I palestinesi condannano la mossa di Israele di inviare vaccini all’estero

Linah Alsaafin

25 febbraio 2021 – Al Jazeera

Il ministro degli esteri dell’Autorità Nazionale Palestinese denuncia l’invio di vaccini da parte di Israele agli alleati stranieri come “ricatto politico”.

L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha condannato in quanto “iniziativa immorale” l’impegno da parte di Israele di inviare vaccini contro il coronavirus a Paesi lontani ignorando i cinque milioni di palestinesi che vivono a pochi chilometri di distanza sotto la sua occupazione militare.

Giovedì l’Honduras ha ricevuto da Israele la prima spedizione di vaccini contro il COVID-19, dopo che i media israeliani avevano riferito all’inizio di questa settimana l’intenzione del governo di inviare vaccini al Paese centroamericano, oltre che a Guatemala, Ungheria e Repubblica Ceca.

Il Guatemala ha seguito la discutibile decisione degli Stati Uniti di trasferire lo scorso anno la propria ambasciata a Gerusalemme, mentre l’Honduras ha promesso di fare lo stesso.

L’Ungheria ha aperto a Gerusalemme un ufficio per le missioni commerciali e anche la Repubblica Ceca si è impegnata ad aprire uffici diplomatici in quella città.

Il ministro degli Affari Esteri dell’ANP, Riyad al-Malki, ha detto che la decisione di Israele di fornire vaccini ad alcuni Paesi in cambio di concessioni politiche è una forma di “ricatto politico e un’iniziativa immorale”.

Giovedì in un’intervista all’emittente radio Voice of Palestine [stazione radio con sede a Ramallah, filiale della Palestinian Broadcasting Corporation sotto il controllo dell’ANP, ndtr.] al-Malki ha detto che la decisione “conferma l’assenza di principi morali e di valori” da parte di Israele.

Condurremo una campagna internazionale per combattere un tale sfruttamento dei bisogni umanitari di questi Paesi”, ha affermato.

I casi di coronavirus nella Gerusalemme Est occupata, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza sono arrivati a più di 203.000. Almeno 2.261 persone sono morte a causa del virus e mercoledì la ministra della Salute dell’Autorità Nazionale Palestinese Mai al-Kaila ha affermato che il numero di casi di coronavirus è in forte aumento.

“Il numero di test positivi ha superato il 20% nella Cisgiordania occupata e il 9% nella Striscia di Gaza”, ha detto a una stazione radio locale.

Al-Kaila ha aggiunto che il tasso di ospedalizzazione nella Cisgiordania occupata è dell’80%, il più alto dall’inizio della pandemia.

Il potere persuasivo del vaccino

Yara Asi, una ricercatrice presso l’Università della Florida centrale, esperta di salute e sviluppo negli Stati colpiti da conflitti, ha denunciato il potere persuasivo del vaccino israeliano.

L’uso della promessa del farmaco salvavita per fare pressione sui Paesi in via di sviluppo perché spostino ambasciate o prendano altre complesse decisioni politiche è cinismo politico ad altissimo livello“, ha detto ad Al Jazeera.

“Queste operazioni consentono inoltre a Israele di fornire alcuni vaccini ai palestinesi sotto l’egida della ‘generosità‘, offuscando ulteriormente i loro doveri legali in qualità di potenza occupante e trattando la Palestina come se fosse solo un altro Paese povero che ha bisogno di aiuto, e non un territorio in cui Israele esercita un controllo economico e politico quasi totale”.

In base alla Quarta Convenzione di Ginevra Israele, in quanto potenza occupante, deve garantire “l’adozione e l’applicazione delle misure di profilassi e prevenzione necessarie per combattere la diffusione di malattie contagiose ed epidemie”.

Funzionari delle Nazioni Unite e organizzazioni a favore dei diritti umani hanno affermato che Israele è una potenza occupante responsabile del benessere dei palestinesi. Israele ha sostenuto di non avere tali obblighi sulla base degli accordi di pace ad interim degli anni ’90.

[Israele] in poco meno di due mesi ha già fornito dosi di vaccino a più della metà dei suoi 9,3 milioni di abitanti, divenendo leader mondiale nella campagna di vaccinazione delle popolazioni. Tuttavia, nonostante abbia annunciato il mese scorso che avrebbe consegnato 5.000 dosi di vaccino all’Autorità Nazionale Palestinese, finora ne sono state ricevute solo 2.000.

Inoltre, dopo che in un primo tempo Israele ha bloccato una spedizione del vaccino russo destinato alla Striscia di Gaza, l’enclave costiera sotto assedio ha ricevuto la scorsa settimana 1.000 vaccini Sputnik a doppia somministrazione.

[Gaza] ha ricevuto separatamente dagli Emirati Arabi Uniti 22.000 vaccini Sputnik, ma gli operatori sanitari di Gaza hanno affermato di aver bisogno di 2,6 milioni di dosi per vaccinare tutte le persone di età superiore ai 16 anni.

“La selezione da parte di Israele dei Paesi da aiutare se vi vede un vantaggio politico è qualcosa di completamente diverso”, dice Asi.

“Fare ciò mentre i palestinesi anziani e ad alto rischio che vivono letteralmente a qualche chilometro di distanza aspettano i vaccini che per la maggior parte dei palestinesi non arriveranno nè nell’arco dei prossimi mesi nè addirittura nel 2021 rappresenta un disprezzo palese per i cinque milioni di persone che vivono sotto l’occupazione israeliana da più di 50 anni.”

Il senatore americano Bernie Sanders ha condannato l’iniziativa di Israele di inviare vaccini ad altri Paesi politicamente allineati prima di distribuirli ai palestinesi.

“In quanto potenza occupante Israele è responsabile della salute di tutte le persone sotto il suo controllo”, ha twittato mercoledì Sanders. “È vergognoso che [il primo ministro israeliano] Netanyahu utilizzi vaccini di scorta per ricompensare i suoi alleati stranieri mentre tanti palestinesi nei territori occupati stanno ancora aspettando.

“Non politicamente vantaggioso”

Sono state sollevate obiezioni anche all’interno del governo israeliano, ma le questioni sono incentrate sugli aspetti tecnici piuttosto che sull’obbligo di dare la priorità alla vaccinazione dei palestinesi sotto l’occupazione israeliana.

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, il ministro della Difesa Benny Gantz avrebbe chiesto al primo ministro Benjamin Netanyahu di interrompere immediatamente il processo di invio di vaccini contro il coronavirus in Paesi stranieri e di consultare il consiglio di sicurezza prima di prendere tali decisioni.

“I vaccini sono di proprietà dello Stato di Israele e quando hai sostenuto che ‘sono state raccolte dosi di vaccino inutilizzate’, mentre la maggior parte della popolazione di Israele non è stata ancora vaccinata con la seconda dose, hai detto il falso”, ha sostenuto Gantz in una lettera a Netanyahu, al consigliere per la sicurezza nazionale e al procuratore generale.

Netanyahu, che il 23 marzo è in lizza per la rielezione, ha messo in gioco il suo successo politico sulla riuscita della campagna di vaccinazione in Israele.

Asi sottolinea che il programma COVAX sostenuto dalle Nazioni Unite – progettato per fornire i vaccini ai Paesi più poveri contemporaneamente ai Paesi ricchi – è fondamentale per porre fine a questa pandemia, ma agisce su un piano di “equità e di non discriminazione”.

“In sostanza il messaggio è che fornire vaccini ai palestinesi non è politicamente abbastanza vantaggioso da costituire una priorità“, spiega.

“E Netanyahu ha scommesso sul fatto che, a solo un mese di distanza da difficili elezioni, vale la pena resistere alla condanna internazionale che Israele sta ricevendo per aver ignorato i palestinesi a vantaggio dei propri interessi politici”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Rapporto OCHA del periodo 2 – 15 febbraio 2021

Il 5 febbraio, vicino al villaggio di Ras Karkar (Ramallah, nei pressi di un insediamento colonico avamposto [cioè, non autorizzato dal Governo israeliano] di nuova costruzione, un colono israeliano ha sparato, uccidendo un palestinese 34enne che, secondo fonti militari israeliane, aveva cercato di entrare in una casa dell’avamposto. Successivi scontri a Ras Karkar, villaggio di provenienza dell’uomo, hanno provocato il ferimento di un palestinese e di un soldato israeliano. A Nuba (Hebron), un altro palestinese 25enne è rimasto ucciso dall’esplosione di un ordigno rinvenuto nei pressi della sua casa.

In vari scontri avvenuti in Cisgiordania, sono rimasti feriti settantuno palestinesi e quattro soldati israeliani [seguono dettagli]. Trenta dei palestinesi feriti sono stati curati per aver inalato gas lacrimogeno durante una protesta svolta il 12 febbraio ad Humsa – Al Bqai’a, contro demolizioni e confische. Altri ventisette palestinesi sono rimasti feriti durante proteste: contro la realizzazione di tre insediamenti colonici avamposti su terra palestinese in Kafr Malik, Deir Jarir, Ras at Tin, Al Mughayyir (in Ramallah); contro la realizzazione di un altro [insediamento avamposto] su terreni palestinesi in Beit Dajan (Nablus); contro l’espansione degli insediamenti colonici a Kafr Qaddum (Qalqiliya). Sette palestinesi sono rimasti feriti negli scontri scoppiati durante operazioni di ricerca-arresto condotte nei Campi profughi di Ad Duheisha (Betlemme) e di Jenin, e nel villaggio di Jaba (sempre a Jenin). Altri tre sono rimasti feriti nell’area di Jenin mentre, a quanto riferito, tentavano di entrare in Israele attraverso varchi nella Barriera. Due [palestinesi] sono rimasti feriti ad Al Lubban ash Sharqiya (Nablus), in seguito all’intervento delle forze israeliane richiamate da scontri tra palestinesi e coloni; altri due, vicino al villaggio di Silwad (Ramallah), in circostanze non ancora chiare. Cinquantuno dei feriti sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeni, dieci sono stati colpiti da proiettili di gomma, sei sono stati colpiti da proiettili di armi da fuoco ed i restanti sono stati aggrediti fisicamente o colpiti da bombolette lacrimogene. Quattro soldati israeliani sono rimasti feriti a Beituniya (Ramallah), durante un’operazione di ricerca-arresto.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 186 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 172 palestinesi. I governatorati di Gerusalemme, Ramallah ed Hebron sono stati i più coinvolti (in media 28 operazioni ciascuno). In uno degli episodi, accaduto a Hebron, forze israeliane hanno fatto irruzione nel municipio arrestando i dipendenti al lavoro per il turno di notte; sarebbero stati rotti mobili e porte.

A Gaza, vicino alla recinzione israeliana del suo perimetro o in mare, al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 28 occasioni, presumibilmente per far rispettare le restrizioni di accesso [imposte ai palestinesi]. In altre tre occasioni, sempre vicino alla recinzione, le forze israeliane hanno svolto operazioni di spianatura del terreno.

