Netanyahu è solo una diversa sfumatura della stessa supremazia ebraica

Hagai El-Ad

14 novembre 2022 Haaretz

Ahmad Zahi Bani-Shamsa è stato la prima vittima a Beita, villaggio in Cisgiordania, nello scontro con la colonia di Evyatar sotto lo sguardo del governo uscente. È stato ucciso prima di celebrare il suo sedicesimo compleanno, raggiunto alla testa da un colpo sparato alle spalle. 

È stato ammazzato mentre cercava di appendere su un olivo una bandiera palestinese. È morto il giorno dopo, il quinto del mandato del “governo del cambiamento.” Fino ad ora le manifestazioni a Beita contro Evyatar hanno causato sette morti.

Il processo di legalizzazione del furto delle terre a Beita a vantaggio di Evyatar è cominciato con il governo uscente e probabilmente continuerà e sarà ancora più rapido, nel nord della Cisgiordania e nel resto di quella zona, con il nuovo governo. 

Si può immaginare che entro pochi giorni un soldato israeliano aprirà il fuoco e ucciderà la prima vittima del trentasettesimo governo di Israele. Questa sarà seguita da altre morti. In un regime di supremazia ebraica certe cose non cambieranno mai fra il Mediterraneo e il fiume Giordano [cioè in Israele e nei territori palestinesi occupati, N.d.T.].

Tuttavia, un momento prima che il governo uscente sprofondi nell’oblio, esso merita un’ulteriore riflessione. Cos’è veramente accaduto nell’ultimo anno e mezzo e cosa ci dice per il futuro?

In un’intervista a Channel 12 con la conduttrice televisiva Yonit Levi e Jonathan Freedland di The Guardian, Shimrit Meir, consigliera politica dell’ex primo ministro Naftali Bennett, ha spiegato che la precondizione dell’esistenza del governo uscente era la sospensione del conflitto israelo-palestinese, dato che nel momento in cui quel tema è emerso, il destino del governo è stato segnato. 

La prima mossa nella formazione della coalizione è stata che non si poteva discutere l’“ideologia”, quindi nessuna annessione o creazione di uno Stato palestinese e nessun cambiamento del carattere “ebraico e democratico” dello Stato. 

Vale la pena soffermarsi sulle parole della Meir per la notevole franchezza con cui ha descritto, dal cuore stesso dell’ufficio del primo ministro, la realtà politica continuata per “quasi un anno di normalità,” il periodo in cui il governo uscente ha governato fino al crollo della coalizione.

Quello che infatti si è sostenuto è che la realtà a Beita, e in ogni zona che Israele controlla, non è una questione di “ideologia,” dato che il regime di supremazia ebraica non è un tema politico o ideologico.

È semplicemente il modo in cui vanno, andavano e andranno le cose. La situazione in cui i sudditi palestinesi sono ammazzati uno dopo l’altro, a Beita o altrove, equivale a un conflitto latente, dato che non si può avere un regime di dominazione senza un calcolato massacro di chi vi viene sottomesso. Un altro anno di totale controllo israeliano è semplicemente un’espressione di normalità.

Nella sua intervista Meir ha espresso il concetto politico prevalente in ampi strati dell’opinione pubblica ebraica in Israele. Un concetto che non vede la realtà della supremazia ebraica, dell’apartheid o dell’occupazione come qualcosa di inusuale, ma come una situazione normale che è impegnata a rafforzarsi, espropriando sempre più terre dei palestinesi per tentare di concentrarli in enclave affollate che sono più facili da controllare, poiché gestite da subappaltatori che sono finanziati da risorse internazionali.

Questa posizione, questa visione del mondo, non solo sono immorali nel più profondo senso del termine, ma sono anche lontane dalla realtà. Dopotutto quello che si chiama il “conflitto,” cioè una chiarissima relazione di potere in cui la metà israeliana-ebraica della popolazione fra il fiume e il mare controlla la terra, la demografia e il potere politico a spese della metà palestinese, non è stata “sospesa” neppure per un momento. 

