I pescatori di Gaza presi tra l’incudine e il martello 

Motasem A Dalloul

9 agosto 2021 middleeastmonitor

“La vita del pescatore è sempre dura, ovunque, ma sotto l’occupazione militare israeliana lo è ancora di più.”

Samya e Omayya Abu Watfa hanno perso il padre undici anni fa. Si stanno preparando per il nuovo semestre all’università, dove Samya studia chimica e Omayya studia sicurezza alimentare. Ognuno ha bisogno di circa 1.100 – 1.200 dollari per le tasse scolastiche, ma dipendono dal fratello Mohammad, 33 anni, che è un pescatore. Ciò significa che il denaro scarseggia.

“Lavora giorno e notte per provvedere a noi, a nostra madre e ai tre fratelli”, mi ha detto Samya. Mohammad è per noi fratello, padre, tutto.” Ha anche la sua famiglia a cui pensare, una moglie e quattro figli.

A 22 anni Mohammad Abu Watfa ha ereditato la barca da suo padre. Ha lasciato l’università per lavorare e provvedere alla famiglia. “Lavoravo con mio padre quando era vivo, anche durante gli studi. Voleva che diventassi ingegnere, ma non potevo lavorare e continuare a studiare”.

Come tutti gli altri pescatori di Gaza, Abu Watfa sarebbe contento del suo lavoro, anche se è molto duro, se non fosse per le restrizioni imposte da Israele e per le quotidiane violenze esercitate dalla marina israeliana.

Il capo del Sindacato dei Pescatori di Gaza ha ribadito come l’occupazione israeliana abbia imposto un rigoroso blocco terrestre, aereo e marittimo sulla Striscia di Gaza dal 2006. “Questo rende insopportabile la vita di oltre 2 milioni di persone a Gaza”, ha affermato Nizar Ayyash. “La pesca è uno dei settori più colpiti dal blocco. Più di 4.500 pescatori, che hanno complessivamente a carico circa 50.000 persone, vivono e lavorano sotto un’estrema pressione e stress a causa delle misure israeliane connesse al blocco”.

Secondo gli Accordi di Pace di Oslo firmati nel 1993 tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, i palestinesi dovrebbero avere accesso alla pesca senza restrizioni fino a 20 miglia nautiche al largo della costa di Gaza. Tuttavia, non sono mai stati autorizzati ad avventurarsi oltre le 16 miglia. Normalmente, sono bloccati entro le 12 miglia; spesso molto meno.

La scorsa settimana, ad esempio, la marina di occupazione israeliana ha ridotto la zona di pesca a sei miglia nautiche in risposta a ciò che Israele ha affermato essere il lancio di palloni incendiari da Gaza verso Israele. È stato poi esteso di nuovo a 12 miglia nautiche. Questo è il gioco israeliano con i pescatori palestinesi dal 2005. Ci sono momenti in cui lo Stato di occupazione vieta del tutto la pesca per giorni o settimane con il più debole dei pretesti.

“Dal 2007”, ha affermato l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari ( OCHA) in un recente rapporto, “Israele ha mantenuto incerta la zona di pesca come parte della sua politica di ‘zone cuscinetto’ marittime, ovvero limposizione unilaterale da parte di Israele di inaccessibili zone militari nelle acque palestinesi, spesso vietando completamente la pesca ai palestinesi”.

La pesca è sempre stata un lavoro pericoloso per uomini come Abu Watfa, che mette in gioco la propria vita per portare il cibo in tavola. “A volte ci sono branchi di pesci a circa 15 miglia al largo. Se vogliamo catturarli, dobbiamo andare più in là e spingerli a riva. Quando lo facciamo, la marina israeliana ci insegue, ci spara e poi ci vieta di pescare”.

L’ OCHA ha sottolineato che “Nel corso degli anni, gli attacchi illegali e ingiustificati di Israele – comprese forme di forza letale e altri eccessi, arresti arbitrari, confisca e distruzione di barche e altri materiali da pesca – e restrizioni punitive contro i pescatori palestinesi hanno reso la pesca al largo della costa di Gaza un rischio per la vita e la sicurezza e ridotto la comunità dei pescatori in povertà estrema”.

Queste pratiche, ha aggiunto l’ONU, fanno parte della attuale politica di Israele di interdizioni nella Striscia di Gaza. “Equivalgono a una punizione collettiva illegale degli oltre due milioni di residenti palestinesi, e sono tra le pratiche, leggi e politiche che costituiscono il regime di apartheid di Israele contro il popolo palestinese”.

Bilal Bashir, 42 anni, lavora insieme ad altri dieci pescatori sulla stessa barca. Si è lamentato delle ripetute aggressioni israeliane contro di loro. “A volte, Israele decide di ridurre la zona di pesca proprio mentre siamo in mare. Apprendiamo della restrizione solo quando la marina apre il fuoco contro di noi o i marinai ci urlano contro con gli altoparlanti”.

La sua barca è stata colpita più volte dal fuoco israeliano. Nel marzo 2015, ricorda con amarezza, il suo collega Tawfiq Abu Riala, 32 anni, è stato ucciso. “Quando Tawfiq è stato colpito siamo rimasti scioccati e abbiamo chiesto aiuto. Invece di aiutarci, la marina ha arrestato altri due uomini”.

L’ultimo incidente del genere è accaduto nel febbraio 2018. Le forze di occupazione hanno spiegato cosa è successo: “Una nave sospetta [sic] ha lasciato la zona di pesca al largo della Striscia di Gaza settentrionale, con a bordo tre sospetti [per cui i marinai israeliani hanno iniziato] il protocollo di arresto, che include richiami [di stop], spari di avvertimento in aria e spari alla barca stessa… A seguito degli spari, uno dei sospetti è stato gravemente ferito e in seguito è morto per le ferite riportate”.

La pesca è un affare costoso. Un giorno in mare di una barca con dieci pescatori a bordo può costare fino a 1.500 dollari. “Quando navighiamo entro le 15 miglia nautiche, difficilmente il pescato può coprire le spese”, ha osservato Kinan Baker, 27 anni. “Quando la zona di pesca viene ridotta a sei miglia nautiche è una perdita enorme perché il pescato non copre le spese .”

Ayyash ha descritto l’industria della pesca come il settore più vulnerabile sotto l’assedio imposto a Gaza dall’occupazione israeliana. “Israele sfrutta tutto per mettere sotto pressione la resistenza palestinese. Questa [punizione collettiva] è una chiara violazione del diritto internazionale”. Il capo del sindacato ha chiesto al mondo di esercitare pressioni su Israele affinché smetta di mettere in pericolo la vita e il sostentamento dei pescatori per motivi politici o di sicurezza.

Le punizioni collettive equivalgono a crimini di guerra, e se parte di una politica diffusa o sistematica sono crimini contro l’umanità e sono i fattori principali del deterioramento della situazione umanitaria a Gaza”, ha aggiunto il Center Al Mezan for Human Rights [organizzazione non governativa con sede nel campo profughi palestinese di Jabalia nella Striscia di Gaza, ndtr.]

Nel giugno dello scorso anno la Banca Mondiale ha affermato che “la pesca è una fonte vitale di occupazione, con più di 100.000 persone che beneficiano del settore”. Oltre ai pescatori e alle loro famiglie, ha indicato come beneficiari del settore i commercianti al dettaglio, i proprietari di ristoranti, gli operatori di vivai e i trasportatori del pesce. “Tuttavia, il mare non è più generoso come una volta. La gente di Gaza non può far conto sul proprio pesce, e a volte nemmeno permetterselo. La maggior parte delle famiglie di pescatori sono povere e il loro reddito sta diventando sempre più precario man mano che gli ecosistemi marini continuano a degradare.”

La vita del pescatore è sempre dura, ovunque, ma sotto l’occupazione militare israeliana lo è ancora di più. I pescatori di Gaza sono presi tra l’incudine dell’occupazione e il martello delle difficoltà economiche.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Gaza: due mesi dopo la guerra l’enclave palestinese resta paralizzata

Adam Khalil – Gaza, Striscia di Gaza sotto assedio

31 luglio 2021- Middle East Eye

A Gaza le restrizioni israeliane alle importazioni hanno ostacolato gli sforzi di ricostruzione e aumentato la disoccupazione, ma ciò porterà a nuove ostilità?

Due mesi dopo il raggiungimento da parte di Israele e Hamas di un accordo di cessate il fuoco che ha segnato la fine di un conflitto durato 11 giorni che ha ucciso 248 palestinesi nella Striscia di Gaza e 13 persone in Israele, nell’enclave palestinese sotto assedio per molti la vita è rimasta sospesa.

I due milioni di palestinesi che vivono a Gaza continuano ad affrontare le rigide restrizioni israeliane all’ingresso delle merci nel piccolo territorio, che provocano una grave recessione economica e rendono impossibile la ricostruzione.

Mentre la mediazione dell’Egitto ha avuto successo nel porre fine alle uccisioni e alla distruzione, gli sforzi del Cairo devono ancora riuscire a riportare la situazione a Gaza ai livelli prebellici – uno status quo che era già precario e difficile per i suoi abitanti, che vivono da 14 anni sotto l’assedio israeliano.

Data l’ostinazione da parte di Israele nel voler collegare la questione delle importazioni e della ricostruzione al rilascio di quattro israeliani che si ritiene siano detenuti da Hamas, gli analisti sono divisi sul fatto che la paralisi in corso a Gaza possa innescare ulteriori scontri lungo la linea di confine.

Tentativi di ricostruzione in sospeso

A Gaza fonti ufficiali hanno reso noto che le rigide restrizioni israeliane hanno avuto effetti negativi su tutti gli aspetti della vita nel territorio palestinese sotto assedio, portando a un aumento senza precedenti della povertà e dei tassi di disoccupazione.

Rami Abu al-Rish, direttore generale del commercio e valichi del ministero dell’Economia di Gaza, ha riferito a Middle East Eye: “Israele non consente l’accesso di più del 30% della quantità di articoli e merci che entrava a Gaza prima dello scoppio della guerra, il che ha causato un aumento pazzesco dei prezzi”.

Israele ha impedito l’importazione a Gaza di materie prime, materiali da costruzione, elettrodomestici ed apparecchiature, nonché attrezzature in legno, metallo e plastica, imponendo rigide restrizioni alle esportazioni e consentendo l’uscita dal territorio palestinese solo di piccole quantità di prodotti e pesce.

Abu al-Rish aggiunge che le restrizioni hanno portato Gaza a uno stato di “paralisi” in vari settori industriali, commerciali e agricoli, determinando conseguenze negative sulla popolazione in generale, con un tasso di disoccupazione salito al 75%.

Secondo il ministero dell’Economia di Gaza negli ultimi mesi migliaia di lavoratori hanno perso il proprio sostentamento, sia a causa della distruzione di strutture commerciali e industriali, sia della sospensione della produzione a causa del blocco e delle limitazioni, oltre che per l’impatto delle restrizioni marittime [la marina israeliana mantiene un blocco a tre miglia dalla costa, con periodici inasprimenti fino alla chiusura totale della zona di pesca, ndtr.] sulla vita di migliaia di persone il cui sostentamento dipende dalla pesca.

