Armando migliaia di israeliani Ben -Gvir gioca con il fuoco

Eyal Lurie-Pardes

3 novembre 2023 – Dawnmena

All’indomani dell’orrendo attacco terroristico di Hamas il 7 ottobre, Itamar Ben-Gvir, il ministro israeliano della Sicurezza Nazionale, di estrema destra, continua a premere per realizzare il suo programma suprematista ebraico rischiando nuove tensioni e ulteriore violenza tra ebrei israeliani e palestinesi. La sua priorità è rendere meno rigide le norme sulle armi per semplificarne l’acquisto da parte dei cittadini israeliani, invocando un riarmo di massa degli ebrei in Israele. Secondo Ben-Gvir i fucili sono essenziali per la sicurezza pubblica e per prepararsi a uno “scenario di Guardiano delle Mura 2.0,in riferimento ai disordini e alle violenze intercomunitarie nelle città israeliane a popolazione mista ebraico-araba scoppiati durante le proteste nel maggio 2021 a causa dell’espulsione di palestinesi da Gerusalemme Est e delle operazioni militari israeliane a Gaza.

Ora che Israele è consumato da rabbia nazionalista, ostilità e paura nei confronti dei palestinesi in seguito agli attacchi di Hamas, la nuova politica delle armi—armare migliaia di israeliani, inclusi i coloni—aumenta il rischio di innescare questo scenario da incubo.

Da lungo tempo Ben-Gvir propone il possesso delle armi [da parte dei civili]. Da quando è entrato nel governo israeliano nella coalizione del primo ministro Benjamin Netanyahu, il numero delle licenze di porto d’armi è aumentato considerevolmente. Come parte della risposta del ministero della Sicurezza Nazionale all’attacco di Hamas, Ben-Gvir ha adottato modifiche ai requisiti per il porto d’armi intese a estendere l’idoneità e velocizzarne il rilascio. Attraverso un nuovo processo di selezione da remoto, con queste nuove norme un permesso viene rilasciato dopo solo una settimana a chiunque soddisfi i nuovi criteri per l’autodifesa. Sono anche state prorogate le date di scadenza degli attuali permessi ed è stato raddoppiato il numero delle pallottole che è possibile acquistare. Dal 7 ottobre oltre 120.000 persone hanno fatto domanda per il porto d’armi.

In generale le leggi israeliani sulle armi discriminano i non ebrei, rendendo quasi impossibile per loro l’ottenimento di un permesso. Per esempio, le norme concedono una certa discrezione ai funzionari del ministero riguardo alla richiesta ai richiedenti di fornire prova di “sufficiente padronanza dell’ebraico.” Il nuovo criterio per l’autodifesa al centro di tali norme meno rigorose sulle armi è ancora più discriminatorio. Include due requisiti principali: aver prestato il servizio militare o nazionale in determinate unità e la residenza in una “città eleggibile.” I cittadini palestinesi in Israele sono collettivamente esentati dal servizio militare. Anche se soddisfacessero tale requisito sarebbe probabilmente loro negato il porto d’armi in base al luogo di residenza, perché le “città eleggibili” designate sono a gran maggioranza ebraiche. Le norme vanno anche a favore dei coloni ebrei, in particolare in Cisgiordania, dato che l’eleggibilità favorisce le città considerate “pericolose” anche oltre la Linea Verde del 1967. Di 100 città e paesi con il numero più alto di porto d’armi in Israele, 86 sono colonie ebraiche in Cisgiordania.

Un’altra componente della politica sulle armi di Ben-Gvir è istituire più squadre di risposta rapida—conosciute in ebraico come kitat konenut —che da lungo tempo fanno parte delle forze di sicurezza israeliane nelle zone rurali, specialmente in Cisgiordania. Sono gruppi di civili, abitanti di un villaggio o kibbutz, che in caso d’emergenza agiscono come forza volontaria di difesa fino all’intervento della polizia o dell’esercito. Hanno giocato un ruolo chiave nel combattere Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre, quando villaggi e kibbutz sotto attacco hanno aspettato che arrivassero i soldati per molte ore, talvolta anche più a lungo.

Nelle settimane seguenti l’attacco di Hamas, il ministero della Sicurezza Nazionale si è attivato per creare 600 nuove squadre di risposta rapida nelle aree urbane e rurali. Simili ai criteri per il porto d’armi, queste squadre sono autorizzate principalmente nelle città ebraiche ed è richiesto aver fatto il servizio militare, per cui discriminano i cittadini palestinesi di Israele. A differenza delle zone rurali, dove c’è il rischio che passi molto tempo prima che arrivi la polizia durante una crisi, tali forze volontarie di difesa hanno meno senso nelle aree urbane più densamente abitate, se la sicurezza, e non qualcos’altro, è veramente l’obiettivo principale. Queste unità armate di civili sono ancora meno giustificabili in zone con una significativa comunità palestinese e un influsso di coloni israeliani, come a Gerusalemme Est, dove le tensioni sono sempre alte e gli scontri frequenti.

In pratica queste squadre creano un ulteriore percorso per armare gli ebrei israeliani. Come ha segnalato Daniel Seidemann, un avvocato israeliano e fondatore e direttore dell’ong Terrestrial Jerusalem, potrebbero finire per assomigliare alle “milizie private di Ben-Gvir.” Per esempio, recentemente a Gerusalemme Est sono state fondate due squadre a Ir David e Nof Zion, piccoli avamposti ebraici composti da coloni di estrema destra nel cuore dei quartieri palestinesi di Silwan e Jabel Mukaber.

In Israele, a differenza della maggior parte delle politiche di mantenimento dell’ordine pubblico, che sono determinate dalla polizia indipendentemente dal ministero della Sicurezza Nazionale, le normative e la gestione delle armi ricadono interamente sotto l’autorità del ministero—che Ben-Gvir sta usando per i propri scopi politici. Facilitando la distribuzione di più fucili agli israeliani, inclusi molti coloni, Ben-Gvir—lui stesso un colono—sta sperando di promuovere la propria immagine pubblica militarista e scatenare un’isteria anti-palestinese ancora maggiore. Ha trasformato la distribuzione pubblica di fucili in un circo mediatico, talvolta offrendo armi persino lui di persona davanti alle telecamere e pubblicizzando foto e video sui social.

Recentemente queste foto pubblicitarie hanno messo in allarme i funzionari USA, che hanno espresso preoccupazione sul fatto che le armi da loro fornite ad Israele siano usate per armare civili e per far pubblicità a Ben-Gvir invece di essere consegnate all’esercito o alla polizia come previsto. Dopo che gli USA hanno minacciato di sospendere la consegna di 20.000 fucili che il ministero della Sicurezza Nazionale aveva acquistato da fornitori americani, il governo israeliano si è ufficialmente impegnato con Washington a fare in modo che tali fucili vengano distribuiti solo dalla polizia o dall’esercito. Tuttavia le armi potrebbero ancora essere date alle squadre di risposta rapida, perché esse dipendono dalla polizia israeliana.

Una politica di armare così tanti israeliani non potrà far altro che alimentare le tensioni già alte fra ebrei e palestinesi entro la Linea Verde e Gerusalemme Est. A differenza di quanto avvenuto nel maggio 2021, nelle ultime settimane non ci sono stati gravi disordini nelle città miste arabo-ebraiche o scontri a Gerusalemme Est. Ma questa relativa calma è fragile, specialmente in un momento in cui molti israeliani descrivono ogni palestinese come “il nemico”. Questa rabbia contro i palestinesi è evidente nei gruppi di destra che hanno attaccato studenti e attivisti di sinistra palestinesi in Israele. In una situazione così esplosiva armare così tanti israeliani che non hanno ancora di un sufficiente addestramento per usare un’arma potrebbe alimentare una nuova ondata di disordini su scala nazionale.

Rendere meno rigida la normativa sulle armi è dannoso specialmente in Cisgiordania, dove la violenza dei coloni è aumentata dal 7 ottobre e dove durante gli attacchi sono stati uccisi almeno 115 palestinesi, feriti oltre 2.000 e rimossi con la forza dalle proprie case circa 1.000 palestinesi. La violenza dei coloni era già in aumento l’anno scorso. Armare praticamente ogni colono come vuole Ben-Gvir porterà solo altra violenza. Dopo l’attacco di Hamas il capo del consiglio regionale di Binyamin, il municipio con circa 50 colonie e avamposti nella Cisgiordania centrale, ha affermato che “ogni arabo che si avvicina a una colonia e mette a rischio gli abitanti” è un obiettivo legittimo.

Ben-Gvir sta giocando con il fuoco. Una nuova fase di violenza intercomunitaria peggiore del maggio 2021—”Guardiano delle Mura 2.0,” come si è espresso Ben-Gvir —potrebbe diventare una profezia che si autoavvera. Persino quando finirà questa guerra a Gaza tutte queste armi in eccesso e le nuove squadre di difesa simili a milizie creeranno una nuova pericolosa situazione in tutto Israele.

Eyal Lurie-Pardes è professore-ospite presso l’Istituto per gli studi sul Medio Oriente (Washington) per il programma sulla Palestina e sugli affari palestinesi-israeliani.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Guerra Israele-Palestina: come Hamas vede l’andamento del conflitto a Gaza e perché pensa di poter vincere

David Hearst 

4 novembre 2023 – Middle East Eye

Una fonte vicina alla leadership politica di Hamas afferma che l’organizzazione crede di poter sconfiggere Israele ma riconosce il pesante prezzo pagato da chi è sul campo.

Lattacco di Hamas del 7 ottobre è stato definito da una delle principali fonti arabe il più grande di tutti gli errori di valutazione nella storia”.

Unoperazione che secondo le persone informate sui dettagli della sua pianificazione doveva essere una missione tattica progettata per catturare al massimo una ventina di ostaggi militari si è trasformata, in seguito al crollo della Divisione israeliana di Gaza, in un assalto caotico.

Mentre i combattenti di Hamas e una serie di altri partecipanti armati provenienti da Gaza facevano irruzione nel sud di Israele attaccando basi militari, comunità di kibbutz e un festival musicale, lassalto ha prodotto le immagini terrificanti del peggior massacro di civili israeliani dalla nascita dello Stato.

