Guerra a Gaza: secondo un’esperta dell’ONU ci sono“fondati motivi” per ritenere che Israele abbia commesso un genocidio

Redazione MEE

26 marzo 2024 – Middle East Eye

Francesca Albanese, relatrice speciale dell’ONU, ha chiesto un embargo sulle armi a Israele

Lunedì Francesca Albanese, l’esperta di diritti umani delle Nazioni Unite, ha presentato al Consiglio di sicurezza dell’ONU [ in realtà al Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU a Ginevra. ndt] un rapporto in cui sostiene che nella sua guerra contro Gaza Israele ha commesso diversi atti di genocidio e che dovrebbe essere sottoposto a un embargo sulle armi.

Albanese, relatrice speciale dell’ONU sui diritti umani nei territori palestinesi, nel suo rapporto ritiene che vi siano “fondati motivi” per stabilire che Israele ha violato tre dei cinque punti elencati nella Convenzione dell’ONU sul genocidio.

Queste violazioni sono: luccisione di palestinesi, il causare loro gravi danni fisici o mentali, e linfliggere deliberatamente condizioni di vita tali da provocare, in tutto o in parte, la distruzione fisica della popolazione, azioni approvate da dichiarazioni di intenti genocidi da parte di funzionari militari e governativi.

La schiacciante natura e portata dellassalto israeliano a Gaza e le condizioni di vita devastanti inflitte rivelano lintento di distruggere fisicamente i palestinesi come popolo, afferma il rapporto.

Inoltre il rapporto accusa Israele di tentare di legittimare le sue azioni genocide etichettando i palestinesi come terroristi”, trasformando così tutto e tutti in un bersaglio o in un danno collaterale, quindi uccidibile o distruttibile”.

“È ovvio che in questo modo a Gaza nessun palestinese è al sicuro”, afferma.

Il rapporto aggiunge che lattuale guerra a Gaza non è iniziata il 7 ottobre ma che si tratta dellultima fase di un lungo processo di cancellazione coloniale da parte dei coloni, che costituisce una Nakba continua”, o catastrofe, riferendosi alla pulizia etnica della Palestina da parte delle milizie sioniste per far posto alla creazione di Israele nel 1948.

Inadempienza

Albanese esorta gli Stati membri a imporre un embargo sulle armi a Israele “poiché è chiaro che non ha rispettato le misure vincolanti imposte dalla Corte Internazionale di Giustizia (CIG)”, riferendosi alle misure provvisorie emesse dalla Corte a gennaio, dopo che il Sud Africa aveva portato Israele davanti al tribunale dellAja con laccusa di genocidio contro i palestinesi.

La Corte ha ordinato a Israele, in attesa di una sua sentenza, di adottare, misure atte a prevenire azioni che rientrino nell’articolo II della Convenzione sul genocidio.

Il rapporto chiede inoltre unindagine approfondita, indipendente e trasparentesu tutte le violazioni del diritto internazionale e un piano per porre fine allo status quo illegale e insostenibile che costituisce la causa principale dellultima escalation”.

Albanese ha aggiunto che lUnrwa, lagenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, dovrebbe essere adeguatamente finanziata per affrontare la galoppante crisi umanitaria a Gaza. L’agenzia ha affermato di essere al “vicina al collasso” in seguito alla sospensione dei finanziamenti dopo che Israele ha affermato che 12 dei suoi dipendenti sarebbero coinvolti negli attacchi guidati da Hamas il 7 ottobre.

Israele ha imposto un divieto di visto ad Albanese dopo la sua affermazione su X che gli attacchi guidati da Hamas al sud di Israele sono stati una “risposta all’aggressione di Israele”.

La missione diplomatica israeliana a Ginevra ha respinto il rapporto, condannando le “accuse oltraggiose” di Albanese come “semplice continuazione di una campagna che cerca di minare la stessa istituzione dello Stato ebraico”.

La guerra di Israele è contro Hamas, non contro i civili palestinesi, ha affermato la missione in una nota.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Guerra a Gaza: mentre gli occhi sono puntati su Rafah, Israele sta consolidando il controllo del nord di Gaza

Ameer Makhoul

25 marzo 2024-Middle East Eye

Israele sta costruendo infrastrutture per dividere Gaza, impedire il ritorno dei palestinesi sfollati e cambiare la situazione geografica e demografica sul terreno.

Dopo la recente approvazione di un piano per invadere Rafah – dove sono rifugiati 1,4 milioni di palestinesi – il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato la scorsa settimana che l’esercito si sta preparando ad avanzare.

Il cosiddetto gabinetto di guerra “triumvirato”, composto da Netanyahu, dal ministro della Difesa Yoav Gallant e dall’ex leader dell’opposizione Benny Gantz, aveva già raggiunto un consenso su un’incursione a Rafah per prendere il controllo del corridoio di Filadelfia (chiamato anche via di Filadelfia o asse di Saladino).

In un discorso rivolto alla lobby filo-israeliana statunitense Aipac Netanyahu ha insistito sul fatto che “la strada verso la vittoria passa attraverso Rafah”: una strategia che, secondo lui, gode di “un sostegno schiacciante” all’interno della società israeliana.

Eppure, mentre le minacce dei politici israeliani di un’imminente invasione di Rafah stanno dirigendo l’attenzione del mondo verso il sud, il governo ha accelerato i passi sul territorio nel nord di Gaza per consolidare la sua occupazione e garantirne la longevità.

Una caratteristica fondamentale della sua strategia è prevenire il ritorno dei palestinesi sfollati dal sud mentre cerca di cambiare le caratteristiche geografiche e demografiche della Striscia di Gaza.

“Occupazione permanente”

Le immagini satellitari analizzate dalla CNN mostrano che una strada costruita dall’esercito israeliano per dividere Gaza in due ha raggiunto la costa mediterranea.

Secondo il rapporto della CNN un’immagine satellitare del 6 marzo “rivela che la strada est-ovest, in costruzione da settimane, si estende ora dalla zona di confine tra Gaza e Israele per tutta la larghezza di circa 6,5 km della striscia che divide il nord di Gaza, inclusa Gaza City, dal sud dell’enclave.”

Il rapporto rileva che i militari hanno utilizzato “una grande quantità di mine ed esplosivi” per ripulire l’area. Le bombe di fabbricazione americana sono state usate per distruggere le restanti case e infrastrutture nel nord di Gaza, in particolare nell’area di Beit Hanoun, che confina con il valico di Erez.

Altre aree vicino a Gaza City, soprattutto nella periferia orientale, sono diventate parte della zona cuscinetto che Israele sta costruendo a Gaza e lungo il confine.

Nel quartiere di Zaytoun, nel mezzo di negoziati senza fine per il cessate il fuoco, l’esercito israeliano sta portando avanti un “progetto pilota” di gestione civile destinato a controllare completamente la distribuzione di cibo e altre provviste. Si basa sulla convinzione che chi controlla il cibo controlla le persone.

Questo progetto è accompagnato dal severo divieto di Israele di fornire aiuti a Gaza e dall’espulsione delle organizzazioni umanitarie dall’area, una politica che Israele cerca di estendere ad altre aree di Gaza. Israele ha specificamente preso di mira e intende a distruggere l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, Unrwa, come parte dei suoi sforzi per eliminare la questione dei rifugiati e il diritto al ritorno dei palestinesi.

Le forze israeliane cercano inoltre di reclutare agenti palestinesi con i quali cooperare con il pretesto della distribuzione di cibo e aiuti. Tuttavia, in realtà puntano ad addestrare quegli agenti al mantenimento della sicurezza e trasformarli in milizie che opprimeranno i palestinesi. Queste milizie diventeranno un’estensione dell’occupazione e trarranno beneficio dal suo sistema corrotto.

In particolare la strada di nuova costruzione nella regione settentrionale frammenta la città, trasformandola in enclave residenziali isolate. La posizione della strada, che si estende fino al mare, sembra corrispondere a quella del “molo galleggiante” progettato dagli Stati Uniti, che l’amministrazione Biden ha proposto di costruire.

In realtà Israele sta sviluppando le infrastrutture per un’occupazione permanente della Striscia di Gaza in condizioni fondamentalmente diverse da quelle esistenti fino al disimpegno del 2005. Nello specifico, Gaza non sarà più considerata un’estensione della popolazione palestinese o parte della regione geografica palestinese.

L’obiettivo è piuttosto impedire il ritorno degli abitanti sfollati, mentre chi riuscirà a rientrare non troverà più nulla a cui tornare, poiché non ci sono più case, né quartieri, né città.

Questa è una dottrina in vigore sin dalla Nakba palestinese del 1948 e dalla creazione della questione dei rifugiati palestinesi, che è ancora definita come sfollamento “temporaneo”.

Reinsediamento israeliano

Israele è in procinto di ripristinare la sua occupazione di Gaza prendendo il controllo delle strade principali, dei corridoi e delle altre vie di comunicazione. Fino al suo ritiro unilaterale nel 2005 ai palestinesi era negato l’accesso a queste aree.

L’idea di dividere la Striscia di Gaza in aree accessibili agli israeliani e altre riservate ai palestinesi risale all’occupazione del 1967.

Nel 1971 Ariel Sharon, il comandante dell’esercito israeliano della regione meridionale che in seguito divenne primo ministro, preparò un piano per dividere Gaza e il Nord Sinai in cinque aree di insediamento che impedissero la contiguità geografica tra i palestinesi del nord, del centro e del sud.