Con le merci ordinate bloccate sul versante israeliano dei valichi, le imprese palestinesi si trovano in sofferenza. Adel Hussein, direttore di un’azienda che lavora nel settore dell’energia solare, ha dichiarato a MEE: “Ci sono grosse spedizioni di merci per la nostra e per altre aziende che non possono entrare, nonostante la sofferenza della Striscia di Gaza a causa delle interruzioni di corrente e la necessità di impianti per la produzione di energia solare.”

Secondo le stime dell’Alto Comitato governativo per la ricostruzione di Gaza, le perdite e i danni dovuti agli 11 giorni di guerra ammontano a circa 479 milioni di dollari [404 milioni di euro, ndtr.]. Tuttavia Hussein sostiene che il costo a lungo termine del conflitto è difficile da quantificare.

“Le perdite dirette a causa della guerra sono ormai evidenti, ma ci sono anche quelle legate alla chiusura, e nessuno ne parla, non se ne discute”, dice. “C’è una grave recessione economica dovuta alla mancanza di molti beni e allo scarso potere d’acquisto dei cittadini».

Nel frattempo, dalla Grande Marcia del Ritorno del 2018 Israele ha bloccato l’accesso degli aiuti del Qatar, pari a circa 30 milioni di dollari [25 milioni di euro, ndtr.] al mese, – impedendo a Mohammed al-Emadi, un funzionario del Comitato per la ricostruzione del Qatar, di portare i soldi in una valigia attraverso il valico di Erez.

Israele ha sostenuto che le procedure per la concessione degli aiuti a Gaza devono essere modificate per garantire che non giungano nelle mani di Hamas – modifiche finora respinte dall’organizzazione palestinese, che dal conflitto armato nel 2007 con il rivale politico Fatah è di fatto il partito di governo nella Striscia di Gaza.

La municipalità di Gaza City, che è la più grande della Striscia di Gaza, è stata colpita in modo particolarmente pesante dalle restrizioni sulle importazioni. Secondo il ministero dei Lavori pubblici e degli alloggi a Gaza, sono state distrutte circa 1.800 unità abitative, mentre circa 16.800 abitazioni sono state parzialmente danneggiate. Tra gli edifici distrutti risultano cinque torri, 74 strutture pubbliche e governative, 66 scuole e tre moschee.

Il consigliere comunale Hisham Skaik ha riferito a MEE che in seguito allo scoppio della guerra sono stati interrotti 13 progetti infrastrutturali in corso.

“L’inasprimento delle restrizioni a Kerem Shalom, l’unico valico commerciale verso Gaza, ha anche causato il mancato avvio di circa 16 progetti infrastrutturali, che erano stati finanziati due anni fa e i cui contratti erano già stati firmati”, dice Skaik.

Aggiunge inoltre che il Comune deve ancora ricevere molti aiuti internazionali per far fronte ai danni causati a maggio alle infrastrutture dagli attacchi aerei israeliani, stimati in 20 milioni di dollari [17 milioni di euro, ndtr.].

Per al-Rish, “l’orizzonte è bloccato”. Con la situazione di Gaza che peggiora di giorno in giorno, l’imprenditore palestinese non vede alcun indizio di una svolta a breve termine.

Pressioni per il rilascio dei prigionieri

Si ritiene che, attraverso le sue rigide restrizioni sulle importazioni, Israele stia deliberatamente facendo pressioni su Hamas per ottenere il rilascio di quattro israeliani, due dei quali morti, che si pensa siano trattenuti dal movimento palestinese a Gaza.

Secondo quanto riferito, i corpi dei soldati israeliani Oron Shaul e Hadar Goldin sarebbero nelle mani di Hamas dalla guerra del 2014. Due civili israeliani, Avera Mengistu e Hisham al-Sayed, sono finiti accidentalmente a Gaza rispettivamente nel 2014 e nel 2015 e si ritiene che siano tenuti prigionieri da Hamas.

Hamas ha insistito affinché il rilascio avvenga nel quadro di un accordo di scambio di prigionieri simile all’accordo Shalit del 2011, in seguito al quale un soldato israeliano, Gilad Shalit, è stato consegnato in cambio di 1.027 palestinesi imprigionati da Israele.

In seguito ai tentativi di mediazione condotti dall’Egitto fonti ufficiali palestinesi hanno affermato che finora non sono stati compiuti progressi tangibili.

In risposta, Hamas e le sue fazioni alleate a Gaza hanno cercato negli ultimi giorni di esercitare pressioni su Israele attraverso il parziale rilancio dei cosiddetti interventi di “confusione notturna”, già attuati durante la Grande Marcia del Ritorno lungo la barriera di separazione tra Gaza e Israele – dall’incendio notturno di pneumatici al lancio di palloni incendiari ed esplosivi verso il territorio israeliano al di là di Gaza.

Secondo i rapporti dei media israeliani i funzionari militari e della sicurezza del Paese temono la possibilità di un rinnovato confronto con Hamas nel caso persistesse lo stallo sull’ingresso a Gaza degli aiuti del Qatar e sui colloqui per l’accordo sui prigionieri, e non fossero allentate le continue difficoltà economiche e umanitarie nell’enclave e le persistenti tensioni nella Gerusalemme est occupata, inclusa la moschea di al-Aqsa.

Il portavoce di Hamas Abdul-Latif al-Qanu ha avvertito che “ulteriori restrizioni nei confronti di Gaza genereranno solo una violenta reazione contro l’occupazione”.

Ma l’analista politico palestinese Hassan Abdo esclude una ripresa del confronto militare su larga scala con Israele nel breve termine.

La realtà sul campo a Gaza dopo l’ultima guerra non ha i requisiti idonei per una nuova fase di scontri armati, mentre d’altra parte il nuovo governo israeliano guidato da Naftali Bennett è un governo ‘fragile’ che teme che qualsiasi scontro con Gaza porti alla sua caduta».

Tuttavia Abdo non scarta la prospettiva che le continue restrizioni israeliane nei confronti di Gaza potrebbero portare al riemergere di movimenti della Grande Marcia del Ritorno e alla nascita di nuove forme di resistenza all’occupazione”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Rapporto OCHA del periodo 13 -26 luglio 2021

Durante il periodo di riferimento sono morti due palestinesi, tra cui un ragazzo, colpiti dalle forze israeliane [seguono dettagli]

Forze israeliane sono entrate in An Nabi Salih (Ramallah) per eseguire un’operazione di arresto e, quando i residenti palestinesi hanno lanciato loro pietre, i soldati hanno sparato proiettili veri e lacrimogeni. Durante questo scontro a fuoco, le forze israeliane hanno ucciso un ragazzo di 17 anni che, secondo i militari, stava lanciando pietre mettendo in pericolo la vita dei soldati. Secondo fonti palestinesi, gli hanno sparato alla schiena. Il 26 luglio, un palestinese è morto per le ferite riportate il 14 maggio a Sinjil (Ramallah), quando venne colpito dalle forze israeliane durante scontri tra palestinesi e forze israeliane.

In Cisgiordania, complessivamente le forze israeliane hanno ferito 615 palestinesi, inclusi 24 minori, il più piccolo dei quali ha tre mesi [seguono dettagli]. 588 [dei 615] sono rimasti feriti a Beita (Nablus), durante proteste contro gli insediamenti [colonici israeliani]. Durante tali proteste anche due soldati israeliani sono stati colpiti e feriti da pietre, a quanto riferito, lanciate da palestinesi. Tredici minori palestinesi sono rimasti feriti A Ein al Hilwa, nella Valle del Giordano; in questo caso, coloni israeliani avevano cercato di sottrarre una serbatoio d’acqua, innescando scontri tra residenti palestinesi e forze israeliane. I rimanenti [dei 615] sono stati feriti in altre località. Del totale di feriti palestinesi, 44 sono stati colpiti con proiettili veri, 140 con proiettili di gomma; i rimanenti sono stati curati principalmente per inalazione di gas lacrimogeni o per lesioni conseguenti ad aggressioni fisiche. Oltre ai 615 [palestinesi] feriti direttamente dalle forze israeliane, 69 sono rimasti feriti a Beita e Osarin mentre scappavano dalle forze israeliane, o in circostanze non verificabili.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 91 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 158 palestinesi [seguono dettagli]. Circa 45 studenti universitari sono stati arrestati a Turmus’ayya (Ramallah) durante una protesta contro le “demolizioni punitive”; altri 20 sono stati arrestati nella Città Vecchia di Gerusalemme, durante scontri con le forze israeliane, conseguenti all’ingresso di oltre 1.600 israeliani nel complesso di Haram Al Sharif / Monte del Tempio; i restanti sono stati arrestati in Cisgiordania in circostanze diverse.

Il 25 luglio, da Gaza, gruppi armati palestinesi hanno lanciato palloni incendiari, innescando incendi in Israele. In risposta, l’aviazione israeliana ha effettuato attacchi aerei su Gaza, a quanto riferito prendendo di mira basi militari. Secondo i media israeliani, durante tali attacchi aerei, raffiche di mitragliatrice provenienti da Gaza avrebbero preso di mira gli aerei militari, colpendo e danneggiando leggermente una struttura nel sud di Israele. In conseguenza di ciò, le autorità israeliane hanno ridotto, da 12 a 6 miglia nautiche, la zona di pesca consentita [ai palestinesi] lungo la costa meridionale di Gaza.

Il 22 luglio, nella città di Gaza, un palestinese è morto e altri 14, tra cui sei minori, sono rimasti feriti a seguito dell’esplosione verificatasi in un edificio. La struttura a tre piani è crollata e diverse case e negozi vicini hanno subito danni. Alcune fonti hanno ipotizzato che l’esplosione sia stata causata da esplosivi immagazzinati nell’edificio.

Sempre a Gaza, vicino alla recinzione perimetrale e al largo della costa, in almeno nove occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento, verosimilmente per far rispettare le restrizioni di accesso [imposte ai palestinesi]. Almeno due volte [le forze israeliane] hanno anche svolto operazioni di spianatura del terreno all’interno di Gaza, a ridosso della recinzione perimetrale.

In Cisgiordania, per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito, sequestrato o hanno costretto i proprietari ad autodemolire un totale di 59 strutture di proprietà palestinese, sfollando 96 persone e creando ripercussioni su 550 [seguono dettagli]. La maggior parte delle strutture (49) e degli sfollati (84) erano in Area C, nella Comunità beduina di Ras al Tin (Ramallah); in particolare, a Furush Beit Dajan (Nablus), la demolizione di un serbatoio idrico agricolo (oggetto di una donazione) ha compromesso l’accesso all’acqua di oltre 500 persone.

Nel governatorato di Hebron, in episodi separati, coloni israeliani hanno fisicamente aggredito e ferito tre palestinesi. Inoltre, in Cisgiordania, coloni israeliani noti, o ritenuti tali, hanno danneggiato almeno 200 alberi o alberelli e altre proprietà palestinesi.

Palestinesi, lanciando pietre, hanno ferito almeno quattro coloni israeliani in transito a Gerusalemme Est, tra cui un bambino di un anno. Secondo fonti israeliane, sono state danneggiate almeno 16 auto israeliane.

