Rachel Corrie ha dato la vita per la Palestina

Tom Dale

16 marzo 2024 – Jacobin

In questo giorno nel 2003 l’IDF (esercito israeliano) uccise l’attivista americana Rachel Corrie mentre difendeva le case di Rafah dalla distruzione. Ora che Israele minaccia di invadere questa città un volontario che fu accanto a Rachel scrive della sua eredità – un invito alla ferma solidarietà con i gazawi.

Oggi non c’è nessuna città al mondo più colma di sofferenza e inquietudine di Rafah, addossata al

A partire da metà ottobre le forze Israeliane hanno già spianato la loro strada attraverso Gaza City e Khan Younis, compiendo massacri, distruggendo case e lasciandosi dietro terrore e morte per fame. Più di un milione di palestinesi sono fuggiti a sud a Rafah, facendo aumentare la sua popolazione di sette volte la sua dimensione precedente.

Ma adesso l’obbiettivo di Israele è puntato sulla stessa Rafah, con la minaccia di un’invasione devastante.

Rafah oggi è una città fatta di strutture di tela e plastica quanto di cemento; fredda e spesso fradicia, affamata e devastata. Le malattie si diffondono mentre la gente baratta quel poco cibo di cui dispone con le medicine e le donne strappano pezzi delle tende per usarli come assorbenti. Gli orfani – forse diecimila a Rafah – badano a sé stessi come meglio possono.

L’anno scorso Israele ha lanciato volantini su Khan Younis dicendo ai palestinesi di andare nei “rifugi” a Rafah, per sfuggire al conflitto. Ma là non ci sono rifugi e non c’è stata via di fuga. All’inizio della guerra un amico ha perso 35 membri della sua famiglia estesa in un solo attacco aereo sulla città. In maggioranza erano donne e bambini.

Più frequente degli attacchi a Rafah stessa è il suono dell’eco degli attacchi aerei dal nord, un sinistro avvertimento che il peggio può ancora arrivare.

Il mese scorso il primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu ha sostenuto che rinunciare a invadere Rafah equivarrebbe ad una sconfitta del suo Paese e che ordinerà l’invasione anche se tutti gli ostaggi fossero rilasciati.

Il segretario di stato USA Anthony Blinken ha detto che Washington non sosterrà un’invasione di Rafah in assenza di un “chiaro” piano di protezione dei civili e che non è ancora stato approntato alcun piano. Si dice che i dirigenti israeliani stiano elaborando uno schema per trasferire i palestinesi che sono a Rafah in “isole umanitarie” a nord – dove già scarseggiano cibo e medicinali e la gente è morta di fame.

Il presidente Joe Biden ha detto che un’invasione di Rafah costituirebbe una “linea rossa”, ma non ha ventilato alcuna conseguenza nel caso Israele oltrepassi tale linea rossa, come ne ha oltrepassate tante altre. Netanyahu, come ha già fatto in precedenza, ha risposto sprezzantemente: “Ci andremo. Non li risparmieremo.”

Rasa al suolo, crivellata di proiettili e svuotata”

All’epoca della seconda Intifada, nel 2002-2003, vivevo a Rafah come volontario per l’International Solidarity Movement (ISM), un’organizzazione a guida palestinese che sostiene la resistenza nonviolenta all’occupazione. Tra i miei colleghi c’era Rachel Corrie, una volontaria americana di Olimpia, nello stato di Washington negli Stati Uniti, con uno spassoso senso dell’umorismo che nascondeva la serietà riguardo alla vita – ed al suo scopo – che non avrei del tutto compreso fino a quando lessi i suoi scritti anni dopo. Più tardi si unì al gruppo Tom Hurndall, un talentuoso fotografo che venne colpito alla testa da un cecchino dell’esercito israeliano nell’aprile 2003 e morì l’anno seguente dopo 9 mesi di coma.

Anche allora Rafah fu “rasa al suolo e crivellata di proiettili e svuotata”, come scrisse Rachel in un messaggio ai suoi genitori. Passavamo la maggior parte delle notti nelle case di famiglie vicino al confine con l’Egitto. Israele vi aveva creato una striscia di terra vuota, demolendo case per creare una zona di tiro libero e quindi un vantaggio tattico per le sue truppe posizionate lungo il confine. A volte avvertivano coi megafoni le famiglie di andare via, a volte sparavano nelle case finché le famiglie fuggivano. In ogni momento del giorno o della notte, attraverso demolizioni o no, potevano sparare inondando le case di pallottole.

Non tutti i proiettili sparati contro un muro entravano nell’edificio, ma alcuni sì, specialmente quelli sparati da armi più potenti. Tutti coloro che si trovavano in casa del nostro amico Abu Jamil, compresa Rachel, non poterono non accorgersi, mentre giocavano con i suoi figli, dei fori lasciati dai proiettili che avevano colpito il muro interno ad altezza della testa, sopra il lavello della cucina.

Quando i palestinesi ci chiamavano andavamo ad opporci ai bulldozer armati israeliani che lavoravano lungo la striscia di confine, tenendoli d’occhio e cercando di intervenire se andavano a demolire una casa. Alcune volte li abbiamo rallentati, abbiamo creato impaccio, concedendo a una famiglia qua o là una tregua di qualche giorno o settimana. Forse abbiamo attirato l’attenzione del mondo su quella striscia di terra più frequentemente che se non fossimo stati là. Ma la demolizione andava avanti e il mondo aveva altre preoccupazioni: l’invasione dell’Iraq era imminente.

Il 16 marzo 2003 poco dopo le 17 vidi che uno dei bulldozer di Israele di fabbricazione USA, enorme e imponente, si dirigeva verso la casa del dottor Samir Nasrallah e della sua giovane famiglia. Rachel, amica del dottor Samir, si mise tra il bulldozer e la casa. Mentre il bulldozer si muoveva verso di lei la sua lama iniziò spingere davanti a sé a un monticello di terra. Quando il monticello raggiunse Rachel lei vi si arrampicò, faticando per mantenersi in appoggio sulla terra molle, reggendosi con le mani fin quando la sua testa fu sopra il livello della lama. Il conducente deve averla guardata negli occhi, ma proseguì imperterrito e lei cominciò a perdere l’equilibrio.

Qualche settimana prima di quel giorno Rachel sognò di cadere e lo scrisse sul suo diario:

…cadevo verso la morte da qualcosa di polveroso e liscio e frammentato come le scogliere dello Utah, ma mi sono aggrappata e quando ogni nuovo punto d’appoggio o pezzo di roccia si rompeva io allungavo la mano mentre cadevo e ne afferravo un altro. Non ho avuto il tempo di pensare a niente – solo di reagire…e ho sentito “Non posso morire, non posso morire”, ancora e ancora nella mia testa.

Il terreno sul confine di Rafah, un’irregolare mistura di argilla e terra, ha una tonalità calda non tanto diversa da quella delle scogliere dello Utah. A distanza di anni, come molti degli scritti di Rachel, l’incubo sembra essere stato premonitore.

Benché ci provasse, Rachel non riuscì a mantenere l’equilibrio; il bulldozer avanzò deciso, la travolse, la spinse sotto la terra, la schiacciò. Morì mentre le tenevo le mani nell’ambulanza verso l’ospedale. Nel mio primo resoconto dei fatti, scritto due giorni dopo, specificai che dieci palestinesi erano stati uccisi a Gaza dopo Rachel, senza che lo si sapesse al di fuori dell’enclave stessa.

A parte la mia personale amicizia con Rachel, c’è disagio nel raccontare ciò che è necessario ribadire soprattutto oggi, alla luce della devastazione che Rafah subisce. Parte del nostro obbiettivo, tutti quegli anni addietro, era far risaltare un sistema razzista di violenza e il sistema razzista di narrazione che lo accompagna, al fine di sovvertire quei sistemi stessi. Alcuni potrebbero pensare che un simile tentativo sia sempre stato idealista o che qualunque tentativo di mettere in luce un simile sistema razzista, come il nostro sforzo di attirare lo sguardo internazionale su Gaza, è inevitabile che avvalori quel sistema.

Ciononostante, avendo fatto la mia scelta più di vent’anni fa, mi ritengo impegnato. Ogni qualvolta mi si chiede di parlare di Rachel lo faccio, non solo per onorare un’amica, ma con l’idea che forse la sua storia è un modo per far capire ad alcune persone, lontane dalla Palestina, delle verità più ampie sulla violenza dell’occupazione e sulle politiche che la rendono possibile. E che quelle verità in definitiva ci riportano indietro ai palestinesi e a Rafah. Credo che conducano anche ad altri luoghi.

L’esercito israeliano agisce nella convinzione dell’impunità. Perciò quando un fatto eccezionale, come l’uccisione di un non-palestinese, lascia presagire una resa dei conti, il sistema è poco preparato a rispondere. Il risultato spesso consiste in una serie di stravaganti menzogne. Nel caso di Rachel le autorità evitarono di contestare i dettagli dei nostri testimoni oculari. Sostennero invece che Rachel “si era nascosta dietro un terrapieno” e fu colpita dalla caduta di una lastra di cemento. I nostri fotografi sul posto, sia prima che dopo l’uccisione di Rachel, dimostrarono che lei si trovava in terreno aperto.