Dopo una chiusura di oltre due mesi, il 1° febbraio, il valico egiziano di Rafah, al confine con Gaza, è stato aperto per quattro giorni consecutivi, in entrambe le direzioni. Il 9 febbraio, le autorità egiziane hanno annunciato che il valico rimarrà aperto in entrambe le direzioni, a tempo indeterminato. Dall’inizio di febbraio sono state registrate 6.373 uscite [da Gaza] e 3.520 ingressi.

Citando la mancanza di permessi di costruzione, sono state demolite o sequestrate 89 strutture di proprietà palestinese, sfollando 146 persone, di cui 83 minori, e creando ripercussioni su almeno 330 [seguono dettagli]. Il 3 e l’8 febbraio, nella Comunità Humsa – Al Bqai’a nella Valle del Giordano, le autorità israeliane hanno demolito 37 strutture, la maggior parte delle quali erano state donate. In ciascuno dei due episodi sono state sfollate sessanta persone, inclusi 35 minori. Questa Comunità, dislocata prevalentemente in un’area destinata all’addestramento militare israeliano, negli ultimi mesi ha subito molteplici demolizioni di massa. Una dichiarazione delle Nazioni Unite, rilasciata il 5 febbraio, ha denunciato che la pressione esercitata sulla Comunità per indurla ad abbandonare il luogo, costituisce un reale rischio di trasferimento forzato. A sud di Hebron, nelle Comunità di Ar Rakeez, Umm al Kheir e Khirbet at Tawamin, sono state sequestrate sette strutture, comprese latrine mobili, compromettendo le condizioni di vita e il sostentamento di 80 persone. Inoltre, ad Al Jalama (Jenin), i mezzi di sussistenza di circa 70 persone sono stati colpiti dalla demolizione di 13 bancarelle adibite alla vendita di bevande. A Gerusalemme Est, sono state demolite sette strutture, di cui quattro ad opera degli stessi proprietari per evitare costi aggiuntivi; una famiglia di quattro persone è stata sfollata.

Inoltre, nel villaggio di Tura al Gharbiya (Jenin), le autorità israeliane hanno demolito, a scopo punitivo, una casa, sfollando 11 persone, tra cui quattro minori. La casa apparteneva alla famiglia di un palestinese accusato di aver ucciso, a dicembre [2020], una donna israeliana. L’anno scorso, con le stesse motivazioni, sono state demolite sette strutture.

Secondo il Ministero dell’Agricoltura palestinese, le autorità israeliane hanno sradicato 1.000 alberelli vicino alla città di Tubas. Erano stati piantati in risposta allo sradicamento di migliaia di alberi, avvenuto il mese scorso nella stessa area, sulla base del fatto che la terra è stata dichiarata [da Israele] “Terra di Stato”.

Coloni israeliani, o persone ritenute tali, hanno ferito quattro palestinesi, compreso un minore, ed hanno danneggiato proprietà palestinesi, compresi alberi [seguono dettagli]. Tre palestinesi sono stati aggrediti fisicamente nel villaggio di Al Lubban ash Sharqiya (Nablus), in due separati scontri con coloni israeliani, mentre un 13enne è stato aggredito fisicamente nell’area di Hebron controllata da Israele (H2). Nel villaggio di Susiya (Hebron), un volontario straniero è stato colpito con pietre e ferito e, nel villaggio di As Samu, altri volontari stranieri e locali sono stati attaccati e derubati da persone ritenute coloni. Secondo fonti palestinesi, oltre 130 ulivi e alberelli sono stati sradicati o abbattuti nelle comunità di Khirbet Sarra (Nablus), Bruqin e Kafr ad Dik (Salfit), in At Tuwani e Bir al ‘Idd (Hebron) e in Al Janiya (Ramallah). A Bruqin sono stati rubati circa 180 pali da recinzione. Inoltre, a Beit Dajan è stata danneggiata una struttura agricola e a Qusra (entrambi a Nablus) è stato dato alle fiamme un veicolo. Un altro veicolo che transitava vicino all’insediamento di Bet El (Ramallah) è stato colpito con pietre e danneggiato. A Qawawis, un pastore ha riferito della morte di sette sue pecore a causa di una sostanza velenosa che egli ritiene sia stata spruzzata da coloni del vicino insediamento di Mitzpe Yair, i quali, egli dice, lo hanno ripetutamente attaccato mentre pascolava le sue pecore. In un altro episodio avvenuto nella zona di Ein ar Rashrash (Ramallah), un pastore ha riferito che un veicolo, verosimilmente guidato da coloni, aveva investito ed ucciso due delle sue pecore. Secondo quanto riferito, a Gerusalemme Est, autori ritenuti coloni israeliani avrebbero danneggiato una telecamera di sorveglianza e una serratura nella chiesa ortodossa rumena.

Secondo fonti israeliane, due israeliani, una ragazza di 14 anni e una donna, in viaggio sulle strade della Cisgiordania, sono stati feriti da autori ritenuti palestinesi. A quanto riferito, trenta veicoli israeliani sono stati danneggiati, prevalentemente colpiti da pietre.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 16 febbraio, nella Comunità beduina di Humsa – Al Bqai’a, nella valle del Giordano settentrionale, le forze israeliane hanno confiscato cinque tende di sostentamento finanziate da donatori [correlato ad altri eventi descritti nel 6° paragrafo di questo Rapporto].




Israele: l’elezione del nuovo procuratore della CPI solleva interrogativi sull’inchiesta per crimini di guerra

Alex MacDonald

17 febbraio 2021 – Middle East Eye

Dirigenti israeliani hanno accolto con favore la nomina del britannico Karim Khan al vertice dell’istituzione

Questo articolo è stato modificato il 18 febbraio 2021 per eliminare una frase che affermava erroneamente che l’avvocato irlandese Fergal Gaynor compariva tra i firmatari di una lettera pubblicata su Irish Times nel 2009 che chiedeva l’espulsione dell’ambasciatore israeliano a causa del bombardamento di Gaza. In realtà la lettera fu firmata dal dr. Fergal Gaynor, un accademico del Collegio Universitario di Cork.

L’elezione dell’avvocato britannico Karim Khan a Procuratore capo della Corte Penale Internazionale (CPI) ha ancora una volta agitato lo spettro della “politicizzazione” dell’organizzazione e sollevato preoccupazioni riguardo a cosa potrà significare questa nomina per l’inchiesta sui presunti crimini di guerra di Israele e di Hamas.

L’avvocato cinquantenne, che precedentemente aveva condotto un’inchiesta dell’ONU su crimini dell’Isis in Iraq, è stato eletto venerdì a scrutinio segreto, dopo che gli Stati membri della CPI non sono arrivati ad un accordo sulla sostituzione del suo predecessore, Fatou Bensouda.

Il voto, senza precedenti nella storia di 23 anni dell’istituzione, ha visto Khan prevalere di poco sull’irlandese Fergal Gaynor.

Sulla stampa israeliana sono stati pubblicati articoli secondo cui dirigenti israeliani “hanno sostenuto dietro le quinte la candidatura di Khan” ed hanno accolto la sua elezione come una vittoria per Israele, benché il Paese non sia membro della CPI.

Probabilmente Khan si sente sotto pressione politica da parte di Israele dopo che a inizio febbraio la CPI ha annunciato di avere giurisdizione per investigare su presunti crimini di guerra da parte di israeliani e palestinesi nella Striscia di Gaza assediata e nella Cisgiordania e a Gerusalemme est occupate.

L’inchiesta della CPI è stata approvata da Bensouda e non è ancora chiaro quale sarà la posizione di Khan in merito.

Il nuovo Procuratore capo della CPI deve ignorare le inevitabili pressioni politiche perché rinunci ad ogni possibile inchiesta formale su presunti crimini di guerra commessi nei territori occupati nel 1967 da qualunque parte”, ha detto a Midlle East Eye Chris Doyle, direttore del ‘Council for Arab-British Understanding’ (Consiglio per l’intesa arabo-britannica, ndtr.).

La questione deve essere definita sulla base della legge e delle prove. Niente dimostra che Karim Khan farà qualcosa di diverso.”

Un’inchiesta ‘antisemita’?

L’avvio dell’inchiesta su crimini di guerra è stato accolto con rabbia dai dirigenti israeliani, che l’hanno denunciata come ‘antisemita’.

L’inchiesta indagherà sulle violazioni commesse durante la guerra di 50 giorni nel giugno 2014, che causò l’uccisione di 2.251 palestinesi – per la maggior parte civili – e di 74 israeliani, quasi tutti soldati.

Viene avviata dopo 5 anni di istruttoria preliminare della CPI.

In seguito all’annuncio di inizio febbraio, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha denunciato che “una Corte creata per impedire atrocità come l’Olocausto nazista contro il popolo ebraico sta ora prendendo di mira l’unico Stato del popolo ebraico.”

Quando la CPI indaga Israele per falsi crimini di guerra, si tratta di puro antisemitismo”, ha detto.

Bensouda, che ha presieduto l’apertura dell’inchiesta su Gaza, è stata un bersaglio al vetriolo da parte di Israele. L’amministrazione Trump, in solidarietà con l’irritazione israeliana riguardo all’inchiesta della CPI, le ha imposto delle sanzioni.

Nel dicembre 2019 il quotidiano israeliano vicino a Netanyahu Yedioth Ahronot ha pubblicato un articolo intitolato “Il diavolo del Gambia e la Procuratrice dell’Aja”, in cui tentava di coinvolgere Bensouda in crimini commessi dall’ex presidente del Gambia Yahya Jammeh.

Israel Hayom, un altro quotidiano di destra, l’ha accusata di essere stata “consapevolmente irretita” dalla “strumentalizzazione del sistema giudiziario internazionale per realizzare l’obbiettivo diplomatico di distruggere lo Stato di Israele”.

Nel maggio 2010 il Ministro israeliano Yuval Steiniz ha detto che Bensouda aveva assunto una “tipica posizione anti-israeliana” relativamente alla CPI ed era determinata a “recare danno allo Stato di Israele e infangare il suo nome.” E a febbraio l’ex ambasciatore israeliano all’ONU Danny Danon l’ ha accusata di “ignorare Paesi che compiono terribili violazioni dei diritti umani.”

Se qualcuno deve stare sul banco degli imputati, questa è la Procuratrice capo della CPI Fatou Bensouda”, ha twittato.

Al momento, la nomina di Khan è stata accolta calorosamente da molti politici israeliani.

Il deputato Michal Cotler-Wunsh, un importante parlamentare israeliano che si occupa delle questioni della CPI, ha detto che Khan ha accolto “il potenziale della CPI di adempiere alla sua importante missione di sostenere, promuovere e proteggere i diritti di tutti coloro che hanno bisogno della sua esistenza in quanto tribunale di ultima istanza.”

Israel Hayom ha riferito che l’elezione di Khan potrebbe addirittura “portare dirigenti di Gerusalemme a riconsiderare il boicottaggio della CPI.”

Altri sono meno ottimisti. Funzionari che hanno parlato in forma anonima a Israel Hayom hanno detto che Khan dovrà ancora essere “giudicato in base alle sue azioni.”