Israele avrebbe circondato quest’area da nord con insediamenti e posti di blocco e da sud con un blocco di insediamenti nel deserto settentrionale del Sinai.

Sharon lo chiamò “Piano delle cinque dita” e il governo guidato da Golda Meir lo adottò integralmente nel 1972.

Il primo è il “Dito Nord”, che comprendeva un blocco di insediamenti nell’estremo nord della Striscia di Gaza – Beit Hanoun e il valico di Erez. Mirava ad espandere le propaggini di Ashkelon (Asqalan al-Burj) alle aree all’interno di Gaza.

Il secondo è il “dito di Netzarim”, che si estende tra il valico di al-Montar, o Karni, e il mare. È lungo 8 km e separa Gaza City dalla Gaza Valley e dal centro della Striscia. Prima del 2005 l’insediamento di Netzarim era situato nella parte occidentale di Gaza, lungo la costa. Attraversava al-Rashid e Salah al-Din Road, l’autostrada principale di Gaza, e si estendeva da nord a sud della striscia costituendo un punto di controllo per il porto di Gaza.

Il terzo dito è l’asse Kissufim, un insediamento vicino a Shuhada Street, che separa Deir al-Balah dalle aree centrali di Gaza fino a Khan Younis, dove è stato istituito il blocco di insediamenti Gush Katif.

Il quarto è il kibbutz Sufa tra Khan Younis e Rafah. È stato fondato nel 1974 come postazione militare nella penisola del Sinai e trasformato in una fattoria civile nel 1977. È stato progettato per estendersi fino al mare.

Il quinto dito è il blocco degli insediamenti Yamit nel nord del Sinai, alla periferia sud di Rafah, che impedisce qualsiasi contiguità geografica tra Rafah e il Sinai.

Dodici dei suoi centri abitati e un aeroporto israeliano furono annessi nel 1982 dopo l’accordo di Camp David con l’Egitto. Successivamente fu istituito il corridoio di Filadelfia (Saladin). Invadendo Rafah Israele cerca di controllare il passaggio con l’Egitto.

Vale la pena notare che la maggior parte delle “dita” vanno da est a ovest, raggiungendo il mare, per impedire la contiguità geografica nella Striscia di Gaza. L’obiettivo di Israele era isolare Gaza dal nord e dal sud in diverse aree strategiche.

Tuttavia la maggior parte dei piani “finger” non sono durati nel tempo e si sono conclusi nel 2005 quando il governo guidato da Sharon ha deciso di ritirarsi del tutto da Gaza.

In una recente escalation il consiglio di insediamento in Cisgiordania ha tenuto una conferenza popolare per reinsediare Gaza, alla quale hanno partecipato 12 ministri del Sionismo religioso e del partito Likud.

Il consiglio ha riesaminato i piani per ricostruire blocchi di insediamenti negli stessi luoghi da cui erano stati ritirati e demoliti nel 2005, in concomitanza con l’attuazione del piano di disimpegno da Gaza e dalla Cisgiordania settentrionale.

Concentrazione sugli aiuti

Le minacce di Netanyahu di prendere d’assalto Rafah e il corridoio Filadelfia sono probabilmente una tattica negoziale per fare pressione e ricattare i leader di Hamas e l’Egitto. Ciononostante gli analisti israeliani insistono sul fatto che i veri interessi strategici di Israele risiedono nel nord di Gaza e che un confronto con l’Egitto potrebbe innescare un dilemma strategico.

Ciò significa che non esiste alcuna opzione per prendere in considerazione una soluzione globale alla guerra, ma solo accordi parziali e temporanei dopo i quali la guerra continuerà – per cui Israele non si ritirerà e le famiglie sfollate non ritorneranno.

Nella migliore delle ipotesi qualsiasi discussione sul ritorno degli sfollati a Gaza sarà insignificante e non porterà al loro effettivo ritorno. Infatti prima di qualsiasi cessate il fuoco Israele avrà completato il suo sistema di controllo e consolidato la sua presenza coloniale a Gaza. In altre parole Israele non sta portando avanti una campagna militare che si concluderà con la fine di questa guerra.

Palestinesi e arabi sono troppo concentrati sui negoziati, sui colloqui di cessate il fuoco e sulle tattiche di ostruzionismo di Israele. Ciò si traduce in una corsa continua alla ricerca di dettagli che costituiscono una serie di distrazioni, mentre le azioni di Israele sul terreno rivelano chiaramente un ritorno all’occupazione totale di Gaza e alla sua distruzione come una coesa unità geografica per il suo popolo.

L’ossessione della comunità internazionale per gli aiuti umanitari, ignorando i piani a lungo termine di Israele, porterà ulteriormente allo sfollamento indefinito dei palestinesi.

Un’altra questione riguarda la proposta del “molo galleggiante”, che secondo la Casa Bianca verrà utilizzato per consegnare a Gaza due milioni di pasti al giorno. Secondo questo piano, Israele assumerà il controllo della sicurezza del porto improvvisato, in collaborazione con l’esercito americano, che non dovrà entrare a Gaza. Eppure Netanyahu ha recentemente affermato che questo bacino potrebbe aiutare a “deportare” i palestinesi da Gaza e attraverso il quale Israele potrebbe effettuare la loro espulsione di massa.

Vale anche la pena ricordare che l’ampia strada che l’esercito israeliano sta costruendo dal sud-est di Gaza City al mare è geograficamente coerente con la proposta avanzata dal ministro degli Esteri israeliano Israel Katz ai leader dell’UE riguardo allo spostamento forzato dei palestinesi su un’isola artificiale.

Inoltre, la costante attenzione al nord di Gaza come regione a sé stante suggerisce la ricerca di un riconoscimento internazionale del fatto che il nord di Gaza sia separato dal sud. Stabilendo strutture separate di distribuzione degli aiuti per il nord e il sud – che saranno gestite da Israele – la comunità internazionale garantisce la continua presenza e occupazione di Gaza da parte di Israele.

Significa anche che gli aiuti umanitari americani potrebbero diventare un’estensione dell’occupazione israeliana e dei suoi meccanismi di controllo su Gaza. Questo progetto è stato elaborato anche sulla base del fatto che i sostenitori del governo Netanyahu impediscono l’ingresso di aiuti a Gaza attraverso il valico di frontiera Karem Abu Salem, o Kerem Shalom.

Discorso irrealistico

Inoltre, il discorso politico all’interno delle fazioni palestinesi è irrealistico e tratta la situazione come se le condizioni fossero le stesse precedenti il 7 ottobre e non fossero cambiate drasticamente. Affermano che i palestinesi devono semplicemente superare le loro divisioni anche se la Valle di Gaza è diventata un confine che limita il movimento dei palestinesi a Gaza, simile al muro dell’apartheid in Cisgiordania.

Il muro dell’apartheid ha cambiato drasticamente le caratteristiche politiche e geografiche della popolazione in Cisgiordania. È stato costruito sulle rovine della presenza urbana palestinese e di una popolazione che è stata sfollata con la forza e a cui è stato impedito per sempre il ritorno.

Portando avanti i suoi piani a Gaza, in particolare nel nord, Israele sta assicurando la sua occupazione duratura di Gaza. Palestinesi e arabi – così come la comunità internazionale – dovrebbero concentrare la loro attenzione sui drastici cambiamenti avvenuti nella situazione geografica e demografica sul terreno.

È necessaria una pressione araba diretta sugli Stati Uniti per costringere Israele a consentire l’ingresso degli aiuti umanitari a Gaza attraverso i suoi confini terrestri e a non sottostare alle condizioni del governo israeliano, poiché Gaza rimane un’area palestinese, non israeliana.

Devono inoltre assumere una posizione ferma e lanciare una massiccia campagna per fare pressione sull’amministrazione Biden affinché smetta di fornire a Israele aiuti militari e armi utilizzate per sradicare tutti gli elementi fondamentali della vita a Gaza, fornendo al contempo un’assistenza umanitaria inadeguata, che, di fatto, è priva di qualsiasi umanità.

Tale pressione esterna è necessaria poiché sia il governo Netanyahu che l’opposizione stanno bloccando tutti i passi verso una soluzione politica.

Nel frattempo, mentre consolidano la loro occupazione a Gaza, stanno sistematicamente affamando la popolazione palestinese e commettendo atti gravi che equivalgono a crimini di guerra e atti mortali di genocidio – le cui conseguenze potrebbero essere più terribili dei bombardamenti quotidiani della città e della sua gente.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Guerra a Gaza: in seguito all’astensione degli USA, l’ONU approva una risoluzione che richiede il cessate il fuoco.

Redazione di MEE

25 marzo 2024 – Middle East Eye

Per la prima volta in cinque mesi di guerra il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha votato per un cessate il fuoco a Gaza dopo che gli USA si sono astenuti anziché porre il veto

Lunedì il Consiglio di Sicurezza ONU ha approvato una risoluzione che chiede un “cessate il fuoco immediato” a Gaza per il restante mese sacro musulmano del Ramadan, dopo che gli Stati Uniti si sono astenuti dal voto rinunciando a porre il veto.

La risoluzione, appoggiata da 14 nazioni tranne gli USA, chiede anche il rilascio di tutti gli ostaggi israeliani detenuti a Gaza e “l’urgente necessità di aumentare il flusso” degli aiuti nell’enclave assediata.

Amar Bendjama, ambasciatore dell’Algeria all’ONU e uno dei promotori della risoluzione, si è felicitato per la svolta ed ha affermato che il Consiglio di Sicurezza “si è finalmente assunto le sue responsabilità in quanto organo principale per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali”.