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Ultimi sviluppi (successivi al periodo di riferimento)

Il 28 luglio, all’ingresso di Beit Ummar (Hebron), le forze israeliane hanno sparato, uccidendo un ragazzo palestinese 11enne che si trovava in auto con suo padre. Secondo l’esercito israeliano, i soldati avevano ordinato all’autista di fermarsi e, non avendo questi fermato il veicolo, hanno sparato contro l’auto, mirando alle ruote. Il 29 luglio, al funerale del ragazzo, durante il quale i palestinesi hanno lanciato pietre in segno di protesta, i soldati delle forze israeliane hanno sparato proiettili veri, proiettili di gomma e lacrimogeni, colpendo ed uccidendo un palestinese.

Il 27 luglio, all’ingresso di Beita (Nablus), le forze israeliane hanno ucciso un palestinese di 41 anni. Secondo i militari, l’uomo stava procedendo in direzione dei soldati impugnando una spranga di ferro e, nonostante gli spari di avvertimento, ha continuato ad avanzare. In quel momento non erano in corso scontri.




Israele-Gaza: come la resistenza palestinese sta sfidando la supremazia tecnologica della guerra

Ahmed D Dardir

23 luglio 2021 Middle East Eye

L’ideologia che vede le superpotenze occidentali sole detentrici di tecnologie avanzate e potenza di fuoco è messa in discussione da attori non occidentali che rivendicano il possesso di quelle tecnologie

La resistenza palestinese a Gaza, nel suo ultimo confronto con le forze di occupazione israeliane e in risposta alla continua aggressione israeliana contro la moschea di al-Aqsa e i residenti di Gerusalemme, ha lanciato una flotta di palloni incendiari contro gli insediamenti coloniali vicini ai confini con la Striscia di Gaza.

Le azioni aggressive di Israele a Gerusalemme non hanno tecnicamente violato il cessate il fuoco firmato a maggio, dunque la risposta palestinese ha dovuto evitare la forza militare; ha invece creativamente fatto un’arma di un’oggetto comune. Pur incarnando lo spirito della resistenza, la risposta palestinese doveva mantenere un profilo basso, per non costituire il pretesto ad una nuova ondata di attacchi israeliani.

Ma Israele ha risposto con attacchi aerei contro quelli che sosteneva essere obiettivi di Hamas a Gaza, violando di fatto il cessate il fuoco. Eppure una parte significativa dei principali media occidentali e dell’opinione pubblica considera questa violazione israeliana come legittima autodifesa, mentre i palloni da Gaza sono visti come inutili, sbagliati e provocatori.

Gli scontri di maggio sono stati considerati con lo stesso atteggiamento. Sebbene la resistenza di Gaza sia riuscita a usare i suoi missili e droni – relativamente primitivi rispetto alle capacità militari di Israele – ottenendo il massimo effetto politico e riducendo al minimo le vittime e la distruzione nelle aree israeliane, i suoi missili sono stati ancora descritti dalle principali testate come mal diretti, caotici o addirittura disperati. D’altro canto i missili israeliani sono stati descritti come legittimi, e il potere militare di questo stato come mirato e sofisticato.

La cosa rappresenta un paradosso per cui i missili senza guida della resistenza palestinese sono colpevoli di prendere di mira i civili, mentre i missili precisi e mirati delle forze di occupazione israeliana sono innocenti della morte delle vittime che prendono “erroneamente” di mira. Questo paradosso è sostenuto da gerarchie interpretative del conflitto profondamente razziste che operano al di fuori del contesto palestinese.

La macchina da guerra americana

In un mondo affascinato dalle tecnologie innovative, avanzate e all’avanguardia – di pulsanti, schermi e processi computerizzati – il progresso della tecnologia da un lato nasconde la carneficina dall’altro lato. Dall’inizio di questo secolo l’informatizzazione della macchina da guerra degli Stati Uniti ha tristemente trasformato le guerre americane in videogiochi reali.

Gli attacchi aerei statunitensi contro obiettivi civili e sospetti militanti sono diventati una faccenda sterilizata e informatizzata – un processo automatizzato in cui la scelta degli obiettivi, la valutazione della minaccia e il processo di lancio di un attacco di droni sono determinati in gran parte da disumani circuiti di mega-computer che in qualche modo mascherano e legittimano gli omicidi.

Nelle sue memorie, Una terra promessa, Obama si vanta: “La National Security Agency, o NSA, già la più sofisticata organizzazione di raccolta di informazioni elettroniche al mondo, ha impiegato nuovi supercomputer e tecnologie di decrittazione del valore di miliardi di dollari per setacciare il cyberspazio alla ricerca di comunicazioni terroristiche e potenziali minacce”, dando il via a “incursioni notturne [che] hanno dato la caccia a sospetti terroristi principalmente all’interno – ma a volte anche all’esterno – delle zone di guerra in Afghanistan e Iraq”. In altre parole, si è trattato della tipica tattica di Obama di assassinii mirati ed extragiudiziali.

Qui il dispiegamento retorico della tecnologia sterilizza le uccisioni – di “sospetti” terroristi, va sottolineato – e fornisce un supporto tecnologico all’ideologia della supremazia occidentale, consentendo ai popoli “civili” e tecnologicamente avanzati di esercitare violenza fisica, a volte letale, contro forme “inferiori” di vita umana.

Si tratta della stessa ideologia suprematista che giustifica i crimini di Israele con il pretesto che è “l’unica democrazia” in Medio Oriente – come se le persone che non vivono sotto il paradigma della democrazia liberale occidentale non meritassero di vivere. I crimini di Israele sono ulteriormente giustificati dal fatto che la sua macchina da guerra è precisa e tecnologicamente avanzata, come se questo in qualche modo legittimasse l’uccisione di vittime quando siano prese di mira con precisione.

Causa di allarme

Il contrario, invece, non vale. I progressi tecnologici raggiunti al di fuori del club esclusivo delle potenze occidentali non meritano la tessera della società “tecnologicamente civilizzata”, ma rappresentano piuttosto un motivo di allarme, che una certa tecnologia si stia pericolosamente diffondendo oltre la cerchia consentita.

Questa è la stessa gerarchia in base alla quale i progressi in campo nucleare di Iran e Corea del Nord, che subiscono entrambi le opprimenti sanzioni statunitensi, non sono visti come progressi tecnologici ma come motivo di allarme, che tale tecnologia si trovi in mani indegne e inaffidabili destinate ad abusarne. Evidentemente non suscita lo stesso allarme il programma nucleare militare dell’unico paese che abbia usato armi atomiche contro i civili: gli Stati Uniti.

La narrativa dominante riserva la potenza di fuoco tecnologicamente avanzata – comprese armi sofisticate, computerizzate e intelligenti – alle potenze occidentali. Gli Stati e gli attori non occidentali devono rimanere con armi incendiarie destinate a fallire. Questo spiega in parte l’ossessione occidentale per gli attentati suicidi, immaginati come unico e dominante modus operandi dei rivoltosi non bianchi.

L’ideologia che riserva tecnologie avanzate e potenza di fuoco alle superpotenze occidentali è, tuttavia, continuamente turbata da attori non occidentali che rivendicano quelle tecnologie, siano essi altre superpotenze (Cina), “Stati canaglia” (Iran e Corea del Nord) o gruppi di insorti che conducono guerre di liberazione contro le potenze coloniali e i loro manutengoli.

Una serie di preoccupazioni tattiche e strategiche ha spinto alla fine la resistenza palestinese verso tecnologie missilistiche e droni. Anche se non suggerisco che l’abbiano fatto intenzionalmente, questo disturba i presupposti e le gerarchie razziste dominanti, minando il monopolio bianco sul fuoco mirato, sofisticato e tecnologico. La cosiddetta comunità internazionale può scegliere di riconoscere questo traguardo, o di continuare a compiere acrobazie mentali per tranquillizzarsi sulla natura primitiva e mal guidata del fuoco della resistenza.

Ciò che più importa è che questo progresso “libera i colonizzati dal loro complesso di inferiorità, dal loro atteggiamento passivo e disperato”, per usare le parole scritte in un contesto simile dal grande pensatore anticoloniale Frantz Fanon. “Li incoraggia e ripristina la loro fiducia in se stessi.”

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica della redazione di Middle East Eye.

Ahmed D Dardir ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Mediorientali presso la Columbia University. Il suo prossimo libro è provvisoriamente intitolato Licentious Topographies: Global Counterrevolution and Bad Subjectivity in Modern Egypt [Topografie licenziose: controrivoluzione globale e soggettività malate nell’Egitto moderno]. Collabora regolarmente con diverse testate giornalistiche. Il suo blog si trova su https://textrimmings.blogspot.com.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Violazioni israeliane dei diritti dei lavoratori palestinesi

Le violazioni israeliane dei diritti dei lavoratori palestinesi: COVID-19 e abusi sistemici  

Ihab Maharmeh 

15 luglio 2021 – Al-Shabaka

 

Sintesi

Dallo scoppio della pandemia da COVID-19 in Israele e nelle colonie illegali in Cisgiordania i diritti dei lavoratori palestinesi1 sono stati oggetto di crescenti violazioni. Il 17 marzo 2020 Naftali Bennett, ex ministro della Difesa, aveva annunciato una serie di disposizioni speciali per regolare il lavoro e l’alloggio dei lavoratori palestinesi della Cisgiordania per tentare di limitare l’incremento dei contagi nella popolazione israeliana. Le disposizioni permettevano a chi aveva il permesso di lavoro e a quelli con meno di 50 anni di entrare e uscire dai territori israeliani, ma imponevano ai lavoratori di concordare impiego e alloggio con i datori di lavoro israeliani e proibivano di rientrare in Cisgiordania per tutta la durata dei contratti.

 

Oltre a tale rigida normativa, Mohammad Shtayyeh, il primo ministro palestinese, aveva ordinato a questi lavoratori di ritornare immediatamente e mettersi in quarantena nelle proprie case per 14 giorni, esortando i servizi di sicurezza palestinesi e i comitati popolari per le emergenze in tutta la Cisgiordania a rafforzare le misure per impedire loro di spostarsi. L’annuncio era arrivato mentre in Cisgiordania si registravano le prime vittime: una donna a Biddu, a nord-ovest di Gerusalemme, che aveva contratto il virus dal figlio e un operaio della zona industriale di Atarot a Gerusalemme.

Anche se migliaia di lavoratori hanno obbedito all’ordine di Shtayyeh, agli inizi di maggio 2020 circa 40.000 l’hanno ignorato e sono ritornati ai loro posti di lavoro rischiando la vita poiché i contagi e i morti da COVID-19 in Israele crescevano in modo significativamente più veloce che in Cisgiordania e a Gaza. Il loro ritorno ha coinciso con un accordo fra palestinesi e israeliani con il quale l’Autorità Palestinese (AP) ha recepito le disposizioni di Bennett. Nonostante ciò, il regime israeliano ha fatto poco per proteggere i lavoratori dall’infezione, anzi ha aumentato le violazioni sistemiche dei loro diritti umani e in quanto lavoratori.