Secondo uno schema abituale la risposta ufficiale fu, in ordine approssimativo: non lo abbiamo fatto noi, lo abbiamo fatto ma non è stata colpa nostra, anche se è stata colpa nostra non siamo responsabili e comunque erano dei terroristi. Il comandante dell’esercito nel sud della Striscia di Gaza all’epoca dell’uccisione disse a un tribunale di Haifa, probabilmente con un’espressione seria, che “un’organizzazione terroristica ha inviato Rachel Corrie a intralciare i soldati dell’esercito. Lo dico con conoscenza di causa.” Gli osservatori dell’attuale guerra ricorderanno una serie di analoghe dichiarazioni “categoriche”.

L’impunità di Israele è merce di esportazione americana

I volontari che vanno in luoghi di guerra per stare accanto a chi è in prima linea sono sempre stati il fulcro della tradizione internazionalista. E ciò è vero ancora oggi, sia che accompagnino i pastori e i raccoglitori di olive sulle colline della Cisgiordania, sia che portino rifornimenti ai soldati ucraini sul fronte della guerra con la Russia, o forniscano assistenza medica ai rivoluzionari del Myanmar, o combattano il cosiddetto stato islamico insieme alle Unità di Protezione Popolare nel nordest della Siria. Questi impegni e le persone che li assumono non vanno idealizzati. Ma la profonda solidarietà e relazione che incarnano sono straordinarie.

Però questo genere di cose non è per tutti. E non deve esserlo. La solidarietà dei volontari che si recano in una zona di guerra per stare accanto a chi è in prima linea deve accompagnarsi ad un progetto complementare che cerca di mobilitare la potenza degli Stati – soprattutto degli Stati Uniti – verso gli stessi obbiettivi. E’ qualcosa in cui la maggioranza della gente può essere coinvolta in qualche modo. Nel caso della Palestina comincia con la creazione di sostegno pubblico e pressione politica verso un cessate il fuoco e un’interruzione degli aiuti militari a Israele. Ciò include una pressione incessante nei confronti di Biden e la difesa dei sostenitori del cessate il fuoco nel Congresso da coloro che vogliono punire la loro posizione.

Gli Stati Uniti avallano l’occupazione israeliana attraverso un massiccio aiuto militare e finanziario e ciò significa avallare l’attuale guerra a Gaza. Jeremy Konyndyk, un ex alto funzionario dell’amministrazione Biden, ha detto al Washington Post che l’amministrazione aveva agevolato “un numero straordinario di vendite nel corso di un brevissimo intervallo di tempo, il che suggerisce fortemente che la campagna israeliana non sarebbe stata sostenibile senza questo livello di supporto USA.”

Il risultato, sempre dolorosamente evidente a Rafah, è che l’impunità di Israele è merce di esportazione americana. Ma l’annullamento del sostegno non sarà con tutta probabilità sufficiente. Saranno necessarie sanzioni finalizzate a costringere al riconoscimento dei diritti fondamentali dei palestinesi. Dovranno andare ben oltre il prendere di mira singoli coloni o i loro sostenitori.

La richiesta di sanzioni è una sfida diretta al principale cardine non dichiarato della politica USA verso Israele. Biden e i suoi subalterni parleranno della necessità di uno Stato palestinese e della necessità per Israele di mostrare moderazione. Ma il loro principio fondamentale, che è stato assoluto per tre decenni ed era predominante nei decenni precedenti, è che Israele non deve mai essere costretto a fare simili concessioni. Israele può essere blandito, lusingato, persuaso e spronato, ma mai obbligato. La conseguenza è che la Palestina è tenuta in permanente stato di eccezione.

Un parente del dottor Nasrallah, il farmacista la cui casa di famiglia Rachel stava difendendo quando fu uccisa, mi ha detto che era come se Rafah fosse stata risucchiata in un “buco nero dove le leggi internazionali non valgono e il mondo non ci può vedere né sentire.”

Descrive quando è tornato a casa un pomeriggio sulla scena di una carneficina, in seguito ad un attacco aereo su un edificio vicino in cui almeno due famiglie sono state interamente spazzate via e un’altra ha perso due bambini. (Gli amici di Nasrallah stanno raccogliendo soldi per aiutarli a mettersi al sicuro.) Un parente che ha chiesto di non rivelare il suo nome ha detto che era ormai normale vedere uomini scoppiare in lacrime al minimo attacco perché indifesi e incapaci di provvedere alle loro mogli o figli. “Stiamo parlando, dice, del labile confine tra la vita e la morte.”

Un’invasione di Rafah, che potrebbe avvenire tra qualche settimana, sarebbe un disastro “oltre ogni immaginazione”, dicono i medici delle Nazioni Unite. Come ha detto Rachel poche settimane prima di essere uccisa: “Penso che per tutti noi sia una buona idea abbandonare tutto e dedicare la nostra vita a far sì che questo abbia fine.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




L’aiuto umanitario è uno strumento genocida nelle mani di Israele e degli USA

Ramona Wadi

12 marzo 2024 – Middle East Monitor

Israele non ha alcuna intenzione di consentire che una quantità significativa di aiuti umanitari arrivi a Gaza. Anche la società dei coloni ha affermato che a Gaza i palestinesi non meritano aiuto finché non saranno rilasciati tutti gli ostaggi israeliani, nonostante il fatto che non c’è alcun rapporto tra l’imposizione di una carestia genocida e una garanzia del ritorno degli ostaggi nello Stato occupante. A parte, cioè, il fatto che se Gaza muore di fame, lo stesso faranno gli ostaggi.

Fare del genocidio uno spettacolo in nome dell’aiuto umanitario è una cosa in cui la comunità internazionale eccelle. Israele ha distrutto camion che portavano aiuti e ucciso palestinesi che vi si arrampicavano per una misera quantità di cibo. La Giordania e gli USA hanno tentato lanci umanitari dal cielo, alcuni dei quali sono caduti in mare. Un altro bancale di cibo lanciato dal cielo ha ucciso dei palestinesi perché il paracadute non si è aperto. Non solo è stato un aiuto sprecato, ma il cibo era sufficiente per qualche migliaio di palestinesi, mentre tutta Gaza muore di fame.

Si sta per costruire un molo galleggiante sulle coste di Gaza che sarà utilizzato per trasferire aiuti dalle navi all’enclave. Lo costruiranno soldati USA. Sembra che militarizzare l’aiuto umanitario non sia mai stato così facile, e dal punto di vista umanitario mai così tirato per le lunghe. Costruire il molo potrebbe richiedere fino a 60 giorni, e il generale Frank S. Besson, di USAV [Ufficio federale della sicurezza alimentare e veterinaria, ndt.], è già salpato con le attrezzature necessarie. Gli USA schiereranno 1.000 soldati per la costruzione del pontile lungo 550 metri e, secondo dichiarazioni del presidente USA Joe Biden, “il governo israeliano ne garantirà la sicurezza.” Non è certo un’idea rassicurante. Al contrario è la garanzia che, 60 giorni dopo, i palestinesi continueranno a morire di fame nel genocidio pianificato da Israele.

L’UN Relief and Works Agency for Palestine Refugees [agenzia dell’ONU per il Soccorso e il Lavoro dei Profughi Palestinesi] (UNRWA) ha ammorbidito le sue critiche al piano USA per la consegna di aiuti. “Qualunque tentativo di far entrare aiuti umanitari a Gaza per aiutare persone disperate è assolutamente benvenuto,” ha detto la direttrice della comunicazione Juliette Touma, notando nel contempo che il trasporto di aiuti umanitari sarebbe più efficace via terra. Il comunicato è esplicitamente attento a non irritare Israele e gli USA, e anche paternalistico nei confronti del popolo palestinese. Se le preoccupazioni dell’UNRWA riguardo alla neutralità non fossero state il principale obiettivo nel rilasciare comunicati, il piano degli USA avrebbe incontrato un’obiezione di principio. Cercare di compiacere Israele non ammorbidirà i progetti dello Stato occupante per la chiusura dell’UNRWA, come ha riportato ieri il Times of Israel riguardo al piano dell’esercito israeliano di sostituire l’agenzia con un’alternativa come il Programma Alimentare Mondiale dell’ONU. Il che dimostra ancora una volta che l’ONU non trova alcuna contraddizione riguardo a lavorare con violatori dei diritti umani per salvaguardare i diritti umani. 

Il molo galleggiante per l’aiuto umanitario è una perdita di tempo, non uno sforzo ben accetto.

Rimane da vedere a cosa servirà il pontile, se ci sono in serbo ulteriori motivazioni. Il ministro degli Esteri dello Stato di apartheid Israel Katz ha parlato di costruire un’isola artificiale al largo delle coste di Gaza per facilitare l’espulsione forzata del popolo palestinese dall’enclave. Ogni gesto umanitario da parte degli USA per il quale Israele non ha concrete obiezioni, come nel caso di questo molo, dovrebbe dunque far suonare il campanello d’allarme. Secondo l’esperto giordano di questioni militari e strategiche Hisham Khreisat “il porto galleggiante al largo delle coste di Gaza è una finzione umanitaria che nasconde la migrazione volontaria verso l’Europa.” Fai entrare gli aiuti, fai uscire i palestinesi.

L’aiuto umanitario è uno strumento genocida nelle mani di Israele e degli USA.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’amore ai tempi del genocidio

Susan Abulhawa

12 marzo 2024 – Al Jazeera

Continuano gli atti di amore e di eroismo in mezzo alla carneficina di Israele a Gaza.

Durante un recente viaggio nel sud di Gaza, per settimane ho raccolto storie di donne ricoverate in ospedale, ognuna delle quali era là per ristabilirsi da quelle che si chiamano “ferite di guerra”. Ma non si tratta di una guerra perché solo una delle parti ha un vero esercito. Solo una delle parti è uno Stato con una completa dotazione militare.