Questo bagno di sangue è continuato per troppo tempo”, ha detto.

Il voto di lunedì è avvenuto mentre i leader israeliani continuavano a ribadire l’intenzione di proseguire con l’offensiva sul terreno su vasta scala a Rafah, la città al confine meridionale dove attualmente sono rifugiati un milione e mezzo di palestinesi.

Dall’attacco del 7 ottobre più del 90% dei 2.300.000 abitanti di Gaza è stato sfollato e almeno 32.000 palestinesi sono stati uccisi, in maggioranza donne e bambini.

Nonostante i crescenti allarmi da parte delle agenzie umanitarie e della comunità internazionale secondo cui un assalto a Rafah sarebbe una catastrofe, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha sostenuto che Israele non può raggiungere il suo obbiettivo di una “vittoria totale” contro Hamas senza aggredire la città di confine.

In seguito al voto Netanyahu ha annullato per protesta la prevista visita di una delegazione di alto livello a Washington ed ha accusato gli USA di ritrattare quella che ha detto essere stata una “posizione di principio”.

Il Consigliere per la Sicurezza Nazionale israeliano Tzachi Hanegbi e il Ministro per gli Affari Strategici Ron Dermer, un importante uomo di fiducia di Netanyahu, avrebbero dovuto recarsi a Washington per ascoltare le contro-proposte americane riguardo all’offensiva su Rafah.

Subito dopo il voto il portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale della Casa Bianca John Kirby ha detto ai giornalisti che l’astensione non rappresenta un “cambio nella politica” dell’amministrazione.

Non c’è ragione perché questo sia considerato una forma di escalation”, ha detto. “Nulla è cambiato nella nostra politica. Vogliamo ancora vedere un cessate il fuoco. Vogliamo ancora liberare tutti gli ostaggi. E vogliamo ancora vedere più assistenza umanitaria verso la popolazione di Gaza.”

La decisione di Washington di astenersi attesta settimane di critiche reciproche tra Israele e l’amministrazione Biden.

Da dicembre Biden e altri alti dirigenti USA hanno contestato Israele rispetto alla sua condotta nella guerra, ma il voto di lunedì segna il punto di critica più formale degli USA.

Gli USA hanno posto tre volte il veto rispetto alle richieste di cessate il fuoco. Inoltre Washington aveva bloccato anche un emendamento che chiedeva un cessate il fuoco che la Russia aveva cercato di includere in una risoluzione del Consiglio di Sicurezza a dicembre.

La settimana scorsa gli USA avevano annunciato ufficialmente di essere pronti a limitare il proprio supporto a Israele, presentando una risoluzione per riconoscere “la necessità” di un “immediato e prolungato cessate il fuoco”.

Tuttavia quel testo era stato bloccato da Russia e Cina, che insieme agli Stati arabi lo hanno criticato per non aver chiesto esplicitamente che Israele fermasse la campagna contro Gaza.

Discussioni sulla risoluzione

Gli Stati Uniti hanno ipotizzato una risoluzione di cessate il fuoco fin da febbraio come strumento di pressione su Israele, essendo Washington sempre più frustrata da ciò che Biden ha definito “bombardamento indiscriminato” di Israele su Gaza e dalla mancata predisposizione di un piano post-guerra per l’enclave assediata, che l’ONU ha avvertito essere sull’orlo della carestia.

Frank Lowenstein, ex inviato speciale per i negoziati israelo-palestinesi nell’amministrazione Obama, aveva in precedenza detto a MEE che le crescenti critiche degli USA alle Nazioni Unite hanno rappresentato “un avvertimento a Bibi (il primo ministro Benjamin Netanyahu)”, aggiungendo che “gli israeliani sono molto sensibili riguardo all’ONU. Lo considerano un organismo ostile e confidano sugli USA perché li proteggano in quella sede.”

La risoluzione è dovuta al lavoro dei membri non permanenti del Consiglio, che hanno negoziato con gli Stati Uniti durante il weekend per evitare un ulteriore veto, secondo fonti diplomatiche che hanno espresso un certo ottimismo sulla sua approvazione.

Diversamente dal testo di venerdì, la richiesta di cessate il fuoco nella nuova risoluzione non è collegata ai colloqui in corso, condotti dal Qatar con il sostegno di Stati Uniti ed Egitto, per fermare il conflitto in cambio del rilascio degli ostaggi da parte di Hamas.

Il nuovo testo inoltre deplora “tutti gli attacchi contro civili e obbiettivi civili come anche ogni violenza e ostilità contro civili e tutti gli atti di terrorismo”.

Israele ha criticato il Consiglio di Sicurezza per le precedenti risoluzioni che non hanno specificamente condannato Hamas.

Gli attacchi compiuti da Hamas nel sud di Israele hanno ucciso 1.200 persone ed hanno portato alla cattura di 250 ostaggi condotti a Gaza.

In risposta Israele ha lanciato una sanguinosa offensiva sull’enclave assediata che ha ridotto in macerie la maggior parte della striscia costiera mediterranea.

Un recente rapporto dell’ONU ha avvertito che la carestia è imminente nel nord di Gaza, una crisi di cui molti hanno accusato Israele per aver usato la fame come arma di guerra.

 

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 




Gli USA minacciano di tagliare i fondi all’Autorità Palestinese se ottiene il riconoscimento da parte dell’ONU e se appoggia la causa contro Israele presso la CPI

Redazione di Middle East Monitor

25 marzo 2024 – Middle East Monitor

Il governo degli Stati Uniti ha approvato una legge che minaccia di limitare il finanziamento all’ Autorità Nazionale Palestinese (ANP) se ottiene il riconoscimento come Stato presso le Nazioni Unite e se cerca di agire contro Israele alla Corte Penale Internazionale (CPI), insieme ad una miriade di altre restrizioni su aiuti e finanziamenti ai palestinesi sotto occupazione.

Nella risoluzione votata sabato dal Senato statunitense e firmato dal presidente Joe Biden, si afferma che “nessuno dei fondi stanziato sotto la voce ‘Fondo di supporto economico’ in questa legge può essere disponibile per assistenza all’Autorità Nazionale Palestinese se dopo la data di adozione di questa legge …i palestinesi otterranno lo stesso riconoscimento degli Stati membri oppure la piena affiliazione come Stato presso le Nazioni Unite o ogni singola agenzia [ONU] fuori da un accordo negoziato tra Israele ed i palestinesi.”

Un’altra ragione per tagliare il supporto economico per l’ANP sarebbe se “i palestinesi iniziassero un’indagine autorizzata per via giudiziaria presso la Corte Penale Internazionale (CPI), o la supportassero attivamente, che sottoponga cittadini israeliani ad una inchiesta per presunti crimini contro i palestinesi.”

Nel documento si afferma comunque che “il Segretario di Stato” degli Stati Uniti “può revocare la restrizione” riguardo al riconoscimento ONU della sovranità palestinese “se il segretario certifica alle Commissioni sugli Stanziamenti [del parlamento USA] che farlo è nell’interesse della sicurezza nazionale degli Stati Uniti.” Lo stessa autorizzazione per una revoca a quanto pare non si applica alla seconda restrizione sui procedimenti legali contro Israele presso la CPI.

Un’altra parte rilevante della legge di finanziamento da 1.200 miliardi di dollari – che è rivolta a prevenire il blocco del governo statunitense e chiudere il bilancio annuale – è la prosecuzione del divieto di finanziamento per il United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees [Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, ndt.] (UNRWA) fino al 2025, nonostante il fatto che sia la principale agenzia sul terreno nella Striscia di Gaza nel pieno della crescente carestia e la crisi umanitaria laggiù.

Allo stesso tempo, la legge alloca 3,8 miliardi di dollari aggiuntivi per aiuti militari ad Israele dal budget di 886 miliardi di dollari per il Dipartimento della Difesa statunitense, consentendo all’occupazione [isreliana] di continuare la sua offensiva contro il territorio palestinese assediato e di commettere crimini di guerra contro la popolazione, di cui sono già state uccise oltre 32.000 persone.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Questi bambini hanno lasciato Gaza ma soffrono ancora di traumi psichici a causa della guerra israeliana

Monjed Jadou

19 marzo 2024 – AlJazeera

Attraverso larte e stringendosi gli uni agli altri 68 bambini sfollati a Betlemme stanno affrontando il loro dolore.

Betlemme, Cisgiordania occupata Un gruppo di bambini di Gaza è impegnato in un laboratorio artistico nel Villaggio di SOS Children [organizzazione internazionale impegnata nel fornire una casa e dei legami familiari a bambini orfani di guerra, ndt.] a Betlemme, a 102 km da Rafah, la città più meridionale della Striscia di Gaza.

I bambini stanno lavorando sulla rappresentazione del viaggio di tre giorni che hanno intrapreso da Rafah a Betlemme, un viaggio tortuoso per coprire una distanza che potrebbe essere percorsa in un’ora.

Come per tutti i palestinesi, i loro spostamenti sono impediti dal governo israeliano, che già in tempi normali limita fortemente la possibilità di movimento dei palestinesi, una situazione aggravata dalla guerra che Israele sta conducendo a Gaza.

Questo mese con il sostegno del governo tedesco sessantotto bambini sono stati evacuati dal Villaggio di SOS Chidren a Rafah e inseriti nella struttura dellorganizzazione benefica a Betlemme, accompagnati dagli 11 operatori che si prendevano cura di loro a Gaza.