Questo articolo evidenzia le violazioni in Israele del regime israeliano dei diritti dei lavoratori palestinesi e degli accordi prima e durante la pandemia e sostiene che tali violazioni si sono intensificate. Si conclude con alcune raccomandazioni per proteggere i lavoratori palestinesi.

Israele soffoca il mercato del lavoro palestinese

I palestinesi con un documento di identità della Cisgiordania hanno iniziato ad affluire in Israele e nelle colonie in seguito alla guerra del 1967 dopo l’occupazione israeliana della Cisgiordania, di Gaza, della penisola del Sinai e delle alture del Golan. Due fattori concorsero a incrementare questo afflusso: il bisogno di manodopera del regime israeliano per la nascente impresa di colonizzazione e l’urgente necessità di impiego per i palestinesi in seguito alla distruzione della loro economia dopo la guerra del 1948. Dato che il regime israeliano poteva offrire salari più alti e maggiori opportunità di impiego, i palestinesi accorsero. Comunque Israele, assorbendo tale manodopera, cercava soprattutto di controllare i fattori principali della produzione palestinese allo scopo di indebolire, dissanguare e controllare l’economia palestinese, imponendo con la forza il proprio controllo.

Da allora i palestinesi sono diventati la principale componente della forza lavoro in Israele, specialmente nei settori edilizio e dei servizi. Si è passati dai 20.000 nel 1970 ai 116.000 nel 1992, con un incremento medio annuale del 6.3%. Dopo la firma degli Accordi di Oslo nel 1993 e del Protocollo di Parigi nel 1994, che integrava formalmente l’economia palestinese in quella israeliana e chiudeva i confini palestinesi all’economia globale, Israele ha imposto restrizioni ai movimenti dei lavoratori palestinesi dalla Cisgiordania e da Gaza e limitato il numero dei permessi di lavoro a loro concessi. Tuttavia tale afflusso in Israele e nelle colonie è aumentato da 95.000 unità nel 1995 a 133.000 nel 2019,2 la cifra più alta mai registrata.

Dal 1967, la popolazione palestinese in Cisgiordania e Gaza si è più che quintuplicata, passando da circa 965.000 a 5.1 milioni di individui nel 2020; un po’ più della metà sono in età lavorativa (più di 15 anni). Tuttavia l’economia palestinese non è stata in grado di generare nuove opportunità lavorative per assorbire questo gruppo demografico. Di conseguenza la distribuzione relativa dei lavoratori palestinesi nei settori pubblico e privato è calata, mentre è salita la loro distribuzione relativa in Israele e nelle colonie.

Un caso emblematico è quello verificatosi dopo la Seconda Intifada, con un notevole incremento del numero dei lavoratori palestinesi nei territori israeliani, come mostrato dalla seguente tabella, dove la prima colonna si riferisce al 2005 e la seconda al 2019:

Distribuzione relativa dei lavoratori palestinesi in Israele e nelle colonie                   9,3%     13,2%
Distribuzione relativa dei lavoratori palestinesi nel settore pubblico palestinese      22,5%    20,7%
Distribuzione relativa dei lavoratori palestinesi nel settore privato palestinese         68,2 %   66,1%
Lavoratori autonomi palestinesi e imprenditori palestinesi                                        26,1%    18,1%

 

Tavola compilata dall’autore basandosi sui dati dell’Ufficio Centrale di Statistica palestinese del 2005 e del 2019

 

Sebbene dalla fine degli anni ’60 la possibilità di lavorare in Israele e nelle colonie abbia permesso ai palestinesi di trovare opportunità di guadagnare di più (sebbene, in media, meno della metà del salario minimo in Israele) e migliorare le proprie condizioni economiche essi soffrono di terribili condizioni lavorative, della mancanza di adeguate misure di sicurezza e dell’assicurazione contro gli infortuni e spesso denunciano violazioni del diritto israeliano del lavoro e degli standard lavorativi e degli accordi internazionali ratificati da Israele, particolarmente in relazione a salari, orario di lavoro e politiche sui congedi. Queste condizioni si sono particolarmente esacerbate dall’inizio della pandemia.

Inoltre, il dominio israeliano sui principali fattori di produzione dell’economia palestinese ne ha ostacolato la possibilità di creare opportunità lavorative. Israele continua a controllare e limitare l’accesso alle terre e alle risorse naturali palestinesi, costringendo circa un quarto della popolazione palestinese della Cisgiordania a rinunciare a impiegarsi in parecchi settori vitali, specialmente in quello agricolo, una delle maggiori risorse di impiego e sostentamento prima degli accordi di Oslo. Anzi, dall’accordo del 1993 l’espansione delle colonie e il furto delle terre e delle risorse naturali palestinesi hanno paralizzato l’economia, costringendo i palestinesi ad abbandonare le proprie terre e a cercare impiego in Israele e nelle colonie. Israele ha così creato un notevole gap strutturale nei costi di produzione fra le rispettive economie, favorendo la propria. Ciò ha portato a un aumento della proporzione dell’import israeliano in Cisgiordania e a Gaza, contribuendo a uno stabile incremento nel deficit commerciale palestinese.

Inoltre dal 1967 i checkpoint militari israeliani hanno limitato i movimenti e lo scambio di beni e prodotti fra città e villaggi palestinesi. In questo paesaggio frammentato, che fa sostanzialmente gli interessi economici di Israele, solo i palestinesi con permessi di lavoro rilasciati dal regime israeliano possono spostarsi fra le colonie, Gerusalemme e Israele. In questo modo i permessi servono ad affermare l’attuale strategia del regime di gestire e controllare i movimenti dei palestinesi e di confinarli a lavorare in spazi che violano gli standard e le leggi internazionali sul lavoro, esponendoli continuamente a gravi rischi.

COVID-19 e l’inasprimento delle violazioni israeliane

Dopo che per decenni il regime israeliano ha deliberatamente bloccato gli sforzi dei palestinesi per creare un’economia che possa impiegare la propria popolazione in età lavorativa, ai palestinesi sono state lasciate poche alternative di impiego in Cisgiordania e a Gaza. Ciò ha posto un serio problema per gli operai dopo lo scoppio della pandemia che agli inizi del 2020 si è diffusa in Israele con velocità allarmante. Con tassi di contagio crescenti e pessime condizioni lavorative, i lavoratori palestinesi sono stati i principali diffusori del virus in Cisgiordania.

Prima della pandemia, le violazioni israeliane dei diritti dei lavoratori palestinesi erano ben documentate e includevano le pressioni esercitate affinché cooperassero con i servizi di intelligence israeliani in cambio dei permessi di lavoro. Da allora questi abusi non hanno fatto che aumentare.

Nell’aprile 2020, mentre la pandemia si allargava a Israele, Cisgiordania e Gaza, ai lavoratori palestinesi veniva richiesto di scaricare “Al-Munasiq” (il coordinatore), un’app israeliana sviluppata nel febbraio 2019 dal Ministero della Difesa israeliano su richiesta dell’Amministrazione Civile [organismo militare israeliano che governa i territori occupati, ndtr.] per gestire meglio le domande per i permessi. Ma la Coalizione palestinese dei diritti digitali  avverte che scaricare l’app offre a Israele l’opportunità di ulteriori ricatti, sfruttamento e umiliazioni.

Durante la pandemia il controllo demografico è stato essenziale per tutti i governi e l’app ha concorso perfettamente alla strategia di gestione della popolazione del regime israeliano, con la sua raccolta di informazioni e dati personali estratti dai cellulari dei lavoratori palestinesi, come localizzazione, chiamate in entrata e uscita, foto e video, messaggi, email e dati da app di altre persone. Costringere a scaricare Al-Munasiq per andare e lavorare nelle zone palestinesi colonizzate è un altro meccanismo che fa parte della storia di sfruttamento, umiliazioni e vessazioni ai danni di palestinesi.

Dall’inizio della pandemia i lavoratori palestinesi hanno anche sofferto ulteriori abusi da parte dei soldati israeliani mentre si recavano al lavoro, specialmente nel loro diritto di accedere liberamente ai luoghi di lavoro. Il 17 agosto 2020 i media israeliani e internazionali hanno diffuso prove dei crimini commessi dal maggio 2020, inclusa una registrazione di soldati israeliani che, sotto la minaccia delle armi, picchiavano, insultavano e derubavano alcuni lavoratori palestinesi che per andare al lavoro stavano attraversando checkpoint militari nel sud della Cisgiordania.

Si sono anche visti dei soldati israeliani dell’occupazione che ai checkpoint lanciavano gas lacrimogeni contro chi senza permessi tentava di attraversare i rari varchi nel Muro dell’Apartheid, come anche inseguire e pedinare operai  diretti al lavoro. Queste violazioni sono culminate nell’assassinio di due pendolari palestinesi da parte di soldati israeliani. L’uccisione di Fouad Sebti di Tulkarem il 24 gennaio 2021 e di Sherif Rajeh Irzeigat di Hebron il 14 febbraio 2021 dimostrano la ferocia di queste violazioni in questi tempi di COVID-19.

In realtà il COVID-19 ha evidenziato le pericolose condizioni affrontate dagli operai palestinesi che hanno bisogno di mantenere la loro fonte di sussistenza lavorando in Israele e nelle colonie in un’economia di morte.

Per esempio, durante la loro permanenza in Israele i lavoratori palestinesi rischiano la propria vita a causa della scarsità di misure pubbliche di sicurezza nei loro alloggi. I lavoratori hanno riferito di dormire ammassati nei cantieri, sul pavimento nelle fabbriche, in magazzini, giardini e serre, in aree senza lenzuola o coperte pulite prive di bagni e del necessario pe mantenere l’igiene personale. Nel maggio 2020 sono circolate sui social numerose immagini che denunciavano alloggi poco igienici e condizioni di vita malsane dei lavoratori dei cantieri e dei depositi. Inoltre negli alloggi di questi operai non erano riforniti di cibo o bevande a causa del coprifuoco in Israele e nelle colonie.

Successivamente è stata denunciata la mancanza di misure preventive al lavoro e l’inadempienza dei datori di lavoro israeliani nel garantire loro esami medici necessari o cure adeguate in caso di  COVID-19. Per tutta risposta le autorità israeliane hanno espulso o abbandonato questi lavoratori ai checkpoint. Un video circolato sui social ne mostrava uno, Malek Ghanem, mentre veniva lasciato sul ciglio della strada al checkpoint di Beit Sira, vicino a Ramallah, perché sospettato di essere positivo al COVID-19. Altri incidenti simili si sono verificati in seguito in Cisgiordania.

Implicazioni delle violazioni israeliane per l’economia palestinese

I lavoratori palestinesi in Israele contribuiscono annualmente all’economia palestinese con circa 3,25 miliardi di dollari, una media di 271 milioni di dollari al mese, cioè 71 dollari al giorno cadauno. Invece il salario minimo mensile in Cisgiordania e Gaza si attesta rispettivamente sui 400 e 206 dollari.3 Quindi in Israele e nelle colonie il salario medio giornaliero è circa il doppio dei loro colleghi nel pubblico e nel privato in Cisgiordania e più di quattro volte tanto rispetto a quello dei loro colleghi a Gaza.