Hamas è accusata da organizzazioni per i diritti umani di uccisioni deliberate, rapimenti e attacchi indiscriminati nei confronti di civilinel corso di episodi oggetto di un’indagine in corso da parte della Corte Penale Internazionale.

Sono stati sequestrati fino a 250 ostaggi, alcuni dei quali cittadini stranieri.

In risposta, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha promesso di estirpare Hamas da Gaza.

Una campagna ritorsiva di bombardamenti mirata a spingere oltre un milione di abitanti della parte settentrionale del Paese verso sud e verso il confine egiziano sta per entrare nella quinta settimana con soldati israeliani e miliziani di Hamas impegnati nei combattimenti.

Secondo i dati del ministero della Sanità palestinese i bombardamenti hanno raso al suolo il nord di Gaza e ucciso oltre 9.000 palestinesi. La situazione non mostra segni di cedimento, dal momento che Israele e gli Stati Uniti resistono alla crescente pressione internazionale per un cessate il fuoco.

Middle East Eye ha riferito che lufficio politico di Hamas a Doha è stato tenuto all’oscuro della decisione di Mohammed Deif, comandante delle Brigate Izz al-Din al-Qassam, di scatenare il raid.

Ma nel suo ruolo di leadership lala politica di Hamas ha dovuto assumersene la responsabilità e costituisce al momento una parte fondamentale dei negoziati per il rilascio degli ostaggi su mediazione del Qatar.

Questa è la situazione vista dall’esterno del gruppo combattente, ma non è il modo in cui la stessa Hamas vede questi eventi.

Per scoprire cosa pensa Hamas MEE ha parlato con una fonte palestinese di alto livello in contatto con la leadership politica di Hamas.

MEE ha posto tre domande principali. Perché l’attacco è avvenuto in quel momento? Gli obiettivi di guerra di Israele sono realizzabili? Cosa pensa di ottenere Hamas al termine della guerra?

Perché adesso?

A scatenare l’attacco del 7 ottobre è stata la preoccupazione di Hamas che gli ebrei di estrema destra intendessero sacrificare un animale nel sito della moschea di al-Aqsa, ponendo così le basi per la demolizione del santuario della Cupola sulla Roccia e la costruzione del Terzo Tempio, ha affermato.

Hamas ha seguito da vicino i piani israeliani di istituire una presenza ebraica permanente all’interno del complesso di al-Aqsa. Al-Aqsa è considerato il terzo luogo più sacro dell’Islam e un simbolo dell’identità palestinese. È conosciuto in Israele come il Monte del Tempio.

La presenza quotidiana ad al-Aqsa di ebrei di estrema destra era già stata conseguita, con due irruzioni giornaliere al mattino e al pomeriggio in tour protetti da poliziotti armati fino ai denti e della durata da 30 minuti a un’ora.

Secondo alcune sette religiose messianiche come il Temple Institute, prima che il Terzo Tempio possa essere ricostruito deve essere sacrificata una giovenca rossa senza macchia per purificare il terreno.

A questo scopo sono state importate delle mucche Red Angus dagli Stati Uniti. Allinizio di questanno un’organizzazione a favore del Terzo Tempio ha dichiarato che sperava di macellare durante le vacanze di Pasqua del prossimo anno, che cadranno nellaprile 2024, cinque giovenche importate.

La fonte di MEE afferma che era stata già fatta una programmazione dei tempi rilevando che i coloni avevano eseguito nel sito di al-Aqsa sacrifici di vegetali”.

Affermazione che sembra riferirsi a un’irruzione avvenuta un mese fa da parte di decine di coloni che trasportavano fronde di palma per celebrare la festa ebraica del Sukhot [festa israeliana di pellegrinaggio della durata di sette giorni, ndt.].

Resta solo da compiere la macellazione delle giovenche rosse importate dagli Stati Uniti. Se la facessero sarebbe il segnale per la ricostruzione del Terzo Tempio, dice la fonte.

Hamas aveva già avvertito Israele che stava giocando con il fuoco nel tentare di mettere in atto ad al-Aqsa accordi simili a quelli relativi alla Moschea Ibrahimi di Hebron, divisa tra musulmani ed ebrei [dopo il massacro compiuto dal colono Baruch Goldstein nel 1994 che uccise 29 fedeli palestinesi, lesercito israeliano confiscò la maggior parte della moschea e ai musulmani viene inoltre impedito laccesso alla Moschea Ibrahimi durante le festività ebraiche, ndt.].

Anche altre organizzazioni palestinesi, inclusa lAutorità Nazionale Palestinese, hanno messo in guardia Israele dal cambiare lo status quo nella moschea.

Nelle tre settimane precedenti il raid, si sono svolte tre feste ebraiche terminate con il Sukhot. La sensazione di Hamas a Gaza era che al-Aqsa fosse in pericolo imminente, riferisce la fonte a MEE.

Sulla decisione di scatenare lattacco sono intervenute anche delle considerazioni a lungo termine.

Il destino dei 5.200 prigionieri palestinesi in detenzione israeliana è una pesante responsabilità” per la leadership di Hamas, riferisce la fonte, ed Hamas rifletteva ogni giorno su come avrebbero potuto essere rilasciati”.

La terza motivazione alla base dellattacco era costituita da Gaza stessa, sottoposta a 18 anni di assedio dopo il ritiro da parte di Israele dei suoi coloni dalla Striscia.

Gli Stati Uniti e le potenze regionali hanno lasciato Gaza ai limiti della sopravvivenza, relegata in un angolo con appena il supporto vitale, in lotta per cibo, denaro o un generatore. Lo sfondamento del 7 ottobre è stato un forte messaggio che gli abitanti di Gaza possono rompere lassedio, continua la fonte.

E’ possibile estirpare Hamas?

Non è la prima volta che i leader israeliani promettono di spazzare via Hamas, e ogni guerra precedente si è conclusa con il ritiro israeliano, dice.

I leader di Hamas riconoscono che la portata della devastazione è diversa ma credono ancora che il risultato finale sarà un altro ritiro israeliano, aggiunge.

Israele potrebbe distruggere una metà di Gaza ma penso che alla fine il risultato sarà lo stesso. Il problema per [il primo ministro israeliano Benjamin] Netanyahu sarà come concludere la battaglia con una immagine positiva da offrire alla gente.

Ma ha un grosso problema. Anche se riuscisse nel suo obiettivo bellico di eliminare la leadership di Hamas a Gaza, si troverebbe ancora ad affrontare le contestazioni sulla sua responsabilità per lattacco del 7 ottobre”.

La fonte respinge la prospettiva che Israele possa raggiungere il suo obiettivo principale. Dice che è fisicamente impossibile eliminare Hamas a causa delle dimensioni a Gaza dell’organizzazione e dei suoi affiliati.

Hamas è parte del tessuto della società. Ci sono i combattenti e le loro famiglie. Gli enti di beneficenza e le loro famiglie. I dipendenti pubblici e le loro famiglie. Nel loro insieme costituiscono una parte molto consistente della popolazione.

Anche se Hamas non prevedeva una risposta israeliana di questa portata dispone di una vasta rete di tunnel che si estende per molte centinaia di chilometri, ha riferito un’altra fonte a MEE.

L‘ipotesi che Hamas perdendo Gaza City, che le forze israeliane stanno cercando di accerchiare, cesserebbe di operare è dunque meno probabile.

Allo stesso modo Hamas non dipende dallentrata in guerra di Hezbollah, ma molti allinterno del movimento vedono il suo coinvolgimento come inevitabile.

Dicono che se Hezbollah permettesse l’annientamento di Hamas, sarebbe solo questione di tempo prima che Israele attaccasse anche l’organizzazione libanese.

Cosa otterrà Hamas alla fine di questa battaglia?

Hamas non crede che alla fine della guerra si possa riportare l’orologio al 6 ottobre e Gaza possa ricominciare da capo, dice.

Lattacco del 7 ottobre ha trasmesso un messaggio diretto e preciso secondo cui i palestinesi hanno la capacità di sconfiggere Israele e liberarsi delloccupazione. Per Hamas questo è ormai un dato di fatto, continua.

Hamas ritiene che l’attacco abbia infranto un patto che esisteva tra l’esercito israeliano e la popolazione sin dalla dichiarazione dello Stato nel 1948.

Il patto tacito era che il popolo avrebbe inviato all’esercito i propri figli e figlie e lesercito in cambio avrebbe protetto il Paese.

Secondo la fonte Hamas ritiene che l’attuale conflitto abbia spinto il popolo palestinese e la resistenza palestinese verso la vittoria e la liberazione, aggiungendo: Penso che Israele abbia perso molta fiducia nel futuro”.

Afferma che Hamas riconosce il pesante prezzo pagato dalla popolazione di Gaza. Ma credeva che la maggior parte avrebbe scelto di restare piuttosto che fuggire da una seconda Nakba, in riferimento allo sfollamento di 750.000 palestinesi dalla loro terra ancestrale nel 1948. Per la maggior parte delle persone non c’è scelta: il confine di Gaza con lEgitto e la sua frontiera con Israele sono chiusi e non c’è nessun posto sicuro dai bombardamenti.

Ogni palestinese sa che deve restare nella propria terra, anche se ridotta in macerie e pur vivendo nelle tende, dice.

Hamas ritiene che Israele abbia commesso un enorme errore strategico nel respingere le molteplici iniziative di pace arabe che avrebbero portato alla fine del conflitto.

La loro strategia consiste nell’avere tutto. Per questo perderanno tutto. Sottovalutano i palestinesi, prosegue la fonte.

Dice che mentre le capitali occidentali aspettano unera dopo Hamas, la resistenza palestinese aspetta con fiducia unera in cui possano vivere in un proprio Stato.

Riconosce che lesercito israeliano possiede un enorme vantaggio militare. Ma insiste sul fatto che i risultati di una guerra non sempre dipendono dagli equilibri di potere.

