Di fronte a livelli catastrofici di acuta insicurezza alimentare a Gaza, Israele continua a impedire l’accesso ai rifornimenti necessari per salvare le vite

Euro Mediterranean Monitor

15 aprile 2024-Euro-Mediterranean Human Rights Monitor.

Territorio palestinese – Israele continua a ostacolare l’ingresso e la distribuzione di rifornimenti umanitari di base nella Striscia di Gaza, in particolare nella città di Gaza e nei governatorati di Gaza Nord, minacciando di esacerbare e approfondire la carestia diffusa in quei luoghi. Secondo le stime delle Nazioni Unite questi due governatorati ospitano  almeno 300.000 persone.

La restrizione da parte di Israele dell’accesso umanitario nella Striscia di Gaza, in particolare nelle parti settentrionali della Striscia, e il suo blocco alla consegna tempestiva di forniture alimentari salvavita stanno peggiorando drasticamente la già terribile insicurezza alimentare che la popolazione palestinese si trova ad affrontare. Ciò la espone al rischio di morte per fame, in particolare visto l’aumento del numero di bambini che muoiono per malnutrizione acuta, fame e malattie correlate: 28 bambini sono morti solo per fame e malnutrizione.

Le autorità israeliane continuano a impedire l’ingresso degli aiuti umanitari nella Striscia attraverso i valichi terrestri; ne consegue che gli aiuti non possono entrare in modo tempestivo, efficiente e sistematico. Israele sta inoltre imponendo ulteriori restrizioni alle operazioni di distribuzione e consegna anche dopo l’ingresso degli aiuti nell’enclave, in particolare ostacolandone su base quasi quotidiana l’arrivo e la distribuzione nelle aree settentrionali della Striscia. Ciò è particolarmente problematico alla luce dell’attacco in corso da parte dell’esercito israeliano al campo profughi di Nuseirat, iniziato due giorni fa e che si prevede peggiorerà la situazione, e del suo potenziale attacco a Rafah.

Israele continua a violare i suoi obblighi internazionali – compresi quelli di potenza occupante – nonché la sentenza del 28 marzo della Corte Internazionale di Giustizia che gli impone di adottare misure necessarie ed efficaci e di collaborare con le Nazioni Unite per garantire che gli aiuti umanitari raggiungano la Striscia senza ostacoli o ritardi al fine di adempiere ai propri obblighi ai sensi della Convenzione sul genocidio.

Inoltre Israele sta violando la risoluzione n. 2728 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, adottata il 25 marzo, la quale afferma che tutti gli ostacoli che impediscono agli aiuti umanitari di raggiungere i residenti della Striscia di Gaza devono essere rimossi; chiede inoltre di aumentare la quantità di aiuti che vi affluiscono e di migliorare la sicurezza dei residenti. Israele non ha fatto alcuno sforzo per modificare le sue politiche illegali o le misure arbitrarie per facilitare l’ingresso degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza e garantirne l’arrivo sicuro e tempestivo, in particolare nelle regioni settentrionali. Israele persiste nel suo crimine di affamare la popolazione civile della Striscia nonostante tutte queste risoluzioni internazionali giuridicamente vincolanti e gli obblighi ad esso imposti.

Israele ha permesso a 169 camion umanitari di entrare quotidianamente a Gaza attraverso il valico Kerem Abu Slem/Kerem Shalom e il valico terrestre di Rafah dall’inizio di aprile. Si tratta comunque di un numero di gran lunga inferiore ai 500 camion al giorno che entravano nella Striscia prima del 7 ottobre, nonché alla capacità operativa di entrambi i valichi di frontiera. Gli aiuti umanitari che arrivano a questo ritmo fanno presagire una vera catastrofe e un’ulteriore diffusione della fame, che ha già fatto sì che i residenti perdessero peso in modo pericoloso per la salute e rischiassero la vita aspettando i camion degli aiuti vicino ai checkpoint israeliani, che sono diventati “aree di morte”  e quindi le folle affamate di civili sono spesso prese di mira dall’esercito israeliano.

Nonostante non siano stati compiuti reali progressi, Israele sostiene da settimane che c’è stato un cambiamento nella quantità di aiuti che entrano nella Striscia, in conformità con i termini dell’accordo degli Stati Uniti e con i dati forniti da Israele al Coordinatore delle Nazioni Unite per i Territori Palestinesi Occupati. Tuttavia non è stata intrapresa alcuna azione reale. Il numero di camion autorizzati ad entrare nella Striscia, in particolare nella città di Gaza e nel nord di Gaza, rimane invariato. Inoltre, il checkpoint di Erez/Beit Hanoun nel nord di Gaza resta chiuso e, contrariamente a quanto riportato dai media israeliani, il porto di Ashdod non è stato utilizzato per trasportare aiuti umanitari nella Striscia.

Da quando Israele ha deciso ufficialmente di tagliare cibo e acqua ai residenti della Striscia di Gaza ci sono stati ministri del governo israeliano che hanno dichiarato apertamente che la fame e gli aiuti devono essere usati come strumento di pressione, ricatto e arma a sostegno dei continui attacchi militari ormai in corso da sette mesi consecutivi.

Le notizie di un aumento del numero di camion che entrano nella Striscia di Gaza sono di per sé insufficienti, soprattutto se si tengono presenti i disperati e crescenti bisogni degli abitanti della Striscia.

Israele deve porre fine al suo crimine di affamare il popolo della Striscia e garantire che gli aiuti umanitari possano arrivare regolarmente su base permanente e in una quantità tale da soddisfare i bisogni della popolazione palestinese, indipendentemente dalle convenienze e dalle condizioni israeliane. È inoltre necessario compiere ulteriori sforzi per garantire il lavoro degli operatori umanitari che distribuiscono questi aiuti, la sicurezza dei civili che li ricevono e per garantirne il flusso verso il nord di Gaza il più rapidamente possibile.

Jamie McGoldrick, il coordinatore umanitario delle Nazioni Unite che supervisiona gli aiuti alla crisi a Gaza, ha recentemente dichiarato che “La situazione per gli abitanti di Gaza rimane disastrosa nonostante le speranze derivanti dai recenti impegni di Israele di aumentare l’assistenza”.

Nel frattempo, Jens Laerke, portavoce dell’ufficio per gli Affari Umanitari delle Nazioni Unite (OCHA), ha recentemente affermato che “ai convogli alimentari coordinati dalle Nazioni Unite è tre volte più probabile che venga negato l’accesso al nord di Gaza rispetto ad altri convogli umanitari”.

Secondo un recente rapporto dell’OCHA l’accesso a Gaza è caratterizzato da “lunghi processi di ispezione, carenza di carburante derivante dalle restrizioni israeliane e restrizioni sulla circolazione di camion, convogli e controlli dei conducenti… e congestione al valico di Kerem Shalom” mentre l’ingresso di assistenza umanitaria e beni commerciali direttamente nel nord di Gaza, dove si prevede che il 70% della popolazione sarà a rischio di carestia tra metà marzo e metà luglio 2024, rimane estremamente limitato.

Il rapporto sottolinea che all’interno di Gaza solo il 26% delle missioni alimentari pianificate verso aree ad alto rischio che richiedono coordinamento con le autorità israeliane sono state agevolate; Il 51% ha ricevuto un rifiuto o un impedimento; e il 23% è stato rinviato o ritirato a causa di “problemi di sicurezza” o “vincoli operativi”.

Ci sono solo tre strade che Israele consente di utilizzare ai convogli di aiuti umanitari per raggiungere la Striscia di Gaza settentrionale: la strada militare sul lato orientale di Gaza, la strada costiera Rashid e la strada centrale Salah al-Din. Ciò che è molto meno ampiamente documentato è che in contemporanea anche le Nazioni Unite hanno due o tre strade di accesso e che queste strade sono “in pessime condizioni” e non forniscono alcuna garanzia di sicurezza.

L’UNICEF ha dichiarato il 10 aprile che uno dei suoi veicoli è stato colpito da “proiettili veri” mentre attendeva a un posto di blocco israeliano allestito su Salah al-Din Road per consegnare aiuti salvavita nel nord di Gaza, compreso cibo terapeutico per i bambini a rischio di malnutrizione e mortalità prevenibile.

Allo stesso modo Oxfam ha recentemente riferito che le persone nel nord di Gaza sono costrette a sopravvivere con una media di appena 245 calorie al giorno da gennaio. Si ritiene che oltre 300.000 persone siano ancora intrappolate lì, impossibilitate ad andarsene e sopravvivendo con meno del 12% del fabbisogno calorico giornaliero medio. Gaza è una trappola mortale per i bambini.

Trenta palestinesi, per lo più bambini, sono morti negli ospedali per malnutrizione e disidratazione; tuttavia le stime di Euro-Med Monitor suggeriscono che il numero delle vittime della fame è molto più elevato. Ciò è dovuto alla mancanza di meccanismi chiari per tenere traccia delle morti legate al problema e al collasso del sistema sanitario nella parte settentrionale della Striscia dove le vittime continuano a cadere, anche a seguito dei bombardamenti israeliani, e vengono sepolte dalle loro famiglie senza registrazione ufficiale.

Alla luce di quanto sopra Euro-Med Human Rights Monitor sollecita, tra le altre raccomandazioni, la comunità internazionale a rispettare i propri doveri legali e morali nei confronti delle persone che vivono nella Striscia di Gaza. La comunità internazionale deve garantire che la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia venga eseguita e porre fine al genocidio che la Corte ha dichiarato a gennaio probabilmente in corso nella Striscia di Gaza. Euro-Med Monitor invita tutti gli Stati a rispettare i propri obblighi internazionali interrompendo ogni sostegno militare, finanziario e politico alla guerra genocida di Israele contro il popolo palestinese della Striscia di Gaza e, in particolare, tutti i trasferimenti di armi a Israele.

È necessario esercitare immediatamente una pressione internazionale su Israele per impedirgli di compiere il crimine di affamare la popolazione della Striscia di Gaza; costringere Israele a revocare completamente l’assedio; stabilire i sistemi necessari per garantire la consegna sicura, efficiente e tempestiva dei rifornimenti umanitari e intraprendere azioni decisive contro la carestia che si diffonde rapidamente tra i civili palestinesi nella Striscia di Gaza.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Dr. Ghassan Abu-Sittah: “Domani sarà il giorno della Palestina”

Ghassan Abu Sitta

12 aprile 2024 – Mondoweiss

Per noi, tutti noi, parte della nostra resistenza alla cancellazione del genocidio è parlare del domani a Gaza, pianificare la guarigione delle ferite della Gaza di domani. Il domani sarà nostro. Domani sarà il giorno della Palestina.

Il 12 aprile il governo tedesco ha impedito al dottor Ghassan Abu-Sittah di entrare nel Paese per parlare ad una conferenza a Berlino come testimone del genocidio di Gaza. Il giorno prima, l’11 aprile, Abu-Sittah era stato insediato come rettore dell’Università di Glasgow alla Bute Hall dopo la sua vittoria schiacciante con l’80% dei voti. Di seguito è riportata una trascrizione del discorso del dr. Abu-Sittah.

Ogni generazione deve scoprire la propria missione, compierla o tradirla, in relativo anonimato”.

Frantz Fanon, I dannati della terra

Gli studenti dell’Università di Glasgow hanno deciso di votare in memoria dei 52.000 palestinesi uccisi. In memoria di 14.000 bambini assassinati. Hanno votato in solidarietà con i 17.000 minori palestinesi rimasti orfani, i 70.000 feriti – di cui il 50% minori e dei 4-5.000 minori ai quali sono stati amputati gli arti.

Hanno votato in solidarietà con gli studenti e gli insegnanti di 360 scuole distrutte e di 12 università completamente rase al suolo. Hanno espresso solidarietà con i familiari e in ricordo di Dima Alhaj [palestinese di 29 anni, amministratrice per lOMS presso il Centro di ricostruzione degli arti a Gaza City, ndt.] una ex studentessa dell’Università di Glasgow uccisa con il suo bambino e con tutta la sua famiglia.

Allinizio del XX secolo Lenin predisse che il vero cambiamento rivoluzionario nellEuropa occidentale sarebbe dipeso dal suo stretto contatto con i movimenti di liberazione contro limperialismo e con le colonie schiaviste. Gli studenti dellUniversità di Glasgow hanno capito cosa abbiamo da perdere quando permettiamo che la nostra politica divenga disumana. Capiscono anche che ciò che vi è di importante e diverso a Gaza è che essa è il laboratorio in cui il capitale globale elabora la modalità di gestione della sovrappopolazione.

Hanno espresso solidarietà con Gaza e il suo popolo perché hanno capito che le armi che Benjamin Netanyahu usa oggi sono le armi che Narendra Modi userà domani. I quadricotteri e i droni dotati di fucili di precisione – usati in modo così subdolo ed efficiente a Gaza che una notte allospedale Al-Ahli abbiamo accolto oltre 30 civili feriti colpiti fuori dal nostro ospedale da queste creazioni tecnologiche – impiegati oggi a Gaza saranno usati domani a Mumbai, Nairobi e San Paolo. Alla fine, come il software di riconoscimento facciale sviluppato dagli israeliani, arriveranno a Easterhouse e Springburn [quartieri operai di Glasgow, ndt.].

