il fatto che Ghalaini è una persona reale, il cui nome ricorre nella continua tragedia dei rifugiati palestinesi in Libano. Molti hanno attribuito il successo della propria “fuga” dal Libano citando questa persona che, gentilmente, dicono, ha reso il loro viaggio verso l’Europa molto più economico di qualunque altro trafficante di esseri umani.

Sappiamo poco di Ghalaini, salvo che sembra operare impunemente, senza gravi conseguenze legali da parte delle autorità libanesi o dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), che si suppone abbia la responsabilità dei rifugiati palestinesi in Libano.

Sta succedendo qualcosa di strano.

Subito dopo che l’amministrazione USA di Donald Trump ha iniziato a promuovere il proprio “accordo del secolo”, i rifugiati palestinesi – un problema fondamentale della lotta nazionale palestinese che è stato messo da parte anni fa – sono tornati al centro dell’attenzione.

Benché il progetto di Trump debba essere ancora pienamente reso noto, le prime indicazioni suggeriscono che esso porti a escludere totalmente Gerusalemme da qualunque futuro accordo tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese. Lo spostamento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme e la stessa affermazione di Trump che “Gerusalemme è fuori dalle trattative”, sono sufficienti a confermare questa supposizione.

Un’altra componente dell’”accordo” di Trump è risolvere la questione dei rifugiati senza il loro rimpatrio e senza rispettare le leggi internazionali, soprattutto la risoluzione 194 delle Nazioni Unite, che chiede il diritto al ritorno per i profughi palestinesi che nel 1948 furono cacciati dalle proprie case nella Palestina storica, e per i loro discendenti.

Molte notizie di stampa hanno menzionato un elaborato piano americano per declassare lo status dei rifugiati, per mettere in discussione i dati ONU che indicano il loro attuale numero e per bloccare i finanziamenti indispensabili all’UNRWA, l’organizzazione dell’ONU responsabile dei servizi ai rifugiati.

Il Libano è stato una piattaforma importantissima per la continua campagna che riguarda i rifugiati palestinesi, soprattutto perché la popolazione di profughi in quel Paese è significativa in termini di numeri e la loro difficile situazione ha urgente bisogno di aiuto.

Sembra esserci un programma operativo, che coinvolge molte parti in causa, per privare la popolazione palestinese del Libano dello status di rifugiati ed eludere così il loro “diritto al ritorno”. A qualcuno questa potrebbe sembrare una pia illusione, dato che il “diritto al ritorno” è “inalienabile”, quindi non negoziabile.

Eppure, ovviamente, senza rifugiati che chiedano collettivamente questo diritto, il problema da richiesta urgente e tangibile potrebbe trasformarsi in aspirazione sentimentale, impossibile da raggiungere. È per questo che lo spopolamento dei campi di rifugiati libanesi, che sta avvenendo a una velocità allarmante, dovrebbe preoccupare i palestinesi più di ogni altro problema del momento.

Ho parlato con Samaa Abu Sharar, attivista palestinese in Libano e direttrice della Majed Abu Sharar Media Foundation [Fondazione per i Media Majed Abu Sharar, centro di formazione per giornalisti rivolto ai rifugiati palestinesi in Libano, ndtr.]. Mi ha raccontato che negli ultimi anni la natura delle conversazioni tra i rifugiati è cambiata. In passato “praticamente tutti, dai giovani agli anziani, parlavano del loro desiderio di tornare un giorno in Palestina; ora la maggioranza, soprattutto tra i giovani, esprime solo un desiderio: andarsene in qualunque altro Paese li voglia accogliere.”

È risaputo che i rifugiati palestinesi in Libano sono emarginati e angariati, soprattutto se confrontati con altre popolazioni di rifugiati in Medio Oriente. Vengono loro negati i più fondamentali diritti umani di cui godono gruppi libanesi o stranieri, o persino diritti garantiti ai rifugiati in base alle convenzioni internazionali. Ciò include il diritto al lavoro, in quanto viene loro negato l’accesso a 72 diverse professioni.

Lasciati senza speranza, con una vita di abbandono e di totale miseria in 12 campi di rifugiati e in altri “campi di raccolta” in tutto il Libano, i rifugiati palestinesi hanno resistito per molti anni, guidati dalla speranza di tornare un giorno alla loro terra natale, la Palestina.

Ma i rifugiati e il loro “diritto al ritorno” non sono più una priorità per la dirigenza palestinese. Di fatto è stato così per quasi due decenni.

La situazione è peggiorata. Con la guerra in Siria, altre decine di migliaia di rifugiati hanno inondato i campi, che mancano dei servizi più essenziali. Questa miseria si è ulteriormente accentuata quando l’UNRWA, su pesanti pressioni USA, è stata obbligata a cancellare o ridurre molti dei suoi servizi essenziali.

Un censimento dalla tempistica sospetta, il primo di questo genere, dall’Amministrazione Centrale di Statistica libanese, condotto lo scorso dicembre insieme all’Ufficio Centrale di Statistica palestinese, ha stabilito che il numero di rifugiati palestinesi in Libano è di soli 175.000.

La tempistica della sua realizzazione è interessante perché la ricerca è stata condotta nel momento in cui l’amministrazione USA si dava da fare per ridurre il numero di rifugiati palestinesi, in previsione di un accordo tra l’ANP e Israele.

Secondo le statistiche dell’UNRWA ci sono più di 450.000 rifugiati palestinesi registrati dall’ONU.

Non c’è dubbio che ci sia un’ondata di rifugiati palestinesi che vogliono andarsene dal Libano. Alcuni ci sono riusciti solo per trovarsi alle prese con un altro miserabile status di rifugiato in Europa. Com’era prevedibile, alcuni sono tornati.

Chiaramente c’è chi non vede l’ora di liberare il Libano dalla sua popolazione palestinese, da cui il disinteresse nei confronti di Ghalaini e di analoghe reti di trafficanti di uomini.

C’è più di una rete organizzata che contribuisce all’emigrazione di palestinesi a prezzi che recentemente sono scesi per essere accessibili a un più vasto numero di persone,” mi ha detto Abu Sharar. La conclusione che molti di questi giovani uomini e donne ora traggono è che “non c’è nessun futuro per loro in Libano.”

Non è questo il felice, trionfante finale che generazioni di rifugiati palestinesi in Libano hanno sperato e per cui hanno lottato durante gli anni.

Ignorare la miseria dei rifugiati palestinesi del Libano comporta un costo pesante. Procrastinare la loro problematica situazione fino ai “negoziati per lo status finale”, una chimera che non si è mai realizzata, sta ora portando a una duplice crisi: il peggioramento delle sofferenze di centinaia di migliaia di persone e la sistematica distruzione di uno dei principali pilastri del “diritto al ritorno” dei rifugiati palestinesi.

SULL’AUTORE

Ramzy Baroud

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story [L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press, Londra). Baroud ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è ricercatore non residente presso il Centro Orfalea di Studi Globali e Internazionali, Università della California a Santa Barbara.

(traduzione di Amedeo Rossi)