Il fatto che altri si sono comportati male non significa che la sua scelta sia buona”, hanno detto.

Uno strumento politico’

Mentre Khan assumerà ufficialmente la carica di Bensouda a giugno, resta ancora da vedere se seguirà la strada di chi lo ha preceduto e continuerà l’inchiesta, o si piegherà alle pressioni politiche.

Da quando è nata nel 1998 la CPI ha sempre subito critiche perché è sembrato che si stesse concentrando eccessivamente sui Paesi in via di sviluppo africani, facendo invece poco per chiamare a rispondere delle proprie azioni Stati più potenti.

Il successo o il fallimento di un’inchiesta formale sulla guerra di Gaza potrebbe portare a dare o togliere credibilità all’istituzione.

Un’inchiesta formale dovrebbe essere annunciata e condotta con energia e giustizia. Mettere tutte le parti di fronte alle loro responsabilità per le proprie azioni è essenziale. È il modo più efficace per assicurare che simili crimini non saranno più consentiti in futuro”, ha detto Doyle.

Fallire in questo renderà la CPI agli occhi di molti un mero strumento politico delle grandi potenze piuttosto che il luogo della giustizia e della sanzione in difesa di quanti ne sono privati.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Vaccini anti Covid-19: Gaza riceverà il primo lotto del russo Sputnik V

MEE e agenzie

17 febbraio 2021 – Middle East Eye

Israele ha ammesso di aver ritardato la consegna di vaccino a Gaza per motivi politici

Mercoledì (17 febbraio) la striscia di Gaza assediata riceverà il suo primo lotto di vaccini anti Covid 19 la cui consegna era stata ritardata da Israele. 

Mille vaccini russi Sputnik V arriveranno dal valico di Betania fra la Cisgiordania occupata e Israele a Gaza al valico di Erez [tra Israele e Gaza, ndtr.].

I vaccini, donati dalla Russia, saranno somministrati al personale sanitario nel territorio assediato. 

All’inizio della settimana, Israele aveva ammesso di aver rallentato il trasferimento dei vaccini per motivi politici. 

Il Cogat, l’ente militare israeliano responsabile della gestione israeliana dei territori palestinesi occupati, ha detto all’agenzia AFP che l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) aveva richiesto il trasferimento a Gaza di 1000 dosi di vaccino, ma che “questa richiesta è in attesa di una decisione politica”.

Citando fonti israeliane, l’AFP afferma che permettere il trasferimento dalla Cisgiordania a Gaza non è una semplice misura amministrativa di competenza del Cogat, ma piuttosto una decisione politica probabilmente legata alle trattative fra Israele e Hamas, il gruppo politico che di fatto governa la Striscia di Gaza dal 2007.

L’ANP ha anche accusato Israele di bloccare la consegna del vaccino dalla Cisgiordania dopo la sua richiesta di trasferimento a Gaza. 

Mai al-Kaila, la Ministra della Salute palestinese, ha detto che Israele ha la “totale responsabilità” per il blocco dell’invio.

“Oggi, 2.000 dosi dello Sputnik V, il vaccino russo, sono state trasferite per entrare nella Striscia di Gaza, ma le autorità dell’occupazione impediscono il loro ingresso” ha detto Kaila nella sua dichiarazione di lunedì. 

“Queste dosi erano destinate al personale medico che lavora in reparti di terapia intensiva per pazienti Covid-19 e a coloro che operano in quelli di emergenza.”

A quel che si dice solo metà delle 2.000 dosi sono state trasferite mercoledì a Gaza.

Consegne ritardate

All’inizio del mese, l’ANP ha cominciato a somministrare le prime vaccinazioni al personale sanitario in prima linea, attingendo a un iniziale approvvigionamento di 10.000 dosi del vaccino Sputnik V e anche alle dosi di Moderna fornite da Israele.

Ma il lancio del vaccino in Cisgiordania è stato ritardato dall’intoppo delle consegne.  

Comunque, L’ANP, che ha un limitato autogoverno nella Cisgiordania occupata, ha detto che condividerà la sua limitata fornitura di vaccino con l’enclave costiera.

Dall’inizio della pandemia a Gaza ci sono stati più di 53.000 casi e almeno 537 morti.

Israele, che sta portando avanti una delle campagne vaccinali più veloci al mondo pro capite, sta facendo i conti con critiche internazionali perché non ha condiviso le forniture di vaccini con i palestinesi che vivono nella Cisgiordania occupata e a Gaza sotto blocco israeliano. 

All’inizio del mese, dopo le critiche, Israele ha inviato all’ANP 5.000 dosi da somministrare nella Cisgiordania occupata, dove risiedono circa 3 milioni di palestinesi. 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Portare speranza nella Gaza affamata di energia: i ricercatori sviluppano soluzioni ad alta tecnologia solare

15 febbraio 2021 – Palestine Chronicle

Gli esperti dell’università di Birmingham stanno sviluppando un nuovo impianto pilota per energia solare che aiuterà a fornire energia elettrica pulita ed economica alle persone che vivono nella Striscia di Gaza.

Lavorando con i colleghi dell’Università Islamica di Gaza, i ricercatori stanno combinando due tecnologie efficienti con una nuova modalità che contribuirà anche a valutare l’impatto della carenza di energia elettrica sulla salute e sul benessere della popolazione di Gaza.

Il nuovo impianto integra celle solari avanzate a giunzione multipla ad alta concentrazione con il ciclo organico Rankine (ORC) che sfrutta il calore di scarto a bassa temperatura dal raffreddamento delle celle fotovoltaiche concentrate per la produzione di elettricità.

Abitata da quasi due milioni di persone, tra cui 1,4 milioni di rifugiati, la Striscia di Gaza assediata ha lottato a lungo contro le gravi carenze di energia elettrica. L’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) teme gravi implicazioni legate alla crisi energetica per i settori della salute, dell’istruzione, dell’acqua e dei servizi igienico-sanitari.

La responsabile del progetto, dott.ssa Raya AL-Dadah, docente di tecnologie energetiche sostenibili presso l’Università di Birmingham, ha commentato: “Attualmente viene soddisfatto solo il 38% del fabbisogno di energia elettrica di Gaza. Le persone ricevono meno di sei ore di corrente al giorno e di conseguenza gli ospedali forniscono soltanto servizi essenziali, come le unità di terapia intensiva. Insieme al perenne conflitto, la crisi energetica provoca alti livelli di stress che influiscono sulla salute psico-fisica e sul benessere.

Il nostro impianto pilota fornirà energia elettrica a 30 famiglie, consentendo alle equipe di salute ambientale e geografia umana di Birmingham e Gaza di valutare l’impatto della disponibilità di energia elettrica sulla salute delle famiglie, sul benessere e sulla parità di genere. Possiamo trarre lezioni preziose su come il benessere migliori attraverso l’utilizzo della nuova soluzione tecnologica”.

Il progetto è finanziato dalla British Academy [Accademia nazionale del Regno Unito per le discipline umanistiche e le scienze sociali, indipendente ed autogovernata, ndtr.] e mette insieme ricercatori di ingegneria meccanica e di geografia umana dell’Università di Birmingham e dell’Università Islamica di Gaza.

Il dottor Mohammad Abuhaiba, responsabile del gruppo di ricerca presso l’Università Islamica di Gaza, ha commentato:

La Striscia di Gaza riceve un’abbondante quantità di energia solare, dal momento che la radiazione media annuale è di circa 2723 kWh/anno/m2. Esiste un grande potenziale per il ricavo di enormi quantità di elettricità attraverso l’utilizzo di diverse tecnologie per l’energia solare. Questo ci offre un incentivo ad avviare una ricerca a lungo termine con l’università di Birmingham sullo sviluppo di soluzioni ottimizzate e solidamente integrate basate sull’energia solare.

Non solo la nostra ricerca congiunta con l’università di Birmingham aiuterà a fornire soluzioni per la comunità locale di Gaza, ma aiuterà anche a sviluppare le competenze del personale accademico e tecnico dell’Università Islamica di Gaza”.

La soluzione ingegneristica riunisce le due tecnologie per ottenere un’efficienza complessiva di conversione del sistema superiore al 50%, fornendo elettricità pulita, sostenibile e conveniente. Il nuovo sistema è solido, facile da installare, utilizzare e mantenere senza la necessità di dipendere dalla complessa e costosa rete elettrica nazionale.

L’impianto pilota per la produzione di energia elettrica sarà installato nel Centro per la Salute delle Donne connesso alla Mezzaluna Rossa nel campo profughi di Jabalia [a 4 Km a nord della capitale particolarmente in difficoltà a causa della carenza di energia elettrica, ndtr.]. Questo centro sanitario è circondato da un buon numero di famiglie, alle quali verrà fornita l’energia elettrica.

(Università di Birmingham)

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il declino dei settori produttivi palestinesi: il commercio interno come microcosmo dell’impatto dell’occupazione

 Ibrahim Shikaki 

7 febbraio 2021 – Al Shabaka

Sintesi

L’occupazione israeliana ha paralizzato i settori produttivi palestinesi, portando al predominio del commercio interno nell’economia palestinese. L’analista politico di Al Shabaka Ibrahim Shikaki esamina come queste distorsioni strutturali si siano sviluppate in conseguenza delle politiche economiche oppressive di Israele da quando ha occupato la Palestina nel 1967. Shikaki propone delle raccomandazioni alla comunità internazionale e alle organizzazioni umanitarie su come appoggiare l’autodeterminazione economica dei palestinesi.

Introduzione

L’occupazione israeliana ha sistematicamente inflitto ai palestinesi costi economici disastrosi, che gli economisti hanno analizzato per decenni. Tuttavia una dimensione che queste analisi hanno trascurato riguarda le distorsioni nella struttura dell’economia palestinese e l’impatto dannoso di queste distorsioni. Il termine “struttura economica” si riferisce al contributo di diversi settori economici, compresi agricoltura, industria, edilizia e commercio, alle variabili economiche fondamentali della produzione (PIL) e dell’impiego.

Considerando che uno studio complessivo di queste distorsioni strutturali va oltre l’ambito di questo articolo, ci concentreremo su un particolare settore economico che ha giocato un ruolo sempre più predominante nell’economia palestinese: il commercio interno. In sintesi, il commercio interno riguarda la vendita e l’acquisto di beni al dettaglio e all’ingrosso, compreso il commercio con Israele. Il crescente rilievo del contributo del commercio interno nell’attività economica complessiva in Palestina è parte di un costante allontanamento dai settori produttivi come agricoltura e industria verso servizi, commercio ed edilizia.

Questo articolo sostiene che il predominio del commercio interno a spese dei settori produttivi non è né il risultato di uno sforzo consapevole di politiche da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) né il risultato di un governo liberista del mercato. Al contrario è il sottoprodotto delle politiche di occupazione israeliane e una chiara conseguenza della dipendenza dell’economia palestinese da quella israeliana fin dal 1967.