Quindi chi hanno eletto in definitiva questi studenti? Mi chiamo Ghassan Solieman Hussain Dahashan Saqer Dahashan Ahmed Mahmoud Abu-Sittah e, a parte me, mio padre e tutti i miei antenati sono nati in Palestina, una terra che venne ceduta da uno dei rettori dell’Università di Glasgow che mi hanno preceduto. Tre decenni prima che la sua dichiarazione di quarantasei parole annunciasse il sostegno del governo britannico alla colonizzazione della Palestina, Arthur Balfour fu nominato Lord Rettore dellUniversità di Glasgow. “Un’indagine sul mondo… ci mostra un vasto numero di comunità selvagge, evidentemente ad uno stadio culturale non profondamente diverso da quello prevalente tra gli uomini preistorici”, disse Balfour durante il suo discorso in rettorato nel 1891. Sedici anni dopo, questo antisemita ideò lAliens Act del 1905 per impedire agli ebrei in fuga dai pogrom dellEuropa orientale di mettersi in salvo nel Regno Unito.

Nel 1920 mio nonno Sheikh Hussain costruì con i propri soldi una scuola nel piccolo villaggio dove viveva la mia famiglia. Lì gettò le basi per un legame che avrebbe reso leducazione centrale nella vita della mia famiglia. Il 15 maggio 1948, le forze dellHaganah [organizzazione paramilitare ebraica, ndt.] effettuarono la pulizia etnica in quel villaggio e portarono la mia famiglia, che viveva su quella terra da generazioni, in un campo profughi a Khan Younis, ora in rovina, nella Striscia di Gaza. Le memorie dellufficiale dellHaganah che aveva invaso la casa di mio nonno furono ritrovate da mio zio. In queste memorie l’ufficiale nota con incredulità come la casa fosse piena di libri e vi fosse un certificato di laurea in giurisprudenza dell’Università del Cairo appartenente a mio nonno.

Lanno dopo la Nakba mio padre si laureò in medicina allUniversità del Cairo e tornò a Gaza per lavorare nellUNRWA nelle sue cliniche appena aperte. Ma come molti della sua generazione, si trasferì nel Golfo per contribuire a costruire il sistema sanitario di quei Paesi. Nel 1963 venne a Glasgow per proseguire la sua formazione post-laurea in pediatria e si innamorò della città e della sua gente.

E così è stato che nel 1988 sono arrivato a studiare medicina all’Università di Glasgow, e qui ho scoperto cosa può fare la medicina, come una carriera in medicina ti pone a confronto con i momenti più dolorosi della vita della e come, se sei dotato della giusta visione politica, sociologica ed economica, puoi comprendere come la vita delle persone venga modellata, e molte volte distorta, da forze politiche al di fuori del loro controllo.

Ed è stato a Glasgow che ho scoperto il significato della solidarietà internazionale. Glasgow in quel periodo era piena di associazioni che organizzavano momenti di solidarietà con El Salvador, Nicaragua e Palestina. Il Comune di Glasgow è stato uno dei primi a gemellarsi con città della Cisgiordania e l’Università di Glasgow ha istituito la sua prima borsa di studio per le vittime del massacro di Sabra e Shatila. È stato proprio durante i miei anni a Glasgow che è iniziato il mio viaggio come chirurgo di guerra, prima da studente quando sono andato in Iraq in occasione della prima guerra americana nel 1991; poi nel 1993 con Mike Holmes nel Libano meridionale; poi con mia moglie a Gaza durante la Seconda Intifada; poi in occasione delle guerre intraprese dagli israeliani a Gaza nel 2009, 2012, 2014 e 2021 e della guerra di Mosul nel nord dellIraq, a Damasco durante la guerra in Siria e in occasione della guerra nello Yemen. Ma è stato solo il 9 ottobre, quando sono arrivato a Gaza, che ho visto svolgersi il genocidio.

Tutto ciò che sapevo sulle guerre è nulla rispetto a ciò che ho visto. È come paragonare unalluvione con a uno tsunami. Per 43 giorni ho visto le macchine assassine nella Striscia di Gaza fare a pezzi le vite e i corpi dei palestinesi, metà dei quali minori. Dopo il mio rientro gli studenti dellUniversità di Glasgow mi hanno chiesto di candidarmi alla nomina di rettore. Poco dopo uno dei selvaggi di Balfour ha vinto l’elezione.

Quindi cosa abbiamo imparato dal genocidio e sul genocidio negli ultimi 6 mesi? Abbiamo imparato che lo scuolicidio, leliminazione di intere istituzioni educative, sia delle infrastrutture che delle risorse umane, è una componente fondamentale della cancellazione genocida di un popolo: 12 università e 400 scuole completamente rase al suolo; 6.000 studenti, 230 insegnanti di scuola, 100 tra docenti e presidi e due rettori universitari uccisi.

Abbiamo anche imparato, e questo è qualcosa che ho scoperto quando ho lasciato Gaza, che il progetto genocidario è come un iceberg di cui Israele è solo la punta. Il resto delliceberg è costituito da un asse del genocidio. Questo è costituito dagli Stati Uniti, il Regno Unito, la Germania, lAustralia, il Canada e la Francia… Paesi che hanno sostenuto Israele con le armi – e continuano con le armi a sostenere il genocidio – e hanno mantenuto il sostegno politico al progetto genocida perché proseguisse. Non dovremmo lasciarci ingannare dai tentativi degli Stati Uniti di umanitarizzare il genocidio: uccidendo persone col lancio paracadutato di aiuti alimentari.

Ho anche scoperto che a far parte dell’iceberg ci sono dei facilitatori del genocidio. Piccole persone, uomini e donne, in ogni ambito dell’esistenza, in ogni istituzione. Questi facilitatori del genocidio sono di tre tipi:

    • I primi sono quelli la cui razzializzazione e la totale alterizzazione dei palestinesi li ha resi incapaci di provare qualcosa per i 14.000 minori uccisi e che rimangono incapaci di piangere per loro. Se Israele avesse ucciso 14.000 cuccioli o gattini, sarebbero stati profondamente distrutti da tale barbarie.

    • Il secondo gruppo è costituito da coloro che, secondo Hannah Arendt ne “La banalità del male”, “erano privi di qualsiasi motivazione, a parte una scrupolo eccezionale nel badare al proprio tornaconto”.

    • I terzi sono gli apatici. Come dice Arendt, il male prospera nellapatia e non può esistere senza di essa”.

Nellaprile del 1915, un anno dopo linizio della prima guerra mondiale, Rosa Luxemburg scrisse sulla società borghese tedesca. Violati, disonorati, che sguazzano nel sangue… la bestia famelica, il sabba anarchico delle streghe, una piaga per la cultura e lumanità.” Quelli di noi che hanno visto, annusato e sentito ciò che le armi da guerra fanno di proposito al corpo di un bambino, quelli di noi che hanno amputato gli arti incurabili di bambini feriti non possono mai provare altro che il massimo disprezzo per tutti coloro coinvolti nella fabbricazione, progettazione e vendita di questi strumenti brutali. Lo scopo della produzione di armi è distruggere la vita e devastare la natura. Nellindustria degli armamenti i profitti aumentano non solo come risultato delle risorse catturate durante o attraverso la guerra, ma mediante il processo di distruzione di tutta la vita, sia umana che ambientale. Lidea che ci sia la pace o un mondo non inquinato mentre il capitale cresce grazie alla guerra è ridicola. Né il commercio delle armi né quello dei combustibili fossili trovano posto allUniversità.

Allora, qual è il nostro piano, di questo selvaggio” e dei suoi complici?

In questa università faremo una campagna per il disinvestimento dalla produzione di armi e dall’industria dei combustibili fossili, sia per ridurre i rischi dell’università a seguito della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia secondo cui si tratta plausibilmente di una guerra genocida sia per l’attuale causa intentata contro la Germania dal Nicaragua per complicità in genocidio.

Il denaro insanguinato dal genocidio ricavato come profitto da queste azioni durante la guerra sarà utilizzato per creare un fondo per aiutare a ricostruire le istituzioni accademiche palestinesi. Questo fondo sarà a nome di Dima Alhaj, in ricordo di una vita stroncata da questo genocidio.

Formeremo una coalizione di organizzazioni di studenti e della società civile e di sindacati per trasformare lUniversità di Glasgow in un campus libero dalla violenza di genere.

Faremo una campagna per trovare soluzioni concrete per porre fine alla povertà studentesca allUniversità di Glasgow e per fornire alloggi a prezzi accessibili a tutti gli studenti.

Faremo una campagna per il boicottaggio di tutte le istituzioni accademiche israeliane che sono passate dalla complicità con lapartheid e la negazione dellistruzione per i palestinesi al genocidio e alla negazione della vita. Faremo una campagna per una nuova definizione di antisemitismo che non confonda lantisionismo e l’opposizione al colonialismo genocida israeliano con lantisemitismo.

Lotteremo insieme a tutte le comunità alterizzate e soggette a razzismo, compresa la comunità ebraica, la comunità rom, i musulmani, i neri e tutti i gruppi sottoposti a razzismo, contro il nemico comune del crescente fascismo di destra, ora assolto dalle sue radici antisemite da parte di un governo israeliano in cambio del sostegno alleliminazione del popolo palestinese.

Proprio questa settimana abbiamo appena visto come unistituzione finanziata dal governo tedesco ha censurato unintellettuale e filosofa ebrea, Nancy Fraser, a causa del suo sostegno al popolo palestinese. Più di un anno fa abbiamo visto il Partito Laburista sospendere Moshé Machover, un attivista ebreo antisionista, per antisemitismo.

Durante il volo ho avuto la fortuna di leggere We Are Free to Change the World[Siamo liberi di cambiare il mondo] di Lyndsey Stonebridge. Cito da questo libro: “È quando lesperienza dellimpotenza è più acuta, quando la storia sembra più cupa, che la determinazione a pensare come un essere umano, in modo creativo, coraggioso e complesso, è più importante”. 90 anni fa, nel suo Canto della solidarietà”, Bertolt Brecht si chiedeva: Di chi è il domani? E di chi è il mondo?”

Ebbene, ecco la mia risposta a lui, a voi e agli studenti dell’Università di Glasgow: è vostro il mondo per cui lottare. È vostro il domani da realizzare. Per noi, tutti noi, parte della nostra resistenza per la cancellazione del genocidio è parlare del domani di Gaza, pianificare domani la guarigione delle ferite di Gaza. Prenderemo possesso del domani. Domani sarà una giornata palestinese.

Nel 1984, quando lUniversità di Glasgow nominò Winnie Mandela suo rettore nei giorni più bui del governo di P. W. Botha sotto un brutale regime di apartheid sostenuto da Margaret Thatcher e Ronald Reagan, nessuno avrebbe potuto sognare che in 40 anni uomini e donne sudafricani avrebbero potuto sostenere e difendere davanti alla Corte Internazionale di Giustizia il diritto del popolo palestinese a vivere come liberi cittadini di una libera nazione.

Uno degli obiettivi di questo genocidio è quello di lasciarci affogare nel nostro dolore. Come nota personale, voglio dedicare uno spazio per poter, io e la mia famiglia, piangere i nostri cari. Lo dedico alla memoria del nostro amato Abdelminim ucciso a 74 anni nel giorno del suo compleanno. Lo dedico alla memoria del mio collega dottor Midhat Saidam, uscito per mezz’ora per portare nella loro casa sua sorella perché stesse al sicuro con i figli e non più tornato. Lo dedico al mio amico e collega dr. Ahmad Makadmeh, giustiziato con sua moglie poco più di 10 giorni fa dall’esercito israeliano nell’ospedale di Shifa. Lo dedico al sempre sorridente dottor Haitham Abu-Hani, responsabile del pronto soccorso dell’ospedale Shifa, che mi ha sempre accolto con un sorriso e una pacca sulla spalla. Ma soprattutto lo dedichiamo alla nostra terra. Nelle parole del sempre presente Mahmoud Darwish,

Per la nostra terra, ed è un prezzo della guerra,

la libertà di morire di nostalgia e di incendio

e la nostra terra, nella sua notte insanguinata,

è un gioiello che brilla per chi è lontano, lontano

e illumina ciò che c’è fuori…

Quanto a noi, dentro,

soffochiamo di più!”

E ora voglio concludere con una speranza. Con le parole dellimmortale Bobby Sands, La nostra vendetta sarà la risata dei nostri figli”.

HASTA LA VICTORIA SIEMPRE!

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




“Un nuovo abisso”: Gaza e la guerra dei cento anni contro la Palestina

Rashid Khalidi

Giovedì 11 aprile 2024 – The Guardian

Sebbene molte cose siano cambiate dal 7 ottobre, gli eventi terribili degli ultimi sei mesi non sono unici e non esulano dalla storia

Per le persone di tutto il mondo, me compreso, le immagini terribili che giungono da Gaza e da Israele dal 7 ottobre 2023 sono ineludibili. Questa guerra incombe su di noi come un’immobile nuvola nera che diventa sempre più oscura e inquietante con il passare delle interminabili settimane di orrore che si succedono davanti ai nostri occhi. Avere amici e parenti lì rende tutto questo molto più difficile da sopportare per molti di noi che vivono lontano.