Esprimere dolore e paura

Per loro salvaguardia e privacy, i bambini di età compresa tra i due e i 14 anni non possono essere intervistati o fotografati direttamente, ma ad Al Jazeera è stato permesso di osservare le loro attività e interazioni.

Una ragazza era concentrata nel ritagliare la parola Rafahe incollarla in un angolo del suo foglio, scrupolosamente intenta nell’operazione con un’espressione triste, spaventata e accigliata.

Da quel punto percorreva la pagina con un filo di lana di un giallo brillante con cui avvolgeva all’interno di un nodo allentato una faccia arrabbiata, quindi lo lo avvolgeva in ampi cerchi fino a raggiungere “Betlemme”, che aveva incollato nell’angolo opposto.

Per quanto già affiatati grazie al tipo di organizzazione degli SOS Villages sembra che durante il loro lungo viaggio verso Betlemme i bambini si siano ulteriormente avvicinati tra di loro.

Un ragazzo si china per aiutare un bambino più piccolo a capire cosa fare con il suo foglio, spiegando che le diverse faccine sonoperché il bambino esprima cosa avesse provato nei diversi momenti del viaggio e aspetta che il suo amico più giovane le posizioni prima di spiegare l’uso del tubetto della colla.

All’altra estremità della stanza un bambino di cinque anni è rimasto impigliato nella sua giacca a causa delle maniche rovesciate. Una sua amica di 14 anni gliela sfila e lo sistema rinfilandogliela, e appena lui è pronto a partecipare all’attività lo tira a sé per abbracciarlo.

Il dottor Mutaz Lubad, esperto in arte e terapia psicologica, afferma che queste sedute di creazione artistica guidata consentono ai bambini di provare un po’ di sollievo, aprendo loro uno spazio per esprimere ciò che hanno in mente attraverso la loro arte.

I bambini elaborano un insieme spaventoso di emozioni: tristezza nel lasciare la propria casa assieme ai tanti bambini le cui famiglie non hanno dato il consenso allo sfollamento, sollievo per la fuga dalla guerra, paura dei rumori forti dopo aver subito i bombardamenti, una gioia fugace nel raggiungere Betlemme e il sogno di tornare a casa, a Rafah.

“Poiché i bambini spesso trovano difficile esprimere verbalmente ciò che provano lavoriamo per esaminare le loro difficoltà attraverso la loro arte”, ha detto Lubad ad Al Jazeera.

Nelle attività artistiche guidate come questa, in cui a tutti viene chiesto di riprodurre lo stesso soggetto, i bambini possono scegliere i colori, le espressioni delle faccine preferite per i diversi punti del loro viaggio e il grado di tortuosità applicato al percorso del filo di lana incollato per rappresentare i loro tre giorni di viaggio.

Alla domanda sul significato dei nodi allentati che alcuni bambini inseriscono nel percorso del loro viaggio Lubad risponde: I nodi rappresentano momenti in cui i bambini sono stati esposti a situazioni di turbamento o spavento, ma il fatto che abbiano generalmente inserito dei nodi allentati dimostra che si tratta di situazioni che sentono di essere in grado di superare.

Il lavoro di un ragazzo è particolarmente espressivo. Quando gli è stato detto che sarebbe stato trasferito da Rafah ha avuto paura dellignoto, di lasciare la sua stanza e la sua casa. Poi durante il viaggio si è sentito di volta in volta preoccupato e stressato finché, alla fine, si è sentito rincuorato trovandosi al sicuro a Betlemme. Tutto ciò si riflette nelle espressioni delle faccine che ha scelto”.

Proteggere i bambini

L’SOS Village di Rafah è ancora aperto e accoglie bambini le cui famiglie sono morte in guerra o che si sono separate dai loro parenti. Molti bambini sono rimasti nella struttura di Rafah in quanto i loro tutori legali hanno rifiutato il loro sfollamento da Gaza.

Mantenere i contatti – quelli già esistenti – con le famiglie dei bambini è un importante elemento per mantenere i legami con la comunità, ma cercare di scoprire quali parenti siano sopravvissuti e quali morti è stato quasi impossibile, dice ad Al Jazeera Sami Ajur, responsabile del programma presso la Children’s Village Foundation a Gaza.

Aggiunge che nonostante le difficoltà che sta affrontando durante la guerra la fondazione continua il suo lavoro e sottolinea che la struttura di Rafah sta anzi cercando sostegno per espandere le sue attività in modo da poter accogliere un numero maggiore dei bambini che ogni giorno a Gaza rimangono orfani o vengono separati dalle loro famiglie.

Il trauma che a Gaza i bambini stanno vivendo a causa della guerra si manifesta in molti modi, tra cui ansia, incontinenza, incubi e insonnia, afferma Ghada Harazallah, direttrice nazionale dei Villaggi dei Childrens Villages in Palestina, aggiungendo che la loro missione proteggere i bambini non è cambiata.

Al tramonto i bambini di Gaza e quelli che vivono nel villaggio di Betlemme avranno un iftar [cena rituale, ndt.] di gruppo per interrompere il digiuno del Ramadan.

La struttura di SOS Childrens Villages nel mondo incoraggia un rapporto di tipo familiare tra i bambini e tra loro e lo staff adulto. Un membro dello staff viene assegnato come genitorea ciascun gruppo di bambini, che vengono cresciuti in gruppi familiaridove possono formare legami reciproci.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Rachel Corrie ha dato la vita per la Palestina

Tom Dale

16 marzo 2024 – Jacobin

In questo giorno nel 2003 l’IDF (esercito israeliano) uccise l’attivista americana Rachel Corrie mentre difendeva le case di Rafah dalla distruzione. Ora che Israele minaccia di invadere questa città un volontario che fu accanto a Rachel scrive della sua eredità – un invito alla ferma solidarietà con i gazawi.

Oggi non c’è nessuna città al mondo più colma di sofferenza e inquietudine di Rafah, addossata al

A partire da metà ottobre le forze Israeliane hanno già spianato la loro strada attraverso Gaza City e Khan Younis, compiendo massacri, distruggendo case e lasciandosi dietro terrore e morte per fame. Più di un milione di palestinesi sono fuggiti a sud a Rafah, facendo aumentare la sua popolazione di sette volte la sua dimensione precedente.

Ma adesso l’obbiettivo di Israele è puntato sulla stessa Rafah, con la minaccia di un’invasione devastante.

Rafah oggi è una città fatta di strutture di tela e plastica quanto di cemento; fredda e spesso fradicia, affamata e devastata. Le malattie si diffondono mentre la gente baratta quel poco cibo di cui dispone con le medicine e le donne strappano pezzi delle tende per usarli come assorbenti. Gli orfani – forse diecimila a Rafah – badano a sé stessi come meglio possono.

L’anno scorso Israele ha lanciato volantini su Khan Younis dicendo ai palestinesi di andare nei “rifugi” a Rafah, per sfuggire al conflitto. Ma là non ci sono rifugi e non c’è stata via di fuga. All’inizio della guerra un amico ha perso 35 membri della sua famiglia estesa in un solo attacco aereo sulla città. In maggioranza erano donne e bambini.

Più frequente degli attacchi a Rafah stessa è il suono dell’eco degli attacchi aerei dal nord, un sinistro avvertimento che il peggio può ancora arrivare.

Il mese scorso il primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu ha sostenuto che rinunciare a invadere Rafah equivarrebbe ad una sconfitta del suo Paese e che ordinerà l’invasione anche se tutti gli ostaggi fossero rilasciati.

Il segretario di stato USA Anthony Blinken ha detto che Washington non sosterrà un’invasione di Rafah in assenza di un “chiaro” piano di protezione dei civili e che non è ancora stato approntato alcun piano. Si dice che i dirigenti israeliani stiano elaborando uno schema per trasferire i palestinesi che sono a Rafah in “isole umanitarie” a nord – dove già scarseggiano cibo e medicinali e la gente è morta di fame.

Il presidente Joe Biden ha detto che un’invasione di Rafah costituirebbe una “linea rossa”, ma non ha ventilato alcuna conseguenza nel caso Israele oltrepassi tale linea rossa, come ne ha oltrepassate tante altre. Netanyahu, come ha già fatto in precedenza, ha risposto sprezzantemente: “Ci andremo. Non li risparmieremo.”

Rasa al suolo, crivellata di proiettili e svuotata”

All’epoca della seconda Intifada, nel 2002-2003, vivevo a Rafah come volontario per l’International Solidarity Movement (ISM), un’organizzazione a guida palestinese che sostiene la resistenza nonviolenta all’occupazione. Tra i miei colleghi c’era Rachel Corrie, una volontaria americana di Olimpia, nello stato di Washington negli Stati Uniti, con uno spassoso senso dell’umorismo che nascondeva la serietà riguardo alla vita – ed al suo scopo – che non avrei del tutto compreso fino a quando lessi i suoi scritti anni dopo. Più tardi si unì al gruppo Tom Hurndall, un talentuoso fotografo che venne colpito alla testa da un cecchino dell’esercito israeliano nell’aprile 2003 e morì l’anno seguente dopo 9 mesi di coma.

Anche allora Rafah fu “rasa al suolo e crivellata di proiettili e svuotata”, come scrisse Rachel in un messaggio ai suoi genitori. Passavamo la maggior parte delle notti nelle case di famiglie vicino al confine con l’Egitto. Israele vi aveva creato una striscia di terra vuota, demolendo case per creare una zona di tiro libero e quindi un vantaggio tattico per le sue truppe posizionate lungo il confine. A volte avvertivano coi megafoni le famiglie di andare via, a volte sparavano nelle case finché le famiglie fuggivano. In ogni momento del giorno o della notte, attraverso demolizioni o no, potevano sparare inondando le case di pallottole.