Queste vittime erano madri, donne e bambini, i cui deboli corpi sono stati straziati, lacerati, spezzati e bruciati. Le loro ferite più profonde non sono visibili finché loro non rivelano come hanno vissuto durante gli ultimi cinque mesi.

All’inizio raccontano le cose principali: una bomba ha distrutto la casa, sono state estratte dalle macerie, hanno riportato gravi ferite, membri della famiglia sono stati uccisi e la situazione era terribile. Questo è quanto hanno sempre detto sugli orrori inimmaginabili che hanno vissuto e continuano a vivere.

Ma io cerco i dettagli. Che cosa stavi facendo pochi minuti prima? Quale è stata la prima cosa che hai visto, la prima che hai sentito? Quale era l’odore? Fuori era buio o chiaro?

Le spingo a guardare a fondo nella struttura molecolare di ogni fatto – la sabbia in bocca, la polvere nei polmoni, il peso di qualcosa, il liquido tiepido che scende per la schiena, il dito deformato che si vede ma non si sente, il momento in cui ci si rende conto, l’attesa di essere salvate e la paura che nessuno arrivi, il suono nelle orecchie, gli strani pensieri, ciò che si muove e ciò che non può muoversi, l’attesa della morte e la speranza che sia rapida, il desiderio di vivere.

Nei mesi e settimane da quando uno degli eserciti più potenti del mondo ha preso di mira le loro vite non hanno ancora affrontato, né tantomeno verbalizzato, i dettagli di questo genocidio. Appena si avventurano oltre le linee generali delle proprie storie i loro occhi si incupiscono e a volte incominciano a tremare. Il minimo rumore inatteso le spaventa.

Le lacrime si addensano e potrebbero scendere, ma solo in poche si consentono di piangere. Poche lasciano che gli orrori che hanno in testa oltrepassino le barriere. Non si tratta di qualche forza sovrumana. Proprio il contrario. Sono stordite in modo tale che è come dovessero ancora comprendere l’enormità di ciò che hanno vissuto e continuano a vivere.

Jamila

Una giovane madre, Jamila (non è il vero nome), ha pianto per la prima volta quando ha toccato il corpo senza vita di suo figlio di sei anni nel buio, con le dita accidentalmente affondate nel suo cervello. Lei è una delle poche che hanno pianto, sopraffatta dal ricordo.

La loro famiglia era stata presa di mira da un carro armato, non da un missile. Un drone, secondo lei forse con sensori termosensibili, ha aleggiato fuori dal loro edificio e un bombardamento li ha inseguiti mentre correvano da un lato all’altro del loro appartamento, incapaci di uscire.

Era certa che qualcuno dietro a uno schermo stesse giocando con loro prima di assestare il colpo finale che ha trapassato il bambino e ha ferito suo padre. Poi si è fatto silenzio. I colpi del carro armato sono terminati, “come se fossero arrivati solo per uccidere il mio adorato figlio”, dice.

Non ha pianto allora. Non ha emesso alcun suono. “Mio marito era preoccupato e mi ha detto di piangere, ma io non l’ho fatto. Non so perché”, dice.

Due settimane dopo, dopo essere fuggita da un posto all’altro, un soldato israeliano ha sparato a sua figlia Nour di tre anni mentre la teneva in braccio, frantumandole entrambe le gambe, mentre si nascondevano in preda al terrore dentro un ospedale che pensavano fosse sicuro.

Quando l’ho incontrata la piccola Nour aveva barre di metallo sporgenti dalle sue magre cosce e una lunga cicatrice che correva lungo il polpaccio destro, da dove era uscito il proiettile. I medici l’avevano dimessa alcuni giorni prima, ma le avevano permesso insieme a sua madre Jamila di restare qualche giorno in più fino a che potessero in qualche modo ottenere una tenda da qualche parte.

Il marito di Jamila, a malapena in grado di camminare per le ferite riportate, aveva vissuto in una tenda con un gruppo di uomini, il massimo che può fare è procurarsi un po’ di cibo e di acqua ogni giorno. E’ venuto a trovarle una volta mentre ero là dopo essere riuscito a risparmiare 10 shekel (circa 3 dollari) per il trasporto e per un regalino a sua figlia.

La manifestazione della minima intimità fisica tra innamorati è un fatto privato a Gaza, ma non esiste privacy in un ospedale dove 40 pazienti e chi li assiste dividono una singola stanza, con file di letti appiccicati con solo lo spazio sufficiente a camminare tra l’uno e l’altro.

Jamila era al settimo cielo per aver trascorso un’ora con suo marito dopo un mese che non lo vedeva né sapeva nulla di lui (il suo telefono era stato distrutto nel bombardamento). Ma in seguito mi ha detto che le sarebbe piaciuto abbracciarlo, magari anche baciarlo sulle guance. “Soffre così tanto”, ha detto, reggendo il suo dolore con il proprio e quello di un’intera nazione sulle sue esili spalle.

Nina

Nina (non è il vero nome) ha un sorriso disarmante ed è di un espansivo buon carattere. E’ ansiosa di raccontarmi come ha salvato suo marito dalle grinfie dei soldati israeliani.

Si era sposata da appena un anno quando il bombardamento vicino a casa sua si è intensificato. Le registrazioni diffuse online da alcune di quelle notti sono inimmaginabili. Un esercito di draghi che calpestano e bruciano tutto intorno facendo tremare gli edifici, rompendo i vetri, terrorizzando giovani e vecchi; tuoni e terremoti, mostri che si avventano da sopra e da sotto.

Il marito di Nina, Hamad (anche questo non è il vero nome), prese la decisione di andare via insieme a diversi membri della sua famiglia – i genitori, gli zii, le zie e i loro congiunti e figli – e alcuni loro vicini. In tutto erano circa 75 persone, che andavano di città in città, senza trovare un posto sicuro in cui rimanere per più di pochi giorni ogni volta.

Circa una settimana dopo la partenza Nina ha saputo che la casa della sua famiglia era stata bombardata. In un solo istante, da un bottone schiacciato da un israeliano di una ventina d’anni, 80 membri della sua famiglia sono stati assassinati – padre, fratelli, zie, zii, cugini, nonni, nipoti.

Inizialmente le era stato detto che sua madre era morta, ma per fortuna si è saputo che era sopravvissuta. E’ stata gravemente ferita e ricoverata in ospedale, dove Nina è diventata la sua cara assistente. Ecco come mi è capitato di incontrare questa straordinaria giovane donna.

Nina, suo marito e gli altri del gruppo alla fine si sono fermati temporaneamente a Gaza City, da cui sono andati via lungo i muri di barriera per raggiungere un riparo. Si sono mossi uno alla volta, considerando che se Israele gli avesse sparato non sarebbero morti tutti. Perdere una persona era meglio di 75 in un colpo solo.

Effettivamente una persona fu colpita da un cecchino dopo che quasi la metà di loro ce l’aveva fatta, frazionando il gruppo per un po’ finché nuovamente hanno trovato il coraggio di correre, di nuovo uno per volta. I bambini sono stati divisi tra i genitori. Mezza famiglia uccisa è meglio che una intera. Queste erano le scelte che dovevano fare, non diversamente da La scelta di Sofia (romanzo di William Styron, 1976, ndt.)

Dopo non molto il loro rifugio è stato circondato dai carri armati. Un elicottero “quadrirotore” – una nuova invenzione del terrore israeliana – è volato nelle stanze, cospargendo i muri sopra di loro di pallottole. Tutti gridavano e piangevano, “anche gli uomini”, dice Nina. “Mi ha spezzato il cuore vedere i forti uomini della nostra famiglia tremare di paura in quel modo.”

Infine sono entrati i soldati. “Almeno 80”, dice. Hanno separato gli uomini dalle donne e dai bambini, spogliando i primi di tutto tranne i boxer, in pieno inverno. Le donne e i bambini sono stati ammassati in uno sgabuzzino, gli uomini divisi in due aule. Per tre notti e quattro giorni hanno sentito le grida dei loro mariti, padri e fratelli che venivano picchiati e torturati nelle altre stanze, finché alla fine i soldati hanno ordinato alle donne, in un arabo sgrammaticato, di prendere i loro figli e “andare a sud”.

Tutte le donne hanno obbedito, tranne Nina. “Non mi importava più niente. Ero pronta a morire, ma non sarei partita senza mio marito.” E’ andata di corsa nelle stanze dove venivano tenuti gli uomini, chiamando Hamad. Nessuno ha osato rispondere. Era buio e i soldati la stavano trascinando via. Ha lottato con loro mentre ridevano, probabilmente divertiti dalla sua isteria. La chiamavano “pazza”.

Ha riconosciuto i boxer rossi di suo marito nella seconda stanza ed è corsa da lui, strappandogli la benda dagli occhi, baciandolo, abbracciandolo, promettendo di morire con lui se fosse stato il caso. Alternava le imprecazioni contro i soldati alle preghiere di rilasciare suo marito. Infine gli hanno tagliato i lacci di plastica e lo hanno lasciato andare.

Ma lei non aveva finito. Mentre Hamad si avviava, è tornata dentro per raccogliere i vestiti per lui e per i suoi zii seduti nudi al freddo. Non sarebbero stati rilasciati ancora per settimane. Alcuni di quegli uomini sarebbero stati uccisi.

Lei e Hamad sono scappati insieme. Quando finalmente sono arrivati in un posto sicuro si sono resi conto che la gamba di lui era rotta, i suoi polsi erano tagliati dai lacci di plastica e sulla schiena aveva impressa la stella di Davide.