L’articolo sostiene che il commercio interno è un microcosmo dell’economia palestinese nel suo complesso, evidenziando l’inutilità dell’appoggio internazionale e dei donatori per lo sviluppo sotto occupazione. Al contrario, ciò che sarebbe necessario riguarda il rafforzamento dell’elaborazione indipendente, trasparente, responsabile e collettiva di politiche palestinesi, un tipo di guida e governo che la dirigenza palestinesi degli ultimi 25 anni non può dirigere o realizzare.

Il predominio del commercio interno in Palestina

Prima di approfondire i dati che dimostrano l’attuale predominio del commercio interno nell’economia palestinese è utile familiarizzarsi con le attività economiche e i sotto-settori che rientrano in questa categoria generale. Secondo la più recente Classificazione Industriale Standard Internazionale [classificazione delle attività economiche definita dalla Divisione Statistica delle Nazioni Unite, ndtr.] (ISIC-4), la denominazione ufficiale relativa al settore del commercio interno è “Commercio all’ingrosso e al dettaglio; riparazione di veicoli a motore e motocicli.”

Questa classificazione generale include 43 diversi sotto-settori. Secondo il censimento delle imprese PCBS [Ufficio Centrale di Statistica palestinese, ndtr.] del 2017 i tre settori prevalenti, che rappresentano il 50% di ogni struttura economica nel commercio interno palestinese, erano “vendita al dettaglio in negozi non specializzati prevalentemente di cibo, bevande o sigarette”, “commercio al dettaglio di cibo in negozi specializzati” e “vendita al dettaglio di vestiti, calzature e prodotti di cuoio in negozi specializzati”. In altre parole metà di tutte le unità economiche nel maggior settore dell’economia palestinese era composta da negozi di generi alimentari, noti come “al-dakakin”, così come da negozi di cibo e vestiti al dettaglio.

Dati della Contabilità generale del PCBS mostrano che il commercio interno gioca un ruolo sempre più importante in termini di contributo al valore aggiunto (cioè PIL) complessivo della Palestina. Nel 2018 il commercio interno ha rappresentato il 22% sul totale del PIL palestinese (circa 2,9 miliardi di euro nel 2018). Ciò supera il contributo di qualunque altro settore economico come agricoltura (7,5%), industria (11,5%) e il più complessivo settore dei servizi (20%), che include istruzione, salute, l’immobiliare e altri settori. All’interno del solo settore privato il commercio interno rappresenta circa il 40% del valore aggiunto.

Il fatto che il commercio interno rappresenti quasi un quarto dell’attività economica totale non è una cosa naturale nell’economia palestinese né rappresentativa della specializzazione della sua forza lavoro. Come mostra il grafico 1 che segue, i primi giorni dell’ANP a metà degli anni ’90 videro un periodo di breve durata di elevata fiducia che contribuì a determinare un ruolo relativamente forte del settore manifatturiero. Tuttavia gli anni della Seconda Intifada (2000-2005) ridussero praticamente tutti i settori economici tranne la pubblica amministrazione, rispecchiando l’aumento degli aiuti alla spesa salariale del settore pubblico come ultima risorsa per l’ occupazione.

Fonte: PCBS. Calcolo nazionale a prezzi attuali e costanti, vari anni.

Ramallah – Palestina.

Nel 2006, dopo la Seconda Intifada, cominciò ad emergere un chiaro modello verso una svolta neoliberista e un crescente accesso al credito. Ma, nonostante questa svolta, i settori produttivi palestinesi rimasero stagnanti o declinarono, mentre il contributo del commercio interno più che raddoppiò in 10 anni (dal 10% nel 2008 al 22% nel 2018). La cosa non sorprende dato che la svolta neoliberista rafforzò il predominio delle attività economiche “che eludono l’occupazione”, che operarono per evitare gli ostacoli posti da Israele con pochissima attenzione nei confronti del popolo palestinese. I settori produttivi non lo fanno in quanto devono contrastare lo status quo del controllo israeliano sulla terra e le frontiere, fondamentali per l’agricoltura e l’industria.

Comunque il contributo al PIL è solo uno degli indicatori del predominio del commercio interno. Dal 1997 ogni dieci anni il PCBS ha condotto un censimento generale, incluso un censimento delle imprese, che fornisce dati sul numero di attività economiche nazionali e dei lavoratori in ognuno dei vari settori e sotto-settori. Per sua natura il censimento non copre alcune attività economiche, come il lavoro in Israele e l’auto-impiego. Tuttavia l’esclusione del lavoro dei palestinesi in Israele consente al censimento di offrire una stima migliore dell’occupazione creata dal settore privato interno.

Le tendenze evidenziate dal censimento sono rivelatrici. Il numero di imprese che operano nel commercio interno sono aumentate da 39.600 nel 1997 a 56.993 e 81.260 rispettivamente nel 2007 e nel 2017. Mediamente queste cifre rappresentano il 53% di tutte le attività economiche che operano nell’economia palestinese. Come detto sopra, e come spiegato nella tabella 1, tre sotto-settori rappresentano metà di questo dato.

Tavola 1: I principali sotto-settori palestinesi

 

Sottosettori

Numero di imprese

Percentuale delle imprese del commercio interno

Percentuale su tutte le imprese

Negozi alimentari “al-dakakin”

17309

21%

11%

Negozi alimentari al dettaglio

10567

13%

6.7%

Negozi di vestiti al dettaglio

10364

12.7%

6.5%

Parrucchieri e trattamenti estetici

8629

Non inclusi nel settore del commercio interno

5.5%

 

Fonte: PCBS, 2018. Censimento della popolazione, delle abitazioni e delle imprese, 2017, Risultati finali.

Rapporto sulle imprese., Ramallah-Palestina

Riguardo all’occupazione, mediamente il 37% di tutti i lavoratori inclusi nel censimento erano impiegati nel settore del commercio interno, di gran lunga il maggiore tra tutti i settori economici, seguito da quello manifatturiero (22%). Oltretutto il settore era il secondo come lavoro femminile (18%) dopo quello relativo all’istruzione, che impiega il 26% di tutte le lavoratrici incluse nel censimento. Tuttavia è da notare che la presenza delle donne nel settore del commercio interno sottostima la partecipazione complessiva delle donne. Per esempio, il censimento delle attività del 2017 indica che, mentre le donne rappresentano il 24% del totale della forza lavoro (rispetto al 76% degli uomini), nel settore del commercio interno la manodopera era approssimativamente divisa tra il 91% di uomini e il 9% di donne.

Va anche notato che dal boom del credito privato nel 2008 il commercio interno è stato il settore economico a godere del maggior numero di crediti e mutui agevolati, tra il 20% e il 25% del totale del credito al settore privato (1). L’ammontare del credito erogato alle attività del commercio interno è cresciuto dai circa 250 milioni di euro nel 2008 all’1,11 miliardi di euro nel 2019, un aumento quasi del 250% in dieci anni. Il settore più vicino nel 2019 è stato il credito per il “patrimonio edilizio residenziale”, con circa 865 milioni di euro. Per contestualizzare il tutto, settori produttivi come l’agricoltura e l’industria sommavano rispettivamente solo circa 76 milioni e 372 milioni di euro.

Inoltre il lavoro palestinese in Israele, che nel 1987 raggiunse più del 40% della forza lavoro palestinese totale, nell’economia palestinese ha avuto un duplice impatto sulla crisi dei settori produttivi e la crescita delle attività legate al commercio. In primo luogo, mentre questi lavoratori palestinesi migranti venivano pagati il 50% in meno dei lavoratori israeliani, i loro stipendi erano comunque più alti della media di quelli palestinesi nell’economia interna. Ciò ha attirato lavoratori per il mercato israeliano e fatto salire artificialmente i salari palestinesi all’interno, accrescendo i costi per i produttori palestinesi. In secondo luogo, il lavoro in Israele ha creato quello che l’UNCTAD [Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo, ndtr.] definisce la “differenza tra produzione interna e reddito.”

In altre parole, il reddito dei lavoratori palestinesi in Israele creò un potere d’acquisto notevolmente superiore a quello dei settori produttivi interni. Il reddito addizionale si rivolse all’edilizia o a un sempre maggiore livello di importazioni, e quest’ultimo portò a un livello di deficit commerciale senza precedenti.

Da quanto detto risulta chiaro che il commercio interno è il principale settore che contribuisce alla produzione, all’occupazione e al debito personale nell’economia palestinese. Ciò significa un grave colpo per i settori produttivi palestinesi. La comprensione di come si sia determinata questa situazione richiede un esame della storia economica della Palestina che riguarda le distorsioni strutturali create dall’occupazione israeliana e il rapporto di dipendenza determinato dalle politiche economiche colonialiste di Israele da quando ha occupato la Palestina nel 1967.

Dipendenza e commercio nel contesto israelo-palestinese

Gli studiosi latinoamericani sono stati i primi a proporre la teoria della dipendenza. La specifica osservazione che hanno fatto è che le risorse, comprese le risorse umane, naturali ed altri beni primari sono state esportate dai Paesi periferici dal Sud Globale ai Paesi centrali nel Nord Globale, mentre i prodotti finiti si sono spostati nella direzione opposta. In seguito a ciò non solo la maggior parte della produzione di valore aggiunto avviene nel centro, ma anche la struttura economica della periferia è stata trasformata per soddisfare le esigenze del centro invece che del proprio sviluppo a lungo termine.

La dipendenza ha chiuso le economie della periferia in un ciclo di sviluppo rachitico per cui sono state incapaci di sviluppare una forte base produttiva, il loro deficit commerciale è andato alle stelle e sono rimaste dipendenti dal lavoro e dai mercati delle economie del centro. In termini marxisti, il centro fa uso dell’“esercito industriale di riserva” della periferia per garantire prezzi bassi della produzione ed ha aperto i mercati della periferia alle proprie merci per garantirsi che non ci siano crisi di “sovraproduzione”, con le imprese che non riescono a vendere i propri beni perché quello che producono supera di molto la domanda esistente.

Con una dipendenza così intesa, la relazione tra le economie palestinese e israeliana dal 1967 offre un esempio da manuale. Da una parte le risorse naturali (come terra, acqua e minerali), prodotti non finiti e risorse umane (lavoro) si sono spostati dalla periferia palestinese all’economia centrale israeliana, mentre i beni finiti si sono spostati dall’economia israeliana a quella palestinese.

Nei primi 20 anni dell’occupazione israeliana il deficit complessivo del commercio estero dell’economia palestinese è cresciuto da 28 a 541 milioni di euro. Oltretutto questo deficit commerciale è stato prevalentemente il risultato degli scambi con Israele, che nei primi 20 anni crebbero da 82 milioni a 1 miliardo 18 milioni di euro. I palestinesi hanno esportato in Israele beni dell’industria leggera e alcuni prodotti agricoli, mentre hanno importato beni di consumo finiti e durevoli, che sono prodotti non di consumo immediato ma che durano per alcuni anni.