Alcuni hanno sostenuto che questi eventi rappresentano una rottura, uno sconvolgimento, che questo sia stato “l’11 settembre di Israele” o che si tratti di una nuova Nakba, un genocidio senza precedenti. Certamente, la portata di questi eventi, le riprese quasi in tempo reale di atrocità e devastazioni insopportabili – in gran parte catturate sui telefoni e diffuse sui social media – e l’intensità della risposta globale non hanno precedenti. Sembra di trovarsi in una nuova fase, dove l’esecrabile “processo di Oslo” è morto e sepolto, dove l’occupazione, la colonizzazione e la violenza si stanno intensificando, il diritto internazionale viene calpestato e le placche tettoniche da tempo immobili si stanno lentamente muovendo.

Ma anche se molto è cambiato negli ultimi sei mesi, gli orrori di cui siamo testimoni possono essere veramente compresi solo come una nuova fase catastrofica di una guerra che va avanti da diverse generazioni. Questa è la tesi del mio libro The Hundred YearsWar on Palestine [La Guerra dei Cent’anni contro la Palestina, ndt.]: che gli eventi succedutisi in Palestina a partire dal 1917 sono il risultato di una guerra in più fasi condotta contro la popolazione indigena palestinese da grandi potenti mecenati del movimento sionista – un movimento allo stesso tempo colonialista e nazionalista, che mirava a sostituire il popolo palestinese nella sua patria ancestrale. Queste potenze si sono successivamente alleate con lo Stato-Nazione israeliano nato da quel movimento. Nel corso di questa lunga guerra i palestinesi hanno resistito strenuamente all’usurpazione del loro Paese. Questo quadro è indispensabile per spiegare non solo la storia del secolo scorso e oltre, ma anche la brutalità a cui abbiamo assistito dal 7 ottobre.

Sotto questa luce, è chiaro che non si tratta di una lotta secolare tra arabi ed ebrei che va avanti da tempo immemorabile, e non è semplicemente un conflitto tra due popoli. È un prodotto recente dell’irruzione dell’imperialismo in Medio Oriente e dell’ascesa dei moderni nazionalismi degli Stati-Nazione, sia arabi che ebrei; è un prodotto dei violenti metodi di insediamento coloniale europei impiegati dal sionismo per “trasformare la Palestina nella terra di Israele”, secondo le parole di uno dei primi leader sionisti, Ze’ev Jabotinsky; ed è un prodotto della resistenza palestinese a questi metodi.

Inoltre questa non è mai stata solo una guerra tra il sionismo e Israele da una parte e i palestinesi dall’altra, occasionalmente sostenuta da attori arabi e di altro tipo. Ha sempre comportato l’intervento massiccio delle più grandi potenze dell’epoca dalla parte del movimento sionista e di Israele: la Gran Bretagna fino alla seconda guerra mondiale e da allora gli Stati Uniti e altri. Queste grandi potenze non sono mai state mediatori neutrali o onesti, ma hanno sempre partecipato attivamente a questa guerra a sostegno di Israele. In questa guerra tra colonizzatori e colonizzati, oppressori e oppressi, non c’è stato nulla che si avvicinasse lontanamente all’equivalenza tra le due parti, ma piuttosto un vasto squilibrio a favore del sionismo e di Israele.

Questa tesi è stata crudamente confermata dagli eventi successivi al 7 ottobre, con lo squilibrio di potere evidente nella sproporzione delle dimensioni di morte, distruzione e sfollamento: il rapporto tra palestinesi e israeliani uccisi finora è di circa 25 a 1. Ciò è ulteriormente rafforzato dallo straordinario livello di sostegno politico, diplomatico e militare degli Stati Uniti a Israele, combinato con quello del Regno Unito e di altri Paesi occidentali, in contrasto con il relativamente limitato sostegno militare e finanziario ai palestinesi da parte dell’Iran e di diversi attori non statali.

Sebbene molte cose siano cambiate dal 7 ottobre, gli eventi degli ultimi sei mesi non sono unici e non esulano dalla storia. Possiamo comprenderli correttamente solo nel contesto della guerra secolare intrapresa contro la Palestina, nonostante gli sforzi di Israele di negare la rilevanza del contesto e di spiegarli nei termini della “barbarie” caratteristica dei suoi nemici. Anche se le azioni di Hamas e Israele a partire dal 7 ottobre potrebbero sembrare un cambiamento o una svolta, esse sono coerenti con decenni di pulizia etnica israeliana, occupazione militare e furto della terra palestinese, con anni di assedio e deprivazione della Striscia di Gaza, e con una risposta palestinese a queste azioni spesso violenta.

Comunque vada a finire, questo episodio della lunga guerra contro la Palestina ha chiaramente avuto un profondo impatto traumatico sia sui palestinesi che sugli israeliani. Ciò è vero in termini di numero eccezionale di persone uccise, ferite, disperse, catturate o detenute; distruzione senza precedenti di case e infrastrutture nella Striscia di Gaza; l’enorme numero di famiglie colpite, soprattutto tra i palestinesi; e l’intenso impatto psicologico di questi eventi.

In un breve periodo sono stati arrecati danni immensi alle popolazioni civili palestinesi e israeliane. Il bilancio palestinese di oltre 33.000 morti, insieme a forse 8.000 dispersi e presumibilmente morti, la stragrande maggioranza dei quali civili, è di gran lunga il più alto mai registrato in qualsiasi fase di questa guerra lunga un secolo. Nella guerra del 1947-49 furono uccisi circa 15.000 civili e combattenti palestinesi; nel 1982, durante l’invasione del Libano e l’assedio di Beirut, Israele uccise più di 19.000 civili e combattenti palestinesi e libanesi. Nei sei mesi trascorsi dal 7 ottobre il numero di morti e feriti – circa 120.000 – corrisponde a circa il 5% della popolazione della Striscia di Gaza di 2,3 milioni.

Il bilancio di oltre 800 vittime civili in Israele è il più alto dalla guerra del 1948. Finora sono stati uccisi più di 685 soldati, poliziotti e personale di sicurezza israeliani – più del numero di soldati uccisi nella guerra del Sinai del 1956, nell’invasione del Libano del 1982, nella seconda Intifada e nella guerra del Libano del 2006. Il totale delle vittime israeliane, compresi soldati e civili uccisi e feriti, ha superato quello della guerra del 1967. Inoltre, nell’ottobre dello scorso anno sono stati fatti prigionieri circa 250 civili e soldati israeliani e cittadini stranieri, e più di 100 sono ancora tenuti in ostaggio.

Durante l’intero corso di questa lunga guerra, un numero così elevato di palestinesi e israeliani non era mai stato cacciato dalle proprie case. Mentre tra il 1947 e il 1949 circa 750.000 palestinesi – più della metà della popolazione palestinese dell’epoca – furono sottoposti alla pulizia etnica da quello che divenne Israele, e circa 300.000 nella Cisgiordania e la Striscia di Gaza dopo l’occupazione del 1967, questi numeri sono stati oscurati dalla cifra di circa 1,7 milioni di abitanti di Gaza che Israele ha sfollato dal 7 ottobre. Nel frattempo, almeno 250.000 israeliani sono stati sfollati dagli insediamenti coloniali e dalle città nelle aree al confine con la Striscia di Gaza e il Libano.

Questi shock traumatici hanno avuto un impatto enorme su entrambe le società. In Israele, la violenza del 7 ottobre, in particolare l’elevato numero di civili uccisi, feriti e catturati, con i raccapriccianti risultati diffusi in diretta streaming tramite i social media e ripetutamente trasmessi in televisione, ha avuto un impatto viscerale sull’intero Paese. Gli attacchi hanno evocato ricordi storici di violenza e persecuzione e hanno distrutto il senso di sicurezza che Israele riteneva di aver fornito ai suoi cittadini. Sembra quasi che, nella coscienza pubblica israeliana, dal 7 ottobre il tempo si sia fermato mentre l’effetto bruciante di questo trauma collettivo si ripete come in un ciclo senza fine. Il risultato è stato quello di accelerare lo spostamento verso destra in atto nella società israeliana, con i politici e il discorso pubblico diventati ancora più aggressivi e intransigenti. Gli attacchi hanno provocato un’intensa sete di vendetta, evidente dal modo brutale in cui è stata condotta la guerra di Israele, e il senso di perpetuo vittimismo della nazione è stato rafforzato, nonostante l’immenso squilibrio di potere tra Israele e palestinesi.

Il flusso infinito di immagini della devastazione di Gaza, dell’enorme numero di vittime, delle decine di famiglie completamente spazzate via dagli attacchi dell’intelligenza artificiale israeliana, e della fame e delle malattie causate dalle paralizzanti restrizioni israeliane sul transito di acqua, cibo, medicine, carburante ed elettricità nella Striscia di Gaza – palesi violazioni del diritto internazionale umanitario – hanno traumatizzato i palestinesi ovunque. Genitori e nonni avevano raccontato loro della Nakba e di altri tragici episodi della storia del loro popolo. Ma guardando il paesaggio lunare in cui Israele ha trasformato Gaza, i palestinesi sono comunque rimasti scioccati dallo spietato omicidio di migliaia di civili e dalla vasta distruzione di case, ospedali, scuole, luoghi di culto e infrastrutture, in quello che è stato descritto da un rapporto statunitense storico militare come “una delle più intense campagne di punizione sui civili della storia”. Oltre a dover affrontare per mesi queste orribili realtà i palestinesi sono ossessionati dai ricordi storici della Nakba e dalla domanda su quando e se questa guerra finirà e su come gli abitanti di Gaza potranno mai avere di nuovo una vita normale.

Questi eventi scioccanti hanno avuto eco in tutto il mondo, poiché la serie apparentemente infinita di atrocità che Israele ha inflitto agli abitanti di Gaza è stata vista in tempo reale sui media tradizionali, alternativi e sui social media. Questa è la prima volta che una generazione di giovani in tutto il mondo guarda da mesi tali immagini di carneficina. A gennaio un sondaggio ha rilevato che quasi la metà degli americani tra i 18 e i 29 anni crede che Israele stia commettendo un genocidio. La Palestina è diventata una causa fondamentale per attivisti giovani e meno giovani, unendo varie correnti di opposizione allo status quo globale. Allo stesso tempo, ha diviso le famiglie lungo linee generazionali, mandando in frantumi il compiacente consenso tra i liberali occidentali secondo cui, nonostante i suoi difetti, Israele sarebbe una forza positiva.

Israele è stato accusato dal Sudafrica del genocidio di Gaza davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, che con un voto schiacciante ha accettato di esaminare il caso e ha ordinato misure provvisorie. Questa non è la prima volta che Israele viene accusato di violare il diritto internazionale, accuse che disprezza, ma durante questa guerra il processo ha subito un’accelerazione infliggendo un danno crescente all’immagine internazionale sempre più offuscata di Israele.

La sofferenza che Israele sta provocando a Gaza ha ulteriormente diminuito la sua legittimità, già gravemente compromessa, a livello globale. Al di là della possibilità di una maggiore escalation della guerra in altre parti del Medio Oriente, le scosse di assestamento potrebbero avere conseguenze a lungo termine per la politica interna di Israele, dei palestinesi e degli Stati arabi e regionali, nonché sul futuro di Israele nella regione, e forse anche sull’esito delle elezioni presidenziali americane.

Questa guerra produrrà senza dubbio cambiamenti nella strategia a lungo termine di Israele nei confronti dei palestinesi. L’attacco a sorpresa del 7 ottobre e i successivi fallimenti sul campo di battaglia hanno messo in luce le debolezze della pianificazione militare, dell’intelligence e della sua decantata tecnologia di sorveglianza. Questi fallimenti hanno portato all’uccisione o alla cattura di più di 1.000 soldati e civili israeliani e all’invasione di numerosi insediamenti coloniali di confine, alcuni dei quali non sono stati riconquistati fino al 10 ottobre. Questa è stata una delle peggiori sconfitte nella storia militare di Israele. Questa è anche la prima volta dal 1948 che una guerra viene condotta con un tale grado di ferocia all’interno di Israele. Con la parziale eccezione della Seconda Intifada, in 75 anni Israele non è stato esposto a nulla di paragonabile a questo attacco diretto alla popolazione civile sul suo territorio.

Scosso da questa catastrofica sconfitta, il governo israeliano ha asserito che manterrà a lungo termine il controllo di sicurezza sulla Striscia di Gaza, rifiutandosi di ritirare completamente le sue truppe; il che in pratica equivarrebbe ad una estesa rioccupazione totale o parziale. Considerata la storia dell’enclave, che dal 1948 rappresenta il luogo di più intensa resistenza dei palestinesi all’espropriazione e al dominio da parte di Israele, potrebbe non esserci nel prossimo futuro un termine definito di questa nuova fase del conflitto.