È viva e vegeta tutto il tempo, nei momenti in cui proiettili veri uccidono un palestinese e nei momenti di eterna burocrazia, quando permessi e checkpoint, ingiunzioni e regolamenti dominano le vite dei palestinesi in nome del regime suprematista ebraico.

In questo contesto si dovrebbe parlare del possibile membro del governo Itamar Ben-Gvir e di Gadi Eisenkot [sostenitore della soluzione a due Stati, N.d.T.], ex capo di stato maggiore delle IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, N.d.T.] il protagonista e antagonista delle ultime elezioni. 

Eisenkot parla come uno statista di “governabilità,” mentre Ben-Gvir chiede rudemente “chi comanda qui?”. Ma il tono da statista è solo un codice trasparente che tutti capiscono, cioè che quando gli ebrei in Israele si lamentano di una perdita di “governabilità” nel Negev e in Galilea, nell’Area C e a Gerusalemme, vogliono dire che non si sentono “il boss” in quelle zone.

Il dibattito non riguarda veramente la fine della democrazia. Dopo tutto qui non ce n’è una, dato che tutti i palestinesi sono esclusi, parzialmente o completamente, dal processo politico. È un dibattito sul modo e la misura in cui si usa la forza contro i palestinesi. 

Eisenkot e i suoi sodali credono che il loro approccio più misurato all’aggressiva oppressione dei palestinesi garantisca sia il successo dell’oppressione che la stabilità: Ben-Gvir e quelli come lui pensano che questo processo possa essere velocizzato e numeri crescenti di votanti concordano con lui.

Ma la gran maggioranza delle persone che hanno delle riserve su quest’ultimo punto accetta la situazione esistente e i suoi processi, concorda che la supremazia ebraica sia la base dell’ordine politico, geografico e demografico fra il fiume Giordano e il Mediterraneo e trovi ospitalità per queste sue idee in tutti i partiti sionisti. 

Dopo tutto, quando un giovane palestinese ha appeso una bandiera su un olivo e la terra si è imbevuta del suo sangue, del trentaseiesimo governo facevano parte Yesh Atid, [partito liberale di centro fondato da Yair Lapid, N.d.T.], il partito laburista e il Meretz [partito della sinistra sionista, N.d.T.]

Questo non significa che “sono tutti uguali.” Il fatto che la realtà per i palestinesi fosse già intollerabile anche prima delle elezioni non significa che le cose non possano peggiorare e diventare rapidamente più orrende e sanguinose. 

Jewish Power (Otzma Yehudit) [Potere ebraico, il partito di estrema destra di Ben-Gvir, N.d.T.] è uno dei punti di uno spettro: dire questo non significa che la gamma delle posizioni lungo questo spettro sia un tema marginale non degno di riflessioni. Lo spettro delle posizioni ha un significato, ma è significativa anche l’affinità fra le diverse posizioni lungo questo spettro.

Si può urlare, e la gente lo fa, contro il successo di Ben-Gvir. Ma esattamente chi ne è il responsabile? Non solo nel senso stretto della congiuntura politica che l‘ha causata, ma in un senso più profondo. 

Ciò che ha causato il collasso del governo uscente non è lo scioglimento del conflitto da un immaginario gelo, e ciò che ha fatto crescere Ben-Gvir non è stato un evento specifico. La forza trainante è la realtà stessa. Questa realtà va cambiata. A partire dalle sue fondamenta.

L’autore è il direttore generale di B’Tselem [principale ong israeliana per i diritti umani, N.d.T.].

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




In Cisgiordania l’esercito israeliano sta eliminando le poche regole di ingaggio che aveva

Yagil Levy

17 ottobre 2022 – Haaretz

Alla fine di marzo, a seguito di una serie di attacchi terroristici, l’esercito israeliano ha lanciato l’operazione Breaking the Wave, nel corso della quale ha fatto irruzione nelle città palestinesi per arrestare e uccidere sospetti terroristi. Secondo i resoconti delle Nazioni Unite dall’inizio dell’operazione fino alla fine di settembre Israele ha ucciso 74 palestinesi in Cisgiordania.