Questa tendenza non è cambiata dopo la creazione dell’ANP nel 1994. Al contrario, alimentata dall’aiuto internazionale e dalla disponibilità di credito in seguito alla Seconda Intifada, nel 2019 il deficit commerciale ha raggiunto il picco di 4,5 miliardi di euro, con più di metà (il 55%) di questo debito attribuibile al commercio con Israele. Già negli anni ’80 più di due terzi di tutto il commercio palestinese era legato ad Israele. Dalla fondazione dell’ANP, mediamente il commercio palestinese è dipeso da Israele per il 75% delle importazioni e per l’80% delle esportazioni.

Sia importazioni che esportazioni raccontano una storia di dipendenza. In molti casi le importazioni palestinesi da Israele venivano in precedenza prodotte all’interno, compresi vestiti, calzature, bibite, mobili e persino beni per l’edilizia e farmaci. D’altronde le esportazioni raccontano di una accresciuta dipendenza. Dall’inizio dell’occupazione nel 1967 Israele non solo ha sfruttato il lavoro a buon mercato dei migranti palestinesi, ma ha anche sfruttato il lavoro palestinese all’interno della Cisgiordania, di Gaza e di Gerusalemme est, compreso quello femminile.

In pratica gli imprenditori israeliani mandavano tessuti grezzi a imprenditori palestinesi in subappalto che poi avrebbero assunto donne palestinesi pagando loro bassi salari. Il prodotto finale sarebbe tornato agli uomini d’affari israeliani che spesso li avrebbero venduti sui mercati palestinesi. In seguito a ciò, molti dei beni considerati esportazioni palestinesi in Israele erano in realtà prodotti intermedi legati a israeliani e in seguito rivenduti sul mercato palestinese come beni finiti e imballati in modo che i capitalisti israeliani ricavassero guadagni dalla fase finale della catena produttiva. In altre parole, la dipendenza era così stretta che persino le esportazioni non erano l’esito di un prospero settore produttivo, ma un risultato della disparità di potere imposta da Israele all’economia palestinese, con la stragrande maggioranza dei benefici a favore del regime israeliano.

I costi economici dell’occupazione militare israeliana

Le dinamiche fin qui delineate mostrano non solo la stretta dipendenza dei palestinesi dai prodotti e dal mercato del lavoro israeliani, ma spiegano anche come il commercio di beni, soprattutto israeliani, sia progressivamente diventato la principale attività economica in Cisgiordania e a Gaza. Ciò è stato in parte dovuto all’influenza del reddito di lavoratori [palestinesi, ndtr.] in Israele e delle rimesse dei palestinesi che lavorano nei Paesi del Golfo, e in parte all’indebolimento dei settori produttivi.

Tuttavia non sono state solo queste dinamiche sotterranee di dipendenza che hanno potenziato il commercio interno e indebolito i settori produttivi. C’è stato anche un impegno coordinato da parte del regime israeliano a soffocare l’attività economica dei palestinesi, rafforzando nel contempo negozianti e commercianti palestinesi. I tentativi di ridurre il settore produttivo palestinese sono stati documentati da rapporti ufficiali israeliani. Per esempio nel 1991 il rapporto della Commissione Sadan [creata dal ministro della Difesa Moshe Arens per studiare la situazione economica nei territori occupati, ndtr.] affermò: “Nessuna priorità è stata data alla promozione dell’imprenditoria locale e al settore degli affari” e che “le autorità hanno scoraggiato tali iniziative ogni volta che esse entravano in competizione sul mercato israeliano con le imprese israeliane esistenti.”

In effetti alcune delle prime ordinanze militari emanate da Israele erano di natura economica, il cui risultato fu la chiusura di tutte le banche che operavano in Cisgiordania e a Gaza e l’imposizione di una complessa rete di procedure amministrative e restrizioni tuttora in vigore. Queste restrizioni hanno reso praticamente impossibile per i palestinesi avviare un’attività economica o importare nuovi macchinari, anche per l’edilizia. Tra il 2016 e il 2018 le autorità militari israeliane hanno approvato solo il 3% delle licenze edilizie nell’Area C, che comprende più del 60% della Cisgiordania. Oltretutto il blocco imposto contro Gaza dal 2007 ha diminuito la possibilità delle sue imprese ed ha gravemente colpito i settori produttivi, costando in ultima analisi all’economia più di 13 miliardi di euro nel periodo dal 2007 al 2018.

Dal 1967 Israele ha anche controllato il commercio palestinese. Mentre consentiva a qualche prodotto agricolo e dell’industria leggera di entrare nel mercato israeliano, questi beni erano necessari all’industria e al settore della trasformazione di prodotti agricoli come sesamo, tabacco e cotone. Una parte fondamentale della strategia economica di Israele è stata la politica dei “ponti aperti”, che ha consentito movimenti di beni senza restrizioni tra la riva orientale e quella occidentale del fiume Giordano. Ciò è stato usato per “svuotare” il mercato palestinese di certi prodotti palestinesi per far posto a quelli israeliani, che non avrebbero potuto essere esportati nei Paesi arabi a causa del boicottaggio arabo contro Israele.

Gradualmente il commercio all’ingrosso e al dettaglio dei prodotti israeliani ha giocato un ruolo fondamentale nelle attività economiche in Cisgiordania e a Gaza. Dalla sua istituzione nel 1981 l’“Amministrazione civile” dell’esercito israeliano, l’unica istituzione governativa della Cisgiordania e a Gaza fino al 1994 e che mantiene ancora il controllo dell’Area C, ha offerto incentivi e bonus economici a impresari e commercianti palestinesi che accettano di esportare alcuni prodotti. Ciò non solo priva i mercati palestinesi di questi prodotti, ma è stato anche fondamentale per le riserve di denaro estero di Israele, in quanto una delle condizioni di questi incentivi era depositare i pagamenti in dinari giordani nelle banche israeliane. La politica dei “ponti aperti” ha spostato la produzione palestinese dalla soddisfazione delle necessità locali alla produzione di beni ed alla coltivazione di prodotti destinati ai mercati esteri.

Svuotando il mercato palestinese e consentendo il libero movimento dei prodotti israeliani, la politica dei “ponti aperti” ha creato dipendenza sia della produzione che del consumo dai prodotti israeliani e nel contempo ha rafforzato il ruolo del commercio tra i ricchi commercianti capitalisti palestinesi.

Effettivamente i proprietari di grandi imprese economiche e i dirigenti delle camere di commercio nelle città palestinesi hanno fatto fortuna grazie all’occupazione. Alcuni di questi mercanti godono persino di franchigie ed hanno iniziato a commerciare prodotti israeliani. Siccome il loro interesse corrisponde a quello dei commercianti israeliani, e in conseguenza della loro tendenza a ingraziarsi e a negoziare con il regime occupante, essi sono visti come “la prima classe sociale ad essersi legata all’economia israeliana.”

Il dopo Oslo e la continua capitolazione nella formulazione di politiche

I primi 25 anni dell’occupazione israeliana impedirono lo sviluppo dei settori produttivi palestinesi e concentrarono l’attività economica nella compravendita di beni importati, la grande maggioranza dei quali israeliani. Dopo l’istituzione dell’ANP nel 1994 cambiò molto poco nella struttura dell’economia. Accordi firmati, tra cui il Protocollo di Parigi, diedero all’ANP il controllo formale sulle entrate fiscali. Tuttavia l’accordo formalizzò semplicemente la già esistente iniqua unione doganale tra le due economie. Livelli asimmetrici dei prezzi continuarono a danneggiare sia produttori che consumatori palestinesi, dato che obbligarono l’economia palestinese ad operare soggetta ad una struttura israeliana con costi elevati, nonostante la grande disparità dei livelli di reddito tra le due economie.

Cosa più importante, il controllo sui confini, sulle risorse e sul sistema dei permessi nella maggior parte dei terreni agricoli palestinesi – e sui terreni adatti a scopi industriali – rimane nelle mani di Israele. I settori produttivi continuano a ridursi e il commercio interno diventa più importante che mai. L’élite economica palestinese ha anche abbandonato le attività produttive che richiederebbero di opporsi allo status quo, optando invece per investire in servizi, finanza e importazioni. Il potere economico dei capitalisti palestinesi con rapporti nei Paesi del Golfo non dà origine ad attività legate alla produzione. I loro utili sono invece ricavati “da diritti di importazione esclusivi su prodotti israeliani e dal controllo su ampi monopoli.”

I progetti internazionali dopo la Seconda Intifada sono andati nella stessa direzione, compresi il progetto “The Arc” della Rand Corporation [organizzazione no profit USA, ndtr.], il piano di John Kerry [segretario di Stato Usa nell’amministrazione Obama, ndtr.] e del Quartetto [composto da ONU, USA, UE e Russia, ndtr.] nel 2014 e, più di recente, quello di Jared Kushner [genero e consigliere di Trump per il Medio Oriente, ndtr.] del 2019. Mentre questi piani variano quanto al livello di coinvolgimento dei palestinesi e alla sensibilità riguardo alla situazione politica, adottano una versione fondamentalista del mercato in opposizione a un approccio più sfumato riguardo al ruolo del settore pubblico. Per esempio il piano Kushner trasuda ideologia economica conservatrice, come la cosiddetta struttura fiscale a favore dello sviluppo. Si basa anche sui principi della dottrina “legge ed economia” che porta al controllo giudiziario sulla legislazione per dare priorità a un’ideologia economica ortodossa al di sopra di considerazioni di carattere morale e giuridico.

In sintesi, la crescita del commercio interno ha portato a un allontanamento dalla produzione e verso attività che danno meno spazio allo sviluppo ed alla trasformazione dell’economia. Tuttavia, oltre alle tendenze produttive sfavorevoli, ci sono altre preoccupazioni sociali. Le donne sono sottorappresentate in questo segmento della forza lavoro e la preponderanza del commercio interno porta a un impatto redistributivo negativo all’interno della società palestinese.

Una misura della differenza di reddito che ne risulta può essere valutata attraverso l’evoluzione della quota di reddito, che è la quota di entrate totali prodotta dal lavoro rispetto a quello totale generato dal capitale (profitto, rendita e interesse). Mentre non esistono serie ufficiali della quota di reddito, un semplice indicatore si ottiene dividendo il compenso dei dipendenti di un settore per il valore aggiunto lordo, individuando così la distribuzione tra i lavoratori e i capitalisti. Utilizzando questo metodo il commercio interno presenta risultati peggiori rispetto ad altri settori, con una media negli ultimi 10 anni del 15% rispetto alla media del 27% in tutti i settori dell’economia.

Conclusione e suggerimenti su come procedere

Non c’è un suggerimento di politiche uguale per tutti per risolvere le distorsioni strutturali nell’economia palestinese che l’hanno allontanata dai settori produttivi. Tuttavia la crescita dei settori produttivi dovrebbe essere coltivata in un più ampio contesto di politiche economiche per lo sviluppo. Fadle Naqib, esperto di politica economica della Palestina, riassume le sue tre raccomandazioni per il settore economico in questo modo: rivitalizzare il settore agricolo, espandere il settore manifatturiero e adottare una strategia nazionale per lo sviluppo tecnologico.