Un altro cambiamento radicato nel fiasco militare del 7 ottobre è che esso rappresenta il temporaneo collasso della dottrina sulla sicurezza di Israele. Questa è spesso chiamata erroneamente “deterrenza”, ma in realtà deriva dall’approccio aggressivo insegnato per la prima volta ai fondatori delle forze armate israeliane – ufficiali come Moshe Dayan, Yigal Allon e Yitzhak Sadeh, membri scelti delle milizie Haganah e Palmach, addestrati alla fine degli anni ’30 da esperti veterani della contro-insurrezione coloniale britannica. La dottrina sostiene che attaccando preventivamente o attraverso una ritorsione con una forza schiacciante e colpendo direttamente le popolazioni civili considerate favorevoli agli insorti il nemico può essere sconfitto in modo decisivo, intimidito in modo permanente e costretto ad accettare le condizioni del colonizzatore. In passato, per quanto riguardava Gaza, questa dottrina – descritta dagli analisti israeliani come “falciare il prato” – prevedeva di colpire periodicamente la popolazione e ucciderne un gran numero per costringerla ad accettare uno status quo di assedio e blocco che durava da 17 anni.

Chiamo questo un crollo temporaneo della dottrina, perché mentre gli eventi del 7 ottobre hanno messo in luce nel fallimento di un approccio basato sulla forza l’esistenza di un problema essenzialmente politico, è chiaro che la leadership israeliana non ha imparato nulla. Invece ha raddoppiato le pratiche precedenti, in linea con l’adagio israeliano: “Se la forza non funziona, usa più forza”. I leader israeliani sembrano aver dimenticato la massima di Clausewitz secondo cui la guerra è una continuazione della politica con altri mezzi.

Nelle parole del sociologo politico israeliano Yagil Levy, nella sua guerra contro Gaza il “quadro politico di Israele è un quadro militare. Netanyahu modella la politica all’interno di un mondo di concetti militari. Non esiste una strategia di uscita politica né una visione politica, che sono l’abc di ogni guerra”. Spinta dal desiderio di vendetta per l’umiliante sconfitta militare e dalla cieca adesione all’antiquata dottrina israeliana sulla sicurezza basata sulla forza, una leadership divisa non ha alcun comune obiettivo politico in questa campagna. Al contrario, brandisce il vuoto slogan della “vittoria completa” e l’idea di ripristinare un atteggiamento aggressivo di “deterrenza”, che è inutile perché manifestamente non è riuscito a scoraggiare gli attacchi in passato, e probabilmente sarà altrettanto inefficace in futuro.

Ci sono ampie prove che il governo israeliano originariamente desiderasse sfruttare l’opportunità offerta dalla guerra per effettuare un’ulteriore pulizia etnica dei palestinesi, sia con la loro espulsione in Egitto che in Giordania, e che, vergognosamente, gli Stati Uniti hanno cercato di persuadere entrambi i Paesi ad accettare questa soluzione, cosa che si si sono rifiutati categoricamente di fare. La forte fazione di coloni all’interno del governo sostiene ancora questo, e spera anche nella possibilità di reinsediarsi nella Striscia di Gaza.

Invece di definire un obiettivo politico preciso un governo israeliano privo di consenso sulla politica ha dichiarato che il suo obiettivo è la completa distruzione di Hamas, un’entità politico-militare-ideologica con diramazioni in tutta la Palestina e nella diaspora palestinese – una missione manifestamente impossibile. Potrebbe essere o meno fattibile per l’esercito israeliano sconfiggere in modo decisivo le forze militari di Hamas nella Striscia di Gaza. Tuttavia, se Hamas riuscisse a mantenere anche solo una frazione delle sue capacità militari dopo molti mesi di combattimenti [Israele] potrebbe rivendicare una vittoria di Pirro. Come scrisse una volta Henry Kissinger: “La guerriglia vince se non perde. L’esercito convenzionale perde se non vince”. Qualunque sia l’esito militare, Hamas non sarà distrutta come forza politica né ideologica.

Alla luce dell’impatto devastante su Israele dell’attacco di ottobre, e nonostante il bilancio feroce della sua risposta, è improbabile che la filosofia della resistenza armata di Hamas scompaia finché non ci sarà la prospettiva di porre fine all’occupazione militare, alla colonizzazione e all’oppressione del popolo palestinese, o di un orizzonte politico che prometta una vera autodeterminazione e uguaglianza palestinese. Pertanto, uno sconvolgimento che avrebbe potuto essere un catalizzatore di cambiamento potrebbe di fatto produrre la continuità della colonizzazione e dell’occupazione, dell’affidamento esclusivo sulla forza da parte della classe dirigente israeliana e della resistenza palestinese armata.

Se le prospettive israeliane sono poco chiare, anche l’orizzonte politico postbellico per i palestinesi è nebuloso. In termini puramente militari, l’entità e la portata dell’attacco di Hamas a ottobre non hanno precedenti. Eppure, facendo ancora riferimento a Clausewitz, è difficile scorgere gli obiettivi politici di Hamas. Nel passato, in vari momenti, Hamas ha proclamato la sua disponibilità ad accettare uno Stato palestinese accanto a Israele, come nella sua dichiarazione di principi del 2017 che considerava “una formula di consenso nazionale la fondazione di uno Stato palestinese indipendente pienamente sovrano e con Gerusalemme come sua capitale sui confini del 4 giugno 1967, con il ritorno di rifugiati e sfollati alle loro case da cui erano stati espulsi.”

D’altro canto, nello stesso documento, Hamas aveva chiesto “la piena e completa liberazione della Palestina, dal fiume al mare,” e ha sistematicamente rifiutato di accettare la legittimità di Israele o di rinunciare alla violenza. Entrambe le tendenze sono state presenti in dichiarazioni contraddittorie fatte dai leader di Hamas da ottobre e in iniziative, precedenti e attuali, rivolte ad unirsi all’OLP e ad altre forze politiche palestinesi, o, alternativamente, a trattarle come rivali di cui prendere il posto.

Dal 7 ottobre entrambe queste tendenze si sono rafforzate fra differenti segmenti del popolo palestinese, con la resistenza armata che trova nuovi sostenitori, specialmente fra i giovani, e altri che cautamente sperano in una svolta nella direzione di uno Stato palestinese, sebbene l’Autorità Palestinese a Ramallah sia disprezzata dalla maggioranza dei palestinesi in quanto appaltatrice della sicurezza per conto dell’occupazione israeliana.

Una constante nei 100 anni di questa guerra è che ai palestinesi non è stato permesso di scegliere chi li rappresenta. Come nel passato, le loro preferenze possono risultare inaccettabili alle potenze, che siano Israele, gli stati occidentali o i loro clienti arabi. Queste potenze stanno probabilmente ancora cercando di imporre la loro scelta su chi rappresenti i palestinesi e chi non sia autorizzato a farlo, con i palestinesi stessi senza una voce in questa decisione. In mancanza di un accordo palestinese su una voce politica unificata e credibile che rappresentanti un consenso nazionale, questo significherebbe che la cruciale decisione sul futuro del loro popolo sarà presa da potenze esterne come è successo molte volte nel passato.

Israele ha presentato questa guerra come mirata esclusivamente contro Hamas, affermando di aver scrupolosamente obbedito al diritto umanitario internazionale, usando una forza “proporzionale” e discriminata e che le morti civili erano “danni collaterali” involontari perché Hamas ha usato i civili come “scudi umani”. I governi occidentali e i media mainstream hanno ripetuto queste affermazioni essenzialmente false, sebbene smentiti dalla morte di oltre 33.000 civili, fra cui, secondo l’Unicef, 13.000 minori, la cacciata di 1,7 milioni di persone e la distruzione, ovviamente intenzionale, della maggior parte delle infrastrutture della Striscia di Gaza con ospedali, impianti di purificazione dell’acqua, fogne, centrali elettriche, sistemi di telefonia e internet, scuole, università, moschee e chiese come obiettivi. Dopo sei mesi di guerra, le dimensioni di questa devastazione e del massacro e la fame di massa causati da Israele sembrano penetrare attraverso la nebbia del pensiero di gruppo perpetuato dai governi occidentali e la maggior parte dei media mainstream che precedentemente avevano ripetuto a pappagallo i punti salienti israeliani anche se ovviamente falsi.

Molti osservatori non accecati da questa fasulla narrazione israeliana vedono correttamente questa guerra come diretta contro la popolazione di Gaza nella forma di punizione collettiva, se non di genocidio. La risultante reazione sdegnata è stata quasi universale nel mondo arabo, in quasi tutti i Paesi musulmani e nella maggioranza dei Paesi del sud globale. In aumento sono le fasce delle popolazioni americane ed europee che hanno risposto in modo simile. Fino a tempi recentissimi questa reazione ha avuto uno scarso effetto sulle politiche di totale sostegno a Israele dell’amministrazione Biden, che vanno poco oltre deboli e palesemente insinceri rimproveri retorici. Per molti osservatori le consegne di armi e munizioni americane che bypassano le garanzie del congresso, la protezione diplomatica di Israele all’ONU, ripetizioni meccaniche dei punti chiave israeliani e la durezza di Biden e dei suoi funzionari verso le sofferenze palestinesi sono viste come elementi dell’attiva partecipazione nel commettere crimini di guerra e genocidio, guadagnando a Biden l’epiteto di “Genocida Joe”.

Dal 7 ottobre la forte simpatia per i palestinesi da parte dei popoli dei Paesi arabi e il loro pubblico sostegno per la loro causa (ove tali espressioni sono permesse e spesso anche dove non lo sono) hanno svelato la deliberata ignoranza dei decisori politici e commentatori occidentali e israeliani che hanno sostenuto che la causa palestinese non è importante per gli arabi e che può essere ignorata. In risposta agli attacchi israeliani contro Gaza ci sono stati mesi con le più vaste manifestazioni popolari mai viste da una decina di anni in numerose città arabe, fra cui Il Cairo, Amman, Manama e Rabat, capitali di Paesi che hanno relazioni diplomatiche con Israele. Alla fine i regimi autocratici che rovinano la regione potrebbero riuscire a reprimere la simpatia dei loro cittadini per i palestinesi e l’ostilità verso Israele. Ciononostante, in futuro, questi governi saranno obbligati a prendere più attentamente in considerazione l’appassionato senso di identificazione del loro popolo con la causa palestinese e ad adattare di conseguenza le loro politiche.

Da ottobre un altro elemento è emerso con grande rilevanza: il valore diseguale che le élite occidentali attribuiscono da un lato alle vite israeliane (identificate come “bianche”) e dall’altro a quelle arabe (identificate come “di colore”). Questo vergognoso doppio standard ha prodotto un’atmosfera tossica, repressiva negli spazi dominati da queste élite negli USA e un po’ meno Europa, specialmente nell’ambito politico, corporativo, dei media e nei campus universitari. L’ondata risultante di caccia alle streghe nei parlamenti, fra imprenditori, nel mondo di cultura e università si è concentrata sulle accuse che sostenere la libertà per i palestinesi e criticare le politiche israeliane o il sionismo sia in un qualche modo antisemita.

Queste asserzioni accettano l’affermazione che Israele e sionismo siano sinonimi di ebraismo, mentre ignorano il posto di rilievo di ebrei più progressisti e giovani che sostengono i diritti dei palestinesi e si oppongono alle azioni del governo israeliano. È totalmente assurdo affermare che l’opposizione al sionismo o al colonialismo israeliano sia per principio antisemita. Se coloro che si sono insediati in Palestina fossero stati scandinavi cristiani perseguitati che si percepissero come missionari mandati da dio per sottrarre il Paese alla sua popolazione indigena non ci sarebbe stato nulla di “anticristiano” nel resistere ai loro sforzi.

Le élite occidentali fra i politici, i media e in altri ambienti che promuovono questa atmosfera maccartista di repressione hanno dimostrato che considerano l’uccisione di civili israeliani più degna di attenzione di quella della morte di 25 volte tanto di civili palestinesi. Perciò, con qualche eccezione, in generale i media mainstream individuano in dettaglio le morti di civili israeliani, descritte come il risultato di atrocità perpetrate da Hamas. In contrasto, molto più frequentemente si descrive il grandissimo numero di morti civili palestinesi collettivamente e in termini passivi e senza nominare l’autore israeliano delle loro uccisioni, come se la causa fosse sconosciuta o un fenomeno naturale. Quindi Israele non uccide: i palestinesi muoiono, Israele non affama i palestinesi, loro soffrono la fame.

Questo approccio palesemente di parte è un’arma a doppio taglio: se nel breve periodo potrà servire a Israele per puntellare un pubblico di riferimento in diminuzione per il suo ritratto distorto della realtà in Palestina, il doppio standard inerente è trasparente alla maggior parte del mondo. È anche ovvio a segmenti crescenti di opinione pubblica in occidente, specialmente i più giovani. Invece di ottenere le loro informazioni dalle offerte dei media tradizionali che presentano le notizie in gran parte attraverso le lenti israeliane queste audience più giovani hanno una gamma variegata di fonti, a cui accedono principalmente tramite media alternativi e i social che offrono un panorama di immagini della morte, distruzione e miseria che Israele infligge sui gazawi. Di conseguenza capiscono perfettamente che un alto grado di censura di queste realtà è imposto dalla faziosità dei media tradizionali per i quali giustamente nutrono un totale disprezzo.