Guardate il Vietnam, lAfghanistan, lAlgeria. Guardate come sono finite quelle guerre coloniali, conclude.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Secondo alcune informazioni l’Egitto ha rifiutato di permettere a suoi cittadini bloccati a Gaza di tornare a casa

Redazione di MEMO

3 novembre 2023 – Middle East Monitor

Le famiglie egiziane bloccate a Gaza hanno fatto appello alle autorità della loro nazione perché ne agevoli il ritorno alla loro patria sicura, a fronte dell’aggressione israeliana in corso dal 7 ottobre contro la Striscia assediata.

Attivisti sui social media hanno affermato che le autorità egiziane hanno rifiutato di permettere ai cittadini egiziani presenti nella Striscia di Gaza assediata di ritornare attraverso la frontiera di Rafah, nonostante l’approvazione di Israele all’uscita dei palestinesi con doppia cittadinanza.

Le persone che potrebbero usufruire del permesso hanno denunciato il fatto che i funzionari egiziani non affrontano il problema delle condizioni della comunità egiziana a Gaza alla luce della continuata aggressione israeliana.

Secondo i media locali egiziani, il numero di cittadini egiziani a Gaza è stimato in circa 40.000 persone.

Gli utenti dei social media si sono chiesti se dovrebbero essere inviate richieste agli USA e alle Nazioni Unite, invece che all’Egitto, per aiutare gli egiziani presenti a Gaza ad entrare nel loro Paese.

Tra coloro che vorrebbero lasciare Gaza c’è Ghada Al-Saqqa, una cittadina egiziano-palestinese che era in visita dai suoi parenti a Gaza quando ha avuto luogo l’attacco del 7 ottobre.

Da allora Ghada e sua sorella sono state bloccate nella Striscia. Ha spiegato che stava dai suoi fratelli, ma la casa è stata distrutta in un attacco israeliano e lei è finita sulla strada insieme alla sua famiglia.

Ci attaccano. Noi non siamo animali. Siamo abitanti dell’Egitto e non di Gaza. Con quale diritto consentono agli stranieri di lasciare la Striscia attraverso il valico egiziano, ma non agli egiziani?” afferma, sottolineando che il resto dei suoi figli si trova in Egitto.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Guerra Israele-Palestina: lo scopo di Israele è molto più sinistro del ripristino della ‘sicurezza’

Richard Falk

3 novembre 2023 – Middle East Eye

Israele ha colto questa opportunità per realizzare le ambizioni territoriali sioniste nel mezzo della ‘nebbia di guerra’ provocando un’ultima ondata di catastrofico spossessamento dei palestinesi

Antonio Guterres, Segretario Generale dell’ONU è stato recentemente messo alla gogna da Israele per aver affermato un’ovvietà quando ha osservato che l’attacco di Hamas del 7 ottobre “non è avvenuto in un vuoto”.

Guterres ha richiamato l’attenzione di tutto il mondo sulla lunga storia di gravi provocazioni criminose israeliane nella Palestina occupata che avvengono sin da quando divenne la potenza occupante dopo la guerra del 1967. 

 All’occupante, ruolo che ci si aspetta essere temporaneo, è affidato in tali circostanze il mantenimento del diritto umanitario internazionale assicurando la sicurezza e l’incolumità della popolazione civile occupata, come esplicitato nella Quarta Convenzione di Ginevra.

Israele ha reagito con tale rabbia alle osservazioni di Guterres, assolutamente appropriate e accurate, che potevano essere interpretate solo implicando che Israele “se lo doveva aspettare” alla luce dei suoi gravi e vari abusi contro il popolo nei territori palestinesi occupati, i più plateali a Gaza, ma anche in Cisgiordania e Gerusalemme. 

Dopo tutto, se Israele potesse presentarsi al mondo come vittima innocente dell’attacco del 7 ottobre, un episodio in sé stesso ricolmo di crimini di guerra, potrebbe ragionevolmente sperare di ottenere carta bianca dai suoi sostenitori in Occidente per vendicarsi a piacimento, senza preoccuparsi di essere limitato dal diritto internazionale, dall’autorità dell’ONU o dalla morale comune. 

Invece Israele ha reagito all’attacco del 7 ottobre con la sua tipica abilità nel manipolare il dibattito globale che influenza l’opinione pubblica e guida la politica estera di molti e importanti Paesi. Qui tali tattiche sembrano quasi superflue, dato che gli Usa e l’UE hanno rapidamente concesso una totale approvazione in bianco a qualsiasi cosa faccia Israele in risposta, per quanto vendicativa, crudele o estranea a ripristinare la sicurezza del confine israeliano. 

Il discorso di Guterres all’ONU ha avuto un impatto così eclatante perché ha fatto scoppiare il palloncino israeliano dell’innocenza costruita ad arte secondo cui l’attacco del 7 ottobre è arrivato inaspettatamente. Escludere il contesto ha distolto l’attenzione dalla devastazione di Gaza e dall’assalto genocida contro la sua popolazione di 2.3 milioni di persone, prevalentemente innocenti e da lungo tempo perseguitate.

Incredibili falle

Ciò che trovo strano e inquietante è che da quel giorno questo fattore è stato raramente preso in considerazione, nonostante il consenso sul fatto che l’attacco di Hamas sia stato possibile solo per le incredibili falle nelle capacità israeliana di intelligence e di rigida sicurezza sui confini, che si supponevano seconde a nessuno.

Invece di un giorno dopo pieno di furia vendicativa, perché l’attenzione in Israele e altrove non si è concentrata nell’attuare interventi di emergenza per restaurare la sicurezza di Israele tappando queste costose falle, ciò che sembrerebbe il modo più efficace per garantire che nulla di simile al 7 ottobre possa ripetersi?

Io posso capire la riluttanza del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a sottolineare questa spiegazione o a sostenere questa forma di risposta che equivarrebbe a una confessione della sua personale corresponsabilità per la tragedia traumaticamente subita da Israele quando i combattenti palestinesi si sono riversati oltre il confine. 

Ma quella d’altri in Israele e fra i governi suoi sostenitori?

 Indubbiamente Israele con tutta probabilità sta impiegando tutti i mezzi a sua disposizione, con un senso di urgenza, per tappare queste incredibili falle nel suo sistema di intelligence e per rimpolpare il suo potenziale militare sui relativamente brevi confini di Gaza. 

Non è necessario essere un genio della sicurezza per concludere che occuparsi in modo affidabile di questi problemi di sicurezza farebbe di più per prevenire e scoraggiare futuri attacchi di Hamas che questa continua saga che infligge punizioni devastanti contro la popolazione palestinese di Gaza, tra cui in pochissimi fanno parte dell’ala militare di Hamas. 

 Furia genocida

A settembre Netanyahu, in un discorso all’ONU durante il quale ha parlato di una nuova pace in Medio Oriente fra le prospettive di una normalizzazione Israele-Arabia Saudita, ha fornito ulteriore plausibilità a tali speculazioni presentando una mappa del Medio Oriente senza includere la Palestina, cancellando di fatto i palestinesi dalla propria patria. La sua presentazione rappresenta un diniego implicito del consenso dell’ONU sulla formula dei due Stati come una roadmap per la pace. 

Nel frattempo la furia genocida della risposta israeliana all’attacco di Hamas sta facendo infuriare il mondo arabo, anzi tutto il mondo, persino i Paesi occidentali. Ma dopo più di tre settimane di spietati bombardamenti, assedio totale e uno spostamento forzato di massa, la decisione di Israele di scatenare questo torrente di violenza contro Gaza deve essere ancora contrastata dai suoi sostenitori in Occidente. 

In particolare gli USA stanno sostenendo Israele presso l’ONU usando il loro veto quando necessario al Consiglio di Sicurezza e votando quasi senza nessuna condivisione da parte di Paesi importanti contro un cessate il fuoco all’Assemblea Generale. Persino la Francia ha votato la risoluzione dell’Assemblea Generale e il Regno Unito ha avuto un minimo di decenza e si è astenuto, entrambi probabilmente reagendo pragmaticamente alla pressione popolare che sale da grandi e infuriate dimostrazioni di piazza a casa. 

Nelle reazioni alle tattiche israeliane a Gaza si è anche dimenticato che, fin dall’inizio, questo governo estremista ha iniziato una serie scioccante di violente provocazioni nella Cisgiordania occupata. Molti hanno interpretato questo palese scatenarsi di violenza dei coloni come parte dell’obiettivo del progetto sionista mirante ad ottenere la vittoria su ciò che resta della resistenza palestinese. 

Ci sono poche ragioni per dubitare che Israele abbia deliberatamente reagito in modo sproporzionato al 7 ottobre nell’iniziare immediatamente una risposta genocida, soprattutto se il suo proposito era di distogliere l’attenzione dall’escalation della violenza dei coloni in Cisgiordania, esacerbata dalla distribuzione da parte del governo di armi “ai gruppi di sicurezza civile”. 

Il piano finale del governo israeliano sembra porre fine una volta per tutte a fantasie di partizione dell’ONU, al servizio dell’obiettivo massimalista sionista di un’annessione o di una totale sottomissione dei palestinesi cisgiordani.

In effetti, per quanto possa sembrare macabro, la leadership israeliana ha colto l’occasione del 7 ottobre “per finire il lavoro” commettendo un genocidio a Gaza, con la scusa che Hamas è un pericolo tale da giustificare non solo la sua distruzione, ma questo attacco indiscriminato contro l’intera popolazione. 

La mia analisi mi porta a concludere che la guerra in corso non sia principalmente per la sicurezza a Gaza o contro le minacce alla sicurezza poste da Hamas, ma piuttosto per qualcosa di molto più sinistro e incredibilmente cinico. 

Israele ha colto questa opportunità per soddisfare le ambizioni territoriali sioniste nel mezzo della ‘nebbia di guerra’, provocando un’ultima ondata di catastrofico spossessamento dei palestinesi. È di secondaria importanza se chiamarla “pulizia etnica” o “genocidio” anche se ci sono i requisiti per definirla la maggiore catastrofe umanitaria del XXI secolo. 