Non tutti i proiettili sparati contro un muro entravano nell’edificio, ma alcuni sì, specialmente quelli sparati da armi più potenti. Tutti coloro che si trovavano in casa del nostro amico Abu Jamil, compresa Rachel, non poterono non accorgersi, mentre giocavano con i suoi figli, dei fori lasciati dai proiettili che avevano colpito il muro interno ad altezza della testa, sopra il lavello della cucina.

Quando i palestinesi ci chiamavano andavamo ad opporci ai bulldozer armati israeliani che lavoravano lungo la striscia di confine, tenendoli d’occhio e cercando di intervenire se andavano a demolire una casa. Alcune volte li abbiamo rallentati, abbiamo creato impaccio, concedendo a una famiglia qua o là una tregua di qualche giorno o settimana. Forse abbiamo attirato l’attenzione del mondo su quella striscia di terra più frequentemente che se non fossimo stati là. Ma la demolizione andava avanti e il mondo aveva altre preoccupazioni: l’invasione dell’Iraq era imminente.

Il 16 marzo 2003 poco dopo le 17 vidi che uno dei bulldozer di Israele di fabbricazione USA, enorme e imponente, si dirigeva verso la casa del dottor Samir Nasrallah e della sua giovane famiglia. Rachel, amica del dottor Samir, si mise tra il bulldozer e la casa. Mentre il bulldozer si muoveva verso di lei la sua lama iniziò spingere davanti a sé a un monticello di terra. Quando il monticello raggiunse Rachel lei vi si arrampicò, faticando per mantenersi in appoggio sulla terra molle, reggendosi con le mani fin quando la sua testa fu sopra il livello della lama. Il conducente deve averla guardata negli occhi, ma proseguì imperterrito e lei cominciò a perdere l’equilibrio.

Qualche settimana prima di quel giorno Rachel sognò di cadere e lo scrisse sul suo diario:

…cadevo verso la morte da qualcosa di polveroso e liscio e frammentato come le scogliere dello Utah, ma mi sono aggrappata e quando ogni nuovo punto d’appoggio o pezzo di roccia si rompeva io allungavo la mano mentre cadevo e ne afferravo un altro. Non ho avuto il tempo di pensare a niente – solo di reagire…e ho sentito “Non posso morire, non posso morire”, ancora e ancora nella mia testa.

Il terreno sul confine di Rafah, un’irregolare mistura di argilla e terra, ha una tonalità calda non tanto diversa da quella delle scogliere dello Utah. A distanza di anni, come molti degli scritti di Rachel, l’incubo sembra essere stato premonitore.

Benché ci provasse, Rachel non riuscì a mantenere l’equilibrio; il bulldozer avanzò deciso, la travolse, la spinse sotto la terra, la schiacciò. Morì mentre le tenevo le mani nell’ambulanza verso l’ospedale. Nel mio primo resoconto dei fatti, scritto due giorni dopo, specificai che dieci palestinesi erano stati uccisi a Gaza dopo Rachel, senza che lo si sapesse al di fuori dell’enclave stessa.

A parte la mia personale amicizia con Rachel, c’è disagio nel raccontare ciò che è necessario ribadire soprattutto oggi, alla luce della devastazione che Rafah subisce. Parte del nostro obbiettivo, tutti quegli anni addietro, era far risaltare un sistema razzista di violenza e il sistema razzista di narrazione che lo accompagna, al fine di sovvertire quei sistemi stessi. Alcuni potrebbero pensare che un simile tentativo sia sempre stato idealista o che qualunque tentativo di mettere in luce un simile sistema razzista, come il nostro sforzo di attirare lo sguardo internazionale su Gaza, è inevitabile che avvalori quel sistema.

Ciononostante, avendo fatto la mia scelta più di vent’anni fa, mi ritengo impegnato. Ogni qualvolta mi si chiede di parlare di Rachel lo faccio, non solo per onorare un’amica, ma con l’idea che forse la sua storia è un modo per far capire ad alcune persone, lontane dalla Palestina, delle verità più ampie sulla violenza dell’occupazione e sulle politiche che la rendono possibile. E che quelle verità in definitiva ci riportano indietro ai palestinesi e a Rafah. Credo che conducano anche ad altri luoghi.

L’esercito israeliano agisce nella convinzione dell’impunità. Perciò quando un fatto eccezionale, come l’uccisione di un non-palestinese, lascia presagire una resa dei conti, il sistema è poco preparato a rispondere. Il risultato spesso consiste in una serie di stravaganti menzogne. Nel caso di Rachel le autorità evitarono di contestare i dettagli dei nostri testimoni oculari. Sostennero invece che Rachel “si era nascosta dietro un terrapieno” e fu colpita dalla caduta di una lastra di cemento. I nostri fotografi sul posto, sia prima che dopo l’uccisione di Rachel, dimostrarono che lei si trovava in terreno aperto.

Secondo uno schema abituale la risposta ufficiale fu, in ordine approssimativo: non lo abbiamo fatto noi, lo abbiamo fatto ma non è stata colpa nostra, anche se è stata colpa nostra non siamo responsabili e comunque erano dei terroristi. Il comandante dell’esercito nel sud della Striscia di Gaza all’epoca dell’uccisione disse a un tribunale di Haifa, probabilmente con un’espressione seria, che “un’organizzazione terroristica ha inviato Rachel Corrie a intralciare i soldati dell’esercito. Lo dico con conoscenza di causa.” Gli osservatori dell’attuale guerra ricorderanno una serie di analoghe dichiarazioni “categoriche”.

L’impunità di Israele è merce di esportazione americana

I volontari che vanno in luoghi di guerra per stare accanto a chi è in prima linea sono sempre stati il fulcro della tradizione internazionalista. E ciò è vero ancora oggi, sia che accompagnino i pastori e i raccoglitori di olive sulle colline della Cisgiordania, sia che portino rifornimenti ai soldati ucraini sul fronte della guerra con la Russia, o forniscano assistenza medica ai rivoluzionari del Myanmar, o combattano il cosiddetto stato islamico insieme alle Unità di Protezione Popolare nel nordest della Siria. Questi impegni e le persone che li assumono non vanno idealizzati. Ma la profonda solidarietà e relazione che incarnano sono straordinarie.

Però questo genere di cose non è per tutti. E non deve esserlo. La solidarietà dei volontari che si recano in una zona di guerra per stare accanto a chi è in prima linea deve accompagnarsi ad un progetto complementare che cerca di mobilitare la potenza degli Stati – soprattutto degli Stati Uniti – verso gli stessi obbiettivi. E’ qualcosa in cui la maggioranza della gente può essere coinvolta in qualche modo. Nel caso della Palestina comincia con la creazione di sostegno pubblico e pressione politica verso un cessate il fuoco e un’interruzione degli aiuti militari a Israele. Ciò include una pressione incessante nei confronti di Biden e la difesa dei sostenitori del cessate il fuoco nel Congresso da coloro che vogliono punire la loro posizione.

Gli Stati Uniti avallano l’occupazione israeliana attraverso un massiccio aiuto militare e finanziario e ciò significa avallare l’attuale guerra a Gaza. Jeremy Konyndyk, un ex alto funzionario dell’amministrazione Biden, ha detto al Washington Post che l’amministrazione aveva agevolato “un numero straordinario di vendite nel corso di un brevissimo intervallo di tempo, il che suggerisce fortemente che la campagna israeliana non sarebbe stata sostenibile senza questo livello di supporto USA.”

Il risultato, sempre dolorosamente evidente a Rafah, è che l’impunità di Israele è merce di esportazione americana. Ma l’annullamento del sostegno non sarà con tutta probabilità sufficiente. Saranno necessarie sanzioni finalizzate a costringere al riconoscimento dei diritti fondamentali dei palestinesi. Dovranno andare ben oltre il prendere di mira singoli coloni o i loro sostenitori.

La richiesta di sanzioni è una sfida diretta al principale cardine non dichiarato della politica USA verso Israele. Biden e i suoi subalterni parleranno della necessità di uno Stato palestinese e della necessità per Israele di mostrare moderazione. Ma il loro principio fondamentale, che è stato assoluto per tre decenni ed era predominante nei decenni precedenti, è che Israele non deve mai essere costretto a fare simili concessioni. Israele può essere blandito, lusingato, persuaso e spronato, ma mai obbligato. La conseguenza è che la Palestina è tenuta in permanente stato di eccezione.

Un parente del dottor Nasrallah, il farmacista la cui casa di famiglia Rachel stava difendendo quando fu uccisa, mi ha detto che era come se Rafah fosse stata risucchiata in un “buco nero dove le leggi internazionali non valgono e il mondo non ci può vedere né sentire.”

Descrive quando è tornato a casa un pomeriggio sulla scena di una carneficina, in seguito ad un attacco aereo su un edificio vicino in cui almeno due famiglie sono state interamente spazzate via e un’altra ha perso due bambini. (Gli amici di Nasrallah stanno raccogliendo soldi per aiutarli a mettersi al sicuro.) Un parente che ha chiesto di non rivelare il suo nome ha detto che era ormai normale vedere uomini scoppiare in lacrime al minimo attacco perché indifesi e incapaci di provvedere alle loro mogli o figli. “Stiamo parlando, dice, del labile confine tra la vita e la morte.”