Nonostante una feroce ondata di repressione del sostegno ai palestinesi nella sfera pubblica, fra i giovani la maggiore disponibilità di una più ampia varietà di informazioni ha cominciato ad aver un effetto politico negli USA, particolarmente dopo che l’iniziale impennata di simpatia per Israele in risposta agli attacchi di Hamas è stata sostituita dalla simpatia per i civili palestinesi massacrati e affamati. In un sondaggio oltre il 68% degli americani sostiene un cessate il fuoco permanente a Gaza. Un altro ha mostrato che il 57% degli intervistati disapprovava la gestione della guerra a Gaza di Joe Biden, una cifra che sale a circa il 75% nella fascia di elettori fra i 18 e i 29 anni.

Sin dalla sua elezione a senatore nel 1972, Biden si è votato ai miti su Israele e Palestina che sono prevalenti nella conversazione politica e nei media americani. La sua amministrazione non ha ribaltato nessuna delle politiche che chiaramente favoriscono Israele promulgate dall’amministrazione Trump. Biden ha quindi mantenuto una serie di deviazioni significative dalle precedenti politiche USA, incluso il trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, la chiusura del consolato USA a Gerusalemme Est e della missione palestinese a Washington DC, riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele e riconoscendo l’annessione israeliana delle Alture di Golan.

Oltre a ciò e ben lontano dall’abbandonare l’approccio distintivo dell’amministrazione di Trump, detto “gli accordi di Abramo”, di ridurre l’importanza della questione palestinese e concentrarsi sulla normalizzazione delle relazioni fra Israele e gli Stati arabi, l’amministrazione Biden ha elogiato queste misure che hanno portato ad aprire le relazioni diplomatiche fra Israele e Emirati Arabi Uniti, Marocco e Bahrain, facendo infuriare i palestinesi. Biden e il suo team sono andati persino oltre. Hanno posto forti pressioni per un accordo di normalizzazione fra sauditi e israeliani che avrebbe schierato lo Stato arabo più influente con Israele, indebolendo ulteriormente i palestinesi e diminuendo ancora di più la prospettiva del loro raggiungimento di qualcuno dei loro obiettivi nazionali.

Sebbene la chimera di un accordo di normalizzazione saudita si scontri potentemente con la realtà dopo il 7 ottobre, rivelando le difficoltà che i regimi arabi avrebbero davanti se entrassero in relazione con un Paese che la vasta maggioranza del loro popolo pensa stia commettendo un genocidio, l’amministrazione Biden non ha mai oscillato nella sua promozione aggressiva dell’idea. L’ha fatto mentre indeboliva i suoi clienti arabi con un sostegno illimitato del selvaggio attacco di Israele contro la Striscia di Gaza, che ha con fermezza appoggiato come “autodifesa”. Questo sostegno include il rifiuto categorico di un cessate il fuoco permanente e la consegna di emergenza di aerei pieni di munizioni e armi, senza le quali Israele non avrebbe potuto sostenere la sua campagna militare. Recentemente sono stati promessi altri cacciabombardieri F-15 e F-35.

Con queste azioni e la sua costante ripetizione della retorica israeliana, Biden ha rafforzato la sensazione che gli USA siano visceralmente ostili verso i palestinesi. Anche quando, mesi dopo, ha finalmente insistito che Israele ponga fine alla fame di massa dei gazawi, questa è stata la risposta non alle immagini di neonati palestinesi emaciati ma alle morti dei volontari stranieri bianchi.

Anche la richiesta dell’amministrazione per la “soluzione a due Stati” suona falsa. Non ci sono segni che gli USA richiedano l’implementazione dei prerequisiti essenziali per una tale soluzione: una fine rapida e completa dell’occupazione militare israeliana durata quasi 57 anni e dell’usurpazione e colonizzazione delle terre palestinesi, che ha portato circa 750.000 coloni illegali sul 60% della Cisgiordania e Gerusalemme Est. L’amministrazione non ha neppure indicato se accetterebbe che i palestinesi scelgano democraticamente i propri rappresentanti.

Senza una decisa applicazione di queste misure la richiesta della “soluzione dei due Stati” è sempre stata priva di significato, una crudele truffa orwelliana. Invece di autodeterminazione, Stato e sovranità palestinesi, manterrebbe in effetti lo status quo in Palestina sotto forma diversa, con una “Autorità Palestinese” collaborazionista e controllata esternamente e mancante di reale giurisdizione o autorità rimpiazzata da uno “Stato palestinese” collaborazionista ugualmente privo di sovranità e indipendenza connessi a un autentico State. Sarebbe una farsa: un arcipelago spezzettato di bantustan sotto il controllo finale di Israele, con supervisione finanziaria e di sicurezza degli USA, dell’Europa occidentale e dei suoi alleati arabi.

Guardando indietro agli ultimi sei mesi, al crudele massacro di civili su scala senza precedenti, con milioni di persone che hanno perso la casa, la fame di massa e le malattie causate da Israele è chiaro che questo segna un nuovo abisso in cui è sprofondata la lotta per la Palestina. Se questa fase riflette gli aspetti di fondo delle precedenti in questi 100 anni di guerra, la sua intensità è unica, e ha creato nuovi e profondi traumi. Non solo non si vede la fine di questa carneficina, sembriamo più lontani che mai da una risoluzione duratura e sostenibile, basata sullo smantellamento delle strutture di oppressione e supremazia e giustizia, uguaglianza totale dei diritti e mutuo riconoscimento.

Rashid Khalidi è autore di libri come The Hundred Years’ War on Palestine: A History of Settler-Colonialism and Resistance (La guerra dei cent’anni contro la Palestina: una storia dell’insediamento dei coloni e della resistenza) (Profile, 2020) e docente di studi arabi moderni presso la Columbia University

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio e Aldo Lotta)




Netanyahu, cedendo alla pressione dell’ultra-destra, afferma che l’invasione di terra a Rafah è imminente

Redazione di Middle East Monitor

9 aprile 2024 – Middle East Monitor

Ieri il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato che Israele ha fissato una data per l’assalto di terra a Rafah. La decisione arriva mentre sta montando la pressione dagli alleati della estrema destra che hanno avvertito che la carica di Netanyahu come primo ministro sarebbe a rischio se non lanciasse un attacco contro la città meridionale di Gaza che sta proteggendo 1,5 milioni di palestinesi.

La vittoria richiede l’ingresso a Rafah e l’eliminazione dei battaglioni di terroristi laggiù. Questo accadrà, c’è una data,” ha affermato Netanyahu in una dichiarazione, sfidando i suoi alleati occidentali che sono fortemente contrari alla invasione di Rafah sulla scorta dell’uccisione di 33.000 palestinesi, la maggior parte dei quali donne e minori.

L’impegno del primo ministro per una data specifica per l’offensiva a Rafah fa seguito alle critiche da parte suoi partner della coalizione di estrema destra, che si sono scagliati contro il ritiro domenica da parte dell’esercito israeliano di alcune truppe da Gaza. Israele ha ritirato le sue truppe da Khan Yunis, la più grande città del sud di Gaza.

L’ultranazionalista ministro della Sicurezza Itamar Ben-Gvir ha ammonito: “Se il primo ministro decide di terminare la guerra senza una offensiva di grandi dimensioni a Rafah per sconfiggere Hamas, non avrà un mandato per continuare.”

Gli Stati Uniti hanno recentemente incrementato la pressione pubblica su Netanyahu perché rinunci a lanciare una importante operazione a Rafah, che è diventata un rifugio per più di un milione di persone sfollate a causa dell’operazione militare israeliana. Più del 70% delle infrastrutture di Gaza sono state distrutte e si teme che un’altra invasione di terra sarebbe catastrofica.

La popolarità di Netanyahu è stata significativamente danneggiata dopo sei mesi di guerra e, mentre sia all’interno del Paese che a livello internazionale cresce il malcontento per la gestione del conflitto da parte del suo governo, egli deve affrontare le richieste dei leader dell’estrema destra di intensificare le azioni militari contro Hamas.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Biden non ha un legame affettivo con Israele, si tratta di politica Il New Yorker chiede: “Perché il Paese più potente nella storia dell’umanità sta sostanzialmente prendendo ordini da una Nazione che dipende da lui per gli aiuti?” e poi evita la risposta più ovvia.

Philip Weiss  

8 aprile 2024 – Mondoweiss

Il New Yorker [prestigioso settimanale statunitense, ndt.] ha chiesto ad Aaron David Miller, a lungo mediatore per la pace, perché Joe Biden stia assecondando i crimini di guerra di Israele, e Miller ha risposto che ciò è dovuto al fatto che ha un legame affettivo con Israele.

Joe Biden, unico tra i presidenti americani contemporanei, ha un rapporto affettivo con l’idea di Israele, il popolo di Israele, la sicurezza di Israele.”

Questa è la versione ufficiale. Questa settimana lo ha detto su NPR [National Public Radio, rete radiofonica USA, ndt.] anche Richard Haass, un sostenitore di Israele e decano di politica internazionale: “L’amministrazione sta cercando di equilibrare l’appoggio a Israele con i suoi dissensi sulla politica israeliana. Penso che il presidente in particolare provi un legame affettivo con Israele.”

Ed è quello che una volta Jeffrey Goldberg [giornalista e capo redattore di The Atlantic, importante rivista USA, ndt.] ha detto che Barack Obama non aveva. Gli elettori ebrei “si preoccupano riguardo al fatto che i candidati alla presidenza sentano l’importanza di Israele nelle loro kishkes, viscere.” È un’analisi falsa. Grandi politici non hanno un legame emotivo con i Paesi stranieri che ostacolano la loro politica. I politici imparano a gettare chiunque sotto l’autobus.

Biden prende questa posizione perché ha bisogno della lobby israeliana nelle elezioni del 2024. Il potere della comunità ebraica ufficiale nell’imporre l’appoggio di Biden ai crimini di guerra è una cosa che Chotiner [l’intervistatore del New Yorker, ndt.] e Miller sono incapaci di discutere.

L’intervista del New Yorker è utile come ulteriore indice della crisi di Israele nel discorso pubblico negli USA. Chotiner insiste sul carattere brutale dell’attacco israeliano: “Questo Paese che consideriamo alleato e parte dei nostri valori democratici condivisi” sta “intenzionalmente facendo morire di fame la popolazione palestinese.”

Miller è anche d’aiuto quando rileva che la posizione di Biden perché Netanyahu si dimetta non migliorerebbe le cose, perché tutto Israele appoggia le politiche genocide.

Non è che Benny Gantz, membri del gabinetto di guerra e la maggioranza dell’élite politica non siano completamente in sintonia con la strategia di guerra di Netanyahu.”

Poi Chotiner passa alla domanda fondamentale: ““Perché il Paese più potente nella storia dell’umanità sta sostanzialmente prendendo ordini da un Paese che dipende da lui per gli aiuti?”

Quando Miller risponde che si tratta di emotività, Chotiner sottolinea che lo stesso Miller non è altrettanto sensibile alle vittime palestinesi che a quelle ebraiche, e Miller lo riconosce.

Chotiner: “Mentre stavo ascoltando quello che dicevi a proposito degli orrori del 7 ottobre ho percepito nella tua voce un’emozione che non ho sentito in nessun altro momento in questa conversazione. Non voglio criticare ciò, ma mi domando se la gente che fa politica in America non abbia questa stessa commozione quando si tratta della vita di palestinesi. Pensi che sia corretto?”

Miller: “Penso che sia corretto dire, sì che… Se penso che Joe Biden abbia lo stesso profondo sentimento ed empatia per i palestinesi di Gaza che per gli israeliani? No, non ce l’ha.” Non c’è dubbio che ci sia parecchio razzismo in atto nelle istituzioni statunitensi. Basta vedere l’enorme reazione al massacro da parte di Israele di sette operatori umanitari (cittadini australiani, britannici, americani e canadesi) mentre centinaia di operatori umanitari palestinesi sono stati uccisi senza un barlume di questa indignazione.

Ma le istituzioni statunitensi hanno messo da parte il razzismo di fronte ad altri grandi movimenti politici, come quello contro l’apartheid in Sudafrica e il mutamento culturale di Black Lives Matter [movimento contro la violenza della polizia nei confronti delle minoranze negli USA, ndt.].

Ed hanno ripetutamente trattato i palestinesi come feccia.

Ci sono molte ragioni per l’esaltazione del sionismo da parte di Washington, ma la principale è il ruolo politico della lobby israeliana. Persino gli ebrei progressisti vedono la creazione di Israele come il più grande risultato del popolo ebraico nell’ultimo secolo, e hanno costruito istituzioni per appoggiare Israele e che hanno una considerevole influenza nel partito Democratico.