Tra le urla che Nina aveva sentito nei giorni precedenti vi erano quelle di suo marito, mentre un soldato con un coltello incideva il simbolo ebraico sulla sua schiena.

Susan Abulhawa è una scrittrice palestinese

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 

 




Un rabbino di Giaffa: ‘secondo la legge ebraica tutti gli abitanti di Gaza devono essere uccisi’

Redazione di Middle East Monitor

9 marzo 2024 – Middle East Monitor

Il capo della yeshiva [scuola religiosa ebraica in cui si studia principalmente il Talmud e la Torah, ndt.] Shirat Moshe Hesder di Giaffa, il rabbino Eliyahu Mali, ha incitato i suoi studenti, che vengono arruolati nell’esercito israeliano dopo essersi diplomati alla yeshiva a commettere massacri contro gli abitanti di Gaza. Ha affermato che secondo la legge ebraica, tutti gli abitanti di Gaza devono essere uccisi. Quando gli è stato chiesto se sono inclusi gli anziani e i minori, ha risposto: “Lo stesso vale anche per loro”.

Secondo i resoconti di venerdì di Ynet News [sito di notizie israeliano legato al quotidiano Yedioth Aharanot, ndt.], le affermazioni del rabbino sono state fatte durante una conferenza tenutasi ieri nella scuola ebraica e dedicata alla gestione della popolazione civile durante la guerra.

Mali ha descritto la guerra scatenata dallo Stato di Israele contro Gaza come una “guerra di religione”. Egli ha affermato: “La legge fondamentale in una guerra di religione, e questo è il caso a Gaza, è che non devi lasciare vivo niente che respiri (Deuteronomio), e se non li uccidi tu, loro uccidono te. I sabotatori di oggi sono i bambini lasciati vivi nelle precedenti operazioni militari e le donne sono quelle che generano i sabotatori.”

Ha aggiunto: “O tu o loro. Nessun’anima può vivere sulla base di ‘se qualcuno viene per ucciderti, sollevati e uccidilo per primo’ (Talmud Babilonese). Questo si applica non solo agli adolescenti di 14 o 16 anni o agli uomini di 20 o 30 anni che ti puntano una pistola contro, ma anche alla generazione futura. Questo si applica anche a coloro che generano la generazione futura, perché in realtà non c’è differenza.”

In risposta alla domanda sull’uccisione di persone anziane a Gaza, Mali ha dichiarato: “C’è differenza tra la popolazione civile di qualunque altra parte e la popolazione civile a Gaza. Lì, secondo le stime, il 95-98% vuole sterminarci.”

Quando gli hanno chiesto, “Anche i bambini?”, il rabbino ha replicato: “E’ la stessa cosa. Non puoi abbellire la Torah. Oggi è un bambino, domani è un combattente. Non ci sono dubbi in proposito. I terroristi di oggi erano i bambini di 8 anni nelle precedenti operazioni militari. Per cui non ti puoi fermare là. Perciò le regole che riguardano Gaza sono differenti.”

Il rabbino ha puntualizzato: “Dato che questa è una questione sensibile e mi hanno informato che [il discorso] verrà pubblicato su Internet, voglio farla breve e dire in conclusione che dovrebbero essere eseguiti solamente gli ordini dell’esercito israeliano.”

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




La storia riconoscerà che Israele ha commesso un olocausto

Susan Abulhawa

6 marzo 2024 – The Electronic Intifada

In questo momento a Gaza e in Palestina sono le 20:00: è la fine del mio quarto giorno a Rafah e il primo momento in cui ho potuto sedermi in un posto tranquillo per riflettere.

Ho provato a prendere appunti, foto, immagini mentali, ma questo è un momento troppo grande per un taccuino o per la mia memoria in difficoltà. Niente mi aveva preparato a ciò a cui avrei assistito.

Prima di attraversare il confine tra Rafah e l’Egitto ho letto tutte le notizie provenienti da Gaza o su Gaza. Non ho distolto lo sguardo da nessun video o immagine inviata dal territorio, per quanto fosse raccapricciante, scioccante o traumatizzante.

Sono rimasta in contatto con amici che hanno riferito della loro situazione nel nord, nel centro e nel sud di Gaza – ciascuna area soffre in modi diversi. Sono rimasta aggiornata sulle ultime statistiche, sulle ultime mosse politiche, militari ed economiche di Israele, degli Stati Uniti e del resto del mondo.

Pensavo di aver capito la situazione sul campo. Ma non è così.

Niente può veramente prepararti a questa distopia. Ciò che raggiunge il resto del mondo è una frazione di ciò che ho visto finora, che è solo una frazione della totalità di questo orrore.

Gaza è un inferno. È un inferno brulicante di innocenti che boccheggiano in cerca di aria.

Ma qui anche l’aria è bruciata. Ogni respiro irrita la gola e i polmoni e vi si attacca.

Ciò che una volta era vibrante, colorato, pieno di bellezza, possibilità e speranza contro ogni aspettativa, è avvolto da un grigiore di sofferenza e sporcizia.

Quasi nessun albero

Giornalisti e politici la chiamano guerra. Gli informati e gli onesti lo chiamano genocidio.

Quello che io vedo è un olocausto, lincomprensibile culmine di 75 anni di impunità israeliana per i ripetuti crimini di guerra.

Rafah è la parte più meridionale di Gaza, dove Israele ha stipato 1,4 milioni di persone in uno spazio grande quanto laeroporto di Heathrow a Londra.

Scarseggiano acqua, cibo, elettricità, carburante e provviste. I bambini sono privati della scuola: le loro aule sono state trasformate in rifugi di fortuna per decine di migliaia di famiglie.

Quasi ogni centimetro dello spazio precedentemente vuoto è ora occupato da una fragile tenda che ospita una famiglia.

Non è rimasto quasi nessun albero poiché le persone sono state costrette ad abbatterli per produrre legna da ardere.

Non ho notato lassenza di verde finché non mi sono imbattuta in una bouganville rossa. I suoi fiori erano polverosi e soli in un mondo deflorato, ma ancora vivi.

La discrepanza mi ha colpito e ho fermato l’auto per fotografarla.

la bouganvillea sopravissuta a Gaza (Susan Abulhawa)

Ora cerco il verde e fiori ovunque vada, finora nelle zone meridionali e centrali (anche se nel centro è diventato sempre più difficile entrare). Ma ci sono solo piccole macchie derba qua e là e qualche albero occasionale che aspetta di essere bruciato per cuocere il pane per una famiglia che sopravvive con le razioni ONU di fagioli in scatola, carne in scatola e formaggio in scatola.

Un popolo orgoglioso con ricche tradizioni e consuetudini culinarie a base di alimenti freschi è stato ridotto e abituato a una manciata di impasti e poltiglie rimaste sugli scaffali per così tanto tempo che può essere avvertito solo il sapore metallico e rancido delle lattine.

Al nord è peggio.

Il mio amico Ahmad (non è il suo vero nome) è una delle poche persone che hanno Internet. Il segnale è sporadico e debole, ma possiamo ancora scambiarci messaggi.

Mi ha inviato una sua foto in cui sembrava l’ombra del giovane che conoscevo. Ha perso più di 25 kg.

Inizialmente le persone si sono ridotte a nutrirsi di mangime per cavalli e asini, ma è finito. Ora stanno mangiando gli asini e i cavalli.

Alcuni mangiano cani e gatti randagi che a loro volta stanno morendo di fame e talvolta si nutrono dei resti umani che ricoprono le strade, dove i cecchini israeliani hanno preso di mira le persone che hanno osato avventurarsi nel campo visivo dei loro mirini. I vecchi e i più deboli sono già morti di fame e di sete.

La farina è scarsa e più preziosa delloro.

Ho sentito la storia di un uomo nel nord che di recente è riuscito a mettere le mani su un sacco di farina (che normalmente costava 7 euro) e gli sono stati offerti gioielli, dispositivi elettronici e contanti per un valore di 2.300 euro. Ha rifiutato.

Sentirsi piccoli

A Rafah le persone si sentono privilegiate nel ricevere farina e riso. Te lo diranno e ti sentirai umiliato perché si offrono di condividere quel poco che hanno.

E ti vergognerai perché sai che puoi lasciare Gaza e mangiare quello che vuoi. Ti sentirai piccolo qui perché non sei in grado di fare davvero nulla per placare il bisogno e la perdita catastrofici e perché capirai che loro sono migliori di te, poiché in qualche modo sono rimasti generosi e ospitali in un mondo che è stato tanto e per così tanto tempo ingeneroso e inospitale nei loro confronti.

Ho portato tutto quello che potevo, pagando il bagaglio extra e il peso di sei bagagli e aggiungendone altri 12 in Egitto. Per me ho portato quello che stava nello zaino.

Ho avuto la lungimiranza di portare cinque grandi sacchi di caffè, che si è rivelato essere il regalo più apprezzato dai miei amici qui. Preparare e servire il caffè ai colleghi di lavoro del luogo in cui mi trovo è la cosa che preferisco fare, per la gioia assoluta che ogni sorso sembra portare.

Ma anche quello presto finirà.

Difficile respirare

Ho assunto un autista per trasferire sette pesanti valigie di rifornimenti a Nuseirat [campo profughi al centro della Striscia, ndt.], e lui le ha trasportate giù per alcune rampe di scale. Mi ha detto che portare quelle borse lo faceva sentire di nuovo umano perché era la prima volta in quattro mesi che andava su e giù per le scale.

Gli ha ricordato di quando viveva in una casa invece che nella tenda dove ora abita.