Un’invasione di Rafah, che potrebbe avvenire tra qualche settimana, sarebbe un disastro “oltre ogni immaginazione”, dicono i medici delle Nazioni Unite. Come ha detto Rachel poche settimane prima di essere uccisa: “Penso che per tutti noi sia una buona idea abbandonare tutto e dedicare la nostra vita a far sì che questo abbia fine.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




L’aiuto umanitario è uno strumento genocida nelle mani di Israele e degli USA

Ramona Wadi

12 marzo 2024 – Middle East Monitor

Israele non ha alcuna intenzione di consentire che una quantità significativa di aiuti umanitari arrivi a Gaza. Anche la società dei coloni ha affermato che a Gaza i palestinesi non meritano aiuto finché non saranno rilasciati tutti gli ostaggi israeliani, nonostante il fatto che non c’è alcun rapporto tra l’imposizione di una carestia genocida e una garanzia del ritorno degli ostaggi nello Stato occupante. A parte, cioè, il fatto che se Gaza muore di fame, lo stesso faranno gli ostaggi.

Fare del genocidio uno spettacolo in nome dell’aiuto umanitario è una cosa in cui la comunità internazionale eccelle. Israele ha distrutto camion che portavano aiuti e ucciso palestinesi che vi si arrampicavano per una misera quantità di cibo. La Giordania e gli USA hanno tentato lanci umanitari dal cielo, alcuni dei quali sono caduti in mare. Un altro bancale di cibo lanciato dal cielo ha ucciso dei palestinesi perché il paracadute non si è aperto. Non solo è stato un aiuto sprecato, ma il cibo era sufficiente per qualche migliaio di palestinesi, mentre tutta Gaza muore di fame.

Si sta per costruire un molo galleggiante sulle coste di Gaza che sarà utilizzato per trasferire aiuti dalle navi all’enclave. Lo costruiranno soldati USA. Sembra che militarizzare l’aiuto umanitario non sia mai stato così facile, e dal punto di vista umanitario mai così tirato per le lunghe. Costruire il molo potrebbe richiedere fino a 60 giorni, e il generale Frank S. Besson, di USAV [Ufficio federale della sicurezza alimentare e veterinaria, ndt.], è già salpato con le attrezzature necessarie. Gli USA schiereranno 1.000 soldati per la costruzione del pontile lungo 550 metri e, secondo dichiarazioni del presidente USA Joe Biden, “il governo israeliano ne garantirà la sicurezza.” Non è certo un’idea rassicurante. Al contrario è la garanzia che, 60 giorni dopo, i palestinesi continueranno a morire di fame nel genocidio pianificato da Israele.

L’UN Relief and Works Agency for Palestine Refugees [agenzia dell’ONU per il Soccorso e il Lavoro dei Profughi Palestinesi] (UNRWA) ha ammorbidito le sue critiche al piano USA per la consegna di aiuti. “Qualunque tentativo di far entrare aiuti umanitari a Gaza per aiutare persone disperate è assolutamente benvenuto,” ha detto la direttrice della comunicazione Juliette Touma, notando nel contempo che il trasporto di aiuti umanitari sarebbe più efficace via terra. Il comunicato è esplicitamente attento a non irritare Israele e gli USA, e anche paternalistico nei confronti del popolo palestinese. Se le preoccupazioni dell’UNRWA riguardo alla neutralità non fossero state il principale obiettivo nel rilasciare comunicati, il piano degli USA avrebbe incontrato un’obiezione di principio. Cercare di compiacere Israele non ammorbidirà i progetti dello Stato occupante per la chiusura dell’UNRWA, come ha riportato ieri il Times of Israel riguardo al piano dell’esercito israeliano di sostituire l’agenzia con un’alternativa come il Programma Alimentare Mondiale dell’ONU. Il che dimostra ancora una volta che l’ONU non trova alcuna contraddizione riguardo a lavorare con violatori dei diritti umani per salvaguardare i diritti umani. 

Il molo galleggiante per l’aiuto umanitario è una perdita di tempo, non uno sforzo ben accetto.

Rimane da vedere a cosa servirà il pontile, se ci sono in serbo ulteriori motivazioni. Il ministro degli Esteri dello Stato di apartheid Israel Katz ha parlato di costruire un’isola artificiale al largo delle coste di Gaza per facilitare l’espulsione forzata del popolo palestinese dall’enclave. Ogni gesto umanitario da parte degli USA per il quale Israele non ha concrete obiezioni, come nel caso di questo molo, dovrebbe dunque far suonare il campanello d’allarme. Secondo l’esperto giordano di questioni militari e strategiche Hisham Khreisat “il porto galleggiante al largo delle coste di Gaza è una finzione umanitaria che nasconde la migrazione volontaria verso l’Europa.” Fai entrare gli aiuti, fai uscire i palestinesi.

L’aiuto umanitario è uno strumento genocida nelle mani di Israele e degli USA.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’amore ai tempi del genocidio

Susan Abulhawa

12 marzo 2024 – Al Jazeera

Continuano gli atti di amore e di eroismo in mezzo alla carneficina di Israele a Gaza.

Durante un recente viaggio nel sud di Gaza, per settimane ho raccolto storie di donne ricoverate in ospedale, ognuna delle quali era là per ristabilirsi da quelle che si chiamano “ferite di guerra”. Ma non si tratta di una guerra perché solo una delle parti ha un vero esercito. Solo una delle parti è uno Stato con una completa dotazione militare.

Queste vittime erano madri, donne e bambini, i cui deboli corpi sono stati straziati, lacerati, spezzati e bruciati. Le loro ferite più profonde non sono visibili finché loro non rivelano come hanno vissuto durante gli ultimi cinque mesi.

All’inizio raccontano le cose principali: una bomba ha distrutto la casa, sono state estratte dalle macerie, hanno riportato gravi ferite, membri della famiglia sono stati uccisi e la situazione era terribile. Questo è quanto hanno sempre detto sugli orrori inimmaginabili che hanno vissuto e continuano a vivere.

Ma io cerco i dettagli. Che cosa stavi facendo pochi minuti prima? Quale è stata la prima cosa che hai visto, la prima che hai sentito? Quale era l’odore? Fuori era buio o chiaro?

Le spingo a guardare a fondo nella struttura molecolare di ogni fatto – la sabbia in bocca, la polvere nei polmoni, il peso di qualcosa, il liquido tiepido che scende per la schiena, il dito deformato che si vede ma non si sente, il momento in cui ci si rende conto, l’attesa di essere salvate e la paura che nessuno arrivi, il suono nelle orecchie, gli strani pensieri, ciò che si muove e ciò che non può muoversi, l’attesa della morte e la speranza che sia rapida, il desiderio di vivere.

Nei mesi e settimane da quando uno degli eserciti più potenti del mondo ha preso di mira le loro vite non hanno ancora affrontato, né tantomeno verbalizzato, i dettagli di questo genocidio. Appena si avventurano oltre le linee generali delle proprie storie i loro occhi si incupiscono e a volte incominciano a tremare. Il minimo rumore inatteso le spaventa.

Le lacrime si addensano e potrebbero scendere, ma solo in poche si consentono di piangere. Poche lasciano che gli orrori che hanno in testa oltrepassino le barriere. Non si tratta di qualche forza sovrumana. Proprio il contrario. Sono stordite in modo tale che è come dovessero ancora comprendere l’enormità di ciò che hanno vissuto e continuano a vivere.

Jamila

Una giovane madre, Jamila (non è il vero nome), ha pianto per la prima volta quando ha toccato il corpo senza vita di suo figlio di sei anni nel buio, con le dita accidentalmente affondate nel suo cervello. Lei è una delle poche che hanno pianto, sopraffatta dal ricordo.

La loro famiglia era stata presa di mira da un carro armato, non da un missile. Un drone, secondo lei forse con sensori termosensibili, ha aleggiato fuori dal loro edificio e un bombardamento li ha inseguiti mentre correvano da un lato all’altro del loro appartamento, incapaci di uscire.

Era certa che qualcuno dietro a uno schermo stesse giocando con loro prima di assestare il colpo finale che ha trapassato il bambino e ha ferito suo padre. Poi si è fatto silenzio. I colpi del carro armato sono terminati, “come se fossero arrivati solo per uccidere il mio adorato figlio”, dice.

Non ha pianto allora. Non ha emesso alcun suono. “Mio marito era preoccupato e mi ha detto di piangere, ma io non l’ho fatto. Non so perché”, dice.

Due settimane dopo, dopo essere fuggita da un posto all’altro, un soldato israeliano ha sparato a sua figlia Nour di tre anni mentre la teneva in braccio, frantumandole entrambe le gambe, mentre si nascondevano in preda al terrore dentro un ospedale che pensavano fosse sicuro.

Quando l’ho incontrata la piccola Nour aveva barre di metallo sporgenti dalle sue magre cosce e una lunga cicatrice che correva lungo il polpaccio destro, da dove era uscito il proiettile. I medici l’avevano dimessa alcuni giorni prima, ma le avevano permesso insieme a sua madre Jamila di restare qualche giorno in più fino a che potessero in qualche modo ottenere una tenda da qualche parte.

Il marito di Jamila, a malapena in grado di camminare per le ferite riportate, aveva vissuto in una tenda con un gruppo di uomini, il massimo che può fare è procurarsi un po’ di cibo e di acqua ogni giorno. E’ venuto a trovarle una volta mentre ero là dopo essere riuscito a risparmiare 10 shekel (circa 3 dollari) per il trasporto e per un regalino a sua figlia.