Miller è cresciuto in quella comunità. È membro di una facoltosa famiglia di Cleveland che ha incluso molti lobbisti filo-israeliani, tra cui il suo defunto padre. “Era un uomo di fiducia dei primi ministri e di altri dirigenti israeliani,” ha scritto il giornale ebraico di Cleveland. Il cugino di Miller, il defunto grande avvocato per i diritti umani Michael Ratner, nelle sue memorie postume del 2021 ha descritto il sentimento filo israeliano della famiglia: “In casa nostra la raccolta fondi per Israele non è mai cessata… All’epoca avevo 13 anni, la nostra famiglia aveva investito in vari progetti in Israele.”

Segui i soldi. Oggi Biden vede il genocidio a Gaza colpire gli elettori democratici, e forse persino costargli l’elezione, come ha avvertito James Carville, ma non può girare le spalle a Israele perché ha bisogno dei soldi della lobby. Lo scorso anno Biden ha avuto un incontro di tre ore alla Casa Bianca con il super donatore Haim Saban, che lo ha definito “impeccabile” sulla politica israeliana, e recentemente ha ospitato una grande raccolta fondi per Biden in California.

Quando i fratelli Koch [potente famiglia di industriali statunitensi, ndt.] influenzano la politica la si chiama corruzione, ma i media non fanno altrettanto quando lo fa Israele.

I sentimenti personali di Biden riguardo a Israele sono irrilevanti. La verità è che Biden è stato ripetutamente umiliato da Israele e si è rifiutato di fare qualcosa a questo riguardo. Nel 1982, quando era un giovane senatore, sbatté i pugni sul tavolo, fece la predica a Menachem Begin riguardo alle colonie e minacciò di tagliare l’aiuto degli USA. I suoi portavoce negarono questa vicenda quando correva per le elezioni del 2020 in modo che ciò non lo danneggiasse. Nel 2010 Netanyahu lo umiliò annunciando nuove colonie mentre l’allora vice presidente Biden atterrava in Israele. L’aperto disprezzo nei confronti della politica di Obama provocò il fatto che Biden rinviasse un incontro con Netanyahu, ma poi mise da parte il suo orgoglio e vi partecipò.

La politica è molto più importante dei sentimenti. Biden sa che i Democratici sono stati straordinariamente dipendenti dalla comunità ebraica per la raccolta fondi e quindi non possono fare niente che possa scoraggiare l’attaccamento percepito di quella comunità a Israele.

“C’è scarsa volontà tra i democratici di discutere pubblicamente un cambiamento sostanziale della politica di lungo corso verso Israele” in larga parte a causa “dell’influenza dei grandi donatori,” ha scritto nel 2019 sul New York Times Nathan Thrall [noto editorialista e scrittore statunitense di origini ebraiche, ndt.].

Delle decine di assegni personali di oltre 500.000 dollari versati al più grande PAC [Political Action Committee, che si occupa di raccogliere i fondi per le campagne elettorali, ndt.] per i Democratici nel 2018, il PAC della Maggioranza al Senato, circa tre quarti sono stati firmati da donatori ebrei. Ciò fomenta teorie cospirative antisemite e per qualcuno è l’elefante nella stanza. Benché il numero di donatori ebrei noti per dare la priorità alle politiche filo-israeliane su ogni altra questione sia piccolo, ce ne sono pochi, se non nessuno, che spingano nella direzione opposta…”

Dopo che Netanyahu umiliò Obama alla Casa Bianca nel 2011 dandogli lezioni su Gerusalemme, Ben Rhodes, il principale consigliere di Obama sulla politica estera, dovette poi prostrarsi davanti alla lobby filo-israeliana. Disse che dovette contattare per telefono “una lista di importanti donatori ebrei… per rassicurarli delle credenziali filoisraeliane di Obama.”

Una volta Tom Friedman [famoso giornalista filoisraeliano del New York Times, ndt.] spiegò la questione: “Se ho il timbro di approvazione dell’AIPAC [principale organizzazione della lobby filoisraeliana negli USA, ndt.] e tu no… Non devo fare molte telefonate per avere tutto il denaro di cui ho bisogno per correre contro di te. (Mentre) tu dovrai fare 50.000 telefonate.”

C’è una lunga storia della lobby filoisraeliana che ha danneggiato i politici che si sono messi di traverso. Clinton fece di George Bush un presidente con un solo mandato in parte correndo alla sua destra sulle colonie a cui Bush si era opposto. Come affermò Friedman, il figlio di Bush, George W., ne ricavò la lezione politica secondo cui i Repubblicani non avrebbero mai più dovuto essere contro Israele e divenne presidente con l’appoggio dei neocons, la cui intera visione del mondo era modellata sull’appoggio USA a Israele.

La convinzione secondo cui i neocons sono la ragione per cui Bush iniziò la guerra in Iraq è ampiamente sostenuta, anche da Tom Friedman, ma quando alcuni studiosi lo affermarono in un libro del 2007, The Israel Lobby, molti nella comunità ebraica ufficiale denunciarono l’idea come antisemita. “Gli ebrei sono responsabili di ogni guerra,” lo ridicolizzò Jeffrey Goldberg.

Chotiner e Miller sanno tutto ciò e non ne vogliono parlare. Se vuoi condannare le persone per una cattiva politica dovresti iniziare dal tuo stesso orticello. Questa è sempre stata la ragione per cui mi sono concentrato sulla lobby filoisraeliana, è un’istituzione nata nella mia comunità, su cui ho una particolare competenza.

Ora Chotiner ha l’obbligo di intervistare un esperto della lobby ebraica, come John Mearsheimer o Stephen Walt [autori di La Israel lobby e la politica estera americana, Mondadori, 2009], che hanno messo in pericolo la loro carriera per denunciare questa influenza. Loro risponderebbero a questa domanda fondamentale: perché una superpotenza fa tutto il possibile per agevolare il genocidio di un popolo dell’etnia sbagliata da parte di un piccolo Paese?

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




138 giornalisti uccisi a Gaza

Redazione di Middle East Monitor

2 aprile 2024 – Middle East Monitor

Ieri l’ufficio stampa del governo ha annunciato che 138 giornalisti sono stati uccisi a Gaza dal 7 ottobre 2023.

L’ufficio stampa ha affermato che “il numero di giornalisti martiri è aumentato dopo l’uccisione del giornalista Mohammad Abu Sakhil durante la criminale incursione nel complesso ospedaliero Al-Shifa a Gaza.”

Il ministero della Sanità a Gaza ha riferito che ieri le forze di occupazione hanno abbandonato la struttura dell’Al-Shifa e le aree circostanti nella Striscia di Gaza assediata, due settimane dopo aver lanciato una operazione militare su larga scala contro il sito, lasciandosi dietro numerosi corpi in decomposizione, che sono stati schiacciati dai veicoli militari, dilaniati da cani randagi o di persone che sono state uccise in esecuzioni sommarie con le mani legate dietro la schiena, molti dei quali non sono identificabili.

Decine di corpi sono stati trovati dentro e attorno alla struttura sanitaria,” ha affermato il ministero.

Dal 7 ottobre 2023 Israele ha ucciso 32.845 palestinesi e ne ha feriti 75.392.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Guerra contro Gaza: brutale il contrasto tra come la Gran Bretagna tratta i rifugiati palestinese e quelli ucraini

Richard Burden

2 aprile 2024 – Middle East Eye

Il governo britannico deve togliere i crudeli ostacoli per i profughi palestinesi che cercano rifugio in Gran Bretagna e contribuire anche a porre fine alle estorsioni a danno dei disperati al valico di Rafah

Rifugiati di Gaza con familiari in Gran Bretagna affrontano sia ostacoli kafkiani da parte del governo inglese che estorsioni sul confine tra Rafah e l’Egitto. Una famiglia che conosco ha fatto l’esperienza di entrambi. Tuttavia, prima di affrontare queste vicende, chiariamo una cosa: il modo per porre fine alle sofferenze a Gaza è un cessate il fuoco immediato e un accesso senza restrizioni nella Striscia.

È assolutamente inaccettabile aspettarsi che i palestinesi lascino la propria patria, benché molti degli estremisti che dominano l’attuale governo israeliano vorrebbero spingerne quanti più possibile oltre il confine con l’Egitto.

La stragrande maggioranza dei palestinesi che vivono a Gaza proviene da famiglie di rifugiati che scapparono lì cacciati dalle proprie case verso nord quando venne creato Stato di Israele nel 1948. I palestinesi la chiamano Nakba, o catastrofe.

Il massacro di Gaza è già più che terribile. Il mondo non deve consentire che l’orrore si trasformi nella Nakba 2.0.

Nessuno suggerisce neppure che la risposta per il popolo ucraino sia andarsene dalla patria di fronte all’aggressione russa. Ma ciò non ha impedito a molti Paesi, compreso il nostro, di aprire le porte per fornire un rifugio sicuro alle famiglie che scappano dal massacro in Ucraina.

Ciò non è altro che la cosa giusta da fare a livello umano e riflette lo spirito della Convenzione Internazionale sui Rifugiati del 1951, di cui Il Regno Unito è uno dei firmatari.

Netto e brutale

Ma il contrasto tra il modo in cui la Gran Bretagna tratta i rifugiati ucraini e quelli che fuggono da Gaza è netto e brutale. Per poter entrare nel Regno Unito chi fugge da Gaza deve dimostrare sia di avere il permesso di ingresso per più di sei mesi che un coniuge o un figlio con meno di 18 anni qui.

Se hai un fratello o una sorella che vive in Gran Bretagna, o sei un anziano vulnerabile con un figlio o una figlia adulti che vivono qui, le norme del Regno Unito ti dicono di scordartelo.

Tali condizioni non sono imposte alle persone che fuggono dall’Ucraina. Infatti, in base al programma “Case per l’Ucraina”, i cittadini britannici sono stati aiutati perché accogliessero in casa loro profughi ucraini, indipendentemente dal fatto che essi abbiano rapporti familiari. E a ragione.

Quando interrogati in parlamento, i ministri britannici spesso dicono che verificheranno casi individuali di palestinesi che scappano da Gaza che i parlamentari porteranno alla loro attenzione. Tuttavia finora ci sono poche prove che le loro parole significhino un granché nella pratica.

Niente obbliga il governo britannico a comportarsi in questo modo. È una decisione politica deliberata da parte sua ed è tempo che i ministri cambino direzione.

Molti membri del parlamento e della Camera dei Lord di vari partiti hanno firmato la lettera aperta della baronessa Bennett al ministro degli Interni che invoca l’introduzione di un regime di visti per i palestinesi modellato su “Case per l’Ucraina”.

Anche due mozioni simili sono state presentate alla Camera dei Comuni.

Tutti questi tentativi meritano il nostro appoggio. Sono necessarie anche azioni, non solo parole, da parte dei ministri britannici.

Estorsione

Ma queste cose sono solo una parte della vicenda. In primo luogo per uscire da Gaza ai rifugiati palestinesi deve essere permesso attraversare il valico tra Rafah e il deserto del Sinai egiziano.

Benché il confine sia direttamente amministrato dall’Egitto, anche Israele ha molta voce in capitolo su chi lo può attraversare e chi no. Dal 7 ottobre non c’è nessun altro modo per lasciare Gaza.

I palestinesi che cercano di andare in Gran Bretagna devono prima inserire il loro nome in una lista fornita alle autorità egiziane e israeliane dal consolato generale britannico a Gerusalemme. Se non sei un cittadino inglese o se non soddisfi i rigidi criteri del governo britannico sulla concessione dei visti non sarai inserito in quella lista.

Anche se la Gran Bretagna inserisce il tuo nome nella lista, ciò non garantisce il permesso di attraversare il valico di Gaza da parte delle autorità egiziane e israeliane.

Se ci sei o sei un palestinese che cerca di andare in un qualunque altro Paese dovrai anche pagare un pesante balzello perché ti sia consentito attraversare fisicamente il valico di Rafah. Di recente ai membri di una famiglia palestinese che conosco sono state fatte pagare quasi 9.000 sterline [oltre 10.000 euro, ndt.] per consentire a una madre con i figli di entrare in Egitto.

So di famiglie a cui è stata chiesta una quantità di denaro anche superiore. I miei amici sono stati sufficientemente fortunati ad avere la disponibilità di quel denaro. Sarebbe semplicemente al di là delle possibilità della stragrande maggioranza dei palestinesi di Gaza, una striscia di terra devastata dalla povertà molto prima dell’ultima invasione israeliana e che non ha avuto un’economia funzionante negli ultimi sei mesi di guerra.

Sembra che nessuno sappia quanto denaro richiesto ai palestinesi al valico di Rafah sia rappresentato da tributi ufficiali del governo egiziano e quanto sia dovuto alla corruzione alla frontiera. In ogni caso si tratta di un’estorsione a danno di persone che a Gaza hanno già vissuto orrori indicibili.