In effetti il popolo palestinese è perseguitato da due convergenti catastrofi: una politica e l’altra umanitaria.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Richard Falk, studioso di diritto internazionale e relazioni internazionali, ha insegnato presso la Princeton University per quarant’anni. Nel 2008 è stato nominato alle Nazioni Unite per sei anni come Relatore speciale per i diritti umani dei palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La giustizia non è negoziabile: perché Israele non può distruggere la resistenza palestinese

Ramzy Baroud

1 novemebre 2023 Palestine Chronicle

È tempo di parlare di giustizia, vera giustizia, il cui risultato non è negoziabile: uguaglianza, pieni diritti politici, libertà e il diritto al ritorno.

Gaza ha modificato l’equazione politica in Palestina.

Anzi, è probabile che le ripercussioni di questa guerra devastante cambino l’equazione politica di tutto il Medioriente e rimettano al centro la Palestina come la crisi politica più urgente al mondo nei prossimi anni.

Dalla fondazione di Israele, agevolata dalla Gran Bretagna e protetta dagli Stati Uniti e da altri Paesi occidentali, le priorità sono state interamente quelle di Israele.

“Sicurezza” di Israele, “superiorità militare” di Israele, “il diritto a difendersi” di Israele, e molto altro hanno definito il discorso politico dell’Occidente sull’occupazione e l’apartheid di Israele in Palestina.

Questa bizzarra concezione del cosiddetto conflitto da parte di USA e Occidente, secondo cui un oppressore ha “diritti” sull’oppresso, ha consentito a Israele di mantenere un’occupazione militare sui territori palestinesi che è durata oltre 56 anni.

Ha anche permesso a Israele di ignorare le radici di questo “conflitto”, cioè la pulizia etnica della Palestina nel 1948 e il diritto al ritorno a lungo negato ai profughi palestinesi.

All’interno di questo contesto ogni disponibilità alla pace dei palestinesi e degli arabi è stata rifiutata, ogni presunto “processo di pace”, cioè gli accordi di Oslo, trasformato in un’opportunità per Tel Aviv di rafforzare la sua occupazione militare, espandere le colonie e rinchiudere i palestinesi in spazi simili a Bantustan [le aree riservate ai nativi africani nel Sudafrica dell’apartheid, ndt.], umiliati e segregati su base razziale.

Alcuni palestinesi, sedotti dall’elemosina americana o distrutti da una persistente sensazione di sconfitta, si sono messi in fila per ricevere i dividendi della pace statunitense-israeliana, misere briciole di falso prestigio, titoli vuoti e potere limitato, concessi e negati da Israele stesso.

Tuttavia la guerra israeliana contro Gaza sta già cambiando molto di questo penoso status quo.

La costante enfasi israeliana sul fatto che la sua guerra letale sia contro Hamas, contro il “terrorismo”, contro il fondamentalismo islamico e tutto il resto, potrebbe aver convinto quelli che sono già pronti ad accettare per oro colato la versione israeliana degli eventi.

Ma, mentre i corpi di migliaia di civili palestinesi, migliaia dei quali sono minori, iniziano a accumularsi nelle sale mortuarie degli ospedali e tragicamente nelle strade di Gaza, la narrazione inizia a cambiare.

I corpi fatti a pezzi di minori palestinesi, le cui famiglie sono morte insieme a loro, testimoniano della brutalità di Israele, dell’appoggio immorale dei suoi alleati, della disumanità di un ordine internazionale che premia l’assassino e reprime la vittima.

Di tutte le dichiarazioni di parte fatte dal presidente USA Joe Biden quella in cui ha suggerito che i palestinesi mentono riguardo al conto dei loro morti è stata forse la più inumana.

Washington potrebbe non averlo ancora capito, ma le ripercussioni dell’appoggio incondizionato a Israele in futuro si dimostreranno disastrose, soprattutto in una regione che ne ha abbastanza di guerre, egemonia, doppio standard, divisioni settarie e conflitto senza fine.

Ma il maggior impatto si farà sentire nello stesso Israele.

Quando il 26 ottobre l’ambasciatore palestinese all’ONU Riyad Mansour ha fatto un potente ed emotivo discorso, non ha potuto trattenere le lacrime. Delegazioni internazionali all’Assemblea Generale dell’ONU hanno continuato ad applaudire, riflettendo il crescente appoggio alla Palestina, non solo all’ONU ma in centinaia di città e cittadine e in innumerevoli angoli di strada in tutto il mondo.

Quando ha parlato l’ambasciatore israeliano all’ONU Gilad Erdan, che ha ispirato la maggior parte delle menzogne comunicate da Tel Aviv, soprattutto nei primi giorni di guerra, nessuno ha applaudito.

La narrazione israeliana si è chiaramente sbriciolata in mille pezzi. In effetti Israele non è mai stato così isolato. Questo non è affatto il “Nuovo Medio Oriente” che Netanyahu aveva profetizzato nel suo discorso all’Assemblea Generale dell’ONU il 22 settembre.

Incapace di capire come mai l’iniziale simpatia con Israele si sia rapidamente trasformata in vero e proprio sdegno, Israele ha fatto ricorso alle vecchie tattiche.

Il 25 ottobre Erdan ha chiesto le dimissioni del segretario generale dell’ONU António Guterres in quanto “inadeguato a guidare l’ONU”. Il presunto imperdonabile delitto di Guterres è il fatto di aver affermato che “gli attacchi di Hamas non sono avvenuti dal nulla.”

Per Israele e i suoi benefattori americani nessun contesto è permesso di macchiare l’immagine perfetta che Israele ha creato per il suo genocidio a Gaza. In questo mondo perfetto israeliano a nessuno è consentito parlare di occupazione militare, di assedio, di mancanza di prospettive politiche, dell’assenza di una pace giusta per i palestinesi.

Benché nella sua dichiarazione Amnesty International abbia detto che entrambe le parti hanno commesso “gravi violazioni delle leggi umanitarie internazionali, compresi crimini di guerra”, Israele lo attacca ancora, accusando l’organizzazione di essere “antisemita”.

Perché, secondo Israele, neppure alla principale associazione internazionale per i diritti umani al mondo è permesso contestualizzare le atrocità a Gaza o di avere il coraggio di suggerire che una delle “cause alla radice del conflitto” è “il sistema israeliano di apartheid imposto ai palestinesi”.

Israele non è più onnipotente, come vuole farci credere. Gli ultimi eventi hanno dimostrato che “l’invincibile esercito” israeliano, un’etichetta che ha consentito a Israele di diventare nel 2022 il decimo principale esportatore di armi al mondo, si è dimostrato una tigre di carta.

Questo è ciò che ha fatto infuriare di più Israele. “I musulmani non hanno più paura di noi,” ha detto l’ex- parlamentare della Knesset Moshe Feiglin in un’intervista ad Arutz Sheva-Israel National News [Canale 7-Notizie Nazionali Israeliane, rete israeliana di estrema destra, ndt.]. Per ripristinare questa paura il politico estremista israeliano ha chiesto di “ridurre immediatamente in cenere Gaza.”

Ma niente ridurrà in cenere Gaza, anche se, secondo l’ufficio umanitario dell’ONU, le oltre 12.000 tonnellate di esplosivo lanciate contro la Striscia nelle prime due settimane di guerra hanno già ridotto in cenere almeno il 45% delle abitazioni nella Striscia.

Gaza non morirà perché è un’idea potente profondamente radicata nei cuori e nelle menti di ogni arabo, di ogni musulmano e di milioni di persone in tutto il mondo.

Questa nuova idea sta sfidando la convinzione a lungo coltivata che il mondo debba provvedere alle priorità, alla sicurezza, alla definizione egocentrica di pace e ad altre illusioni di Israele.

Il dibattito dovrebbe ora tornare a quello che avrebbe sempre dovuto essere: le priorità dell’oppresso e non dell’oppressore.

È giunto il tempo in cui si parli dei diritti dei palestinesi, della sicurezza dei palestinesi e del diritto del popolo palestinese, di fatto un obbligo, di difendere se stesso.

È tempo per noi di parlare di giustizia, vera giustizia, il cui risultato non è negoziabile: uguaglianza, pieni diritti politici, libertà e diritto al ritorno.

Gaza ci ha detto tutto questo e molto altro. Ed è tempo che noi le diamo ascolto.

Ramzy Baroud è giornalista, autore ed editore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri. L’ultimo libro, curato insieme a Ilan Pappé, è Our Vision for Liberation: Engaged Palestines Leaders and Intellectuals Speak out [La nostra visione della liberazione: parlano i leader e gli intellettuali impegnati della Palestina]. Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA).

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele, attenzione: con la guerra gli apocalittici ebrei ultranazionalisti sono al settimo cielo

Uri Misgav

2 novembre 2023, Haaretz

Gli brillano gli occhi. Parlano di una “seconda Nakba”. Credono che questo sia il tempo del Messia. Per i nazionalisti ultra-ortodossi la guerra con Hamas è un doppio sogno: il pieno dominio ebraico sul Grande Israele e uno Stato ebreo fondamentalista sulle ceneri dell’odierno Israele liberal-democratico.

Anche se Israele dovesse vincere la guerra esistenziale che gli è stata imposta, dovrà comunque affrontare una minaccia interna che non va presa alla leggera: il sionismo nazionalista ultra-ortodosso. Chi ha parlato con i seguaci di questo movimento dopo il rovinoso disastro del 7 ottobre si è imbattuto in uno strano fenomeno.

I loro occhi brillano. Sono estasiati. Dal loro punto di vista questi sono i giorni del Messia. La grande opportunità. È parte essenziale delle visioni fondamentaliste in tutte le religioni. La fede in un’apocalisse, Armageddon, Gog e Magog come solo mezzo di redenzione.

Nel caso dei sionisti Haredi [ultra-ortodossi, ndt.] si tratta di una doppia visione: pieno dominio ebraico su tutta l’area dal Mar Mediterraneo al fiume Giordano insieme alla cancellazione della presenza araba e l’emergere di uno Stato fedele alla Halakha [l’insieme delle leggi religiose ebraiche, ndt.] dalle ceneri dell’odierno Israele liberal-democratico.