Questo numero di vittime non ha nulla di normale: è opportuno fare un paragone con operazione Critical Time (“Godel Hasha’a”) quando, da ottobre 2015 a marzo 2016, l’esercito agì per sopprimere l’”Intifada dei lupi solitari” – attacchi di palestinesi non ufficialmente affiliati ad alcuna organizzazione – contro israeliani nell’estate del 2015.

Come la modalità attuale, la prima risposta dell’esercito fu offensiva: raid nelle aree in cui avevano avuto origine gli attacchi.

Ma il comandante della Brigata Regionale di Giudea e Samaria [la Cisgiordania secondo la definizione israeliana, ndt.], Brig. Gen. Lior Carmeli, dichiarò che si era trattato di un fallimento “così palpabile, che abbiamo deciso di fermare questa azione offensiva nel giro di pochi giorni”.

L’esercito si rese conto che i suoi metodi non erano adatti ad affrontare attacchi disorganizzati e, secondo Carmeli, si rese conto che “le vittime [palestinesi] degli scontri sono il principale carburante per la loro continua intensificazione. Evitare questo è una delle lezioni più significative delle precedenti rivolte”.

Perciò fu pianificata una politica di “regole di ingaggio” più restrittiva. Il maggiore generale Roni Numa, all’epoca capo del comando centrale dell’IDF, si vantò “dello sforzo di schierare la forza tattica, con la capacità delle truppe da combattimento di neutralizzare un assalitore senza uccidere… in modo da ridurre il numero dei funerali che si trasformano in manifestazioni pubbliche di simpatia…”

Questa politica fu sostenuta dal capo di stato maggiore Gadi Eisenkot, che predicò moderazione, anche se sostiene che la maggior parte dei ministri spingeva per una risposta dura, ma furono frenati dall’allora Primo Ministro Benjamin Netanyahu e dal Ministro della Difesa Moshe Yaalon. Alla fine, una terza Intifada fu scongiurata. Ciò non significa che i vertici militari fossero pacifisti, ma comprendevano i limiti dell’uso della forza.

Di questo approccio restrittivo nulla è rimasto. Sotto lo shock dell’affare Azaria [il soldato che uccise a sangue freddo un palestinese a terra ferito, ndt.], l’esercito stesso ha iniziato a compiacersi del numero delle vittime. Quando Aviv Kochavi ha sostituito Eisenkot come capo di stato maggiore dell’IDF, ha fatto eco a questa tendenza utilizzando il termine “letalità” e trasformando il conteggio delle vittime in un indicatore di esito positivo.

La maggiore influenza della destra sul governo in seguito alla rimozione di Netanyahu e le critiche al cosiddetto “abbandono” dei soldati, hanno portato a un allentamento delle regole di ingaggio verso la fine del 2021, quando è diventato lecito sparare sui palestinesi che lanciano sassi e ordigni incendiari anche dopo che hanno già lanciato i sassi o la molotov.

Sempre più prigioniero dei coloni, l’esercito israeliano ha ceduto alla loro crescente violenza nei confronti dei palestinesi. La saggezza della moderazione è svanita. Un’indicazione della facilità nell’uso delle armi da fuoco può essere ricavata dai rapporti di B’tselem, che si basano in parte sui resoconti ufficiali dell’ufficio del portavoce dell’IDF e che presentano le circostanze in cui è avvenuta ogni uccisione.

Basti una sola indicazione, relativa all’uccisione di persone che avevano lanciato pietre (esclusi i casi in cui l’esercito sostiene che il defunto aveva utilizzato anche altri mezzi di aggressione) – cioè i casi in cui i soldati avrebbero potuto reagire senza uccidere.