Tuttavia andrebbe presa in considerazione anche la situazione politica che impatta sullo sviluppo economico palestinese. In effetti nel 2010 la Banca Mondiale riconobbe che “l’efficacia del sostegno allo sviluppo a lungo termine è pesantemente dipendente dal contesto politico tra israeliani e palestinesi,” e, come tale, dovrebbe ripensare il proprio mandato, ruolo e ambito nelle attività in Cisgiordania e a Gaza.”

Quelle che seguono sono raccomandazioni per le istituzioni finanziarie internazionali, compresi la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, così come per la comunità internazionale e le organizzazioni umanitarie in generale, per sostenere l’autodeterminazione economica dei palestinesi palestinese:

  • Riconoscere che il rapporto tra le economie palestinese e israeliana ha distrutto ogni sviluppo possibile dell’economia palestinese. Quindi è sbagliato ed assurdo presupporre che le dinamiche che governano il rapporto tra le due economie siano quelle di un mercato libero.

  • Fornire aiuto internazionale diretto per appoggiare gli agricoltori palestinesi nelle zone minacciate di annessione, comprese quelle colpite dalle colonie israeliane e dal Muro.

  • Fare pressione sul regime israeliano per agevolare la concessione di permessi nell’Area C, comprese licenze edilizie per strutture residenziali e produttive.

  • Rafforzare una   elaborazione di politiche palestinesi indipendenti appoggiando centri di ricerca indipendenti e studiosi, sindacati e rappresentanti di gruppi che normalmente sono assenti dal processo decisionale, compresi donne, giovani e rifugiati. Ciò deve essere fatto con un processo trasparente, controllabile e collettivo che comprenda tutti i soggetti interessati.

  • Fare pressione sul governo israeliano per porre fine all’occupazione perché i palestinesi abbiano il controllo sulla loro politica economica.

  • Riconoscere che porre fine all’occupazione israeliana porterà anche il settore privato palestinese a fiorire e prosperare.

Note:

1. Dato ricavato dal sito dell’Autorità Monetaria Palestinese (PMA)

Ibrahim Shikaki

Analista politico di Al-Shabaka, Ibrahim Shikaki è professore associato di economia al Trinity College, Hartford, Connecticut. Ha ottenuto il dottorato presso la New School for Social Research (NSSR) di New York ed è stato docente presso le università NSSR, The International University College di Torino, Birzeit e Al-Quds. È stato anche ricercatore al Palestine Economic Policy Research Institute (MAS) di Ramallah e al Diakonia’s IHL Research Center a Gerusalemme est. I suoi recenti scritti includono un capitolo su politica economica della dipendenza e composizione di classe in Palestina in via di pubblicazione, e un articolo sugli aspetti economici del piano Barhain di Kushner.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 19 gennaio – 1 febbraio 2021

Secondo quanto riferito, due palestinesi hanno tentato di accoltellare militari israeliani, ma sono stati colpiti con armi da fuoco ed uccisi

[seguono dettagli]. Secondo fonti israeliane, il 26 gennaio, nei pressi dell’insediamento di Ariel (Salfit), un 17enne palestinese è stato ucciso dopo aver tentato di accoltellare una soldatessa israeliana: mentre per i media palestinesi non si tratterebbe di un tentativo di accoltellamento, i media israeliani hanno segnalato che la soldatessa ha dovuto essere curata per lievi ferite. Il 31 gennaio, vicino all’insediamento [colonico] di Gush Etzion (Betlemme), un 36enne palestinese si è avvicinato di corsa a soldati israeliani, tenendo in mano, a quanto riferito, un’arma improvvisata: è stato colpito ed ucciso.

In Cisgiordania, in scontri con le forze israeliane, sono rimasti feriti 25 palestinesi [seguono dettagli]. Sedici di questi feriti si sono avuti nel villaggio di Deir Abu Mash’al (Ramallah), durante un’operazione di ricerca-arresto che ha fatto seguito al ferimento di una 15enne, causato dal lancio di pietre contro veicoli israeliani (vedi ultimo paragrafo). Altri due feriti sono stati segnalati nelle città di Qalqiliya e Tubas, sempre nel contesto di operazioni di ricerca-arresto, e un altro nel villaggio di Zeita (Tulkarm). I restanti sei ferimenti sono avvenuti durante proteste contro le attività di insediamento [colonico] vicino a Kafr Qaddum (Qalqiliya), Beit Dajan (Nablus) e Deir Jarir (Ramallah). Diciannove dei feriti sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeni, tre sono stati colpiti da proiettili di gomma, due sono stati aggrediti fisicamente ed uno è stato colpito da proiettile di arma da fuoco.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 159 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 177 palestinesi. Il maggior numero di operazioni (35) è stato registrato nel governatorato di Gerusalemme (prevalentemente a Gerusalemme Est), seguito dal governatorato di Hebron (26).

Il 19 gennaio, da Gaza è stato lanciato un razzo verso Israele; il razzo è caduto in un’area aperta. Successivamente, dalla recinzione perimetrale, le forze israeliane hanno sparato colpi di cannone, a quanto riferito, contro postazioni militari [palestinesi]; tuttavia, un proiettile ha colpito una casa palestinese nel Campo profughi di Al Maghazi, ferendo un uomo e provocando danni.

Vicino alla recinzione israeliana del perimetro di Gaza o in mare, al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 18 occasioni, presumibilmente per far rispettare le restrizioni di accesso [imposte ai palestinesi]: a nord di Beit Lahiya un palestinese è stato ferito. Al valico di Erez, le autorità israeliane hanno arrestato un uomo che accompagnava la moglie a Gerusalemme Est, per cure.

Il 23 gennaio, nella città di Beit Hanoun (Gaza), 47 persone, tra cui 19 minori e 15 donne, sono rimaste ferite a seguito di un’esplosione avvenuta all’interno di una casa. Secondo quanto riferito, la casa apparteneva a un membro di un gruppo armato palestinese e veniva usata per immagazzinare esplosivi. Diverse strutture civili sono state danneggiate, fra queste: 172 abitazioni, tre scuole, un ospedale ed una stazione di polizia. Secondo Shelter Cluster [Organismo internazionale di coordinamento di Agenzie che sostengono le persone colpite da catastrofi naturali e/o conflitti] oltre 1.000 persone hanno subìto conseguenze.

Il 1° febbraio, il valico di Rafah, controllato dall’Egitto, è stato ufficialmente aperto per quattro giorni in entrambe le direzioni. Nei due mesi precedenti era rimasto chiuso.

Citando la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 69 strutture di proprietà palestinese, sfollando 80 persone e creando ripercussioni su circa 600 [seguono dettagli]. Tutte le strutture demolite, tranne una, si trovavano nell’Area C della Cisgiordania. Quarantacinque strutture, circa il 70%, erano in quattro Comunità della Valle del Giordano. Una struttura [delle 69] è stata demolita nel villaggio di Al Walaja (Betlemme), all’interno della linea di confine (stabilita da Israele) del municipio di Gerusalemme.

Il 1° febbraio, a Humsa al Bqai’a (Valle del Giordano), sono stati confiscati 25 ripari residenziali e per animali, sfollando 55 persone, di cui 32 minori; la maggior parte delle strutture era stata fornita come assistenza umanitaria, in risposta a una demolizione di massa, subita dalla stessa Comunità, il 3 novembre 2020. Secondo quanto riferito, ai residenti sarebbe stato detto che le loro strutture confiscate sarebbero state restituite se, entro 24 ore, si fossero trasferiti a Ein Shebli. La maggior parte dei membri della Comunità colpita risiede in un’area chiusa, designata dalle autorità israeliane come “zona di tiro”, cioè destinata all’addestramento militare.

Altre demolizioni e confische sono state effettuate nella Cisgiordania meridionale [seguono dettagli]. Nella Comunità di Umm Qussa, situata in una zona di Hebron dichiarata [da Israele] “zona militare”, sono state demolite una moschea ed una cisterna per l’acqua; mentre una rete idrica è stata danneggiata ai sensi di un “Ordine militare 1797”, che consente la demolizione dopo 96 ore dall’emissione di un “ordine di rimozione”. Il danneggiamento della rete ha riguardato l’accesso all’acqua di 450 residenti. Sempre a Hebron, a Khashem ad Daraj, il 31 gennaio, cinque famiglie hanno ricevuto un ordine di sfratto temporaneo, con l’intimazione di lasciare la propria residenza per quattro giorni, per consentire esercitazioni militari israeliane.

Secondo il Ministero dell’Agricoltura palestinese, vicino alla città di Tubas, le autorità israeliane hanno sradicato e distrutto migliaia di alberi che erano stati piantati otto anni fa, come parte di un progetto supervisionato dallo stesso Ministero. Anche nell’area di Khallet an Nahla, a Betlemme, le autorità israeliane hanno devastato con bulldozer un migliaio alberi di una proprietà privata. Entrambi gli episodi si sono verificati sulla base del fatto che la terra [in questione] era stata dichiarata [da Israele] “terra di stato”.

Sette palestinesi sono stati feriti, mentre centinaia di alberi di proprietà palestinese ed un numero imprecisato di veicoli sono stati vandalizzati da autori, conosciuti o ritenuti, coloni israeliani [seguono dettagli]. Quattro dei feriti, tra cui un minore, sono stati colpiti con pietre o aggrediti fisicamente mentre transitavano sulla Strada 60, nel governatorato di Ramallah. Gli altri tre sono stati aggrediti fisicamente a Hebron, in separati scontri con coloni: uno presso la comunità di Khirbet at Tawamin, durante un sit-in di protesta; gli altri due a Dura, durante la spianatura di un terreno da parte di coloni, apparentemente intenzionati ad impossessarsene. Secondo varie fonti palestinesi, circa 450 ulivi e alberelli sono stati sradicati o abbattuti a Mantiqat Shi’b al Butum, Adh Dhahiriya e al Baq’a (Hebron), a Shufa (Tulkarm) e a Kafr ad Dik (Salfit). Gli abitanti di Kafr ad Dik, Sarta (Salfit) e dell’area di Ash Shuyukh (Hebron) hanno riferito di danni a recinzioni, strutture agricole e cancelli, oltre il furto di attrezzi agricoli. Diversi veicoli palestinesi sono stati colpiti da pietre e danneggiati; alcuni mentre viaggiavano vicino a Betlemme e Qalqiliya, altri nei villaggi di Kifl Haris e Yasuf (Salfit) dove, a quanto riferito, coloni hanno lanciato pietre contro auto e case.

Secondo fonti israeliane, cinque israeliani sono stati feriti da autori ritenuti palestinesi. Uno dei feriti, uno studente ultra ortodosso, è stato accoltellato e ferito leggermente fuori dalla Città Vecchia di Gerusalemme; gli altri quattro, inclusa una ragazza, sono stati colpiti da pietre vicino ai villaggi di Burin (Nablus) e Kifl Haris (Salfit), mentre transitavano su strade della Cisgiordania. Secondo quanto riferito, un totale di 26 veicoli israeliani sono stati danneggiati, prevalentemente colpiti da pietre.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 3 febbraio, a Humsa al Bqai’a, le autorità israeliane hanno demolito o confiscato 21 strutture. Un’analoga operazione era stata effettuata nella stessa Comunità appena due giorni prima, il 1° febbraio [ultimo giorno del periodo considerato da questo Rapporto; vedere sopra, al paragrafo 9]. Le due operazioni militari israeliane [compiute il 1° ed il 3 febbraio], hanno complessivamente provocato lo sfollamento di 60 persone, di cui 35 minori.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.