Il reddito di questi lavoratori è cruciale per migliorare la performance dell’economia palestinese; quindi ogni cambiamento, specialmente la perdita di lavoro in Israele e nelle colonie, colpirà direttamente centinaia di migliaia di famiglie.4 Questo è diventato particolarmente evidente quando il loro numero in Israele e nelle colonie è sceso di circa 34.000 lavoratori alla fine del 2020. Il declino è stato più pronunciato nell’edilizia, con il 15% dei 70.000 operai palestinesi che hanno perso il lavoro, seguito dal settore agricolo, con un calo del 9%. Inoltre, alla fine del 2020 c’erano circa 8.000 disoccupati in Israele e nelle colonie a causa del licenziamento di chi aveva più di 50 anni, una diretta conseguenza delle norme speciali approvate dall’AP per regolare la forza lavoro palestinese durante la pandemia.

Di conseguenza dall’aprile 2020 molti lavoratori palestinesi hanno subito tagli dei salari, in violazioni delle leggi sul lavoro israeliane che proibiscono discriminazioni basate sulla nazionalità. Nella prima metà del 2020 i datori di lavoro israeliani hanno ridotto il salario medio giornaliero dei palestinesi in Israele e nelle colonie da 82 a 76 dollari. Anche se poi l’hanno portato a 80 dollari nella seconda metà dell’anno, resta ancora sotto il livello pre-pandemia. Inoltre quando questi operai hanno obbedito all’ordine dell’AP di non andare a lavorare nei territori israeliani, i datori di lavoro si sono rifiutati di compensarli per la loro assenza forzata, con perdite finanziarie che si stimano a 250 milioni di dollari nel 2020.

Il declino del numero dei lavoratori palestinesi in Israele e nelle colonie e la riduzione dei loro salari e sussidi in tempi di COVID-19 hanno impattato drammaticamente sull’economia palestinese – rappresentando 2,5 miliardi di dollari (o un terzo) delle sue perdite nel 2020. Nel marzo 2021 l’AP ha annunciato che nell’anno precedente l’economia palestinese è scesa del 11.5%, le entrate pubbliche del  20%, il disavanzo fiscale è salito al 9.5% del PIL e il debito interno ha raggiunto il 15%.

Sebbene Israele abbia vaccinato oltre100.000 lavoratori palestinesi dal marzo 2021, l’incertezza che circonda la ripresa economica e la campagna di vaccinazione dell’AP in Cisgiordania e a Gaza fa pensare che l’economia continuerà a soffrire. Di conseguenza si presume che la sua forzata dipendenza da quella israeliana si aggraverà, specialmente per il lavoro e l’impiego, data l’impossibilità dell’economia palestinese di assorbire lavoratori colpiti dall’epidemia, oltre ai nuovi lavoratori che cercano un lavoro. Si prevede che anche a Gaza il tasso di disoccupazione salirà dal 26% alla fine del 2020 a circa il 31% per la fine del 2021.

 

Raccomandazioni politiche

Le seguenti sono raccomandazioni politiche per porre fine alle violazioni israeliane dei diritti dei lavoratori palestinesi in Israele e nelle colonie:

  • L’AP dovrebbe fare pressione sulla comunità internazionale per intensificare gli sforzi per proteggere i diritti dei lavoratori palestinesi.
  • L’AP dovrebbe includere le violazioni dei diritti dei lavoratori palestinesi nelle sue azioni giudiziarie contro il regime israeliano presso il Tribunale Penale Internazionale affinché politici, datori di lavoro e compagnie israeliane siano rese responsabili.
  • Il movimento BDS dovrebbe mettere ancora di più al centro delle sue richieste di boicottaggio delle aziende israeliane la violazione dei diritti dei lavoratori palestinesi.
  • La Federazione Generale Palestinese dei Sindacati dovrebbe sostenere gli sforzi dei lavoratori palestinesi in Israele e nelle colonie per instituire un sindacato indipendente che protegga i loro diritti sindacali e li integri nella lotta politica per la liberazione dal colonialismo israeliano.
  • Il sindacato dovrebbe sviluppare un discorso politico e sindacale che tratti allo stesso modo tutti i lavoratori palestinesi in Israele e nelle colonie, che siano della Cisgiordania, Gaza o Israele.
  • Le organizzazioni dei diritti digitali dei palestinesi e degli arabi dovrebbero mobilitare le organizzazioni dei diritti umani per bloccare l’uso dell’app “Al-Munasiq”, che raccoglie dati personali.
  • Le organizzazioni dei diritti umani regionali e internazionali che si concentrano sui problemi del lavoro dovrebbero far pressione su politici, datori di lavoro e aziende che violano i diritti dei lavoratori palestinesi affinché desistano da queste violazioni.
  • In questo documento con “lavoratori palestinesi” mi riferisco solo ai possessori di un documento di identità cisgiordano e che lavorano nelle colonie israeliane o in Israele. Non include le esperienze più ampie dei lavoratori di Gerusalemme e i palestinesi con cittadinanza israeliana che lavorano in territori israeliani.
  • Il numero dei palestinesi che lavorano in Israele e nelle colonie sarebbe significativamente più alto se in queste stime fossero inclusi quelli che lavorano senza permesso o con permessi commerciali o per necessità speciali.
  • Il salario minimo è basato sulla decisione n (11) del Gabinetto del 2012 che fissa in 1.450 shekel (377 euro) il salario minimo mensile per tutti i settori sotto la giurisdizione dell’AP.
  • Per una prospettiva alternativa sul ruolo delle colonie israeliane nell’economia palestinese vedi “How Israeli Settlements Stifle Palestine’s Economy,” [Come le colonie israeliane soffocano l’economia palestinese] di Nur Arafeh, Samia al-Botmeh e Leila Farsakh (2015).

 

  1. In questo documento con “lavoratori palestinesi” mi riferisco solo ai possessori di un documento di identità cisgiordano e che lavorano nelle colonie israeliane o in Israele. Non include le esperienze più ampie dei lavoratori di Gerusalemme e i palestinesi con cittadinanza israeliana che lavorano in territori israeliani.
  2. Il numero dei palestinesi che lavorano in Israele e nelle colonie sarebbe significativamente più alto se in queste stime fossero inclusi quelli che lavorano senza permessio o con permessi commerciali o per necessità speciali.
  3. Il salario minimo è basato sulla decisione n (11) del Gabinetto del 2012 che fissa in 1.450 shekel (377 euro) il salario minimo mensile per tutti i settori sotto la giurisdizione dell’AP.
  4. Per una prospettiva alternativa sul ruolo delle colonie israeliane nell’economia palestinese vedi “How Israeli Settlements Stifle Palestine’s Economy,” [Come le colonie israeliane soffocano l’economia palestinese] di Nur Arafeh, Samia al-Botmeh e Leila Farsakh (2015).

 

Ihab Maharmeh è un ricercatore presso il Centro Arabo per la Ricerca e gli Studi Politici di Doha e il segretario di redazione del loro quindicinale Siyasat Arabiya. Ha lavorato presso la Birzeit University dove ha conseguito una laurea in Pubblica Amministrazione e un master in Studi Internazionali presso l’Ibrahim Abu-Lughod Center for International Studies. Ha anche un master in Politiche Pubbliche e Cooperazione Internazionale del Doha Institute for Graduate Studies. Ha pubblicato parecchi studi in riviste peer reviewed su colonialismo, trasferimenti forzati, lavoratori palestinesi in Israele e nelle sue colonie e sulla resistenza palestinese.

 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

 

 

 

 




Israele fa marcire il cibo di Gaza

Abdallah al-Naami

20 luglio 2021 The Electronic Intifada

Suhaila al-Louh soffre alla vista del suo vivaio. “Ogni volta che ci vado muore una parte di me,” dice.

Durante gli attacchi di maggio contro Gaza Israele ha ripetutamente bombardato il suo vivaio – situato vicino alla città di Beit Lahiya. Le piantine di pomodori, cetrioli, peperoni e patate piantate da Suhaila e dalla sua squadra sono andate distrutte, così come le serre e l’impianto di irrigazione.

I bombardamenti hanno inoltre riportato alla memoria ricordi estremamente dolorosi. Israele uccise Khader, il marito di Suhaila, nel luglio 2014, quando colpì Gaza con un altro massiccio attacco.

Il mantenimento di otto familiari di Suhaila dipende dal modesto reddito derivante dalle sue coltivazioni.

Dopo che Israele ha bombardato il suo vivaio la prima volta a maggio, Suhaila è andata a controllare con i figli e le nuore. “Abbiamo provato a recuperare qualcosa che non fosse stato danneggiato,” dice. “Ma non siamo riusciti a trovare niente.”

“Ho 60 anni,” aggiunge. “Ho investito tutto quel che potevo per sviluppare l’attività. E in un battibaleno tutto è andato distrutto.”

Anche se quasi tutte le immagini arrivate da Gaza al resto del mondo si concentravano sulle aree urbane prese di mira da Israele, non si deve trascurare la triste situazione degli agricoltori.

Condizioni assurde

Un recente rapporto dell’Unione Europea, la Banca Mondiale e le Nazioni Unite stima che le aziende agricole e le imprese dipendenti dall’agricoltura abbiano subito danni che ammontano fino a 45 milioni di dollari [38,23 milioni di euro].

Il ministero dell’Agricoltura di Gaza ha pubblicato cifre ben più elevate. Secondo i suoi calcoli il settore agricolo ha subito oltre 200 milioni di dollari [170 milioni di euro] di perdite, fra quelle dirette e indirette.

Oltre a bombardare le aziende agricole, Israele ha impedito il trasporto delle derrate alimentari da Gaza alla Cisgiordania occupata.

Le restrizioni imposte a maggio non sono state tolte che a giugno inoltrato.

E questa revoca era soggetta a condizioni assurde.

Israele ha insistito che si togliessero i gambi dai pomodori. In caso contrario non avrebbero potuto passare per Kerem Shalom, il valico sotto controllo israeliano da cui entra ed esce la merce per Gaza.

La clausola di Israele – che imponeva costi aggiuntivi ai coltivatori di pomodori e riduceva la durata dei loro prodotti – in seguito è stata tolta. Israele ha però minacciato di reintrodurla in agosto.

Ahmad al-Astal dirige un’azienda agricola di 50 acri nella zona di Khan Younis, nella parte meridionale di Gaza.

Di solito vende la sua produzione di patate, pomodori, melanzane e peperoni in Cisgiordania.

Tuttavia recentemente Israele gli ha impedito per diverse settimane di trasportare qualsiasi prodotto fuori di Gaza.

“I nostri magazzini sono pieni di ortaggi che stanno marcendo,” ha detto. “Abbiamo interrotto la raccolta delle colture ed ora non si vede altro che mucchi di ortaggi marci dappertutto.”

“Nessuna scelta”

Vendere i suoi prodotti all’interno di Gaza non era economicamente sostenibile. A causa delle restrizioni imposte da Israele sui trasporti, c’era un eccesso di produzione a Gaza.

Di conseguenza i prezzi nei mercati locali sono crollati.

“Prendere i prodotti del raccolto e trasportarli al mercato mi costa di più di quanto finirei col guadagnare vendendoli al mercato,” dice Ahmad. “Così non posso fare altro che lasciare il raccolto in deposito, sperando di riuscire a tornare a venderlo fuori di Gaza entro breve.”