È difficile respirare qui, letteralmente e metaforicamente. Una foschia immobile di polvere, degrado e disperazione intride l’aria.

La distruzione è così massiccia e persistente che le particelle sottili della vita polverizzata non hanno il tempo di depositarsi. La mancanza di benzina ha portato le persone a riempire le loro auto di stearato, olio esausto che ha una combustione sporca.

Emette un odore particolarmente sgradevole e una pellicola che si attacca all’aria, ai capelli, ai vestiti, alla gola e ai polmoni. Mi ci è voluto un po’ per capire la fonte di quell’odore pervasivo, ma è facile riconoscere gli altri.

La scarsità di acqua corrente o pulita compromette l’igiene di chiunque di noi. Tutti fanno del loro meglio nella cura di sé stessi e dei propri figli, ma a un certo punto smetti di farci caso.

Ad un certo punto lumiliazione della sporcizia è inevitabile. Ad un certo punto aspetti semplicemente la morte, proprio come aspetti anche un cessate il fuoco.

Ma la gente non sa cosa farà dopo il cessate il fuoco.

Hanno visto le foto dei loro quartieri. Quando vengono pubblicate nuove immagini provenienti dall’area settentrionale le persone si ritrovano insieme per cercare di capire di quale quartiere si tratti, o da chi fosse la casa ridotta in quel cumulo di macerie. Spesso questi video provengono da soldati israeliani che occupano o fanno saltare in aria le loro case.

Cancellazione

Ho parlato con molti sopravvissuti estratti dalle macerie delle loro case. Raccontano quello che è successo con espressione impassibile, come se non fosse capitato a loro; come se sia stata sepolta viva la famiglia di qualcun altro; come se i loro corpi straziati appartenessero ad altri.

Gli psicologi dicono che si tratta di un meccanismo di difesa, una sorta di intorpidimento della mente finalizzato alla sopravvivenza. La resa dei conti arriverà più tardi, se sopravvivranno.

Ma come si può affrontare la perdita dell’intera famiglia, mentre si osservano i corpi disintegrarsi tra le macerie e si avverte l’odore, mentre si attende il salvataggio o la morte? Come si fa a considerare la cancellazione totale della propria esistenza nel mondo: la casa, la famiglia, gli amici, la salute, l’intero quartiere e il paese?

Nessuna foto della tua famiglia, del tuo matrimonio, dei tuoi figli, dei tuoi genitori; anche le tombe dei tuoi cari e dei tuoi antenati sono state rase al suolo. Tutto questo mentre le forze e le voci più potenti ti diffamano e ti incolpano per il tuo miserabile destino.

Il genocidio non è solo un omicidio di massa. È una cancellazione intenzionale.

Di storie. Di ricordi, libri e cultura.

Cancellazione delle risorse di una terra. Cancellazione della speranza in e per un luogo.

Cancellazione come impulso alla distruzione di case, scuole, luoghi di culto, ospedali, biblioteche, centri culturali, centri ricreativi e università.

Il genocidio è la demolizione intenzionale dellumanità di un altro. È la riduzione di unantica società orgogliosa, istruita e ben funzionante a oggetti di carità privi di mezzi, costretti a mangiare lindicibile per sopravvivere; vivere nella sporcizia e nella malattia senza nulla in cui sperare se non la fine delle bombe e dei proiettili che piovono sui loro corpi, sulle loro vite, sulle loro storie e sul loro futuro.

Nessuno può pensare o sperare in ciò che potrebbe accadere dopo un cessate il fuoco. Il massimo possibile delle loro speranze in questo momento è che i bombardamenti cessino.

È il minimo che si può chiedere. Un minimo riconoscimento dellumanità dei palestinesi.

Nonostante Israele abbia tagliato l’energia e Internet i palestinesi sono riusciti a trasmettere in streaming limmagine del loro stesso genocidio a un mondo che permette che questo vada avanti.

Ma la storia non mentirà. Ricorderà che nel 21° secolo Israele ha perpetrato un olocausto.

Susan Abulhawa è una scrittrice e attivista. Questo pezzo è stato scritto durante la sua visita a Gaza a febbraio e all’inizio di marzo.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele ha ucciso altri 124 palestinesi in 24 ore

Redazione di Middle East Monitor

5 marzo 2024 – Middle East Monitor

Ieri il ministero palestinese della Sanità ha affermato che nelle ultime 24 ore, fino a lunedì mattina, l’esercito israeliano ha commesso 13 nuovi massacri contro famiglie nella Striscia di Gaza, uccidendo 124 persone e ferendone altre 210.

Gli aerei da guerra israeliani hanno colpito in tutta la Striscia di Gaza mentre la guerra all’enclave assediata è entrata nel 150esimo giorno. Nel frattempo al Cairo sono continuati i colloqui tra una delegazione di Hamas e mediatori provenienti da Qatar, Egitto e Stati Uniti per raggiungere un accordo per il cessate il fuoco nel territorio occupato.

Gli attacchi aerei contro Rafah, nella parte meridionale della striscia di Gaza, sono stati intensificati, uccidendo decine di persone nel campo profughi d Nuseirat. L’artiglieria israeliana ha bombardato aree residenziali e rifugi nei campi di Jabalia, Khan Yunis, Deir Al-Balah e Tal Al-Zaatar.

Finora dal 7 ottobre Israele ha ucciso almeno 30.534 palestinesi a Gaza ne ha feriti altri 71.920. Attualmente è accusato di genocidio presso la Corte Internazionale di Giustizia.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Il New York Times ha un orribile pregiudizio anti-palestinese

BEN BURGIS

29 febbraio 2024 – Jacobin

Il fatto che il New York Times abbia affidato la sua inchiesta sulle denunce di aggressioni sessuali del 7 ottobre ad Anat Schwartz, una giornalista non professionista con convinzioni antipalestinesi e rapporti con l’esercito israeliano, è un esempio estremo della indefettibile tendenziosità del giornale a favore di Israele.

Il New York Times forse è il quotidiano più prestigioso del mondo anglofono. I suoi articoli hanno ottenuto 132 premi Pulitzer, a cominciare da quello che il giornale ricevette nel 1918 per i suoi servizi sulla Prima Guerra Mondiale. Ne ha aggiunti altri tre solo l’anno scorso.

In un’epoca in cui è diventato sempre più comune per i lettori vantarsi non di leggere o vedere reportage oggettivi ma piuttosto di consultare fonti “delle due parti”, il Times può essere percepito come la reliquia di un tempo passato, quando vigeva ancora l’ideale della neutralità. Il giornale è stato storicamente soprannominato “La Vecchia Signora”, sia per la sua tradizione di stamparlo solo in bianco e nero – non ha iniziato a includere immagini a colori fino agli anni ’90 – e per una certa etica di prudenza e accuratezza giornalistiche.

Tuttavia, come ha evidenziato Mona Chalabi, una delle giornaliste che ha aggiunto un Pulitzer al giornale lo scorso anno, una delle aree in cui questa reputazione è più difficile da conciliare con la realtà è l’informazione del Times su Israele/Palestina. Poco prima di presentarsi alla cerimonia del Pulitzer a novembre Chalabi ha postato sulla sua pagina Instagram un grafico che fa un bilancio devastante.

Persino mentre il numero di morti palestinesi rende minimo quello degli israeliani – le stime attuali del numero di civili israeliani uccisi il 7 ottobre è di centinaia, mentre decine di migliaia di civili palestinesi sono stati uccisi durante i molti mesi di brutale rappresaglia israeliana – il Times ha destinato molta più attenzione ai morti israeliani. Di fatto, come mostra la tabella, la disconnessione dalla realtà è effettivamente aumentata nello stesso momento in cui i morti palestinesi stavano aumentando in modo esponenziale.

Più di recente la polemica sulla giornalista freeelance del Times Anat Schwartz ha rivelato l’orribile profondità della tendenziosità. Nonostante non abbia esperienza giornalistica, ha fatto parte del piccolo gruppo di reporter designati a coprire una delle vicende più delicate e importanti di cui il Times si è occupato da quando è iniziata la guerra di Israele contro Gaza: le accuse secondo cui Hamas avrebbe sistematicamente utilizzato aggressioni sessuali come arma di guerra durante l’attacco del 7 ottobre. Da allora dettagli fondamentali di questa vicenda si sono dimostrati discutibili, e Schwartz ha evidenziato di essere quanto più lontana si possa immaginare da una giornalista neutrale.

Prima di diventare regista – e, improvvisamente lo scorso anno, giornalista freelance del New York Times — Schwartz ha fatto parte del reparto di intelligence dell’aviazione militare israeliana. E le sue opinioni sul conflitto israelo-palestinese, che sono di dominio pubblico, tendono a un razzismo genocida.

Anat Schwartz e il New York Times

La firma di Schwartz è comparsa, insieme a quelle di suo nipote Adam Sella e dell’esperto giornalista Jeffrey Gettleman, in un articolo intitolato “Urla senza parole: come Hamas ha utilizzato sistematicamente la violenza sessuale il 7 ottobre”. L’articolo è stato scelto per una lode speciale dal direttore esecutivo del Times, Joe Kahn, che in una mail alla redazione ha affermato: “Il gruppo” di Gettleman, Schwartz e Sella ha trattato una vicenda “molto politicizzata e delicata” in “modo sensibile e dettagliato”.

Da allora l’articolo è stato messo sotto accusa per evidenti imprecisioni. In particolare, circa un terzo dell’articolo è stato dedicato fondamentalmente a un solo incidente: il presunto stupro di Gal Adbush, uccisa il 7 ottobre, diventata nota come “la donna vestita di nero” per la sua apparizione in un video che la mostra a terra morta con il corpo in parte denudato. Il video non mostra un’aggressione sessuale, anche se alcuni osservatori l’hanno interpretato come una prova che avrebbe potuto avvenire in precedenza.