Questo spiega i discorsi su una “seconda Nakba” e il reinsediamento di Gush Katif [blocco di 17 colonie israeliane  demolite nel 2005 con il Piano di disimpegno di Ariel Sharon, ndt.] nel sud della Striscia di Gaza, così come la velocità con cui si sono organizzati i gruppi di coloni che hanno messo gli occhi sulle rovine dei kibbutz al confine di Gaza, e gli sforzi nell’assumere il controllo delle iniziative di volontariato per aiutare gli agricoltori della zona.

Ma il punto principale, ovviamente, è l’attuale guerra. Esiste un ampio consenso sulla necessità di colpire Hamas e porre fine al suo dominio sulla Striscia di Gaza. Il dibattito riguarda le sfumature. Ad esempio, la questione dell’invasione di terra, della sua necessità e tempistica. La questione degli ostaggi e la sua priorità. L’atteggiamento verso le vittime civili, le leggi di guerra e gli aiuti umanitari. Per i sionisti Haredi tali dibattiti sono una dannosa perdita di tempo. Gaza è Amalek [nazione descritta nella Bibbia come strenuo nemico degli ebrei, ndt.] che deve essere cancellata dalla faccia della terra.

La cosa vale anche per le Forze di Difesa Israeliane, perché all’interno dell’esercito c’è una corrente sionista Haredi ben radicata. Il comandante della 36a divisione corazzata, Generale di Brigata David Bar Khalifa, questa settimana ha emesso una commovente direttiva di battaglia alle sue truppe scritta a mano su carta intestata che culmina in una citazione dai Salmi ( “Come frecce nella mano di un uomo potente”): “Ciò che è stato non sarà più! Lo affronteremo in guerra, polverizzeremo ogni lembo della terra maledetta da cui proviene, lo distruggeremo insieme al suo ricordo… e non torneremo finché non sarà annientato, e [Dio] volgerà la vendetta contro i suoi avversari, e purificherà la terra del suo popolo… Il Signore darà forza al suo popolo e proteggerà il vostro entrare ed uscire da ora e per sempre. Questa è la nostra guerra, oggi tocca a noi. Eccoci!”

Questo è un estatico testo religioso, adatto a uno studente della Or Etzion Yeshiva [scuola di studi rabbinici, ndt.], dove peraltro ha studiato, non a un comandante di divisione sano e razionale in un esercito moderno.

I comandanti della 36a divisione corazzata nel passato comprendono Zvi Zamir, Uzi Narkiss, Rafael Eitan, Uri Sagi, Amram Mitzna, Avigdor Kahalani, Matan Vilnai, Amiram Levin e Yitzhak Brik. È difficile immaginare che qualcuno di loro avrebbe diffuso qualcosa di simile a questo documento militare.

Molti sionisti Haredi, alcuni dei quali dipendenti pubblici, vedono la terribile crisi come un’opportunità e persino come un piano divino. Yizhak Keshet, sindaco di Harish, ha spiegato lo sviluppo degli eventi in una “conferenza sulla sicurezza” da lui convocata questa settimana (Tali Heruti-Sover, The Marker Hebrew 30 ottobre). “Questa è una mossa divina. È perfettamente chiaro. Non succede così, dal nulla”, ha dichiarato indossando un giubbotto antiproiettile corazzato con piastra in ceramica.

Bisogna guardare ai fatti, che il popolo di Israele, a seguito di questo evento difficile e terribile, è sopravvissuto. C’era un piano molto, molto più grande e più dannoso per distruggere lo Stato di Israele… da quattro diversi fronti, di cui Hamas è il più piccolo. E la misericordia di Dio nei nostri confronti li ha portati a fermare i loro piani. La causa scatenante è stata proprio la festa, era una tale tentazione, 3.000 persone vicino alla recinzione … non hanno saputo resistere alla tentazione e sono entrati. Questa cosa ci ha salvato”.

È evidente che i martiri del festival musicale Nova Trance e le vittime dei massacri nelle comunità di confine sono solo pedine del piano divino per portare a termine la missione – in Cisgiordania.

Questo è il motivo per cui il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich continua anche adesso a convogliare freneticamente i fondi governativi verso i coloni. Questo è il motivo per cui i coloni e talvolta anche i soldati sionisti Haredi insorgono senza che nessuno li fermi uccidendo, infierendo ed espellendo i palestinesi. La jihad ebraica è destinata a incendiare l’intera Terra Santa. Gli israeliani che vogliono vivere non devono distogliere lo sguardo o voltare le spalle.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Il capo dell’UNRWA ha affermato che il 70% delle vittime di Gaza sono minori e donne

Redazione di MEMO

1 novembre 2023 – Middle East Monitor

Il commissario generale dell’agenzia United Nations Relief and Works Organisation for Palestine Refugees [Soccorso e Lavoro per i Rifugiati Palestinesi] (UNRWA) delle Nazioni Unite Philippe Lazzarini ha affermato che il 70% dei martiri palestinesi che sono stati uccisi dai bombardamenti israeliani in corso sulla Striscia di Gaza dal 7 ottobre sono minori e donne, ammonendo che non c’è alcun posto sicuro a Gaza.

Egli ha sottolineato che stati colpiti chiese, moschee, ospedali, strutture civili che ospitano persone sfollate sono, descrivendo gli attacchi israeliani come una punizione collettiva contro i palestinesi che vivono sotto assedio.

Per parte sua, la direttrice esecutiva dell’United Nations Children’s Fund [Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia] (UNICEF) Catherine Russell ha indicato che l’aggressione israeliana ha provocato l’uccisione di più di 3.400 e il ferimento di almeno 6.300 minori.

Ha aggiunto che questo bilancio dimostra che sono stati uccisi o feriti 420 minori al giorno, evidenziando che “questi numeri dovrebbero sconvolgerci nel profondo.”

[Russell] ha affermato che le incursioni israeliane hanno provocato la completa o parziale distruzione di almeno 221 scuole e di più di 177.000 case.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




La raccomandazione di un ministero del governo israeliano: espellere tutti i palestinesi da Gaza

Yuval Abraham

30 ottobre 2023 – +972 Magazine

Un documento del ministero israeliano dell’Intelligence reso pubblico da Local Call e +972 mostra come l’idea di un trasferimento della popolazione nel Sinai stia raggiungendo il dibattito a livello ufficiale.

Secondo un documento ufficiale rivelato integralmente per la prima volta ieri da Local Call, sito partner di +972, il ministero israeliano dell’Intelligence propone il trasferimento forzato e permanente nella penisola del Sinai, Egitto, dei 2,2 milioni di palestinesi che abitano nella Striscia di Gaza

Il documento di 10 pagine datato 13 ottobre 2023 reca il logo del ministero dell’Intelligence, un piccolo organismo governativo che sforna ricerche politiche e condivide le sue proposte con agenzie di intelligence, esercito e altri ministeri. Esso valuta tre alternative riguardanti il futuro dei palestinesi della Striscia nel quadro della guerra in corso e raccomanda un trasferimento totale della popolazione quale linea d’azione da privilegiare. Sollecita anche Israele a coinvolgere a sostegno dell’impresa la comunità internazionale. Il documento, la cui autenticità è stata confermata dal ministero, è stato tradotto in inglese e si trova integralmente sul sito di +972.

L’esistenza del documento non indica necessariamente che le sue raccomandazioni verranno prese in considerazione dalle istituzioni militari di Israele. Nonostante il suo nome, il ministero dell’Intelligence non è direttamente responsabile di nessun ente di intelligence, ma piuttosto prepara in modo indipendente studi e documenti programmatici che sono sottoposti all’esame di organismi governativi e di sicurezza israeliani, senza essere vincolanti. Il suo budget annuale è di 25 milioni di shekel (circa 5 milioni di euro) e la sua influenza è considerata relativamente limitata. È attualmente guidato da Gila Gamliel del Likud, il partito del primo ministro Benjamin Netanyahu.

Comunque il fatto che un ministero del governo israeliano abbia preparato una proposta così dettagliata nel corso di un’offensiva militare su larga scala contro Gaza, in seguito all’assalto mortale di Hamas e ai massacri nelle comunità nel sud di Israele il 7 ottobre, riflette come l’idea di un trasferimento forzato di popolazione abbia raggiunto il livello del dibattito politico ufficiale. Timori di un piano simile, che costituirebbe un grave crimine di guerra ai sensi del diritto internazionale, sono cresciuti nelle ultime settimane, specialmente dopo che l’esercito israeliano ha ordinato a circa 1 milione di palestinesi di evacuare la parte settentrionale della Striscia in previsione dell’escalation di bombardamenti e crescenti incursioni di terra.

Il documento raccomanda ad Israele di agire per “evacuare la popolazione civile nel Sinai” durante la guerra, di erigere tendopoli temporanee e in seguito città più permanenti nel Sinai settentrionale che assorbiranno la popolazione espulsa e poi creare “una zona cuscinetto di parecchi chilometri… in Egitto e [di impedire] il ritorno della popolazione ad attività/residenza vicino al confine con Israele.” Allo stesso tempo i vari governi nel mondo, capeggiati dagli Stati Uniti, devono essere mobilitati per realizzare lo spostamento.

Una fonte del ministero dell’Intelligence ha confermato a Local Call/+972 che il documento è autentico, che era stato distribuito ai settori della difesa da parte della divisione per le politiche del ministero e che “non sarebbe dovuto arrivare ai media.”

Chiarite che non c’è speranza di ritornare’

Il documento raccomanda inequivocabilmente ed esplicitamente il trasferimento di civili palestinesi da Gaza come risultato auspicato della guerra. L’esistenza del piano è stata per la prima volta riportata la scorsa settimana dal quotidiano di affari israeliano Calcalist e il testo completo del documento vi è pubblicato e tradotto.