Il governo britannico non solo deve togliere i brutali ostacoli che mette sul percorso dei rifugiati palestinesi che cercano rifugio in Gran Bretagna, soprattutto quando hanno una famiglia o altri rapporti qui. Deve anche, insieme ad altri Paesi, imporre una pressione documentabile sull’Egitto perché finisca l’estorsione a Rafah, sia che derivi da tasse di uscita ufficiali che da iniziative di funzionari corrotti.

Il comune senso del decoro non richiede niente di meno.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle Esta Eye.

Richard Burden è un ex-parlamentare laburista, ministro ombra e presidente del Gruppo Parlamentare Multipartito Gran Bretagna-Palestina. Per oltre 45 anni Burden ha militato in appoggio dei diritti umani e la giustizia in Israele e Palestina. È anche amministratore fiduciario dell’organizzazione benefica Balfour Project e vice presidente degli Amici Laburisti della Palestina e del Medio Oriente (LFPME).

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele ha distrutto l’ospedale al-Shifa per accelerare la distruzione delle strutture sociali di Gaza

Faris Giacaman 

2 Aprile 2024 – Mondoweiss

Israele vuole provocare un crollo dellordine sociale a Gaza, e non può riuscirci senza cancellare i suoi ospedali.

La caduta dell’ospedale al-Shifa sarà ricordata come uno dei momenti più cruciali della campagna genocida di Israele a Gaza, non per la scatenata volontà di distruzione mostrata, ma perché ha offerto una straordinaria immagine del vero motivo per cui Israele ha deciso di demolire sistematicamente gli ospedali di Gaza.

Nei tempi di guerra gli ospedali di Gaza non sono serviti solo come luoghi per la cura dei feriti e dei malati, ma sono diventati istituzioni sociali fondamentali, ospitando un microcosmo dellintero ordine sociale di Gaza. Sono diventati centri nevralgici per giornalisti e difensori dei diritti umani, hanno offerto spazio alle squadre della protezione civile di Gaza per organizzare e coordinare le attività di salvataggio, sono diventati una base operativa per le forze di polizia di Gaza e hanno ospitato decine di migliaia di rifugiati sfollati in cerca di riparo dai bombardamenti. Gli ospedali sono diventati tutto questo perché costituivano le ultime istituzioni civili rimaste che avrebbero dovuto godere di un minimo di protezione dalla guerra.

In altre parole, essi ospitavano tutti i meccanismi che fanno funzionare una società. Al posto della demolizione delle infrastrutture di resistenza di Gaza, un traguardo che rimane irraggiungibile per lesercito israeliano, uno degli obiettivi della guerra di Israele a Gaza è stato quello di provocare il collasso delle strutture sociali.

La normalizzazione degli attacchi contro gli ospedali

Tutto è iniziato con il primo assalto israeliano contro al-Shifa il 15 novembre. Nei giorni precedenti lincursione lospedale era stato messo sotto assedio mentre il personale sanitario e i medici venivano colpiti attraverso le finestre e nel cortile principale dellospedale. Quando altri si precipitavano fuori nel tentativo di salvarli, anche loro venivano abbattuti, finché nessuno ha più osato lasciare gli edifici. I feriti venivano lasciati morire dissanguati, per poi marcire ed essere mangiati dagli animali randagi. Quando lesercito israeliano è entrato, ha ripulito lospedale dal personale, dai pazienti e dai rifugiati sfollati. La propaganda israeliana ha cominciato a inondare i media con immagini di armi nascoste dietro una macchina per la risonanza magnetica, una delle poche fragili prove” a sostegno delluso dellospedale come centro di comando e controllo” militare.

Ma nonostante il fatto che le affermazioni di Israele su al-Shifa si siano rivelate infondate linvasione ha costituito un importante precedente per quella che è stata considerata una condotta ammissibile durante la guerra. Ciò che prima era impensabile ora è diventato una cosa normale, ponendo le basi per ciò che sarebbe successo.

Favorire la distruzione delle strutture portanti della società

Verso la fine dellanno, dopo il ritiro dellesercito da alcune aree del nord di Gaza, compresa la zona circostante al-Shifa, il personale medico e i pazienti sono tornati allinterno dell’ospedale. Al-Shifa ha rapidamente ripreso il suo status di centro nevralgico per gli sfollati e gli attori della società civile. Ma con linizio del nuovo anno la carestia e la fame hanno cominciato a manifestarsi. La privazione sistematica degli aiuti alimentari e la presa di mira dei richiedenti aiuto nelle rotatorie Kuwait e Nabulsi nel nord di Gaza hanno portato a diversi massacri che hanno messo in crisi la popolazione locale.

Poi, in quello che è stato universalmente considerato un risultato straordinario, il 17 marzo un convoglio di 13 camion di aiuti è finalmente arrivato nel nord senza incidenti. La differenza è che questa volta la consegna degli aiuti è stata coordinata direttamente dalle forze di polizia di Gaza. La figura chiave che ha organizzato la consegna è stato il direttore delle operazioni di polizia, Faiq Mabhouh, che come la maggior parte dei dipendenti civili di Gaza ha naturalmente coordinato le operazioni da al-Shifa. Il giorno successivo, il 18 marzo, Israele ha lanciato la sua seconda incursione nellospedale.

Non sorprende che Israele abbia riciclato le solite affermazioni infondate, affermando che loperazione era basata su informazioni di intelligence preciseche indicavano che lospedale ospitava centinaia di militari dai quali venivano condotti attacchi terroristici. Il primo giorno dell’attacco le forze israeliane hanno assassinato Mabhouh, uccidendo altre decine di persone all’interno del complesso medico. Fin dallinizio Mondoweiss ha dimostrato la vera ragione dietro lattacco: sferrare un colpo alle infrastrutture civili di Gaza con lobiettivo di provocare il caos e minarne la capacità operativa.

Mabhouh aveva supervisionato diversi comitati popolari in coordinamento con le comunità locali per organizzare la consegna degli aiuti alla popolazione affamata. Stava diventando chiaro che il governo di Hamas stesse tentando di ristabilire un punto d’appoggio nel nord di Gaza e di riportare l’ordine, cosa di cui si erano già intravisti dei segnali a febbraio. Naturalmente per Israele qualsiasi impiegato governativo a Gaza, anche se in settori civili come la polizia, era, a tutti gli effetti, agente di Hamas, non diverso dai combattenti della resistenza delle Brigate Qassam. Inclusi anche i membri dei comitati e delle organizzazioni civiche responsabili della distribuzione degli aiuti, che Israele ha continuato a prendere di mira nel nord di Gaza mentre iniziava lassedio di al-Shifa.

Quasi due settimane dopo, il 31 marzo, dopo l’uccisione da parte dellesercito israeliano di oltre 70 dei loro membri, i comitati popolari e le comunità hanno annunciato che avrebbero interrotto il coordinamento e la distribuzione degli aiuti nel nord di Gaza. I comitati hanno rilasciato una dichiarazione affermando che lesercito li aveva sistematicamente presi di mira e che stava deliberatamente seminando caos e fameimpedendo a organizzazioni internazionali come la Croce Rossa, lUNRWA e il Programma Alimentare Mondiale di fornire aiuti. Quando lesercito israeliano si è ritirato da al-Shifa, il Gaza Media Office ha dichiarato che durante il raid durato due settimane almeno 400 palestinesi erano stati uccisi e 900 feriti. Gli edifici non distrutti sono stati incendiati e danneggiati irreparabilmente. L’esercito ha promesso che al-Shifa non avrebbe ripreso la sua operatività.

La realizzazione della zona di uccisione

Nel corso delle due settimane in cui è proseguito l’assedio di al-Shifa hanno iniziato ad emergere notizie di atrocità e massacri su larga scala avvenuti nell’ospedale. Al termine dellincursione innumerevoli testimonianze hanno riportato dettagliatamente esecuzioni sul posto, mentre le squadre della Protezione Civile hanno riferito di aver trovato cadaveri con le gambe legate sepolti sotto la sabbia.

Un giorno prima del ritiro dellesercito Haaretz ha pubblicato uninchiesta che fornisce nuove informazioni su come lesercito ha operato durante la guerra, realizzando zone di uccisionein cui i soldati hanno ricevuto istruzioni di sparare a vista a chiunque. L’articolo definisce tali zone come un’area in cui si insedia una pattuglia, di solito una casa abbandonata, con la zona circostante che diventa unarea militare chiusa, ma non delimitata da segnali ben visibili. Naturalmente, queste zone di uccisionesi trovano anche nel mezzo di quartieri residenziali, molti dei quali non evacuati.

L’articolo fornisce un quadro utile per comprendere come si è probabilmente svolta linvasione di al-Shifa.

Inizia con un riferimento al famigerato attacco dell’inizio di gennaio contro quattro uomini disarmati a Khan Younis da parte di un drone israeliano, affermando che lincidente è stato uno dei tanti in cui sono stati uccisi civili palestinesi in quanto dichiarati senza prove terroristi” dallesercito.

L’inchiesta raccoglie le testimonianze di numerosi soldati israeliani, “alti” ufficiali dellesercito e numerosi comandanti di ruolo e di riserva dellesercito da cui risulta che tutti mettono in dubbio laffermazione che fossero tutti terroristi, implicando che la definizione di terrorista è aperta a unampia gamma di interpretazioni. È del tutto possibile che dei palestinesi che non hanno mai impugnato unarma in vita loro una volta morti siano stati elevati al rango di terroristi”, almeno dalle IDF[esercito israeliano, ndt.]”.

Non è che facciamo l’inventario dei cadaveri, ma nessuno può determinare con certezza chi è un terrorista e chi è stato colpito una volta entrato nella zona di combattimento, ha detto ad Haaretz un ufficiale della riserva. Un altro ufficiale riservista ha affermato che in pratica, terrorista è chiunque sia stato ucciso dai militari nelle aree in cui operano. L’ufficiale ha detto che i rapporti dell’esercito israeliano sul numero di combattenti della resistenza presumibilmente uccisi erano sorprendentie che non c’è bisogno di essere un genio per rendersi conto che non ci sono centinaia o decine di uomini armati che corrono per le strade.”

Al contrario, le testimonianze dei soldati affermano che molte di queste persone erano probabilmente non combattenti disperati in cerca di cibo che si erano imbattuti in aree che pensavano fossero state evacuate dallesercito. “Quando si recavano in luoghi del genere venivano uccisi in quanto percepiti come potenzialmente pericolosi per l’incolumità delle nostre forze”, ha detto ad Haaretz un comandante.

Eppure la definizione dellesercito di minacciapercepita è altrettanto ampia. “Non appena le persone entrano [in una zona di uccisione], soprattutto maschi adulti, l’ordine è di sparare e uccidere, anche se quella persona è disarmata”, ha detto ad Haaretz un ufficiale riservista. Un altro soldato che era stato nel nord di Gaza ha detto che la sensazione che avevamo era che lì non esistessero realmente regole di ingaggio, mentre un alto funzionario dellestablishment della difesa ha detto ad Haaretz che sembra che molti reparti combattenti stiano scrivendo le proprie regole di ingaggio.”

Queste testimonianze di soldati sono coerenti con i resoconti dei testimoni oculari e delle organizzazioni per i diritti umani nel nord di Gaza, che descrivono anche in dettaglio la prassi di sparare intenzionalmente ai bambini con proiettili veri e luso dei palestinesi come scudi umani durante il raid ad al-Shifa. Anche se nulla di tutto ciò porti di fatto nuove rivelazioni per la comprensione delle atrocità di Israele, le testimonianze dei soldati sono preziose nel rivelare luso delle zone di uccisionecome quadro operativo per la conduzione di attività sul campo.

Questo ci riporta allassalto ad al-Shifa. Secondo Ynet [quotidiano israeliano, ndt.] lesercito israeliano ha affermato di aver condotto unoperazione precisache ha distinto tra terroristi e civili, ma che la priorità della sicurezza dei soldati israeliani è sempre rimasta fondamentale. Ecco perché, secondo lesercito, di fronte al rischio per la sicurezza delle nostre forze quando viene rilevata una minaccia apriamo il fuoco per eliminare i terroristi”.

In altre parole, lintero ospedale di al-Shifa e larea circostante sono stati trasformati in una gigantesca zona di uccisione.

(traduzione dallinglese di Aldo Lotta)




Sette operatori umanitari a Gaza, compresi cittadini del Regno Unito, degli Stati Uniti e dell’Australia, uccisi in un attacco israeliano, afferma l’organizzazione benefica

Bethan McKernan, a Gerusalemme, e Ben Doherty

2 aprile 2024 – The Guardian

L’esercito israeliano indaga in seguito al fatto che in un convoglio colpito nel centro di Gaza si trovavano degli operatori di World Central Kitchen 

Sette persone che lavoravano per World Central Kitchen [ONG americana, ndt.], un’organizzazione benefica che promuove sforzi per alleviare l’incombente carestia a Gaza, sono rimaste uccise in un attacco aereo israeliano, dice l’organizzazione, gettando nel caos gli sforzi di soccorso umanitario nel territorio palestinese, in quanto l’organizzazione ha detto che avrebbe sospeso le operazioni.