Un successivo reportage della pubblicazione progressista ebraica Mondoweiss ha messo in dubbio praticamente ogni elemento di questo articolo:

“Al momento non c’è alcuna traccia del video su internet, nonostante le affermazioni del Times secondo cui “è diventato virale”. Oltretutto la stampa israeliana, benché abbia raccontato centinaia di vicende sulle vittime del 7 ottobre, non ha mai citato “la donna vestita di nero” neppure una volta prima dell’articolo del 28 dicembre. Non sembra che il video di fatto sia diventato il simbolo ampiamente diffuso che il Times sostiene sia. Ma comunque dopo un giorno dalla pubblicazione del reportage sono emersi fatti che smentiscono l’articolo del Times.

In particolare i genitori e i fratelli di Adbush hanno strenuamente smentito l’idea che ci sia una qualche prova del fatto che Gal sia stata stuprata ed hanno manifestato disgusto nei confronti del comportamento dei giornalisti del Times. Non hanno interpretato il video nello stesso modo e dicono che non avrebbero collaborato con l’articolo se avessero saputo che sarebbe stato centrato su queste accuse.

Per essere chiari, niente di quanto detto intende affermare che nessuna donna o ragazza israeliana sia stata violentata il 7 ottobre. Anche se Adbush non è stata una di loro, sarebbe sorprendente se il 7 ottobre fosse la prima volta nella storia dell’umanità che migliaia di soldati infuriati ed esaltati siano stati mandati in territorio nemico per una missione che include l’uccisione e il rapimento a caso di civili senza che nessuno di questi soldati abbia commesso alcuna aggressione sessuale.

Ma la specifica accusa fatta da Schwartz e dai suoi co-autori in “Urla senza parole” è che “le aggressioni contro le donne non sono state eventi isolati ma parte di un modello di comportamento più generale.” È un’accusa estremamente grave e la posta in gioco è molto alta. Un organo informativo con valori etici se ne sarebbe occupato con cautela e avrebbe controllato rigorosamente ogni dettaglio.

La posta in gioco è alta perché la narrazione dello Stato di Israele sugli avvenimenti del 7 ottobre, che ha incluso una pesante insistenza sulle aggressioni sessuali, è stata utilizzata per giustificare atrocità su grande scala. Nel momento in cui scrivo 1,9 milioni dei 2.3 milioni di abitanti di Gaza sono stati espulsi dalle loro case e la fame sta dilagando. Le Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndt.] (IDF) sono state così metodiche nel loro obiettivo di distruggere le infrastrutture civili del territorio che l’ultima università rimasta a Gaza è stata distrutta con una esplosione controllata. Decine di migliaia di civili, tra cui oltre dodicimila bambini, sono stati uccisi. E, con un colpo di scena deprimente ma prevedibile, ci sono prove credibili che le atrocità israeliane abbiano incluso violenze sessuali, il che non sarebbe una novità.

Proprio a causa della gravità dei crimini sessuali e della giustificazione che essi spesso conferiscono ai nemici di chi li ha commessi, è estremamente importante avere una chiara e concreta attendibilità delle prove. Quanto ci vorrà – quanto ci vorrebbe – perché un giornale come il New York Times dichiari che aggressioni sessuali da parte di membri delle IDF sono “non incidenti isolati ma parte di un modello di comportamento più generale?”

È possibile immaginare che il Times assegni un articolo che faccia una simile accusa a un gruppo di tre giornalisti, uno dei quali membro di Hamas senza esperienze giornalistiche che non abbia mai preso le distanze dal suo passato e un altro che sia nipote dell’ex membro di Hamas? Se ciò per qualche ragione avvenisse, potete immaginare che l’articolo poi venga gestito senza verificare accuse cruciali, persino mentre i genitori e fratelli della principale presunta vittima negassero chiaramente che lo stupro fosse avvenuto?

Se potete arrivare con la vostra immaginazione così lontano, aggiungete un dettaglio in più. Immaginate che l’ex membro di Hamas abbia recentemente approvato sulle reti sociali post che chiedono l’uccisione di massa di israeliani, e che lo abbia fatto molto prima che la sua firma apparisse per la prima volta sul Times.

In effetti il più recente cambiamento nella saga di Schwartz è che si è scoperto che lei, prima che il suo lavoro comparisse sul Times, aveva approvato un grottesco post che definiva i palestinesi “animali umani” e chiedeva che Gaza venisse “trasformata in un mattatoio”. Il post proponeva anche che Israele abbandonasse l’idea di “proporzionalità” a favore di una “risposta sproporzionata” e incoraggiava le IDF a “violare ogni regola” per garantire la vittoria.

Perché Chomsky digrigna i denti

Molto chiaramente Schwartz è uno dei sintomi di un problema molto più generale riguardo alla copertura di Israele/Palestina pubblicata dal New York Times. Un indizio di come abbia potuto avvenire viene da uno sguardo più attento sul direttore esecutivo succitato.

Come hanno scritto su Intercept Ryan Grim e Daniel Boguslaw, il padre di Kahn, Leo Kahn, è stato per molto tempo consigliere del Committee for Accuracy in Middle East Reporting and Analysis [Comitato per l’Accuratezza dell’Informazione e dell’Analisi sul Medio Oriente] (CAMERA), che intendeva imporre l’adesione a una linea filo-israeliana nell’informazione dei mezzi di comunicazione “denigrando giornalisti con il cui lavoro era in disaccordo e lanciando campagne di boicottaggio contro organizzazioni di comunicazione che ritiene non rispondano con sufficiente acquiescenza alle sue richieste.” E, secondo lo stesso profilo di Joe Kahn pubblicato dal Times quando è diventato direttore esecutivo del giornale nel 2022, padre e figlio “spesso ‘hanno analizzato insieme l’informazione giornalistica’”. Mentre il Times nega che CAMERA abbia una particolare influenza sulle sua informazione, Grim e Boguslaw notano che il livello di adesione del giornale alle continue richieste di CAMERA” è “in sorprendente contrasto con la sua tradizionale resistenza a correggere i propri articoli.”

Né, osservano, questo è l’unico rapporto familiare che suscita serie domande riguardo alla capacità del giornale di informare su Israele/Palestina in accordo con la sua aura di pesante integrità giornalistica. “Nel corso degli ultimi 20 anni i figli di tre giornalisti del Times si sono arruolati nelle IDF mentre i genitori coprivano questioni riguardanti il conflitto israelo-palestinese,” notano gli autori di Intercept.

Tuttavia sotto la superficie di questi strati di tendenziosità antipalestinese potrebbe esserci una questione più profonda e più semplice. Come hanno sostenuto Noam Chomsky e il defunto coautore Edward Herman in Manufacturing Consent [La fabbrica del consenso. La politica e i mass media, Il Saggiatore, 2014], uno dei pregiudizi caratteristici dei mezzi di comunicazione più importanti in generale – di cui il New York Times è stato emblematico molto prima dell’inizio di questi recenti drammatici conflitti di interesse – sono state la profonda deferenza e l’affinità ideologica rispetto alla sicurezza nazionale statunitense.

Questo era vero per come hanno informato sulla guerra del Vietnam quando i presidenti Lyndon B. Johnson e Richard Nixon bombardavano a tappeto quel Paese per reprimere una rivoluzione contadina. Lo era nella guerra contro l’Iraq, quando il Times pubblicò acriticamente le menzogne dell’amministrazione di George W. Bush sulle “armi di distruzione di massa”. Non dovremmo sorprenderci di scoprire che è vero riguardo a Gaza, dove il massacro di massa e l’espulsione di civili vengono portati avanti con fondi e armi americani.

Questa dinamica ha ispirato una classica storiella riguardo a una visita di Chomsky dal dentista. Come raccontato da Gore Vidal e Christopher Hitchens, il dentista disse a Chomsky: “I tuoi denti sono a posto, ma devi smettere di digrignarli.” Chomsky smentì di digrignare i denti, e il dentista gli garantì che lo faceva, come evidenziato dal fatto che il suo smalto era consumato. Era presente la moglie di Chomsky, che assicurò al dentista che Noam non digrignava i denti di notte mentre dormiva. In seguito la coppia capì. Noam digrignava i denti quando la signora Chomsky era fuori dalla stanza mentre lui beveva il suo caffè mattutino “e leggeva il New York Times.

Collaboratore

Ben Burgis è editorialista di Jacobin, docente di filosofia a contratto alla Rutgers University e conduttore del programma e podcast di YouTube Give Them An Argument [Date loro un argomento]. E’autore di vari libri, il più recente dei quali è Christopher Hitchens: What He Got Right, How He Went Wrong, and Why He Still Matters [Christopher Hitchens: quello che ha fatto bene, come si è sbagliato e perché è ancora importante. Hitchen è stato un intellettuale e giornalista britannico naturalizzato statunitense originariamente trotzkista e passato poi a posizioni di destra, ndt.].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Coloni israeliani entrano a Gaza per fondare un avamposto ‘simbolico’

Oren Ziv

1 marzo 2024 – +972 Magazine

Decine di coloni e attivisti di destra hanno assaltato il valico di Erez e costruito due strutture di legno senza che soldati e polizia intervenissero.