Su 142 vittime nell’operazione 2015-2016, 7 sono state colpite da colpi di arma da fuoco dopo aver lanciato pietre, ovvero circa il 5%. In “Breaking the Wave” sono 9 dei 47 casi segnalati da B’tselem fino alla fine di luglio, ovvero circa il 20%. In tali circostanze aumentano le probabilità che gli scontri si espandano in un’operazione ampia e sanguinosa, e forse che l’Autorità Nazionale Palestinese collassi.

La condotta dei militari rafforza la conclusione che forse la differenza tra i due casi non è solo chi comanda, ma anche gli obiettivi: si cerca l’annessione a pezzi della Cisgiordania, a cominciare dall’Area C, mentre si rifiuta l’opzione di riannodare i colloqui [con l’ANP, ndt.]. Questa è l’interpretazione più probabile per la combinazione tra violenza proattiva, di cui la leadership israeliana dovrebbe conoscere il probabile esito, e paralisi diplomatica.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Israele vanifica la distinzione tra civili e militari

Muhammad Ali Khalidi – 24 maggio 2021

Institute for Palestine Studies

Basta un’occhiata alle cifre delle vittime civili durante l’offensiva israeliana su Gaza per rendersi conto del numero terribilmente sproporzionato di civili palestinesi uccisi o feriti rispetto al numero dei militanti. Secondo i dati preliminari, a Gaza gli attacchi aerei e di artiglieria israeliani hanno ucciso 248 persone di cui almeno 66 bambini (il 27% di tutti i decessi), facendo 1.900 feriti. Il 16 maggio in un unico attacco Israele ha distrutto quattro case uccidendo 42 civili, seppellendo gli abitanti sotto le macerie.

L’elevata percentuale di vittime civili è una caratteristica degli attacchi militari israeliani sia sul fronte palestinese che su quello libanese. Nel 2014 l’assalto israeliano a Gaza ha provocato un totale di 2.189 morti, di cui 1.486 civili (68%) e circa 360 bambini sotto i 12 anni (16% del totale). Negli attentati del 2008-2009 sono stati uccisi ben 1.419 palestinesi, di cui 1.167 civili (82%) e 318 bambini (il 22% di tutte le vittime). Nella guerra del 2006 in Libano sono stati uccisi dall’esercito israeliano circa 1.200 civili libanesi (circa il 96% del totale).

I principali media hanno dato le vittime civili palestinesi come semplici incidenti e deplorevoli danni collaterali di una campagna israeliana diretta precisamente contro i militanti di Hamas. Ma è una forzatura credere che Israele, con una delle macchine militari tecnologicamente più avanzate che il mondo abbia mai visto possa essere così incapace ad evitare di causare danni ai civili. Data la pubblicità negativa associata all’infliggere morte e ferite a una popolazione civile disarmata, cosa c’è dietro il numero elevato e enormemente sproporzionato di vittime civili palestinesi?

Una risposta parziale si trova in uno stupefacente articolo pubblicato nel 2005 su una rivista accademica dall’ex capo dell’intelligence militare israeliana, Amos Yadlin, e da un professore israeliano, Asa Kasher. Il documento delineava l’ “etica militare” che dovrebbe guidare la guerra di Israele al “terrore”. Gli autori spiegavano il loro rifiuto del “principio di distinzione” del diritto internazionale, che richiede alle parti in conflitto di distinguere tra combattenti e non, e di adottare tutte le misure necessarie per evitare danni ai non combattenti.

Secondo Michael Walzer, una delle maggiori autorità in materia di etica militare (e talvolta difensore delle azioni militari israeliane), il principio di distinzione afferma che gli eserciti dovrebbero fare attenzione a evitare danni ai non combattenti dell’altra parte, anche a rischio dei propri militari. Come dice Walzer, “se salvare vite di civili significa rischiare la vita di soldati, il rischio dev’essere accettato.” (Walzer, Just and Unjust Wars, p. 156).