Ahmad ha dovuto ridurre il personale da 70 ad appena sette.

Ali al-Astal, uno dei suoi collaboratori, dice: “Normalmente qui si vedrebbero in giro per le serre i lavoratori che curano le piante e raccolgono i prodotti. Ma ora il nostro lavoro consiste solamente nell’eliminare gli ortaggi marci.”

Le restrizioni imposte da Israele hanno avuto un effetto rilevante sui pescatori di Gaza e sul settore dell’acquacoltura.

Yasser al-Haaj è il proprietario dell’azienda ittica al-Bahhar.

Dice che ogni mese circa 30 tonnellate di pesce vengono trasportate da Gaza in Cisgiordania.

Si calcola che oltre 18.000 pesci siano morti nelle aziende ittiche di Gaza a causa delle restrizioni israeliane.

Gli ultimi mesi sono stati disastrosi per al-Haaj.

Non soltanto i pannelli solari e le vasche della sua azienda ittica sono stati danneggiati nel corso degli attacchi israeliani, ma Yasser non è neppure riuscito a vendere in Cisgiordania, un mercato vitale per lui.

“I mercati di Gaza non possono assorbire la nostra produzione,” dice. “Quando si sono fermate le esportazioni, non abbiamo potuto vendere i pesci, così li abbiamo dovuti tenere nelle vasche. Al momento ogni vasca ha circa tre volte la quantità di pesci che è in grado di contenere. E i pesci hanno incominciato a morire. Le nostre perdite aumentano di giorno in giorno.”

Abdallah al-Naami è un giornalista e fotografo che vive a Gaza.

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




Rapporto OCHA del periodo 29 giugno – 12 luglio 2021

Il 3 luglio, coloni israeliani, accompagnati da soldati, sono entrati nel villaggio di Qusra (Nablus), scontrandosi con i residenti palestinesi. Nel corso di tali scontri è stato ucciso un 21enne palestinese:

secondo i militari, l’uomo ha lanciato un ordigno esplosivo e le forze israeliane gli hanno sparato. Coloni israeliani e residenti palestinesi si sono lanciati pietre reciprocamente e, secondo fonti locali, dopo che il 21enne palestinese era stato colpito, alcuni coloni lo hanno percosso. Nel corso di manifestazioni in cui i palestinesi hanno chiesto alle autorità israeliane la restituzione del corpo dell’ucciso, le forze israeliane hanno disperso la folla sparando proiettili veri, proiettili di gomma e gas lacrimogeni: diversi palestinesi hanno subito lesioni.

In Cisgiordania, in scontri, le forze israeliane hanno ferito complessivamente almeno 981 palestinesi, tra cui 133 minori [seguono dettagli]. Del totale dei feriti, 892 sono stati registrati nel governatorato di Nablus, includendo i feriti nei suddetti eventi di Qusra, e quelli collegati alle proteste contro l’espansione degli insediamenti nei villaggi di Beita e Osarin; 19 sono rimasti feriti nei quartieri di Ras al ‘Amud e Silwan a Gerusalemme Est; 13 nel villaggio di Halhul (Hebron) e i rimanenti in altre località. Complessivamente, 36 palestinesi sono stati colpiti da proiettili veri, 214 da proiettili di gomma; i rimanenti sono stati curati principalmente per l’inalazione di gas lacrimogeni o sono stati aggrediti fisicamente. Oltre ai 981 feriti direttamente dalle forze israeliane, 58 sono rimasti feriti a Beita e Osarin cercando di sfuggire alle forze israeliane o in circostanze non verificabili.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 163 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 134 palestinesi, tra cui sei minori. La maggior parte delle operazioni è avvenuta a Nablus, seguita da Hebron e Gerusalemme Est; le restanti operazioni sono state effettuato in altri governatorati.

Il 4 luglio, nella Città Vecchia di Gerusalemme, le autorità israeliane hanno convocato un bambino palestinese di nove anni per un interrogatorio le cui ragioni restano sconosciute. Da metà aprile, a Gerusalemme Est, sono stati arrestati dalle autorità israeliane almeno 65 minori palestinesi, più della metà dei quali sono stati arrestati nel solo mese di giugno.

A Gaza, palestinesi hanno lanciato palloni incendiari verso Israele e le forze israeliane hanno effettuato quattro attacchi aerei, prendendo di mira siti militari, ferendo due persone e danneggiando case ed una manifattura. Vicino alla recinzione perimetrale e al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento, in almeno nove occasioni; secondo quanto riferito per far rispettare [ai palestinesi] le restrizioni di accesso [loro imposte]. Hanno anche svolto almeno quattro operazioni di spianatura del terreno vicino alla recinzione perimetrale, all’interno di Gaza.

Il 12 luglio, le autorità israeliane hanno esteso da 9 a 12 miglia nautiche la zona di pesca consentita [ai palestinesi] al largo della costa meridionale di Gaza, mentre l’hanno mantenuta a sei miglia nella parte settentrionale. Lo stesso giorno, le autorità israeliane hanno annunciato l’ampliamento della gamma di merci consentite in entrata e in uscita dalla Striscia di Gaza; le limitazioni erano state imposte dall’inizio del conflitto del 10-21 maggio.

In Cisgiordania, per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, sono state demolite o sequestrate 59 strutture di proprietà palestinese, sfollando 81 persone e determinando ripercussioni su circa altre 1.300 [seguono dettagli]. 30 strutture sono state demolite a Humsa – Al Bqai’a (Valle del Giordano), una clinica mobile è stata confiscata nella Comunità di Umm Qussa (Hebron) e una scuola in costruzione è stata demolita a Shu’fat (Gerusalemme Est). L’8 luglio, nel villaggio di Turmus’ayya (Ramallah), le forze israeliane hanno demolito, con motivazioni punitive, una casa appartenente alla famiglia di un palestinese (con cittadinanza statunitense), che era stato arrestato dopo che, il 2 maggio, aveva ucciso un colono e ferito altri due.

Il 2 luglio 2021, coloni israeliani, sotto scorta della polizia israeliana, si sono trasferiti in un edificio vuoto nella zona di Wadi Hilweh, nel quartiere di Silwan, a Gerusalemme Est. Dall’inizio dell’anno, questo è il secondo insediamento di coloni all’interno di Comunità palestinesi a Gerusalemme Est, ed entrambi in Silwan.

Coloni israeliani hanno ferito nove palestinesi, tra cui quattro minori e due donne, aggredendoli fisicamente, lanciando loro pietre o spruzzando liquido al peperoncino su di loro. Sei dei ferimenti sono avvenuti nella zona H2 di Hebron, due a Maghayir al Abeed, uno a Tuba (tutti in Hebron) e uno a Kisan (Betlemme). In Cisgiordania, autori conosciuti o ritenuti coloni israeliani hanno danneggiato almeno 1.120 alberi o alberelli, almeno cinque veicoli, oltre a pali elettrici, recinzioni ed altre proprietà palestinesi.

Palestinesi hanno ferito, lanciando pietre, almeno tre coloni israeliani che viaggiavano su strade della Cisgiordania. Secondo fonti israeliane, sono state danneggiate almeno 21 auto israeliane.

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Ultimi sviluppi (successivi al periodo di riferimento)

Il 14 luglio, le forze israeliane hanno confiscato almeno 49 strutture nella Comunità palestinese di Ras al Tin, sfollando 84 persone, tra cui 53 minori.

Il 15 luglio, a Humsa – Al Bqai’a, le forze israeliane hanno confiscato una struttura recentemente installata per ospitare una famiglia di otto persone, tra cui sei minori, che aveva già perso la casa in un precedente episodio avvenuto una settimana prima (vedi paragrafo 7 di questo Rapporto).

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Non possiamo utilizzare l’essere stati vittime per giustificare il fatto di trasformare gli altri in vittime: un’intervista con Alice Rothchild su come affrontare il razzismo israeliano in Palestina

Nihan Duran

5 luglio 2021 – Politics Today

L’idea secondo cui in quanto vittima posso fare qualunque cosa per sopravvivere, anche se ciò significa rendere vittime gli altri, è eticamente e politicamente problematico. Finché la comunità ebraica non supererà questo particolare modo di affrontare i traumi dell’Olocausto, non supereremo mai questa psicopatologia culturale.

Mentre in tutto il mondo continuano gli echi della reazione globale alle recenti violazioni dei diritti umani a Sheikh Jarrah [quartiere arabo di Gerusalemme in cui famiglie palestinese sono a rischio di espulsione, ndtr.] e a Gaza [operazione militare israeliana “Guardiano delle mura” nel maggio 2021, ndtr.], la giornalista di Politics Today Nihan Duran ha intervistato la prestigiosa scrittrice, medico e attivista per i diritti umani Alice Rothchild su come comprendere il passaggio da oppresso a oppressore e le sfide per definire, discutere e raccontare il colonialismo di insediamento in Palestina e i modi per procedere alla promozione di una vera pace e della solidarietà.

Q. In quanto scrittrice ebrea americana, attivista per i diritti umani e medico lei svolge numerose attività in cui riflette sulla realtà concreta in Israele e Palestina. Possiamo sapere con le sue parole chi è lei e come è iniziato il suo impegno sulla situazione israelo-palestinese?

I miei nonni erano ebrei ortodossi immigrati negli USA. Sono cresciuta in una famiglia ebraica molto tradizionale, ma piuttosto laica. Sono andata in una scuola ebraica, ho celebrato il mio bat mitzvah [festa rituale ebraica, che per le femmine si festeggia a 12 anni e 1 giorno, ndtr.] e a 14 anni sono andata in Israele. Ho ancora il diario di allora, quindi so come mi sono sentita riguardo al viaggio in quel luogo magico.

Sono anche figlia degli anni Sessanta, per cui ero al college durante la guerra del Vietnam, quando ho iniziato a sentir parlare di colonialismo, razzismo e islamofobia. Quindi diventai una persona molto più consapevole dal punto di vista politico ed iniziai a vedere il mondo in un modo più politico e meno tribale, ebraico.

Fu allora che iniziai anche a inquadrare le cose che avvenivano in Israele e Palestina in termini di colonialismo e imperialismo. Nel corso degli anni ci sono state varie organizzazioni di base che i miei amici ed io abbiamo formato e a cui abbiamo partecipato. Ora sono impegnata in Jewish Voice for Peace [Voce Ebraica per la Pace, principale gruppo ebraico USA antisionista, ndtr.] come mia associazione di riferimento, e sono molto contenta di farne parte.

Ho interpretato il mio ruolo come chi incoraggia le voci che sono sono presenti, ma che spesso non vengono ascoltate, per cui ho sentito la narrazione palestinese e cercato di approfondire la loro esperienza di perdita e occupazione. Poi ho usato la mia posizione privilegiata in quanto donna ebrea bianca per rendere più visibili tutte le storie che la gente mi ha raccontato. Sì, capisco e ho chiari in mente l’antisemitismo, l’oppressione degli ebrei in Europa e l’Olocausto. Ma penso anche che in ultima analisi i principi su cui è stato fondato Israele siano indifendibili.