La manifestazione della minima intimità fisica tra innamorati è un fatto privato a Gaza, ma non esiste privacy in un ospedale dove 40 pazienti e chi li assiste dividono una singola stanza, con file di letti appiccicati con solo lo spazio sufficiente a camminare tra l’uno e l’altro.

Jamila era al settimo cielo per aver trascorso un’ora con suo marito dopo un mese che non lo vedeva né sapeva nulla di lui (il suo telefono era stato distrutto nel bombardamento). Ma in seguito mi ha detto che le sarebbe piaciuto abbracciarlo, magari anche baciarlo sulle guance. “Soffre così tanto”, ha detto, reggendo il suo dolore con il proprio e quello di un’intera nazione sulle sue esili spalle.

Nina

Nina (non è il vero nome) ha un sorriso disarmante ed è di un espansivo buon carattere. E’ ansiosa di raccontarmi come ha salvato suo marito dalle grinfie dei soldati israeliani.

Si era sposata da appena un anno quando il bombardamento vicino a casa sua si è intensificato. Le registrazioni diffuse online da alcune di quelle notti sono inimmaginabili. Un esercito di draghi che calpestano e bruciano tutto intorno facendo tremare gli edifici, rompendo i vetri, terrorizzando giovani e vecchi; tuoni e terremoti, mostri che si avventano da sopra e da sotto.

Il marito di Nina, Hamad (anche questo non è il vero nome), prese la decisione di andare via insieme a diversi membri della sua famiglia – i genitori, gli zii, le zie e i loro congiunti e figli – e alcuni loro vicini. In tutto erano circa 75 persone, che andavano di città in città, senza trovare un posto sicuro in cui rimanere per più di pochi giorni ogni volta.

Circa una settimana dopo la partenza Nina ha saputo che la casa della sua famiglia era stata bombardata. In un solo istante, da un bottone schiacciato da un israeliano di una ventina d’anni, 80 membri della sua famiglia sono stati assassinati – padre, fratelli, zie, zii, cugini, nonni, nipoti.

Inizialmente le era stato detto che sua madre era morta, ma per fortuna si è saputo che era sopravvissuta. E’ stata gravemente ferita e ricoverata in ospedale, dove Nina è diventata la sua cara assistente. Ecco come mi è capitato di incontrare questa straordinaria giovane donna.

Nina, suo marito e gli altri del gruppo alla fine si sono fermati temporaneamente a Gaza City, da cui sono andati via lungo i muri di barriera per raggiungere un riparo. Si sono mossi uno alla volta, considerando che se Israele gli avesse sparato non sarebbero morti tutti. Perdere una persona era meglio di 75 in un colpo solo.

Effettivamente una persona fu colpita da un cecchino dopo che quasi la metà di loro ce l’aveva fatta, frazionando il gruppo per un po’ finché nuovamente hanno trovato il coraggio di correre, di nuovo uno per volta. I bambini sono stati divisi tra i genitori. Mezza famiglia uccisa è meglio che una intera. Queste erano le scelte che dovevano fare, non diversamente da La scelta di Sofia (romanzo di William Styron, 1976, ndt.)

Dopo non molto il loro rifugio è stato circondato dai carri armati. Un elicottero “quadrirotore” – una nuova invenzione del terrore israeliana – è volato nelle stanze, cospargendo i muri sopra di loro di pallottole. Tutti gridavano e piangevano, “anche gli uomini”, dice Nina. “Mi ha spezzato il cuore vedere i forti uomini della nostra famiglia tremare di paura in quel modo.”

Infine sono entrati i soldati. “Almeno 80”, dice. Hanno separato gli uomini dalle donne e dai bambini, spogliando i primi di tutto tranne i boxer, in pieno inverno. Le donne e i bambini sono stati ammassati in uno sgabuzzino, gli uomini divisi in due aule. Per tre notti e quattro giorni hanno sentito le grida dei loro mariti, padri e fratelli che venivano picchiati e torturati nelle altre stanze, finché alla fine i soldati hanno ordinato alle donne, in un arabo sgrammaticato, di prendere i loro figli e “andare a sud”.

Tutte le donne hanno obbedito, tranne Nina. “Non mi importava più niente. Ero pronta a morire, ma non sarei partita senza mio marito.” E’ andata di corsa nelle stanze dove venivano tenuti gli uomini, chiamando Hamad. Nessuno ha osato rispondere. Era buio e i soldati la stavano trascinando via. Ha lottato con loro mentre ridevano, probabilmente divertiti dalla sua isteria. La chiamavano “pazza”.

Ha riconosciuto i boxer rossi di suo marito nella seconda stanza ed è corsa da lui, strappandogli la benda dagli occhi, baciandolo, abbracciandolo, promettendo di morire con lui se fosse stato il caso. Alternava le imprecazioni contro i soldati alle preghiere di rilasciare suo marito. Infine gli hanno tagliato i lacci di plastica e lo hanno lasciato andare.

Ma lei non aveva finito. Mentre Hamad si avviava, è tornata dentro per raccogliere i vestiti per lui e per i suoi zii seduti nudi al freddo. Non sarebbero stati rilasciati ancora per settimane. Alcuni di quegli uomini sarebbero stati uccisi.

Lei e Hamad sono scappati insieme. Quando finalmente sono arrivati in un posto sicuro si sono resi conto che la gamba di lui era rotta, i suoi polsi erano tagliati dai lacci di plastica e sulla schiena aveva impressa la stella di Davide.

Tra le urla che Nina aveva sentito nei giorni precedenti vi erano quelle di suo marito, mentre un soldato con un coltello incideva il simbolo ebraico sulla sua schiena.

Susan Abulhawa è una scrittrice palestinese

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 

 




Un rabbino di Giaffa: ‘secondo la legge ebraica tutti gli abitanti di Gaza devono essere uccisi’

Redazione di Middle East Monitor

9 marzo 2024 – Middle East Monitor

Il capo della yeshiva [scuola religiosa ebraica in cui si studia principalmente il Talmud e la Torah, ndt.] Shirat Moshe Hesder di Giaffa, il rabbino Eliyahu Mali, ha incitato i suoi studenti, che vengono arruolati nell’esercito israeliano dopo essersi diplomati alla yeshiva a commettere massacri contro gli abitanti di Gaza. Ha affermato che secondo la legge ebraica, tutti gli abitanti di Gaza devono essere uccisi. Quando gli è stato chiesto se sono inclusi gli anziani e i minori, ha risposto: “Lo stesso vale anche per loro”.

Secondo i resoconti di venerdì di Ynet News [sito di notizie israeliano legato al quotidiano Yedioth Aharanot, ndt.], le affermazioni del rabbino sono state fatte durante una conferenza tenutasi ieri nella scuola ebraica e dedicata alla gestione della popolazione civile durante la guerra.

Mali ha descritto la guerra scatenata dallo Stato di Israele contro Gaza come una “guerra di religione”. Egli ha affermato: “La legge fondamentale in una guerra di religione, e questo è il caso a Gaza, è che non devi lasciare vivo niente che respiri (Deuteronomio), e se non li uccidi tu, loro uccidono te. I sabotatori di oggi sono i bambini lasciati vivi nelle precedenti operazioni militari e le donne sono quelle che generano i sabotatori.”

Ha aggiunto: “O tu o loro. Nessun’anima può vivere sulla base di ‘se qualcuno viene per ucciderti, sollevati e uccidilo per primo’ (Talmud Babilonese). Questo si applica non solo agli adolescenti di 14 o 16 anni o agli uomini di 20 o 30 anni che ti puntano una pistola contro, ma anche alla generazione futura. Questo si applica anche a coloro che generano la generazione futura, perché in realtà non c’è differenza.”

In risposta alla domanda sull’uccisione di persone anziane a Gaza, Mali ha dichiarato: “C’è differenza tra la popolazione civile di qualunque altra parte e la popolazione civile a Gaza. Lì, secondo le stime, il 95-98% vuole sterminarci.”

Quando gli hanno chiesto, “Anche i bambini?”, il rabbino ha replicato: “E’ la stessa cosa. Non puoi abbellire la Torah. Oggi è un bambino, domani è un combattente. Non ci sono dubbi in proposito. I terroristi di oggi erano i bambini di 8 anni nelle precedenti operazioni militari. Per cui non ti puoi fermare là. Perciò le regole che riguardano Gaza sono differenti.”

Il rabbino ha puntualizzato: “Dato che questa è una questione sensibile e mi hanno informato che [il discorso] verrà pubblicato su Internet, voglio farla breve e dire in conclusione che dovrebbero essere eseguiti solamente gli ordini dell’esercito israeliano.”

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




La storia riconoscerà che Israele ha commesso un olocausto

Susan Abulhawa

6 marzo 2024 – The Electronic Intifada

In questo momento a Gaza e in Palestina sono le 20:00: è la fine del mio quarto giorno a Rafah e il primo momento in cui ho potuto sedermi in un posto tranquillo per riflettere.

Ho provato a prendere appunti, foto, immagini mentali, ma questo è un momento troppo grande per un taccuino o per la mia memoria in difficoltà. Niente mi aveva preparato a ciò a cui avrei assistito.

Prima di attraversare il confine tra Rafah e l’Egitto ho letto tutte le notizie provenienti da Gaza o su Gaza. Non ho distolto lo sguardo da nessun video o immagine inviata dal territorio, per quanto fosse raccapricciante, scioccante o traumatizzante.