Ieri pomeriggio oltre 100 israeliani hanno assaltato il valico di Erez nel nord di Gaza nel più significativo tentativo di ristabilire colonie ebraiche nella Striscia dall’inizio della guerra. Un gruppetto è riuscito a penetrare a Gaza per parecchie centinaia di metri prima di essere intercettato da soldati israeliani, mentre circa altri 20 sono entrati nell’area fra i due muri che costituiscono la barriera che cinge la Striscia. Là hanno stabilito un “avamposto” nello stile che si vede comunemente in Cisgiordania, costruendo per parecchie ore senza interventi da parte di esercito o polizia. 

Dai primi momenti della guerra è stato chiaro che i politici israeliani di destra e i leader dei coloni hanno percepito l’opportunità di cambiare radicalmente lo status quo in Israele-Palestina. Per mesi ci sono state richieste sempre più pressanti, non ultima a gennaio in un’importante conferenza a Gerusalemme in cui alti funzionari hanno presentato i loro piani per rioccupare Gaza, spesso mentre si chiedeva contestualmente di espellere dalla Striscia i suoi 2.3 milioni di abitanti palestinesi. In parallelo attivisti di destra, quasi tutti giovani, hanno cominciato regolarmente a dimostrare contro l’ingresso di aiuti umanitari nella Striscia nei pressi della recinzione di Gaza. Tuttavia l’azione di ieri ha marcato un nuovo picco nelle loro attività. 

Verso le 14 gli attivisti hanno cominciato a riunirsi in una stazione ferroviaria a Sderot, città nel sud di Israele vicino a Gaza. In quel punto di incontro iniziale per quella che era ufficialmente una “protesta” per rendere onore a Harel Sharvit, un colono ucciso mentre prestava servizio a Gaza, l’atmosfera era calma, persino sonnolenta. Un’auto della polizia è passata nei pressi senza reagire a quanto stava avvenendo. Da qui gli attivisti si sono mossi in auto private verso il checkpoint di Erez, l’unico valico civile fra Israele e la Striscia di Gaza, classificato dall’esercito israeliano come “zona militare chiusa” da quando è stata brevemente occupata dai palestinesi nel corso dell’attacco guidato da Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre. 

Arrivati vicino al posto di blocco gli attivisti sono usciti dalle loro auto e hanno iniziato una manifestazione. A questo punto hanno incontrato un altro convoglio di veicoli pieni di “giovani delle colline”, giovani coloni violenti che regolarmente stabiliscono nuovi avamposti in Cisgiordania e attaccano i palestinesi per costringerli a lasciare le loro terre. Almeno due di loro erano armati di fucili come quelli usati dall’esercito, e hanno portato materiali da costruzione per erigere un avamposto. 

A un certo punto alcuni di loro hanno cominciato a correre verso il posto di blocco e sono riusciti ad attraversarlo non ostacolati dai pochi soldati presenti incapaci di fermarli. Nello spazio fra i due muri che circondano la Striscia circa una ventina di loro ha cominciato a erigere due strutture usando i materiali che avevano portato: assi e pali di legno e lamiere di ferro per i tetti. Nel frattempo un gruppetto di giovani coloni è penetrata di corsa ancora più dentro Gaza, sempre senza che i soldati glielo impedissero.

Le radio dei soldati hanno ricevuto il messaggio che un certo numero di persone era entrato a Gaza e sono stati mandati jeep militari e persino due carri armati per cercarli. Circa mezz’ora dopo una jeep militare ha riportato i giovani sul lato israeliano del valico senza arrestarli. Sono usciti dalla jeep fra gli applausi degli altri attivisti, unendosi al gruppo più grande che cantava “È nostra.”

Per parecchie ore chi era arrivato nello spazio fra i due muri ha continuato senza impedimenti a costruire l’avamposto che hanno chiamato New Nisanit, come una delle colonie di Gaza abbandonate come parte del “disimpegno” del 2005. Come in Cisgiordania i soldati sono rimasti nei pressi a offrire protezione invece di cercare di fermarli.

Questo è il nostro Paese’

Amiel Pozen e David Remer, entrambi diciottenni, sono due dei coloni che sono riusciti a penetrare per circa 500 metri entro Gaza. Dopo essere stati prelevati e riportati al posto di blocco dall’esercito israeliano hanno parlato con +972

Non avevamo paura di entrare (a Gaza), il Santo è con noi e le Forze di difesa israeliane erano lì per aiutarci,” ha detto Remer. “Noi siamo venuti qua (perché) vogliamo tornare a casa. Io vivo in una comunità di deportati da Gush Katif (blocco di insediamenti ebraici a Gaza sfollato nel 2005) e abbiamo voluto ritornarci. Dopo tutto quello che è successo non c’è dubbio che dobbiamo ritornarci. 

La sensazione è molto bella, come tornare a casa,” ha continuato Remer. “È nostra. Il Santo, che Egli sia benedetto, ha detto che è nostra. Se non ci saremo noi sappiamo cosa ci sarà.”

Pozen ha aggiunto: “Siamo venuti in rappresentanza dell’intera popolazione, del popolo ebraico. Noi vogliamo ritornare in tutta la Terra di Israele, in tutte le parti della nostra Terra Santa. Non ci sono ‘due stati per due popoli’, è sbagliato. Il popolo di Israele appartiene alla Terra di Israele.”

Riguardo alla possibilità di persuadere il governo a sostenere il reinsediamento a Gaza Pozen ha affermato: “Vorrei che il governo capisse (ciò che) la maggioranza delle persone ha già capito: noi siamo qui. È nostra. Non ci sono ostacoli politici o internazionali. Non dobbiamo tenere nessun altro in considerazione. È una questione interna. Dobbiamo andare a Gaza, distruggere tutti i terroristi là e costruirvi noi.”

Un altro dei coloni fermati dall’esercito dopo essere penetrato in profondità dentro Gaza ha mostrato ai suoi amici sul cellulare la foto di una pianta di fragole in un orto palestinese dicendo: “Guardate com’è bello il Paese.”

Nel corso della serata i giovani coloni hanno continuato ad aggirare l’esercito e a correre verso l’avamposto. Molti l’hanno fatto strisciando in un buco nella recinzione probabilmente creato durante gli eventi del 7 ottobre, finché i soldati non hanno portato un bulldozer per chiuderlo con del terriccio.

Molti dei giovani erano delle stesse organizzazioni che hanno passato parecchie delle scorse settimane cercando, spesso senza successo, di impedire agli aiuti umanitari di raggiungere Gaza. Ai loro occhi c’è un legame fra il trattenimento degli aiuti per i palestinesi e la rifondazione di colonie ebraiche a Gaza: entrambi sono visti come un mezzo per ottenere una “vittoria” decisiva.

Mechi Fendel, un’attivista di destra di Sderot, ha detto a +972: “Siamo venuti qui ad affermare che il giorno dopo la fine della guerra dobbiamo insediarci ed espandere le città ebraiche su tutta la Striscia di Gaza. Perché se non lo facessimo diventerà come un nido di vespe. Non si può lasciare un vuoto. Non c’è motivo per volere che si ripeta. Io vivo a un chilometro dalla Striscia di Gaza. Non posso avere dei terroristi come vicini e il 7 ottobre ci hanno fatto vedere di cosa sono veramente capaci.”

Per quanto riguarda la costruzione di un avamposto vicino alla recinzione ha spiegato: “Far vedere che abbiamo costruito due case è un atto simbolico. Sono venuti con queste grosse assi di legno e in pratica hanno costruito due strutture qui nella Striscia di Gaza. Naturalmente è simbolico perché non ci passeranno la notte. Ma il punto è: qui è dove dobbiamo stare. Questo è il nostro Paese. Non possiamo lasciare disabitata un’intera striscia di terra.”

E cosa succederebbe ai palestinesi di Gaza se si stabilissero delle colonie ebraiche? “Se sono disposti ad accettare la giurisdizione israeliana, a lasciarci entrare e controllare il loro sistema educativo e aiutarli finanziariamente, allora, se sono pacifici, lasciamoli stare,” ha sostenuto Fendel. “Fino ad ora non ho mai trovato un palestinese che sia pacifico. Come ho scritto, i lavoratori palestinesi (che lavorano in Israele) per decine di anni sono diventati terroristi in un secondo.

Penso che il governo quando vedrà che noi siamo con loro, che il popolo lo vuole, sarà d’accordo,” ha continuato. “Perché neanche il governo vuol vedere nascere un nido di vespe. Penso che se noi abbiamo le persone e la volontà e facciamo vedere di essere là, siamo coraggiosi e vogliamo farlo, il governo ci aiuterà.”

Prima gli assalti dei soldati, adesso dei coloni’

Le dinamiche hanno ricordato le tipiche scene in Cisgiordania, con i coloni a cui viene data la libertà di azione mentre i soldati restano a guardare nonostante siano in una zona militare chiusa e alcuni di loro entrino persino in una zona di combattimento. Si sono visti alcuni dei soldati abbracciare gli attivisti. Un soldato ha detto a +972 che loro li sostengono e che il problema sono “i media che vogliono azione per filmare i soldati che picchiano ebrei.”

Anche se i soldati hanno l’autorità di sottoporre a fermo dei cittadini israeliani, e lo hanno fatto con giornalisti e altri civili che negli ultimi mesi si sono avvicinati alla recinzione, invariabilmente evitano di trattenere coloni che infrangono la legge in Cisgiordania, e è successo anche ieri. Uno degli attivisti, che ha detto a +972 di essere un soldato non in servizio che portava la sua arma militare su abiti civili, ha riferito di aver lasciato prima l’area perché i soldati l’hanno avvisato che l’avrebbero “buttato fuori dall’esercito.”