Q. Quindi come ebrea americana, non solo ben consapevole del trauma dell’Olocausto, ma anche come scrittrice e medico che ha direttamente fatto esperienza della situazione materiale in Palestina, come valuta il passaggio da perseguitato a persecutore, o da oppresso a oppressore in questa vicenda?

Beh, non si tratta di una trasformazione inusuale se ci si guarda attorno nel mondo, ma è un esempio di quella trasformazione. La preoccupazione specifica è che persone che hanno vissuto qualcosa di orribile o hanno subito terribili perdite sono vittime. Ma una volta che le persone adottano l’essere vittime come una costituente fondamentale della propria identità, questo senso di vittimizzazione consente loro di fare qualunque cosa necessaria per sopravvivere. E ciò è quanto è avvenuto nella comunità ebraica.

L’idea che, in quanto vittima, io possa fare qualunque cosa per sopravvivere, anche se questo significa rendere vittima un altro popolo, è moralmente e politicamente problematico. Non possiamo utilizzare il fatto di essere stati vittime per giustificare simili comportamenti. Vedere l’Olocausto e dire “mai più a me” ma non dire “mai più a nessuno” è ingiustificabile. Inoltre questo atteggiamento non ci rende più sicuri.

Quindi, finché la comunità ebraica non supererà questo particolare modo di fare i conti con i traumi dell’Olocausto, non usciremo mai da questa psicopatologia. Dobbiamo riconoscere che non siamo più vittime.

Q. A questo punto le devo chiedere riguardo al fatto che nei discorsi dei politici in Israele oggi c’è quella che si potrebbe persino definire una terminologia “genocidaria”, che sembra anche in sintonia con una parte rilevante della popolazione israeliana. Cosa ne pensa? Da dove viene il problema?

La questione di quello che Ilan Pappé [noto storico isrealiano, ndtr.] ha chiamato il lento genocidio di Gaza non è nulla di nuovo. Se guardiamo dal punto di vista storico vediamo che il principale problema è che quando gli ebrei giunsero in Palestina non dissero “abbiamo bisogno di un posto sicuro, condividiamolo”, ma dissero “questa terra è mia; dio mi ha dato questa terra e me la prenderò comprandola, occupandola, in ogni modo possibile.”

Per come le cose si sono sviluppate, la politica regionale portò allo sviluppo dello Stato di Israele e all’opinione che gli ebrei avessero diritti su quella terra, in modo che potessero cacciare o spogliare un altro popolo. Sfortunatamente questo divenne il principio sottinteso dello Stato di Israele.

Q. Quindi lei intende dire che il colonialismo di insediamento è il principio implicito dello Stato di Israele e lo guida fino ad oggi.

Sì, se guardi al progetto di colonizzazione in Cisgiordania, esso è solo la continuazione della Nakba [la Catastrofe, cioè l’espulsione dei palestinesi, ndtr.] nel 1948. E questo è ciò che è il colonialismo di insediamento. È quello che abbiamo fatto negli Stati Uniti, in Australia, in Nuova Zelanda, in Sudafrica, ed è straziante per gli ebrei scoprirlo, perché si supponeva che Israele sarebbe stato diverso. Si pensava che sarebbe stato la “luce tra le Nazioni”.

Lo Stato incarna i principi colonialisti su cui è stato costruito, e purtroppo c’è una percentuale molto ridotta della popolazione ebraica che si oppone a questa idea. In Israele persino la maggior parte della gente di sinistra non è antisionista, credono ancora che ci dovesse essere uno Stato in cui gli ebrei si trovassero in una situazione privilegiata rispetto ai palestinesi. Non puoi essere una democrazia e privilegiare un gruppo su un altro.

Q. Lei ha anche posto l’accento sulla mancata messa in discussione delle politiche israeliane da parte della maggioranza della comunità ebraica negli USA. Alla luce della reazione globale a quanto è successo recentemente a Sheikh Jarrah e a Gaza, può parlare di un cambiamento nei confronti delle politiche di Israele in Palestina?

Penso che dobbiamo essere realistici in termini di rapporti di potere. Sia a livello federale che locale c’è parecchio di quello che definirei pensiero reazionario. La potente parte maggioritaria della comunità ebraica (e di quella cristiana evangelica) è ancora ferma allo stesso punto. Molte norme e leggi a livello locale e federale affermano che criticare Israele è antisemita e fino ad ora se dici qualcosa di sinistra o solidale con i palestinesi subisci gravi conseguenze.

Ma ci sono anche molte e influenti organizzazioni progressiste che vi si oppongono, come Jewish Voice for Peace. Nel Congresso USA ora ci sono anche parlamentari progressisti, palestinesi o musulmani. Che ci siano alcune voci nel Congresso è un fatto rivoluzionario, perché 20 anni fa avremmo potuto solo sognare una cosa del genere. Il movimento Black Lives Matter [contro la violenza della polizia nei confronti della violenza della polizia contro le minoranze, ndtr.] ha adottato una posizione solidale con i palestinesi. C’è un dibattito molto più aperto sulle reti sociali. Anche a livello locale vediamo dei cambiamenti. Per esempio, recentemente in California il sindacato dei docenti ha votato l’appoggio al boicottaggio di Israele, e anche questo è rivoluzionario.

Piccole vittorie come questa sono veramente importanti, perché nessuno cede il potere volontariamente, né lo farà la macchina politica israeliana. Dal loro punto di vista hanno avuto un grande successo, come piccolo Paese prospero con un enorme bilancio militare, e l’appoggio degli Stati Uniti. Perché rinunciarvi? Quindi dobbiamo comprendere che la politica estera USA è parte di quanto aiuta Israele a fare quello che fa e comprendere che anche noi siamo responsabili. Ci sono modi per far pressione sul Congresso e dobbiamo conquistarlo.

Q. Grazie ai nuovi mezzi di comunicazione, e principalmente alle reti sociali, l’oppressione delle minoranze è diventata sempre più visibile, ma, d’altra parte, ci sono troppi doppi standard, come quelli applicati per esempio durante la recente aggressione israeliana contro Gaza ad alcuni palestinesi sia da parte delle reti sociali che dei mezzi di comunicazione più importanti. Qual è la sua opinione a questo proposito?

Penso che il doppio standard sia in parte relativo al fatto che c’è un’industria multimilionaria che si dedica a seguire le reti sociali e ad attaccare le persone con opinioni di sinistra. Il messaggio è molto chiaro e la punizione per aver trasgredito è molto pesante; ci sono state carriere professionali distrutte, docenti che hanno perso la loro posizione accademica, insegnanti che hanno perso il lavoro. C’è un costo, e l’avversario cerca di renderlo il più pesante possibile.

Sì, il controllo dei messaggi è ferreo ed è ben finanziato, ma la buona notizia è che la gente che prima era invisibile ora può esprimersi, e quindi questa guerra nei media viene combattuta. Ma, come ho detto in precedenza, benché noi vediamo l’inizio delle crepe nel muro, le redini del potere non sono ancora state abbandonate. Quindi dobbiamo ascoltare quello che il popolo palestinese sta dicendo, dobbiamo onorarlo, dobbiamo evidenziarlo ed essere solidali. Penso che questo sia un ruolo molto importante per noi, che ho cercato di intraprendere attraverso l’Health Advisory Council of Jewish Voice for Peace [Consiglio Consultivo sulla Salute di Jewish Voice for Peace, rete di militanti di JVP che si occupano di salute fisica e mentale, ndtr.].

Q. Ora che tutto il mondo sta guardando quello che avviene nella regione, lei crede che la narrazione più comune abbia perso la sua legittimità?

Penso che sicuramente sia stata messa in discussione e che lei abbia ragione: ha perso parte della sua legittimazione. Ma, di nuovo, non penso che dobbiamo sottostimare il potere delle persone che stanno difendendo questa legittimazione. Sono molto ben finanziate a livello internazionale. Ma penso che sia stata danneggiata. Però dobbiamo ancora lavorare duramente perché niente è ancora finito.

Dobbiamo appoggiare i movimenti per il boicottaggio. Dobbiamo partecipare alle manifestazioni politiche. Dobbiamo esigere informazioni sui giornali, nelle radio e sulle reti sociali. Dobbiamo continuare a documentare la situazione e porre domande serie, in modo che la gente possa conoscere le conseguenze dell’aggressione a Gaza per 11 giorni, della chiusura totale del programma di vaccinazione e del danneggiamento dell’unica clinica che fa i test [per il COVID, ndtr.]. Dobbiamo chiedere in che modo privare i gazawi dei vaccini COVID 19 renda Israele più sicuro.

Q. Ci sono notevoli tentativi all’interno della comunità ebraica: c’è chi interpreta la vicenda stessa dell’Olocausto per comprendere la difficile situazione dei palestinesi oggi e chiede la pace e l’uguaglianza. Come pensa che queste voci, come forte alternativa politica, saranno ascoltatate in modo più attento in modo da renderne l’impatto più sentito.

Penso che finalmente ci siamo resi conto che dobbiamo lavorare in solidarietà con le persone oppresse e che non dobbiamo essere gli oppressori. Abbiamo anche bisogno di essere consapevoli del nostro stesso razzismo. Questo è razzismo. Dobbiamo dirlo e poi dobbiamo affrontarlo. Una volta che inizi a pensare in questo modo, poi ci sono nuove possibilità. Penso che organizzazioni come Jewish Voice for Peace siano estremamente importanti in questo senso, ma abbiamo ancora molto lavoro da fare. Dobbiamo anche lavorare in modo intesezionale con i nostri fratelli e sorelle e amici musulmani e cristiani per creare un cambiamento politico in modo positivo.

Penso anche che i tempi stiano cambiando. C’è una crescente consapevolezza riguardo al colonialismo di insediamento e la gente ha iniziato ad applicarlo a Israele. Penso anche che le opinioni del popolo ebraico riguardo a Israele e al colonialismo d’insediamento  varino a seconda delle generazioni. Tra i più giovani troviamo sempre più persone che mettono in discussione l’intero progetto e dicono “aspetta in momento, se il razzismo è cattivo negli USA, allora come possiamo appoggiare il razzismo in Israele?” Sta avvenendo una grande frattura generazionale. Quindi penso che ci siano speranze, ma che abbiamo ancora molto lavoro da fare.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Beita, un’icona della resistenza popolare palestinese

Majed Azzam

7 luglio 2021 – Monitor de Oriente

La cittadina di Beita è diventata un’icona della resistenza popolare nella Palestina occupata. Sembra avere canalizzato lo spirito di rivolta di Gerusalemme durante il giorno e le dure attività di Gaza durante la notte, in armonia con gli avvenimenti avvenuti recentemente in Palestina. Di fatto si tratta di rafforzare l’unità del popolo palestinese, ovunque sia, dietro all’opzione di ogni forma di resistenza, soprattutto a livello popolare.

Situata a sud di Nablus, Beita difende le sue proprietà e terre nella zona vicina al monte Sabih, parte delle quali sono state occupate da coloni per fondarvi un avamposto illegale che hanno chiamato Evyatar, in onore di un colono assassinato durante un’operazione della resistenza in quel luogo qualche tempo fa. Include decine di ettari nella montagna, ma c’è un piano malvagio per controllarne altre centinaia e fondare una grande colonia che isoli Beita e i villaggi vicini dal loro contesto palestinese, che diventi una grande rete di colonie in profondità all’interno di città, villaggi e borgate palestinesi in Cisgiordania.