Sono rimasta in contatto con amici che hanno riferito della loro situazione nel nord, nel centro e nel sud di Gaza – ciascuna area soffre in modi diversi. Sono rimasta aggiornata sulle ultime statistiche, sulle ultime mosse politiche, militari ed economiche di Israele, degli Stati Uniti e del resto del mondo.

Pensavo di aver capito la situazione sul campo. Ma non è così.

Niente può veramente prepararti a questa distopia. Ciò che raggiunge il resto del mondo è una frazione di ciò che ho visto finora, che è solo una frazione della totalità di questo orrore.

Gaza è un inferno. È un inferno brulicante di innocenti che boccheggiano in cerca di aria.

Ma qui anche l’aria è bruciata. Ogni respiro irrita la gola e i polmoni e vi si attacca.

Ciò che una volta era vibrante, colorato, pieno di bellezza, possibilità e speranza contro ogni aspettativa, è avvolto da un grigiore di sofferenza e sporcizia.

Quasi nessun albero

Giornalisti e politici la chiamano guerra. Gli informati e gli onesti lo chiamano genocidio.

Quello che io vedo è un olocausto, lincomprensibile culmine di 75 anni di impunità israeliana per i ripetuti crimini di guerra.

Rafah è la parte più meridionale di Gaza, dove Israele ha stipato 1,4 milioni di persone in uno spazio grande quanto laeroporto di Heathrow a Londra.

Scarseggiano acqua, cibo, elettricità, carburante e provviste. I bambini sono privati della scuola: le loro aule sono state trasformate in rifugi di fortuna per decine di migliaia di famiglie.

Quasi ogni centimetro dello spazio precedentemente vuoto è ora occupato da una fragile tenda che ospita una famiglia.

Non è rimasto quasi nessun albero poiché le persone sono state costrette ad abbatterli per produrre legna da ardere.

Non ho notato lassenza di verde finché non mi sono imbattuta in una bouganville rossa. I suoi fiori erano polverosi e soli in un mondo deflorato, ma ancora vivi.

La discrepanza mi ha colpito e ho fermato l’auto per fotografarla.

la bouganvillea sopravissuta a Gaza (Susan Abulhawa)

Ora cerco il verde e fiori ovunque vada, finora nelle zone meridionali e centrali (anche se nel centro è diventato sempre più difficile entrare). Ma ci sono solo piccole macchie derba qua e là e qualche albero occasionale che aspetta di essere bruciato per cuocere il pane per una famiglia che sopravvive con le razioni ONU di fagioli in scatola, carne in scatola e formaggio in scatola.

Un popolo orgoglioso con ricche tradizioni e consuetudini culinarie a base di alimenti freschi è stato ridotto e abituato a una manciata di impasti e poltiglie rimaste sugli scaffali per così tanto tempo che può essere avvertito solo il sapore metallico e rancido delle lattine.

Al nord è peggio.

Il mio amico Ahmad (non è il suo vero nome) è una delle poche persone che hanno Internet. Il segnale è sporadico e debole, ma possiamo ancora scambiarci messaggi.

Mi ha inviato una sua foto in cui sembrava l’ombra del giovane che conoscevo. Ha perso più di 25 kg.

Inizialmente le persone si sono ridotte a nutrirsi di mangime per cavalli e asini, ma è finito. Ora stanno mangiando gli asini e i cavalli.

Alcuni mangiano cani e gatti randagi che a loro volta stanno morendo di fame e talvolta si nutrono dei resti umani che ricoprono le strade, dove i cecchini israeliani hanno preso di mira le persone che hanno osato avventurarsi nel campo visivo dei loro mirini. I vecchi e i più deboli sono già morti di fame e di sete.

La farina è scarsa e più preziosa delloro.

Ho sentito la storia di un uomo nel nord che di recente è riuscito a mettere le mani su un sacco di farina (che normalmente costava 7 euro) e gli sono stati offerti gioielli, dispositivi elettronici e contanti per un valore di 2.300 euro. Ha rifiutato.

Sentirsi piccoli

A Rafah le persone si sentono privilegiate nel ricevere farina e riso. Te lo diranno e ti sentirai umiliato perché si offrono di condividere quel poco che hanno.

E ti vergognerai perché sai che puoi lasciare Gaza e mangiare quello che vuoi. Ti sentirai piccolo qui perché non sei in grado di fare davvero nulla per placare il bisogno e la perdita catastrofici e perché capirai che loro sono migliori di te, poiché in qualche modo sono rimasti generosi e ospitali in un mondo che è stato tanto e per così tanto tempo ingeneroso e inospitale nei loro confronti.

Ho portato tutto quello che potevo, pagando il bagaglio extra e il peso di sei bagagli e aggiungendone altri 12 in Egitto. Per me ho portato quello che stava nello zaino.

Ho avuto la lungimiranza di portare cinque grandi sacchi di caffè, che si è rivelato essere il regalo più apprezzato dai miei amici qui. Preparare e servire il caffè ai colleghi di lavoro del luogo in cui mi trovo è la cosa che preferisco fare, per la gioia assoluta che ogni sorso sembra portare.

Ma anche quello presto finirà.

Difficile respirare

Ho assunto un autista per trasferire sette pesanti valigie di rifornimenti a Nuseirat [campo profughi al centro della Striscia, ndt.], e lui le ha trasportate giù per alcune rampe di scale. Mi ha detto che portare quelle borse lo faceva sentire di nuovo umano perché era la prima volta in quattro mesi che andava su e giù per le scale.

Gli ha ricordato di quando viveva in una casa invece che nella tenda dove ora abita.

È difficile respirare qui, letteralmente e metaforicamente. Una foschia immobile di polvere, degrado e disperazione intride l’aria.

La distruzione è così massiccia e persistente che le particelle sottili della vita polverizzata non hanno il tempo di depositarsi. La mancanza di benzina ha portato le persone a riempire le loro auto di stearato, olio esausto che ha una combustione sporca.

Emette un odore particolarmente sgradevole e una pellicola che si attacca all’aria, ai capelli, ai vestiti, alla gola e ai polmoni. Mi ci è voluto un po’ per capire la fonte di quell’odore pervasivo, ma è facile riconoscere gli altri.

La scarsità di acqua corrente o pulita compromette l’igiene di chiunque di noi. Tutti fanno del loro meglio nella cura di sé stessi e dei propri figli, ma a un certo punto smetti di farci caso.

Ad un certo punto lumiliazione della sporcizia è inevitabile. Ad un certo punto aspetti semplicemente la morte, proprio come aspetti anche un cessate il fuoco.

Ma la gente non sa cosa farà dopo il cessate il fuoco.

Hanno visto le foto dei loro quartieri. Quando vengono pubblicate nuove immagini provenienti dall’area settentrionale le persone si ritrovano insieme per cercare di capire di quale quartiere si tratti, o da chi fosse la casa ridotta in quel cumulo di macerie. Spesso questi video provengono da soldati israeliani che occupano o fanno saltare in aria le loro case.

Cancellazione

Ho parlato con molti sopravvissuti estratti dalle macerie delle loro case. Raccontano quello che è successo con espressione impassibile, come se non fosse capitato a loro; come se sia stata sepolta viva la famiglia di qualcun altro; come se i loro corpi straziati appartenessero ad altri.

Gli psicologi dicono che si tratta di un meccanismo di difesa, una sorta di intorpidimento della mente finalizzato alla sopravvivenza. La resa dei conti arriverà più tardi, se sopravvivranno.

Ma come si può affrontare la perdita dell’intera famiglia, mentre si osservano i corpi disintegrarsi tra le macerie e si avverte l’odore, mentre si attende il salvataggio o la morte? Come si fa a considerare la cancellazione totale della propria esistenza nel mondo: la casa, la famiglia, gli amici, la salute, l’intero quartiere e il paese?

Nessuna foto della tua famiglia, del tuo matrimonio, dei tuoi figli, dei tuoi genitori; anche le tombe dei tuoi cari e dei tuoi antenati sono state rase al suolo. Tutto questo mentre le forze e le voci più potenti ti diffamano e ti incolpano per il tuo miserabile destino.

Il genocidio non è solo un omicidio di massa. È una cancellazione intenzionale.

Di storie. Di ricordi, libri e cultura.

Cancellazione delle risorse di una terra. Cancellazione della speranza in e per un luogo.

Cancellazione come impulso alla distruzione di case, scuole, luoghi di culto, ospedali, biblioteche, centri culturali, centri ricreativi e università.

Il genocidio è la demolizione intenzionale dellumanità di un altro. È la riduzione di unantica società orgogliosa, istruita e ben funzionante a oggetti di carità privi di mezzi, costretti a mangiare lindicibile per sopravvivere; vivere nella sporcizia e nella malattia senza nulla in cui sperare se non la fine delle bombe e dei proiettili che piovono sui loro corpi, sulle loro vite, sulle loro storie e sul loro futuro.

Nessuno può pensare o sperare in ciò che potrebbe accadere dopo un cessate il fuoco. Il massimo possibile delle loro speranze in questo momento è che i bombardamenti cessino.

È il minimo che si può chiedere. Un minimo riconoscimento dellumanità dei palestinesi.

Nonostante Israele abbia tagliato l’energia e Internet i palestinesi sono riusciti a trasmettere in streaming limmagine del loro stesso genocidio a un mondo che permette che questo vada avanti.

Ma la storia non mentirà. Ricorderà che nel 21° secolo Israele ha perpetrato un olocausto.

Susan Abulhawa è una scrittrice e attivista. Questo pezzo è stato scritto durante la sua visita a Gaza a febbraio e all’inizio di marzo.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)