 I soldati parlano con calma con gli attivisti, fra cui il ben noto Baruch Marzel, un kahanista [seguace del defunto rabbino estremista Meir Kahane ndt.] arrivato in un momento successivo. “Sono come i soldati che hanno fatto irruzione [a Gaza], adesso sono loro (i giovani coloni) a fare irruzione,” dice Marzel a uno dei soldati. 

Più tardi, mentre se ne stavano andando, Marzel ha detto a +972 che l’azione gli ha ricordato “la prima colonia a Sebastia”, un villaggio vicino a Nablus, in Cisgiordania, dove circa 50 anni fa un gruppo di coloni del movimento Gush Emunim (Blocco dei Fedeli) [movimento dei coloni nazional-religiosi sorto nel 1974, ndt.] tentò di stabilire una colonia ebraica sfidando i tentativi del governo di cacciarli fino a quando non cedette. Egli aggiunge che il problema principale per lui non è insediarsi a Gaza, ma deportare i palestinesi in “tutti i Paesi che li sostengono.” 

Un funzionario della sicurezza presente sulla scena ha espresso a +972 il suo disappunto su come gli attivisti siano riusciti ad attraversare con tale facilità il posto di blocco. “Se sono riusciti a entrare a Gaza ciò significa che anche (i palestinesi) possono entrare dalla direzione opposta,” ha detto. 

Funzionari di polizia arrivati sul posto si sono comportati con la stessa indifferenza dei soldati. Sembrava non avessero fretta di intervenire e all’inizio hanno arrestato solo uno dei manifestanti. Dopo il tramonto, verso le 19, alcuni attivisti hanno cominciato ad andarsene e in seguito il resto è poi stato disperso dalla polizia. La scorsa notte un totale di nove persone è stato arrestato e portato a una stazione di polizia.

La scorsa notte, in risposta alle domande di +972, un portavoce della polizia ha dichiarato: “Le forze della polizia israeliana sono state chiamate nel pomeriggio vicino al valico di Erez in seguito all’arrivo di manifestanti e alla penetrazione di un gruppetto nella Striscia di Gaza attraverso la recinzione, violando l’ordine di un generale. Alla luce di un pericolo reale per le vite dei manifestanti le forze di polizia sono state costrette ad agire nel territorio della Striscia di Gaza dove alcuni di loro li hanno affrontati e si sono rifiutati di andarsene, non lasciando alla polizia altra scelta che arrestarne nove per aver violato l’ordine di un generale e non aver (obbedito) a un ufficiale di polizia.

I manifestanti sono stati portati a una stazione di polizia per essere interrogati, dopo di che si deciderà chi di loro verrà deferito domani alla Corte di Appello per discutere la loro causa.” Oggi la polizia non ha risposto a un’altra richiesta di informazioni circa quali degli arrestati siano stati accusati, ma sembra che siano stati tutti rilasciati la scorsa notte.

Oren Ziv è una fotogiornalista e reporter di Local Call e fra i fondatori del collettivo di fotografi Activestills.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Guerra a Gaza: Il “massacro” israeliano uccide oltre 100 palestinesi in cerca di cibo a Gaza City

Mohammed al-Hajjar a Gaza City, Palestina occupata e Nader Durgham a Beirut

29 febbraio 2024 Middle East Eye

I testimoni raccontano a MEE di essere stati attaccati indiscriminatamente mentre si concentravano intorno a un convoglio di aiuti.

Almeno 104 palestinesi sono stati uccisi e altre centinaia sono stati feriti giovedì quando le forze israeliane hanno sparato contro le persone che si trovavano presso un convoglio di aiuti in al-Rasheed Street a Gaza City, ha dichiarato il Ministero della Sanità palestinese, definendo l’incidente un “massacro”. I residenti di Gaza City si erano riuniti in cerca di cibo, avendo le forze israeliane tagliato fuori completamente l’area dagli aiuti. Le ONG e gli esperti delle Nazioni Unite hanno espresso il timore di una carestia nel nord di Gaza e ci sono state segnalazioni di persone, tra cui bambini, morte di fame. Fares Afana, capo del servizio ambulanze dell’ospedale Kamal Adwan di Gaza, ha detto che i medici hanno trovato “decine o centinaia” di corpi stesi a terra appena giunti sul posto.

Ha detto che alcuni feriti hanno dovuto essere trasportati negli ospedali su carri trainati da asini, poiché non c’erano abbastanza ambulanze per accogliere tutti i morti e i feriti.

Gli ospedali nel nord di Gaza, la maggior parte dei quali sono fuori uso a causa dei ripetuti attacchi israeliani, non sono in grado di gestire il grande afflusso di pazienti.

Ahmad, un 31enne che ha fornito solo il suo nome di battesimo, ha raccontato a Middle East Eye che i camion degli aiuti hanno raggiunto la strada alle 4 del mattino e che le forze israeliane hanno sparato contro le persone che cercavano di raggiungere il convoglio. Ahmad è stato colpito al braccio e alla gamba.

“Gli spari sono stati indiscriminati, la gente è stata colpita alla testa, ai piedi, allo stomaco”, ha detto. Un uomo è stato ucciso e travolto da un carro armato. “L’esercito israeliano ha accusato i palestinesi di essere responsabili di una calca di massa, affermando che: “I residenti hanno circondato i camion e hanno saccheggiato i rifornimenti consegnati. A causa delle spinte, dei calpestamenti e dell’investimento dei camion, decine di gazawi sono rimasti uccisi e feriti”. I video dall’alto mostrano la disperazione dei palestinesi accalcati intorno ai camion. Tuttavia, oltre alle testimonianze, i filmati mostrano chiaramente che durante l’incidente sono stati esplosi pesanti colpi d’arma da fuoco.

Fonti israeliane hanno riferito all’Agenzia France Press che le truppe hanno sparato contro i palestinesi, e una di esse ha detto che i soldati ritenevano che la folla “rappresentasse una minaccia”. Kamel Abu Nahel, il cui piede è stato travolto da uno dei camion, ha detto: ” Se volete mandare gli aiuti in questa maniera, non inviateli.” “Stiamo morendo per avere la farina per i nostri figli”, ha aggiunto. L’attacco arriva mentre il bilancio dei morti palestinesi nella guerra ha superato i 30.000, secondo il Ministero della Sanità palestinese. Reagendo all’attacco, da Oxfam hanno detto di essere “sconvolti” dalle notizie. “Israele prende deliberatamente di mira i civili dopo averli affamati [ed] è una grave violazione delle leggi umanitarie internazionali e della nostra umanità”, ha detto il gruppo di aiuto internazionale. “Il rischio di genocidio è reale.”

Ammar Helo, un palestinese di 30 anni sopravvissuto all’attacco, ha dichiarato a MEE che continuerà a scendere in strada ogni volta che arriveranno i camion degli aiuti, nonostante rischi la sua vita: “Non abbiamo pane, non abbiamo farina, abbiamo mangiato cibo per gli animali”, ha detto. I sopravvissuti hanno raccontato a MEE che anche il cibo per animali si sta esaurendo nel nord. “Giuro che tutta Gaza è distrutta, giuro che un terremoto divino sarebbe stato meglio”.

(Traduzione dall’inglese di Carlo Tagliacozzo)




Israele ha facilitato la crescita di Hamas, dichiara Borrell dell’Unione Europea

Redazione di Middle East Monitor

27 febbraio 2024 – Middle East Monitor

Lunedì il responsabile degli Affari Esteri dell’Unione Europea [UE] Josep Borrell ha affermato che negli anni 80 con le sue politiche Israele ha agevolato la crescita di Hamas. Egli ha criticato Israele in un discorso tenuto ad un forum organizzato presso una università a Madrid.

Io non direi che [Israele] ha finanziato [Hamas] inviando un assegno,” ha spiegato Borrell, “ma ha consentito la crescita di Hamas” come rivale del partito egemone palestinese Fatah. Egli ha ripetuto la sua dichiarazione, fatta nelle ultime settimane secondo cui “Israele ha creato e finanziato Hamas.”

È una “realtà incontestabile”, ha aggiunto il funzionario della UE, che Israele ha scommesso sulla divisione dei palestinesi, creando una forza da opporre a Fatah. Egli ha affermato che si stava riferendo alla ben nota dichiarazione che il primo ministro Benjamin Netanyahu ha reso pubblicamente davanti alla sua coalizione parlamentare, in cui ha affermato che chiunque si opponga alla soluzione a due Stati deve agevolare il finanziamento di Hamas.

Borrell ha ripetuto il suo supporto per la soluzione a due Stati in base alla quale lo Stato palestinese sarebbe riconosciuto e ha criticato Israele perché si oppone a questa soluzione, ma non ha proposto alcuna alternativa. Ha fatto presente che tutti sembrano essere d’accordo sulla soluzione a due Stati, tranne che il governo Netanyahu, che ha cercato di impedire la realizzazione di questa soluzione per 30 anni.

Descrivendo la risposta militare israeliana a Gaza come “sproporzionata” perché sta causando un eccessivo numero di vittime civili, Borrell ha insistito sul fatto che la sua dichiarazione non è “anti-ebraica”.

Da ottobre Israele sta combattendo una devastante guerra genocida contro la Striscia di Gaza. Ha ucciso e ferito più di 100.000 palestinesi, la maggior parte dei quali minori e donne, e ha creato una catastrofe umanitaria senza precedenti e una estesa distruzione delle infrastrutture civili, portando lo stato di occupazione ad affrontare la Corte Internazionale di Giustizia per accuse di genocidio.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)