Il piano di trasferimento consta di parecchi stadi. Nel primo stadio l’azione deve essere condotta in modo tale che la popolazione di Gaza “evacui verso sud,” mentre gli attacchi aerei si concentrano nella parte settentrionale della Striscia. Il secondo comincerà un’incursione via terra che porterà all’occupazione di tutta la Striscia da nord a sud, e la “pulizia dei bunker sotterranei dei combattenti di Hamas.”

Contemporaneamente alla rioccupazione di Gaza i civili palestinesi saranno spostati in territorio egiziano senza possibilità di ritorno. “È importante lasciare aperte le strade per raggiungere il sud e permettere l’evacuazione della popolazione civile verso Rafah,” afferma il documento.

Secondo un funzionario del ministero dell’Intelligence, dietro a tali raccomandazioni ci sarebbe il personale del ministero. La fonte sottolinea che la ricerca del ministero “non si fonda sull’intelligence militare” e serve solo come base per discussioni all’interno del governo.

Il documento propone di promuovere una campagna rivolta ai civili palestinesi a Gaza che “li motiverà ad accettare questo piano” e li porterà a rinunciare alla propria terra. “I messaggi dovrebbero essere incentrati sulla perdita di terra, chiarendo che non ci sarà speranza di ritornare nei territori che Israele presto occuperà, che questo sia vero o meno. Il messaggio deve essere: ‘Allah ha voluto che perdeste questa terra a causa dei leader di Hamas, non c’è altra scelta che trasferirsi in un altro posto con l’aiuto dei vostri fratelli mussulmani,’” dice il documento.

Inoltre esso invita il governo a condurre una campagna pubblica nel mondo occidentale per promuovere il piano di trasferimento “in modo che non inciti a denigrare Israele.” Per ottenere il sostegno internazionale ciò verrà fatto presentando l’espulsione come una necessità umanitaria e sostenendo che il trasferimento darà come risultato “un numero di vittime civili minore rispetto a quelle che ci sarebbero se la popolazione rimanesse.”

Il documento dice anche che gli Stati Uniti dovrebbero essere coinvolti nel processo per imporre una pressione sull’Egitto affinché accolga gli abitanti palestinesi di Gaza e che altri Paesi europei — in particolare Grecia e Spagna— ma anche Canada, dovrebbero contribuire ad accogliere e insediare i rifugiati palestinesi. il ministero dell’Intelligence ha detto che il documento non era ancora stato ufficialmente distribuito a funzionari USA, ma solo al governo e enti di sicurezza israeliani.

Una discussione politica più ampia

La scorsa settimana l’Istituto Misgav, un think tank di destra guidata da Meir Ben-Shabbat, stretto collaboratore del primo ministro Netanyahu ed ex direttore del Consiglio per la Sicurezza Nazionale di Israele, ha pubblicato una memoria ufficiale che suggeriva un simile trasferimento forzato della popolazione di Gaza nel Sinai. L’istituto ha recentemente rimosso il post da Twitter e dal suo sito web in seguito a una forte condanna internazionale.

Lo studio rimosso è stato scritto da Amir Weitmann, un attivista del Likud e, secondo fonti a lui vicine, uno stretto collaboratore della ministra dell’intelligence Gila Gamliel. La scorsa settimana, su una pagina Facebook intitolata “Il piano per reinserire Gaza in Egitto,” Weitmann ha intervistato il parlamentare del Likud Ariel Kallner che gli ha detto che “la soluzione che proponi di spostare la popolazione in Egitto è logica e necessaria.”

Questo non è il solo legame fra Likud, il ministero dell’Intelligence e il think tank di destra. Circa un mese fa il ministero dell’Intelligence ha promesso un trasferimento di circa 1 milione di shekel dal suo bilancio all’Istituto Misgav per condurre ricerche nei Paesi arabi. Che l’Istituto Misgav sia stato in un modo o in un altro coinvolto nella bozza delle raccomandazioni del ministero per il trasferimento dei gazawi, il suo logo comunque non appare sul documento.

Fonti presso il ministero dell’Intelligence dicono che il rapporto su Gaza è uno studio indipendente condotto dalla divisione delle politiche ministeriali senza un contributo esterno, ma non hanno confermato che recentemente il ministero abbia iniziato a lavorare con l’Istituto Misgav, sottolineando che l’ente governativo collabora con vari gruppi di ricerca con programmi politici diversi. L’Istituto Misgav non ha ancora risposto alle nostre domande per questo articolo.

Inoltre il documento è prima stato fatto trapelare a un piccolo gruppo interno WhatsApp di attivisti di destra che, insieme al sostenitore del Likud Whiteman, promuove il reinsediamento delle colonie israeliane nella Striscia di Gaza e il trasferimento dei palestinesi che ci vivono.

Secondo uno di questi attivisti il documento del ministero dell’Intelligence è arrivato a loro tramite la mediazione di una “fonte del Likud,” e la sua distribuzione pubblica è legata al tentativo di scoprire se “l’opinione pubblica israeliana è pronta ad accettare l’idea del trasferimento da Gaza.”

L’opzione preferita

Le possibilità di implementare completamente tale piano, che costituirebbe una totale pulizia etnica della Striscia di Gaza, sono molto scarse sotto molti aspetti. Il presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi ha dichiarato di opporsi fermamente all’apertura del valico di Rafah per assorbire la popolazione palestinese di Gaza. Ha affermato che il trasferimento dei palestinesi nel Sinai minaccerebbe la pace fra Israele ed Egitto e ha ammonito che porterebbe i palestinesi a usare il territorio egiziano come base per continuare gli scontri armati contro Israele. Un piano simile era stato presentato in passato da funzionari israeliani e, fino ad ora, non si è mai sviluppato in una seria discussione politica.

Inoltre, dopo settimane di segnalazioni che gli Stati Uniti stavano cercando di sollevare l’idea di spostare i palestinesi in Egitto quale parte di un “corridoio umanitario,” ieri Joe Biden ha affermato che lui e Sisi erano impegnati a “garantire che i palestinesi di Gaza non fossero evacuati in Egitto o in nessuna altra Nazione.”

Il documento del ministero afferma che l’Egitto avrà l’“obbligo ai sensi del diritto internazionale di permettere il passaggio della popolazione,” e che gli Stati Uniti possono contribuire al processo “esercitando una pressione su Egitto, Turchia, Qatar, Arabia Saudita, e gli EAU perché contribuiscano all’iniziativa, o con risorse o assorbendo rifugiati.” Propone anche di condurre una campagna pubblica specifica mirata al mondo arabo “che si concentri sul messaggio di assistere i fratelli palestinesi e di reinserirli, anche al costo di usare un tono che incolpi o persino danneggi Israele.”

In conclusione il documento evidenzia che “la migrazione su larga scala” di non combattenti da zone di combattimento è un “esito naturale e ambito” che si è anche verificato in Siria, Afghanistan e Ucraina, per poi concludere che solo l’espulsione della popolazione palestinese costituirà “una risposta appropriata [che] permetterà la creazione di una deterrenza significativa nell’intera regione.”

Il documento offre altre due opzioni su cosa fare degli abitanti di Gaza alla fine della guerra. La prima permette all’Autorità Palestinese (AP), guidata dal partito Fatah della Cisgiordania occupata, di governare Gaza sotto l’egida di Israele. La seconda è di far nascere un’altra “autorità locale araba” come alternativa ad Hamas. Entrambe le alternative, afferma il documento, per Israele sono indesiderabili da una prospettiva strategica e di sicurezza e non costituiranno un sufficiente messaggio di deterrenza, specialmente per Hezbollah in Libano.

Gli autori dello studio precisano inoltre che delle tre alternative quella di portare a Gaza l’AP sarebbe la più pericolosa, perché potrebbe portare all’insediamento di uno Stato palestinese. “La divisione tra la popolazione palestinese in Giudea e Samaria [cioè la Cisgiordania, ndt.] e quella di Gaza è oggi uno degli ostacoli principali alla formazione di uno Stato palestinese. È inconcepibile che il risultato di questo attacco [i massacri di Hamas del 7ottobre] sia una vittoria senza precedenti del movimento nazionale palestinese e un percorso per la creazione di uno Stato palestinese,” precisa il documento.

Esso continua affermando che un modello di governo militare israeliano e uno civile dell’AP, come in Cisgiordania, probabilmente a Gaza fallirebbe. “Non si può mantenere un’efficace occupazione militare a Gaza solo sulla base di una presenza militare senza colonie [israeliane] ed entro un breve lasso di tempo nascerebbe una pressione interna israeliana e una internazionale per il ritiro.”

Gli autori aggiungono che in tale situazione lo Stato di Israele “sarebbe considerato una potenza coloniale con un esercito di occupazione—simile alla presente situazione in Giudea e Samaria, o anche peggio.” Essi osservano che l’AP ha una scarsa legittimità presso l’opinione pubblica palestinese e che, basandosi sulla precedente esperienza di Israele, nel passaggio del controllo di Gaza all’AP l’eventuale presa di potere di Hamas, Israele non dovrebbe “ripetere lo stesso errore che ha portato alla situazione attuale.”

L’altra alternativa, la formazione di una leadership araba locale per rimpiazzare Hamas, secondo il documento non è desiderabile, perché non c’è un movimento locale di opposizione ad Hamas ed è possibile che una nuova leadership sarebbe più radicale. “Lo scenario più plausibile non è … uno spostamento ideologico ma piuttosto l’emergere di movimenti islamisti nuovi e forse persino più estremisti,” si dice. Gli autori menzionano la necessità di “creare un cambiamento ideologico” nella popolazione palestinese tramite un processo che paragona alla “denazificazione,” che richiederebbe che Israele “scrivesse i programmi scolastici e ne imponesse l’uso a un’intera generazione.”

In conclusione il documento sostiene che se la popolazione di Gaza rimanesse nella Striscia ci sarebbero “molte vittime arabe” durante la prevista rioccupazione del territorio, cosa che danneggerebbe l’immagine internazionale di Israele persino più dell’espulsione della popolazione. Per tutte queste ragioni, la raccomandazione del ministero dell’Intelligence è di promuovere il trasferimento permanente di tutti i civili palestinesi da Gaza al Sinai.