I coloni hanno approfittato dell’attenzione dei palestinesi e del resto del mondo concentrata sulle rivolte di Gerusalemme alla Bab Al-Amoud [Porta di Damasco], a Sheikh Jarrah [quartiere arabo della città] e nella moschea di Al Aqsa, seguite dalla “battaglia della Spada di Gerusalemme” [nome dato da Hamas all’ultimo scontro militare tra Israele e Gaza, ndtr.], per edificare la colonia sul monte Sabih. L’esercito di occupazione israeliano ha asfaltato strade e collegato infrastrutture per l’avamposto, che è illegale persino per la legge coloniale israeliana, e il governo ha ordinato di fatto di ritirarsi. Tuttavia l’ex-primo ministro Benjamin Netanyahu ha lasciato questa questione spinosa e la sua realizzazione a Naftali Bennett, ex capo del consiglio delle colonie, per mettere in difficoltà il suo successore di estrema destra.

La gente di Beita si è sollevata per difendere la propria terra, il proprio futuro e il proprio destino, adottando la scelta della resistenza popolare pacifica a ogni ora, ispirata all’atmosfera e alle rivolte dei territori occupati degli ultimi mesi. La popolazione e le sue attività rappresentavano Gerusalemme durante il giorno e Gaza durante la notte. Durante il giorno le persone hanno messo in atto diverse attività e azioni, come assembramenti, manifestazioni, sit in, seminari, discorsi e festival, e hanno celebrato le preghiere del venerdì sul monte Sabih. Tutto questo è stato accompagnato da canti popolari e canzoni nazionaliste tradizionali, tra cui una specifica della città. Di notte Beita e i suoi dintorni si sono trasformati in Gaza, con metodi di resistenza popolare più energici, per creare confusione. Ciò ha incluso l’utilizzo di altoparlanti, luci intermittenti, laser e fuochi artificiali perché i coloni e le unità dell’esercito di occupazione inviate per difenderli non potessero dormire.

In questo modo Beita è sembrata rappresentare un’attualizzazione creativa del modello Bil’in-Nil’in [due villaggi palestinesi noti per la loro resistenza all’occupazione, ndtr.] visto in Cisgiordania da anni, in cui le manifestazioni e le attività settimanali per proteggere le loro terre e proprietà dai coloni hanno ottenuto notevoli risultati. Anche Beita è diventata una questione internazionale, come Sheikh Jarrah e Silwan [altro quartiere palestinese di Gerusalemme, ndtr.], mentre aumentano le pressioni politiche e diplomatiche affinché il governo israeliano smantelli la colonia ed eviti che si trasformi in una rivolta generalizzata in tutta la Palestina.

Da Beita ci sono molte lezioni da apprendere, soprattutto la ormai leggendaria fermezza del popolo palestinese e la sua insistenza nel difendere le sue terre e proprietà contro l’occupazione militare e i suoi coloni, utilizzando qualunque mezzo a disposizione. Ce ne sono molti, e il più importante è il popolo palestinese stesso, che rifiuta di arrendersi o di accettare i “fatti sul terreno”, che i coloni israeliani pretendono di imporre con la forza. Vediamo così che la resistenza popolare sta diventando una forma di vita per i palestinesi. Il modello di Beita e la sua creatività hanno fatto sì che si esiga prudenza nei punti di frizione con le autorità dell’occupazione e i coloni israeliani, soprattutto nei villaggi e città in cui si sono determinati grandi furti di terre e proprietà.

In stridente contrasto con questo, i dirigenti dell’Autorità Nazionale Palestinese sono assenti, impotenti e incapaci di appoggiare il popolo. L’ANP ha abbandonato in pratica Beita, lasciandola al suo destino, come ha fatto con le rivolte a Gerusalemme e con la “battaglia della Spada di Gerusalemme” a Gaza.

La risposta del popolo di Beita ha alzato il costo politico, securitario ed economico dell’avamposto per Israele. Ora spetta a organizzazioni e istituzioni politiche palestinesi adottare un approccio serio alla resistenza popolare come parte essenziale di un programma politico. Esso deve essere sviluppato da un gruppo dirigente nazionale eletto e unificato, come risultato della ridefinizione delle questioni palestinesi, della ricostruzione delle istituzioni nazionali in modo democratico, di una dirigenza che cerchi di mobilitare il popolo e di investire le sue enormi capacità in una lotta integrale, decisa ed estesa contro l’occupazione israeliana, dentro e fuori dalle frontiere della Palestina storica.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Monitor de Oriente.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 15 – 28 giugno 2021

In Cisgiordania, in due distinti episodi, le forze israeliane hanno ucciso due palestinesi, un ragazzo e una donna

[seguono dettagli]. Il 16 giugno, durante le ripetute proteste palestinesi contro la creazione di un insediamento [colonico] israeliano vicino a Beita (Nablus), le forze israeliane hanno sparato, uccidendo un 16enne palestinese. A Beita, dall’inizio di maggio (data di avvio dell’insediamento), nel corso di proteste, le forze israeliane hanno ucciso cinque palestinesi. Ancora nella giornata del 16 giugno, vicino ad Hizma (Gerusalemme), è stata uccisa una donna palestinese 29enne che, secondo l’esercito israeliano, avrebbe cercato di investire dei soldati con un veicolo e successivamente avrebbe brandito un coltello.

Il 24 giugno, le forze palestinesi hanno arrestato un attivista politico palestinese [Nizar Banat], critico nei confronti del governo palestinese; poche ore dopo il dissidente è morto, presumibilmente per le lesioni subite durante l’arresto. Le autorità palestinesi hanno avviato un’indagine sulla sua morte. In protesta per l’accaduto, palestinesi hanno manifestato in tutta la Cisgiordania. In alcune di tali proteste le forze palestinesi hanno sparato gas lacrimogeni e granate assordanti ed hanno ferito o arrestato partecipanti ad alcune proteste.

A Gaza un palestinese è morto per le ferite riportate durante il conflitto del 10-21 maggio. Secondo l’Ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani (OHCHR), a Gaza, durante la recente guerra sono stati uccisi 260 palestinesi, tra cui 66 minori. È stato accertato che 129 di loro erano civili e 64 erano membri di gruppi armati, mentre lo status dei restanti 67 non è stato determinato.

In Cisgiordania forze israeliane hanno ferito almeno 1.075 palestinesi, tra cui 238 minori [seguono dettagli]. Circa 790 di questi, tra cui 237 minori, sono rimasti feriti durante le suddette proteste a Beita, 78 a Gerusalemme Est, 77 a Kafr Qaddum (Qalqiliya), 74 ad Al Mughayyir (Ramallah) e i rimanenti in altre località. Sei dei feriti sono stati colpiti da proiettili veri e 245, tra cui 47 minori, da proiettili di gomma. Durante le proteste a Beita, almeno 154 palestinesi sono stati feriti mentre fuggivano dalle forze israeliane o in circostanze non verificabili (questi 154 feriti non sono inclusi nei 1.075 sopra menzionati). Il 25 giugno, le forze israeliane hanno sparato ad un palestinese, successivamente arrestato, che, a detta dei militari, stava progettando una aggressione con coltello vicino ad un insediamento israeliano nella Cisgiordania settentrionale; secondo fonti palestinesi, l’uomo soffre di disturbi psichici.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 144 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 180 palestinesi, tra cui sette minori. Quarantanove delle operazioni si sono svolte a Nablus, 29 ad Hebron e 20 a Gerusalemme, le rimanenti in vari governatorati. Quarantacinque degli arrestati sono di Hebron, i rimanenti di altre località.

In Cisgiordania, per mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito, sequestrato o costretto i proprietari ad autodemolire 24 strutture palestinesi [seguono dettagli]. Ciò ha causato lo sfollamento di 23 persone, tra cui 11 minori, ed ha creato ripercussioni su più di 1.200 palestinesi. La maggior parte delle persone colpite dai provvedimenti vivono nell’area di Massafer Yatta di Hebron, dove il 23 giugno le autorità israeliane hanno distrutto, per la seconda volta, tre strade e la principale conduttura acquifera che serviva più Comunità; la precedente demolizione era avvenuta il 9 giugno e sia le strade che l’acquedotto erano stati successivamente riparati. Complessivamente, 16 [delle 24 strutture] e 20 [dei 23] sfollati si trovavano in Area C; le rimanenti [otto] strutture ed i 3 sfollati restanti si trovavano in Gerusalemme Est.

Coloni israeliani hanno ferito almeno nove palestinesi, tra cui quattro ragazze [seguono dettagli]. Queste ultime sono state spruzzate con spray al peperoncino nel quartiere di Sheikh Jarrah di Gerusalemme Est; in un altro distinto episodio è accaduta la stessa cosa ad una donna. Ad At Tuwani (Hebron), coloni hanno ferito due donne con pietre, tra cui una disabile di 73 anni. Altri due palestinesi sono stati aggrediti e feriti a Hebron, in episodi separati. Ad Al Mughayyir (Ramallah), in due occasioni, coloni hanno attaccato palestinesi. Le forze israeliane sono intervenute in entrambi i casi, ferendo 74 palestinesi (già conteggiati in un precedente paragrafo riguardante le persone ferite dalle forze israeliane). In molti altri episodi accaduti in Cisgiordania, aggressori noti come coloni israeliani, o ritenuti tali, hanno danneggiato veicoli di proprietà palestinese, oltre duecento alberi, sistemi idrici, strutture agricole, un’officina, apparecchiature elettriche, materiali da costruzione e altre proprietà.

In Cisgiordania, palestinesi noti o ritenuti tali, hanno lanciato pietre ferendo almeno 8 coloni. Secondo fonti israeliane, almeno 49 auto israeliane sarebbero state danneggiate

All’interno della Striscia di Gaza, tra il 15 e il 20 giugno, palestinesi hanno manifestato, vicino alla recinzione perimetrale israeliana, contro le restrizioni in atto; alcuni partecipanti hanno lanciato palloni incendiari verso Israele, causando molteplici incendi. Durante queste proteste le forze israeliane hanno sparato e ferito quattro palestinesi ed hanno effettuato attacchi aerei su Gaza, prendendo di mira siti militari. Vicino alla recinzione perimetrale e al largo della costa, in almeno altre 10 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento, secondo quanto riferito, per far rispettare ai palestinesi le restrizioni di accesso [loro imposte], ed hanno svolto due operazioni di spianatura del terreno all’interno di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale.

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Ultimi sviluppi (successivi al periodo di riferimento)

Il 29 giugno, a Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno demolito due strutture palestinesi: una casa a Ras al Amud e un negozio a Silwan: due ragazzi e i loro genitori sono stati sfollati e altri 9 palestinesi hanno perso la loro fonte di reddito. Durante le proteste palestinesi contro tali demolizioni, le forze israeliane hanno sparato lacrimogeni e proiettili di gomma, ferendo almeno 19 persone (tra cui una donna) e arrestandone nove.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it