Il blocco israeliano infiamma la crisi di COVID-19 a Gaza: Rapporto

3 febbraio 2021 – Al Jazeera

Uno studio afferma che il perdurante blocco aereo, terrestre e marittimo imposto da Israele è ‘il fattore principale’ nel peggioramento della situazione umanitaria.

Un nuovo studio avverte che il devastante assedio israeliano contro la Striscia di Gaza che dura da 13 anni sta inasprendo la crisi da coronavirus nell’enclave palestinese, minacciando la vita dei suoi quasi due milioni di abitanti.

In un rapporto diffuso mercoledì un gruppo di ricercatori internazionali ha descritto “le minacce all’accesso alla sanità e ad altre risorse essenziali, come anche il prezzo economico che il virus ha imposto alle persone e alle loro famiglie”, come afferma un comunicato.

Lo studio si è incentrato sulla diffusione dell’informazione sanitaria relativa al COVID-19, sulle misure prese per ridurne la diffusione e sull’impatto economico della pandemia.

Mohammed al-Ruzzi, un ricercatore dell’università di Bath [in Gran Bretagna, ndtr.] e membro del gruppo di ricerca, ha detto a Al Jazeera che più di 70 persone di differenti località di Gaza hanno preso parte allo studio.

Mentre il rapporto indica che la consapevolezza dei rischi e la comprensione delle misure di salute pubblica tese a ridurre il numero dei contagi sono garantite, ha però rilevato che vi è stato spesso “un insufficiente supporto nel dare la possibilità alle persone di mettersi in isolamento.”

Il risultato è che molti considerano le misure di sanità pubblica “più difficili da accettare della malattia stessa”, afferma la dichiarazione.

Tali minacce sono state esacerbate dall’incessante blocco aereo, terrestre e marittimo imposto da Israele, descritto nel rapporto come “il principale fattore del peggioramento della situazione umanitaria…(che si manifesta) nell’inadeguatezza del sistema sanitario locale, dell’economia e delle comunità a far fronte alla situazione.”

Il blocco israeliano ha devastato l’economia di Gaza e questo ha un forte impatto sulla possibilità della gente di rispettare le misure di isolamento, quando ciò significa perdere le proprie già scarse fonti di reddito”, dice la ricercatrice capo Caitlin Procter dell’Istituto Universitario Europeo di Firenze.

Molti non si fanno curare per altri problemi di salute per paura di essere contagiati dal COVID e della grave perdita di reddito che comporterebbe se venisse loro diagnosticato [il COVID, ndtr.]. Per lo stesso motivo alcuni operatori sanitari sono restii a curare pazienti COVID e molte persone con sintomi non si sottopongono ai test.”

Oltre al perdurante blocco, anche l’alto tasso di disoccupazione, i tagli dei finanziamenti ONU e le divisioni politiche tra palestinesi sono fattori che contribuiscono alla condizione agonizzante dell’economia di Gaza

Tutti questi fattori hanno inciso sulla situazione economica della popolazione. Lo scoppio della pandemia e le regole dello “stare in casa” pongono molti, compresi i lavoratori a giornata, nell’impossibilità di provvedere alle proprie famiglie”, dice al-Ruzzi.

Casi in aumento

Il sistema sanitario di Gaza è nel caos e i suoi abitanti martoriati dalla guerra sono particolarmente vulnerabili in quanto vivono sotto un blocco israeliano-egiziano dal 2007.

L’assedio aereo, terrestre e marittimo ha limitato l’ingresso di risorse essenziali come, tra gli altri, attrezzature mediche, materiali per la sanità e le costruzioni.

Le dure misure di distanziamento sociale e le procedure di quarantena si sono rivelate molto difficili da applicare, affermano i ricercatori.

Secondo le ultime stime dell’OMS del 31 gennaio, da quando sono iniziate le rilevazioni nel luglio 2020, a Gaza ci sono stati 51.312 casi confermati e 522 morti per COVID-19.

Con l’aumento del numero dei casi, le autorità sanitarie di Gaza hanno avvertito che non possono più condurre i test del coronavirus per mancanza di kit. Il mese scorso hanno auspicato un’azione urgente per procurare l’attrezzatura necessaria all’unico laboratorio dell’enclave in grado di analizzare i campioni dei test di coronavirus.

L’Agenzia ONU per i Rifugiati Palestinesi (UNRWA) ha ammonito che il sistema sanitario della Striscia di Gaza potrebbe collassare se il numero dei casi continuerà ad aumentare.

Israele ha ricevuto una crescente pressione mondiale, anche dall’ONU, perché aiuti i palestinesi che vivono sotto occupazione israeliana in Cisgiordania e Striscia di Gaza ad avere accesso ai vaccini.

Mentre molti Paesi in tutto il mondo hanno iniziato le campagne vaccinali – con Israele in prima linea nel mondo – i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania occupata stanno ancora aspettando il proprio turno.

Fonti ufficiali hanno detto che questa settimana l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha iniziato le vaccinazioni per il COVID in Cisgiordania, dopo aver ricevuto 2.000 dosi da Israele. I vaccini Moderna sono la prima tranche dei 5.000 promessi forniti da Israele per vaccinare gli operatori sanitari.

Ma a Gaza e in Cisgiordania ci sono più di 4 milioni e mezzo di palestinesi che non hanno accesso al vaccino.

Istituzioni internazionali e l’OMS condurranno campagne per rendere accessibile il vaccino ai palestinesi e sviluppare programmi per aumentare la capacità del settore sanitario a Gaza, dice al-Ruzzi.

La pandemia ci mostra chiaramente quanto sia vulnerabile il sistema sanitario pubblico. Il lavoro dei soggetti locali e internazionali qui è cruciale”, dice.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Con la grazia, la fede e una macchina fotografica

Noor Abdo

24 gennaio 2021- Wearenotnumbers

Nato durante la prima Intifada, Momen aveva solo una settimana di vita quando l’occupazione israeliana gli uccise il padre lasciandolo orfano nella Palestina occupata. Da quando è nato niente gli è stato facile. Lottando contro il dolore emotivo e fisico per tutta la vita, Momen ha tracciato un sentiero tutto suo.

Fotografo in divenire

Momen Faiz ha scoperto la sua passione per la fotografia da ragazzo quando viveva ad Al Shejayeh, un’area di confine nella zona est di Gaza. È un posto strategico per fotografare le rivolte e l’oppressione che avvenivano nell’area. Ha fatto i primi tentativi con una macchina fotografica che gli avevano prestato perché non ne aveva una sua. Questo gli ha offerto l’opportunità di stringere rapporti con un gruppo di fotografi e giornalisti. Ha ascoltato i loro consigli su dove mettersi per scattare le foto ed è così diventato un esperto a trovare l’angolazione giusta da cui catturare le immagini.

Momen ha cercato di comprarsi l’equipaggiamento, ma era troppo caro. Ha cominciato a lavorare come fotografo freelance per agenzie internazionali, la prima è stata Domtex.

Momen si è sempre trovato vicino alle zone dove di solito avvenivano gli attacchi perché casa sua è nei pressi del confine.

Da teenager, Momen aveva grandi sogni e visioni: diventare famoso e andarsene da Gaza, la più grande prigione a cielo aperto mai esistita, e riuscire a mostrare il suo talento al mondo. Tutto quello che sapeva del mondo esterno gli veniva dalla TV e dalla radio. Voleva girare il mondo. Ma il blocco aveva altri piani.

Adesso non posso andare” 

Una fredda mattina di settembre, Momen stava digiunando in occasione del Giorno di Arafah, il giorno prima di Eid- Al-Adha [importanti festività religiose islamiche, ndtr.], mentre andava in missione per riprendere la lotta dei commercianti palestinesi. A loro non restava altra scelta che scavare dei tunnel per poter svolgere una normale attività commerciale a causa delle restrizioni imposte dall’occupazione israeliana nelle zone di confine. Per Momen fare delle foto era solo un’altra sfida e stava gironzolando per trovare l’angolatura perfetta da cui scattare le immagini.

In un attimo Momen venne gettato a terra da un missile proveniente da un aereo da ricognizione israeliano che l’ha preso di mira direttamente e intenzionalmente. Il ventunenne perse conoscenza e sentì che l’anima stava abbandonando il suo corpo. Ma, mentre la vita gli stava passando davanti agli occhi, sentì una voce che lo implorava di andare avanti e di mettersi di nuovo in piedi. In quel momento, tutto quello che Momen disse a se stesso fu: “Non posso andarmene ora …. Non ho ancora fatto niente per la Palestina.”

L’inizio di una nuova vita

L’incidente capitato a Momen avvenne nel novembre 2008, durante un altro attacco israeliano contro Gaza durante l’operazione “Caldo Inverno” [dal 29 febbraio al 3 marzo 2008], durante la quale vennero usate contro civili inermi armi bandite a livello internazionale come le bombe al fosforo, e si lasciò dietro distruzioni massicce e un alto numero di morti. 

Fuori dalla sua finestra tutto stava crollando, ma Momen era sotto anestesia e non sentiva nulla. Non sapeva dove si trovasse o cosa gli fosse successo. Quando riprese conoscenza, gli dissero che era nell’ospedale Al-Shifa. Tutto cominciò a essere più chiaro, ma continuava a non sentire nulla. Allungando la mano per toccare le ferite sulle sue gambe, Momen non le trovò, non c’erano più!

I chirurghi avevano dovuto amputare entrambe le gambe sopra il ginocchio dato che la loro condizione continuava a peggiorare a causa della scarsità di attrezzature mediche dell’ospedale. La cancrena si era sviluppata e si era estesa a entrambe le gambe. Momen sarà confinato su una sedia a rotelle per il resto della sua vita. Per lui la possibilità di ottenere delle protesi è ridottissima a causa della continuazione del blocco e del peggioramento della situazione economica della Striscia. Ha passato 25 giorni nell’ospedale Al-Shifa prima di essere trasferito in Arabia Saudita per la riabilitazione.

La macchina fotografica, la mia migliore amica

Appena fuori dall’unità di terapia intensiva, la prima cosa che Momen ha cercato è stata la sua migliore amica, la macchina fotografica. Era l’ultimo raggio di speranza che aveva. La strinse al cuore sussurrandole: “e adesso non abbandonarmi.”

Momen parla della sua macchina fotografica: “Mi ha confessato che si sentiva frustrata perché scattava immagini di crimini di guerra contro civili disarmati, donne e bambini, sapendo di non poter cambiare la realtà di quello che stava succedendo …Poteva solo scattare immagini e aiutarmi silenziosamente a condividerle con il mondo e così non essere altro che una testimone.”