Al momento della pubblicazione di questo articolo né il ministero della Difesa, né l’ufficio del portavoce dell’esercito e neppure l’Istituto Misgav avevano ancora risposto alle richieste da parte di +972 di un commento. Ogni risposta ricevuta verrà aggiunta qui.

Yuval Abraham è un giornalista e attivista residente a Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Una lettera aperta da israeliani a israeliani: abbiamo diritto di sapere la verità sul 7 ottobre

Lettera Aperta

31 ottobre 2023 – Mondoweiss

Come israeliani chiediamo una commissione ufficiale sugli avvenimenti del 7 ottobre. In nome delle vittime israeliane, a Gaza si sta perpetrando un genocidio e non sappiamo ancora chi è stato ucciso, come e da chi. Chiediamo risposte e così dovreste fare anche voi.

*Nota dell’editore: la seguente dichiarazione è stata scritta da un gruppo di cittadini israeliani che desiderano rimanere anonimi per la propria sicurezza e per il timore di rappresaglie da parte del governo.

Ai nostri concittadini israeliani,

ci rivolgiamo a voi dalle nebbie del genocidio. Piangiamo e siamo preoccupati per “noi stessi” così come per quelli che la maggioranza di voi ignora o vede come “animali”.

Quando militari israeliani hanno iniziato a diffondere attraverso media israeliani in inglese voci riguardo a “bambini sgozzati”, siamo immediatamente rimasti sconvolti. Abbiamo compreso che la propaganda del nostro governo non sarebbe stata la stessa dei precedenti attacchi letali contro Gaza.

Mentre Israele per giustificare i bombardamenti continua a sfornare immagini di presunti “edifici di Hamas” (cosa non lo è, agli occhi di Israele?) nel campo di concentramento di Gaza, il discorso in Israele e a livello internazionale ora contiene qualcosa di molto più simile alla propaganda nazista dello sterminio.

Sappiamo qual è lo scopo di questa propaganda. Più di 8.500 bambini, donne e uomini nativi della Palestina sono stati sterminati, e mentre scriviamo il numero continua a crescere. Molti sono intrappolati tra le macerie delle loro case, e muoiono lentamente. Altri affrontano sete, fame e malattie infettive. Nel contempo importanti personalità israeliane, persino il nostro presidente, continuano a urlare che a Gaza “non ci sono civili innocenti”.

Sia chiaro, quello che Israele sta facendo ora a Gaza perseguiterà gli israeliani per decenni. Ora è il momento di fare in modo che tutti gli israeliani lo comprendano. E questa comprensione dovrebbe iniziare con la massima trasparenza riguardo agli avvenimenti del 7 ottobre 2023.

C’è qualche richiesta che ogni israeliano dovrebbe subito porre, anche se nega il genocidio in corso a Gaza. La prima è una lista completa di tutte le vittime israeliane che sono state identificate. Non c’è una lista completa sul sito ufficiale del governo. La lista pubblicata da Ha’aretz è parziale. Alcuni nomi devono ancora essere “autorizzati per la pubblicazione”, e noi vorremmo sapere cosa ciò significhi.

La mancanza di una lista completa dopo tre settimane porta alla richiesta successiva che i cittadini israeliani dovrebbero fare: la costituzione di una commissione d’indagine ufficiale. Tale commissione dovrebbero ovviamente affrontare i gravissimi errori da parte dell’intelligence e delle unità operative, così come l’insistenza israeliana nel trasformare Gaza in una prigione a cielo aperto nei decenni precedenti.

Inoltre, secondo il portavoce di Hamas, 50 prigionieri israeliani sono già stati uccisi in seguito alla decisione del nostro governo di bombardare a tappeto Gaza. Si può considerare o meno il portavoce di Hamas una fonte attendibile, ma sappiamo che gli ostaggi israeliani, cari a molti qui, sono stati distribuiti in tutta la Striscia e Israele non sembra sapere esattamente dove si trovino.

I cittadini israeliani devono chiedersi se appoggiano i bombardamenti indiscriminati che minacciano la vita degli ostaggi. Un accordo per uno scambio è già stato proposto. Sappiamo che Hamas lo ha chiesto fin dal primo giorno. La cieca vendetta genocidaria di Israele ignora il benessere degli ostaggi israeliani.

E mentre il nostro esercito stermina esseri umani a Gaza, i mezzi di informazione dell’hasbara (propaganda) israeliana sono scatenati, soprattutto all’estero. I resti carbonizzati di persone care vengono esibiti in giro, senza nome, contestualizzati solo da appelli disumanizzanti a sradicate i prigionieri del campo di concentramento di Gaza. Dopo aver visto queste immagini, rivolte a un pubblico occidentale e con totale disprezzo per le famiglie dei sopravvissuti, evidenziamo ancora una volta che abbiamo tutti diritto a informazioni precise su chi siano queste vittime e come siano morte.

Senza un’indagine indipendente possiamo solo sperare di mettere insieme articoli sporadici e testimonianze dei sopravvissuti. Prospereranno teorie cospirative. Abbiamo già visto dei tentativi di negare il fatto stesso che civili israeliani siano stati uccisi da combattenti di Hamas.

Inoltre rifiutiamo i tentativi israeliani di etichettare i soldati e altri agenti della sicurezza come vittime del terrorismo al pari dei civili. Se un soldato israeliano è un civile israeliano, un civile israeliano è un soldato. Rifiutiamo questa pericolosa equazione.

Infine, ci tormenta la domanda di chi abbia ucciso alcuni civili israeliani. Da vari resoconti emerge che alcuni sono stati uccisi dall’esercito israeliano. Che siano stati presi in mezzo a tiri incrociati o colpiti deliberatamente con carri armati o elicotteri per eliminare combattenti di Hamas o per impedire ad Hamas di prendere altri ostaggi, abbiamo diritto a una risposta.

Chiediamo risposte perché a Gaza viene perpetrato un genocidio in nome delle vittime israeliane, benché le famiglie dei defunti siano assolutamente contrarie a questa atroce vendetta. Chiediamo risposte e voi dovreste fare altrettanto.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Hamas ha sovvertito lo status quo

Omar Karmi  

28 ottobre 2023 – The Electronic Intifada

Mentre Israele entra nella fase due del suo attacco contro Gaza, ci sono molte congetture su cosa l’esercito israeliano affronterà sul terreno.

La risposta dipende da come Hamas aveva previsto sarebbe stata la risposta di Israele alla sua operazione del 7 ottobre Inondazione Al-Aqsa.

Ciò a sua volta solleva la domanda dei motivi per cui Hamas ha fatto quello che ha fatto e quando.

Rappresentanti di Hamas hanno detto di non aver avuto altra scelta che agire. Avendo visto regredire negli ultimi decenni le aspirazioni dei palestinesi di porre fine all’occupazione israeliana tra l’apatia internazionale qualcosa doveva cambiare.

Abbiamo bussato alla porta della riconciliazione e non ci hanno fatti entrare,” ha detto Musa Abu Marzouk, leader di Hamas, al The New Yorker all’inizio di questo mese.

Abbiamo bussato alla porta delle elezioni e ne siamo stati privati. Abbiamo bussato alla porta di un documento politico per tutto il mondo – abbiamo detto: ‘Vogliamo la pace, ma dateci qualcuno dei nostri diritti –, ma non ci hanno lasciati entrare. Abbiamo provato tutte le strade. Non abbiamo trovato un percorso politico per uscire da questo pantano e liberarci dall’occupazione.”

Di sicuro il contesto dell’attacco conferma la spiegazione di Abu Marzouk.

Settantacinque anni dopo essere stati espulsi con la forza dalla Palestina nel 1948, 56 anni vissuti sotto l’occupazione militare, 30 anni di un “processo di pace” che ha solamente permesso a Israele di consolidare la sua occupazione in Cisgiordania e 16 anni di blocco a Gaza che ha reso impossibili una vita normale e un’economia normale, generazioni di palestinesi sono vissuti e morti senza poter sperare in un futuro migliore.

Altrettanto determinante nell’attuale situazione è stato il consenso dell’Occidente alla pericolosa illusione di Israele che avrebbe potuto gestire la sua occupazione indefinitamente.

Nonostante l’unanime consenso internazionale alla soluzione dei due Stati– condivisa da USA, Regno Unito, Europa, Lega Araba, Unione Africana, Russia, Cina – dalla firma degli accordi di Oslo nel 1993 non c’è mai stata una seria pressione su Israele affinché si ritirasse dall’occupazione, rinunciasse al suo progetto di colonizzazione e ponesse fine al suo dominio militare sui palestinesi della Cisgiordania occupata e della Striscia di Gaza.

Se non ora?

Anzi, tutto il contrario. Anche se le circostanze sul terreno per i palestinesi peggioravano drammaticamente, i leader israeliani erano abbastanza decisi nell’opporsi a uno Stato palestinese, mentre le colonie si espandevano e i coloni estremisti erano incoraggiati a scatenare attacchi violenti, mentre le organizzazioni per i diritti umani in tutto il mondo denunciavano Israele quale Stato di apartheid, mentre la popolazione di Gaza sprofondava nella morsa della povertà e della decrescita, mentre i razzisti duri e puri ricoprivano le posizioni più alte del governo israeliano, l’Occidente restava indifferente fino ad essere complice.

Anche i cosiddetti accordi di Abramo sono stati decisivi. Che i Paesi arabi cercassero accordi di normalizzazione con Israele quando non c’erano segni di alcun progresso verso la fine dell’occupazione o della soluzione alla questione palestinese, ha dato l’impressione che anche loro fossero pronti a lasciare i palestinesi isolati.

Questa prospettiva era aggravata dalle notizie che anche un accordo di normalizzazione con l’Arabia Saudita fosse imminente.

Tutto indicava che Israele stava gestendo con successo la sua occupazione.

Aveva in gran parte represso tutte le minacce armate in Cisgiordania, dove è aiutato non poco dall’Autorità Palestinese. Ha confinato Hamas a Gaza, dove ha creduto di aver trovato un modus operandi per cui i fondi dal Qatar e qualche permesso di lavoro in più avrebbero mantenuto la zona abbastanza tranquilla da essere accettabile.