Secondo una dichiarazione rilasciata giovedì mattina gli operatori facevano parte di un gruppo che viaggiava su tre veicoli corazzati che riportavano il logo dell’organizzazione umanitaria. World Central Kitchen (WCK) ha detto che gli uccisi erano originari di Regno Unito, Australia, Polonia e Palestina e uno aveva doppia cittadinanza USA e canadese.

Secondo un giornalista dell’Associated Press che si trovava nella struttura, i corpi degli operatori umanitari sono stati portati in un ospedale della città di Rafah nel sud di Gaza, sul confine egiziano. Le registrazioni dell’ospedale hanno riportato che tre cittadini del Regno Unito erano morti.

L’organizzazione ha affermato: “Nonostante i movimenti fossero stati concordati con l’esercito israeliano il convoglio è stato colpito alla partenza dal deposito di Deir al-Balah, dove la squadra aveva scaricato più di 100 tonnellate di aiuti umanitari in cibo portati a Gaza via mare.”

Erin Gore, presidente di WCK, ha detto: “Questo non è solo un attacco contro WCK, è un attacco alle organizzazioni umanitarie che avviene nella più tremenda delle situazioni in cui il cibo viene usato come arma di guerra. Questo è imperdonabile.”

L’organizzazione interromperà le operazioni nella regione e dice che prenderà una decisione sul futuro della sua attività, sollevando timori che il recente corridoio marittimo da Cipro per la consegna di aiuti disperatamente necessari a Gaza possa fallire a fronte dei ripetuti ostacoli da parte israeliana.

Giovedì pomeriggio Cipro ha detto che le navi recentemente giunte a Gaza stanno tornando indietro con 240 tonnellate di aiuti non consegnati.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha deplorato le uccisioni, che ha detto essere state provocate da un attacco aereo israeliano. Ha decritto l’incidente come tragico e non intenzionale.

Succede in tempi di guerra. Stiamo indagando accuratamente sui fatti, siamo in contatto con i governi (delle vittime straniere) e faremo di tutto per garantire che non avvenga di nuovo”, ha detto in una videodichiarazione.

L’esercito israeliano ha espresso “sincero dispiacere” per le morti mentre non ha ammesso del tutto di accettarne la responsabilità, aggiungendo che è in corso un’indagine.

Una dichiarazione dell’esercito afferma: “Le IDF (esercito) compiono molti sforzi per rendere possibile la consegna sicura di aiuti umanitari e hanno lavorato a stretto contatto con WCK nei suoi sforzi vitali per fornire cibo e aiuto umanitario alla popolazione di Gaza.”

I tentativi delle agenzie umanitarie di fornire assistenza dove c’è più necessità a Gaza sono stati gravemente ostacolati da un insieme di impedimenti logistici, da un collasso dell’ordine pubblico e dalla farraginosa burocrazia imposta da Israele. Il numero di camion di aiuti entrati nel territorio via terra negli ultimi cinque mesi è stato molto al di sotto dei 500 al giorno che entravano prima della guerra.

A febbraio più di 100 persone sono state uccise quando le forze israeliane hanno aperto il fuoco in un punto di distribuzione degli aiuti a Gaza City. L’esercito israeliano ha detto che per la maggior parte sono morti nella calca, ma funzionari palestinesi e testimoni lo hanno smentito dicendo che la maggioranza di quelli portati in ospedale presentava ferite da proiettili.

L’ONU ha detto che nel territorio costiero almeno 576.000 persone– un quarto della popolazione – sono sulla soglia della carestia ed è aumentata la pressione su Israele perché accresca il flusso di aiuti.

Le navi con gli aiuti arrivate lunedì trasportavano 400 tonnellate di cibo e prodotti – sufficienti per un mese di pasti – in una spedizione finanziata dagli Emirati Arabi Uniti e organizzata da WCK, ma gli operatori avevano scaricato solo 100 tonnellate prima che l’attacco costringesse l’organizzazione ad ordinare che le imbarcazioni tornassero a Cipro.

Il mese scorso un’altra nave di WCK ha consegnato 200 tonnellate di aiuti in un’esperienza pilota resa possibile da volontari di WCK e da altri a Gaza che hanno costruito un molo con le macerie di edifici distrutti dai bombardamenti israeliani negli scorsi cinque mesi. L’esercito israeliano è stato coinvolto nel coordinamento di entrambe le consegne.

Washington, il principale alleato di Israele, ha caldeggiato la via marittima come nuovo modo per fornire aiuti disperatamente necessari al nord di Gaza, che è ampiamente separato dal resto del territorio dalle forze israeliane.

Israele ha impedito all’UNRWA, la principale agenzia dell’ONU a Gaza, di effettuare consegne nel nord dopo aver sostenuto che molti dei suoi dipendenti erano coinvolti nell’attacco di Hamas che ha scatenato la guerra, ora nel suo sesto mese. Altre organizzazioni umanitarie dicono che spedire convogli di camion al nord è troppo pericoloso a causa delle mancate garanzie da parte dell’esercito di un passaggio sicuro.

In base ai dati israeliani il 7 ottobre circa 1.200 israeliani sono stati uccisi e altri 250 presi in ostaggio, mentre più di 32.000 palestinesi sono stati uccisi nella successiva offensiva israeliana, secondo il locale Ministero della Salute nel territorio governato da Hamas.

José Andrés, il fondatore di WCK, ha dichiarato a X che l’organizzazione umanitaria “ha perso parecchie nostre sorelle e fratelli in un attacco aereo delle IDF a Gaza.”

Ha scritto: “Ho il cuore spezzato e sono addolorato per le loro famiglie ed amici e per l’intera nostra famiglia di WCK. Queste sono persone…sono angeli…Ho lavorato al loro fianco in Ucraina, a Gaza, in Turchia, in Marocco, alle Bahamas, in Indonesia. Hanno un volto…hanno un nome.”

Ha detto che il governo israeliano avrebbe dovuto “fermare queste uccisioni indiscriminate.”

Il Primo Ministro australiano, Anthony Albanese, ha identificato la persona uccisa di nazionalità australiana come Zomi Frankcom e ha definito il suo lavoro “straordinariamente importante.”

Albanese ha detto che il suo governo avrebbe convocato l’ambasciatore israeliano riguardo ad un incidente che ha detto essere “al di là di ogni ragionevole circostanza”, aggiungendo: “l’Australia si attende una piena assunzione di responsabilità per la morte di operatori umanitari, che è assolutamente inaccettabile.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Perché gli israeliani si sentono così minacciati da un cessate il fuoco?

Meron Rapoport

29 marzo 2024-+972Magazine

Fermare la guerra di Gaza significa riconoscere che gli obiettivi militari di Israele sono irrealistici – e che Israele non può sottrarsi a un processo politico con i palestinesi.

La decisione americana di non porre il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che chiedeva un cessate il fuoco immediato a Gaza – la prima volta dall’inizio della guerra che avevano consentito l’approvazione di una risoluzione del genere – ha provocato ondate di shock in Israele. Il successivo annullamento da parte di Benjamin Netanyahu di un previsto incontro israeliano con l’amministrazione Biden a Washington non ha fatto altro che aumentare l’impressione che Israele fosse rimasto isolato sulla scena internazionale e che Netanyahu stesse mettendo a repentaglio la risorsa più importante del paese: la sua alleanza con gli Stati Uniti.

Eppure, nonostante ci siano state critiche diffuse sulla gestione di queste questioni delicate da parte di Netanyahu, anche i suoi oppositori – sia nel campo “liberal” che nella destra moderata – sono stati unanimi nel respingere il voto delle Nazioni Unite. Yair Lapid, capo del partito di opposizione Yesh Atid, ha affermato che la risoluzione è “pericolosa, ingiusta e Israele non la accetterà”. Il ministro Hili Tropper, stretto alleato del rivale di Netanyahu Benny Gantz – che secondo i sondaggi vincerebbe facilmente se le elezioni si tenessero oggi – ha detto: “La guerra non deve finire”. Questi commenti non differivano molto dalle reazioni rabbiose di leader di estrema destra come Bezalel Smotrich o Itamar Ben Gvir.

Questo rifiuto quasi unanime del cessate il fuoco rispecchia il sostegno trasversale dei partiti per un’invasione della città di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, anche se Netanyahu non sostiene che l’operazione otterrà la tanto attesa “vittoria totale” da lui promessa.

Ad alcuni l’opposizione al cessate il fuoco potrà sembrare strana. Molti israeliani accettano l’affermazione secondo cui Netanyahu sta continuando la guerra per promuovere i suoi interessi politici e personali. Le famiglie degli ostaggi israeliani, ad esempio, stanno diventando sempre più critiche nei confronti del “trascinare i piedi” di Netanyahu e amplificano le loro richieste per un “accordo adesso”.

Anche all’interno dell’establishment della sicurezza israeliana sempre più persone affermano apertamente che “eliminare Hamas” non è un obiettivo raggiungibile. “Dire che un giorno ci sarà una vittoria completa a Gaza è una completa menzogna”, ha recentemente affermato l’ex portavoce dell’IDF Ronen Manelis. “Israele non può eliminare completamente Hamas in un’operazione che dura solo pochi mesi”.

Quindi, se cresce l’opinione che Netanyahu stia continuando la guerra per interessi personali; se diventa sempre più chiara l’inutilità di continuare la guerra, sia per quanto riguarda il rovesciamento di Hamas che il rilascio degli ostaggi; se diventa evidente che la continuazione della guerra rischia di danneggiare le relazioni con gli Stati Uniti, come si può spiegare il consenso in Israele sul “pericolo” di un cessate il fuoco?

Questioni di fondo

Una spiegazione è il trauma inflitto dal massacro di Hamas del 7 ottobre. Molti israeliani si dicono che, finché Hamas esiste e gode del sostegno popolare, non c’è alternativa alla guerra. Una seconda spiegazione riguarda l’innegabile talento retorico di Netanyahu, che, nonostante la sua debolezza politica, è riuscito a instillare lo slogan della “vittoria totale” anche tra coloro che non credono a una parola di quello che dice, e tra coloro che capiscono, consciamente o inconsciamente, che questa vittoria non è possibile.

Ma c’è un’altra spiegazione. Fino al 6 ottobre il consenso tra l’opinione pubblica ebraico-israeliana era che la “questione palestinese” non avrebbe dovuto preoccuparli troppo. Il 7 ottobre ha sfatato questo mito. La “questione palestinese” è tornata all’ordine del giorno in tutta la sua sanguinosa rilevanza.

Sono venute alla luce due possibili risposte alla fine di questo status quo: un accordo politico che riconosca realmente la presenza di un altro popolo in questa terra e il suo diritto a una vita di dignità e libertà, o una guerra di sterminio contro il nemico al di là del muro. Il pubblico ebraico, che non ha mai veramente interiorizzato la prima opzione, ha scelto la seconda.

Alla luce di ciò, l’idea stessa di un cessate il fuoco sembra minacciosa. Costringerebbe l’opinione pubblica ebraica a riconoscere che gli obiettivi presentati da Netanyahu e dall’esercito – “rovesciare Hamas” e liberare gli ostaggi attraverso la pressione militare – sono semplicemente irrealistici. L’opinione pubblica dovrebbe ammettere quello che potrebbe essere percepito come un fallimento, addirittura una sconfitta, nei confronti di Hamas. Dopo il trauma e l’umiliazione del 7 ottobre, per molti è difficile digerire una simile sconfitta.

Ma c’è una minaccia più profonda. Un cessate il fuoco potrebbe costringere l’opinione pubblica ebraica ad affrontare questioni più basilari. Se lo status quo non funziona, e una guerra costante con i palestinesi non può ottenere la vittoria desiderata, allora ciò che resta è la verità: che l’unico modo per gli ebrei di vivere in sicurezza è attraverso un compromesso politico che rispetti i diritti dei palestinesi.

Il rifiuto totale del cessate il fuoco e la sua presentazione come una minaccia per Israele dimostrano che siamo lontani dal riconoscimento di questa verità. Ma stranamente potremmo anche essere più vicini di quanto si pensi. Nel 1992, quando gli israeliani furono costretti a scegliere tra una frattura con gli Stati Uniti – a causa del rifiuto dell’allora primo ministro Yitzhak Shamir di accettare lo schema presentato dagli americani per i colloqui con i palestinesi – o la ricucitura della frattura, scelsero la seconda opzione. Yitzhak Rabin fu eletto primo ministro e un anno dopo furono firmati gli accordi di Oslo.

Riuscirà l’attuale spaccatura con l’amministrazione americana a convincere gli ebrei israeliani ad abbandonare l’idea di una guerra perpetua e ad accettare di dare una possibilità ad un accordo politico con i palestinesi? Non è molto chiaro. Ma quello che è certo è che Israele si sta rapidamente avvicinando a un bivio in cui dovrà scegliere: o un cessate il fuoco e la possibilità di dialogo con i palestinesi, o una guerra senza fine e un isolamento internazionale come non ha mai conosciuto. Perché la possibilità di tornare indietro, allo status quo del 6 ottobre, è chiaramente impossibile.

Questo articolo è stato pubblicato in collaborazione con The Nation e Local Call.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)