Ma Kasher e Yadlin ignorano tale principio. A loro avviso, la sicurezza dei loro soldati dovrebbe avere la meglio sulla sicurezza dei civili dall’altra parte. Scrivono: “Se lo Stato non ha controllo effettivo sulle adiacenze, non deve assumersi la responsabilità del fatto che le persone coinvolte nel terrorismo operino in prossimità di persone che non lo sono” (p. 18). Ma anche se si accetta che i civili “operino” nelle adiacenze dei combattenti, ciò non esonera i militari dall’adottare tutte le misure per evitare di danneggiarli. Questo tentativo di giustificazione è moralmente e legalmente inaccettabile.

Gli apologeti di Israele affermano regolarmente che le vittime civili sono giustificate dal presunto uso di scudi umani da parte di Hamas. Ma il Rapporto Goldstone delle Nazioni Unite non ha trovato prove dell’uso di scudi umani da parte di Hamas a Gaza nel 2009. Invece è stato ampiamente documentato l’uso di scudi umani palestinesi da parte di Israele in precedenti attacchi a Gaza, nel Rapporto Goldstone, da Amira Hass su Haaretz e da Clancy Chassay sul Guardian. In effetti, la Corte Suprema israeliana ha riscontrato come l’esercito israeliano abbia usato palestinesi come scudi umani in 1.200 occasioni nei cinque anni precedenti al 2014. Per citare solo un caso, durante l’invasione di Gaza del 2008-2009 due soldati israeliani hanno ordinato a un ragazzo di nove anni, puntandogli il fucile, di aprire una borsa che sospettavano fosse una trappola esplosiva.

Ci sono numerose prove di come questa deviazione dalle regole di guerra da parte dell’ex capo dell’intelligence militare israeliana e del suo coautore non sia solo un esercizio accademico o un proclama teorico. È stata indubitabilmente trasmessa agli alti ufficiali militari, ai comandanti di medio livello e alla base. Ora fa parte della dottrina militare israeliana, corroborata da numerose dichiarazioni e interviste.

Per quel che riguarda il personale militare superiore, il concetto di fondo è stato chiaramente articolato nel 2006 in riferimento al Libano dal generale israeliano Gadi Eisenkot, allora capo del Comando Settentrionale dell’esercito israeliano e in seguito Capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano. Ha affermato che i militari israeliani avrebbero esercitato una forza sproporzionata sulle aree civili considerando tali aree basi militari. Divenne nota come “Dottrina Dahiya” (dal sobborgo meridionale di Beirut) ed Eisenkot segnalò che si trattava di un piano “autorizzato”.

I rapporti di organizzazioni come il Comitato Pubblico contro la Tortura in Israele e Breaking the Silence [organizzazione di soldati veterani che espongono al pubblico israeliano la realtà dei Territori occupati, ndtr.] da dieci anni confermano che dai comandi militari vengono date istruzioni di privilegiare la vita dei soldati israeliani rispetto ai civili palestinesi. Riferiscono anche dell’ordine di non fare distinzione tra civili palestinesi e militanti e di non correre alcun rischio per evitare danni ai civili.

Tutto ciò porta inesorabilmente alla lampante conclusione che Israele semplicemente rifiuta il principio di distinzione sancito dal diritto internazionale e rifiuta di riconoscere la differenza legale e morale tra civili e militari. Lo fa sia in teoria che nella pratica, eppure questo fatto evidente sembra essere ignorato dalla copertura mediatica e dal discorso politico prevalente a proposito dell’ultima offensiva israeliana. Quasi a giustificare questa equazione tra i civili palestinesi e i militanti da parte dei media occidentali, la CNN ha recentemente ordinato al suo staff di riferirsi al Ministero della Salute a Gaza come “gestito da Hamas”. Questa direttiva conferma efficacemente il rifiuto israeliano di distinguere tra obiettivi civili e militari.

Muhammad Ali Khalidi è Professore Emerito di filosofia presso il Graduate Center della City University di New York e ha lavorato sugli aspetti filosofici della questione palestinese.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)