Nel frattempo l’unico piano politico che sembrava guadagnare terreno era quello del ministro israeliano delle Finanze Bezalel Smotrich [politico dell’estrema destra dei coloni, ndt.], che nel 2017 stilò quello che lui ha chiamato un “piano decisivo”.

Quel piano contemplerebbe l’annessione ad Israele di tutti i territori occupati dopo una massiccia espansione delle colonie e lascerebbe ai palestinesi la scelta fra restare come cittadini di seconda classe o andarsene. Dei “terroristi” che sceglieranno di stare, ma non di accettare la subordinazione, se ne “sarebbe occupato” l’esercito israeliano.

In effetti il piano è una formalizzazione della situazione attuale.

L’accesso di Smotrich e del suo compare suprematista Itamar Ben-Gvir nel 2022 a posizioni al più alto livello del governo è stato solo un segnale del sostegno dello Stato israeliano alla continuazione dell’occupazione – non che ci abbiano pensato più di tanto. Nelle cinque elezioni che Israele ha tenuto negli ultimi quattro anni il tema dell’occupazione è a malapena stato menzionato.

Qualcosa doveva cambiare.

Mesi di preparazione

L’operazione Inondazione Al-Aqsa è stata chiaramente preparata nel corso di mesi e a detta di tutti condotta nella più totale segretezza, e persino i leader politici di Hamas non erano al corrente di tempi e modi.

Il 7 ottobre Hamas è riuscito a penetrare contemporaneamente in decine di punti e con numeri senza precedenti il “muro intelligente” che Israele aveva finito di erigere intorno a Gaza nel 2022, usando droni per abbattere le telecamere di sorveglianza e tattiche diversive come lancio di razzi e motociclette agganciate a parapendii a motore.

I primi obiettivi sembravano chiari. I combattenti hanno attaccato parecchie basi militari intorno a Gaza, uccidendo e catturando dei soldati con l’idea di portarli a Gaza e scambiarli con prigionieri palestinesi detenuti da Israele.

Quale fosse il piano dopo di ciò è meno chiaro. La risposta dell’esercito israeliano è stata imprevedibilmente lenta e quando a Gaza si è diffusa la notizia delle brecce nel muro, altri, tra cui altre organizzazioni della resistenza, hanno cominciato ad affluire oltre la frontiera.

Hamas ha negato di aver preso di mira i civili. Ma, mentre alcune delle affermazioni più raccapriccianti su cosa sia successo – per esempio, la notizia che 40 neonati fossero stati decapitati – sono state discretamente lasciate cadere e mentre sono ancora da definire i numeri degli israeliani uccisi nel fuoco incrociato all’arrivo dell’esercito israeliano, è chiaro che il 7 ottobre centinaia di civili hanno perso la vita.

Certamente Israele ha usato come arma le notizie di atrocità per far montare l’ardore guerresco in Israele e proteggersi da critiche esterne o richiami alla moderazione.

Il numero di funzionari israeliani, militari o politici, del passato o attualmente in carica che hanno utilizzato un linguaggio genocida deve aver fatto aprire gli occhi ad almeno alcuni dei giornalisti e politici stranieri.

È altrettanto certo che Hamas si aspettasse una massiccia risposta israeliana per ripristinare la sua deterrenza dopo quello che l’organizzazione aveva chiaramente pianificato affinché fosse un’ammaccatura senza precedenti nella corazza israeliana.

Non c’è bisogno di guardare molto lontano per vedere a quale tipo di sproporzionata violenza spesso arrivi Israele.

Lezioni dal 2014

Nel 2014 – dopo la cattura e l’uccisione di tre coloni israeliani in Cisgiordania – Benjamin Netanyahu, allora come ora primo ministro di Israele, incolpò Hamas, che negò ogni coinvolgimento – Israele scatenò quello che, fino a quel momento, è stato il suo attacco più brutale contro Gaza, uccidendo 2.251 persone di cui, secondo l’ONU, il 65%, ossia più di 1.400 vittime, erano civili.

La guerra del 2014 è consistita in un’invasione israeliana di due settimane sul terreno di Gaza, da cui Hamas avrebbe imparato la lezione per questa volta. Abu Obeida, il portavoce dell’ala militare di Hamas, le Brigate Qassam, ha chiarito che Hamas è pronta a una lunga battaglia.

Inoltre la cattura di oltre 200 persone ha offerto ad Hamas mezzi preziosi per esercitare un certo controllo sulla risposta israeliana. La presenza di alcuni ostaggi stranieri ha complicato le cose per il governo israeliano, che è stato sotto pressione sia dall’interno che dall’estero perché garantisca il loro rilascio prima dell’invasione di terra.

Anche il rilascio scaglionato di alcuni prigionieri ha rallentato l’esercito israeliano e dato spazio a richieste, tardive ma crescenti, per un immediato cessate il fuoco.

Una volta che Israele ha iniziato il suo attacco era scontato che ci sarebbero state delle tensioni regionali che non hanno fatto che crescere dopo il massiccio e indiscriminato bombardamento israeliano contro Gaza, che ha causato un costo immenso di vite, oltre 7.000 al momento della scrittura di questo articolo.

Fino ad ora gli arabi hanno protestato in gran numero nei propri Paesi ma non si sono ancora ribellati nella misura richiesta da Hamas. Per esempio, il 19 ottobre Abu Obeida ha esortato: “Marciate verso il confine della Palestina, unitevi e (fate) tutto quello che potete per sconfiggere il progetto sionista.”

Comunque la Giordania, con la sua numerosa popolazione palestinese, assiste a proteste quotidiane. La polizia antisommossa giordana è stata impiegata per impedire ai manifestanti di raggiungere il confine giordano con la Cisgiordania e anche i dimostranti davanti all’ambasciata israeliana ad Amman sono stati allontanati con la forza.

I colloqui di normalizzazione sauditi-israeliani sono stati accantonati a tempo indefinito, anche se fino ad ora sono state ignorate le richieste ad altri Paesi arabi di mettere la parola fine ai loro accordi di normalizzazione con Israele.

In Libano Hezbollah ha mantenuto una pressione militare contro Israele sufficiente a far capire che un’invasione di terra a Gaza causerebbe lì un’esplosione ancora più forte.

Gli sciiti libanesi dovranno fare i conti con la marina USA, dopo l’invio da parte di Washington di due portaerei nella zona, un tentativo esplicito di deterrenza contro ogni altro attore dal farsi coinvolgere.

Inoltre la decisione di Israele di tagliare forniture di combustibile, elettricità, cibo e acqua a tutti i 2.3 milioni di gazawi ha messo in difficoltà i sostenitori di Israele in Occidente nello spiegare come il proprio sostegno incondizionato si concili con il diritto internazionale, così spesso invocato per l’Ucraina.

Punto di svolta

Inevitabilmente si sta ritornando alla diplomazia. Una delegazione di Hamas è andata in Russia, la cui proposta del 26 ottobre per totale cessate il fuoco è stata bocciata due volte dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Al Jazeera ha riferito che i colloqui Hamas-Israele mediati dal Qatar per un cessate il fuoco hanno raggiunto uno stadio “avanzato”.

Secondo Al Jazeera il negoziato principale sembra essere quello per uno scambio di prigionieri, uno degli obiettivi centrali di Hamas nell’operazione del 7 ottobre. Da allora Israele ha intrapreso una vasta campagna di arresti in Cisgiordania, rastrellando oltre 1500 palestinesi.

Hamas vuole anche vedere la fine del blocco di Gaza, che ha afflitto le vite di tanti per troppo tempo.

Tuttavia qualsiasi svolta diplomatica è subordinata alla percezione israeliana di come possa riuscire ad evitare di pagare un prezzo qualsiasi con un’azione militare di terra.

Le truppe israeliane sono ammassate in quantità senza precedenti lungo il confine di Gaza. I leader militari israeliani dicono di essere pronti e preparati alla battaglia.

Molto dipende dalla pressione dell’opinione pubblica.

In Israele tale pressione per un’invasione immediata via terra sta riducendosi e i pianificatori militari israeliani sono attenti anche all’opinione pubblica fra gli alleati occidentali di Israele, che sta anch’essa discretamente cambiando, probabilmente restringendo il momento buono per un’invasione su larga scala.

Un’invasione totale di terra sarà sanguinosa e lunga. Infliggerà dolori ancora maggiori alla popolazione di Gaza.

Non otterrà la fine di Hamas, lo scopo su cui insiste Israele. Hamas è un movimento politico con un’ala militare. Più che un gruppo ideologico e religioso, è principalmente un movimento di liberazione nazionale.

Khaled Meshaal, uno dei leader politici di Hamas, a cui è stato chiesto dei sacrifici che i palestinesi dovranno fare come risultato dell’operazione del 7 ottobre, ha citato come fonti d’ispirazione la resistenza sovietica all’invasore nazista tedesco, la guerra del Vietnam prima contro la Francia e poi gli USA e la lotta algerina per l’indipendenza dal colonialismo francese, collocando fermamente Hamas nel campo anti-imperialista.

La sconfitta sul campo di battaglia non equivale alla sconfitta politica.

Indipendentemente da cosa succederà in un’invasione di terra, l’operazione del 7 ottobre ha collocato irrevocabilmente la situazione in Palestina in uno scenario da giorno dopo.

Hamas ha ottenuto vari obiettivi.

Ha danneggiato l’immagine della deterrenza israeliana. Per ora ha minato ogni patto Israele-Arabia Saudita, ed ha attirato l’attenzione mondiale su quella ferita aperta che è la Palestina.

Ciò potrebbe essere il segnale per rinnovati e seri sforzi per affrontare l’occupazione israeliana e per porre fine al governo militare israeliano sul popolo palestinese.

Ma minaccia anche di velocizzare i piani genocidi di Smotrich.

Omar Karmi è un redattore associato di The Electronic Intifada e un ex corrispondente da Gerusalemme e Washington per il quotidiano The National.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)