Un raggio di speranza

Dopo otto mesi di cure in Arabia Saudita, il destino aveva un piano per cambiare la vita di Momen, che aveva attirato una grande attenzione mediatica perché il suo percorso era eroico: sopravvissuto a un attacco brutale, entrambe le gambe amputate e ora determinato a ricostruirsi una vita, sempre sorridendo!

In mezzo a tutto quello che gli stava succedendo notò un reporter che spiccava fra gli altri. Una rifugiata palestinese che aveva passato tutta la sua vita in Arabia Saudita ed era molto interessata a raccontare la storia di Momen. La passione di Dima, la sua fiducia in sé e il suo coraggio hanno fatto innamorare follemente Momen. E lei non ha avuto alcun dubbio quando Momen le ha chiesto di sposarla, pur sapendo molto bene che sarebbe stato difficile lasciare la famiglia e iniziare una nuova vita a Gaza.

E adesso?

Consolato dall’amore, Momen adesso aveva una ragione per andare avanti. Dima l’ha motivato a non arrendersi, lei è stata la sua luce al fondo del tunnel che l’ha spinto, insistendo che sarebbe ritornato ancora più forte.

Con la sua sedia a rotelle e la macchina fotografica Momen ha dato un significato nuovo alla parola perseveranza. Si è rifiutato di stare a letto e ogni giorno si è alzato e ha affrontato la vita. Momen ha scelto di vivere. Ha attraversato paesaggi urbani diversi per scattare foto e non ha avuto paura di salire su auto, edifici, bulldozer, qualsiasi cosa che si frapponesse fra lui e la migliore inquadratura. La sua sedia a rotelle e la macchina fotografica sono diventate parti integranti del suo corpo.

La prima mostra internazionale di Momen è stata in Italia nel 2016. Ovviamente non ha potuto essere presente perché non gli è stato concesso un visto di viaggio. Ha partecipato via Skype e tenuto un discorso per suscitare interesse a favore della lotta palestinese.

La macchina fotografica di Momen era fiera di lui. Avevano ancora una lunga strada da percorrere insieme, ma questo era un primo passo importante nel mondo delle esposizioni internazionali. Dopo quella mostra, è stato conosciuto a livello internazionale ed è riuscito a pubblicare su varie piattaforme altri lavori che documentano la lotta quotidiana dei palestinesi.

In giro per il mondo in sedia a rotelle

Dopo che la sua richiesta di visto era stata respinta varie volte e a causa delle chiusure dei confini, Momen finalmente è riuscito a lasciare Gaza per partecipare alla sua prima mostra in Malesia. Il viaggio fino all’aeroporto internazionale del Cairo è stato movimentato e arrivato là non è stato facile muoversi nell’aeroporto con una sedia a rotelle. Ha dovuto aspettare otto giorni dentro l’aeroporto fino a quando il visto è stato accettato.

La famiglia di Momen è rimasta a Istanbul mentre lui era presente per la prima volta in Malesia alla sua mostra nel 2018.

Al suo ritorno a Istanbul, alla ricerca di una nuova opportunità, ha deciso di restare là.

Sfortunatamente nel 2019, ha perso il lavoro e non ha più percepito lo stipendio. Si trattava di un salario speciale conferito a chi era stato ferito durante la guerra e impossibilitato a lavorare. Questa perdita ha messo in pericolo lui, sua moglie e i loro quattro bambini.

Perché stava succedendo a loro? Tutte le difficoltà che Momen si era trovato davanti non erano colpa sua. Ogni peso che lo opprimeva dipendeva dal fatto che era un palestinese che voleva vivere libero.

A Momen e alla sua famiglia non è rimasta altra scelta che cercare un posto che li avrebbe accolti. All’inizio del 2020 hanno fatto domanda di visto per visitare l’Arabia Saudita e partecipare al pellegrinaggio della Umrah. Ovviamente non sapeva che il Covid-19 avrebbe colpito il mondo, bloccandolo là. Dato che il loro visto stava per scadere, hanno cercato un modo per ritornare in qualsiasi posto li accettasse. Data l’estrema difficoltà di ottenere un visto in un simile momento non trovavano altro che porte chiuse.

Catturare la verità a Gaza

Oggi, dopo sette difficili mesi, Momen e la sua famiglia sono finalmente nella Striscia di Gaza con i loro cari.

La fotografia per Momen, non è solo un hobby, è il suo modo di evadere, uno strumento che gli ha dato le ali per volar via dal blocco di Gaza. La macchina fotografica è dedita a fare il suo dovere, documentare in modo trasparente l’occupazione della Palestina. E, sebbene qualche volta sia stanca, non si arrende mai. Come Momen.

Insieme sono una coppia perfetta, nessuno lascia mai l’altro e insieme trasmettono un messaggio di determinazione, resilienza e patriottismo. Non smetteranno mai di lottare per far sentire la voce della Palestina.

Nonostante le difficoltà quotidiane, con i suoi obiettivi, sulla sua sedia a rotelle e con un sorriso sul volto capace di ispirare chiunque lo veda, Momen continua a catturare la verità.

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)




Signor Blinken, noi condividiamo storie familiari simili

Mona AlMsaddar

20 gennaio 2021 – We Are Not Numbers

Gaza

Una lettera aperta ad Antony Blinken, che sta per essere designato Segretario di Stato del presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Quando ha accettato la sua nomina, Blinken ha ricordato il suo patrigno Samuel Pisar, che era uno dei 900 bambini della sua scuola a Bialystok, in Polonia, ma l’unico [fra loro] sopravvissuto all’Olocausto dopo quattro anni [trascorsi] nei campi di concentramento. Ha continuato col ricordare la fuga di Pisar da una marcia della morte [si riferisce ai movimenti forzati di decine di migliaia dei prigionieri dai campi di concentramento polacchi che nell’inverno del 1944-45 stavano per essere raggiunti dalle forze sovietiche, verso altri lager all’interno della Germania, ndtr.] nella Germania controllata dai nazisti, dopo di che il ragazzo fu salvato da un soldato afro-americano. Poco prima di essere trasportato su un carro armato, Pisar “cadde in ginocchio e disse le uniche tre parole in inglese che conosceva, che sua madre gli aveva insegnato prima della guerra: “God bless America” [Dio benedica l’America, ndtr.]. (Questa storia rivela perché non sorprende che Blinken, nel corso della sua audizione di conferma, abbia detto ai senatori che non è sua intenzione riportare l’ambasciata degli Stati Uniti da Gerusalemme a Tel Aviv e abbia affermato che gli Stati Uniti riconoscono Gerusalemme come capitale di Israele.)

Caro signor Blinken,

credo che le persone rinascano mediante le loro sofferenze. Esse apprezzano meglio ciò che è utile per sopravvivere e imparano a trovare la felicità anche nei momenti più banali perché sanno quanto essa valga.

Seguo le notizie e quando lei è stato nominato ho voluto approfondire la mia conoscenza riguardo al suo passato e al perché lei la pensi in questo modo, in quanto, se sarà confermato dal Senato degli Stati Uniti, lei avrà molta influenza sulla mia vita. Lei, più di quasi ogni altro politico americano, guiderà le relazioni del suo Paese sia con Israele, che controlla la mia patria, sia con i palestinesi, che vivono sotto il suo tallone. Sono rimasta commossa e rattristata da quanto è successo al suo patrigno durante la seconda guerra mondiale. Sono profondamente dispiaciuta per il terrore e la perdita che ha vissuto come unico sopravvissuto tra i 900 bambini della sua scuola a Bialystok, in Polonia. E poi fuggire da una delle famigerate “marce della morte” di Hitler! Rabbrividisco al pensiero.

Ogni tragedia è unica. Ma leggere dell’esilio forzato del suo patrigno mi fa venire in mente i miei nonni materni e il loro trasferimento forzato in seguito alla fondazione di Israele nel 1948. Noi la chiamiamo Nakba (catastrofe). Come il suo patrigno i miei nonni sono stati costretti a lasciare la loro casa a causa della loro razza e religione.

Il padre di mia madre, Ahmad, all’epoca aveva solo 12 anni. Suo fratello, Ibrahim, ne aveva 15 e sua sorella solo 7. La loro famiglia viveva a Faja, un piccolo villaggio vicino a Giaffa, nell’attuale Israele. Oggi non c’è più. È stato inglobato nella città israeliana di Petah Tikva, che non mi è permesso visitare. L’assedio israeliano mi impedisce di lasciare Gaza, tanto più di entrare nella terra che la famiglia dei miei nonni ha chiamato patria per secoli.

Il mio bisnonno, Mohammad, era un uomo molto alto con gli occhi verdi come un limone non ancora maturo. Aveva una parte calva al centro della testa, quindi si pettinava i capelli in maniera tale da coprirla, ma in modo gradevole da vedere. Era l’unico a Faja ad avere una bicicletta. Vi pedalava con la sua amata moglie, Fatima, seduta in braccio. Sono cresciuti in una società tradizionalista, ma lui si è innamorato di lei da distante. Erano cugini e lui l’aspettava quando lei andava a prendere l’acqua, guardandola da lontano. Più tardi, quando si sono fidanzati e poi sposati, hanno lavorato la terra insieme negli aranceti.

Quella serena esistenza cessò nel 1947, quando le bande israeliane aprirono il fuoco contro il caffè del villaggio e le persone sedute all’interno. Erano tutti preoccupati per quello che avrebbe potuto accadere in seguito. Ma nessuno avrebbe mai immaginato che sarebbero stati costretti a fuggire dal loro amato villaggio e che non vi sarebbero più tornati!

La notte, nei miei sogni, posso ricostruire la loro fuga forzata, sulla base delle storie che mi raccontano i miei nonni. Loro erano solo dei bambini, come il suo patrigno, Signor Blinken. Correvano sotto la minaccia dei bombardamenti e camminavano a fatica per lunghe distanze da un villaggio all’altro, dormendo in tenda, incerti su cosa avrebbero mangiato o bevuto il giorno successivo. I miei bisnonni erano convinti che il loro esilio sarebbe stato solo temporaneo, ma mio nonno e i suoi fratelli ebbero nostalgia di casa sin dal primo giorno. Ancora oggi, quando li guardo negli occhi, riesco quasi a vedere Faja, lì che aspetta con i suoi aranci.

Il mio bisnonno amava giocare a seega (un gioco da tavolo egiziano simile agli scacchi) con i suoi amici sotto l’albero di eucalipto camaldulensis (noto anche come eucalipto rosso). Più tardi, come rifugiato nella città di Rafah, a Gaza, lui e uno dei suoi amici hanno continuato a giocare insieme fino alla morte del suo vecchio compagno di giochi. Quello era il loro modo di ricordare il loro villaggio.

Nel 1977 il mio bisnonno riuscì a visitare Faja, o meglio le sue rovine, con i suoi nipoti, compresa mia madre! La scuola frequentata da suo figlio Ahmad (mio nonno) non c’era più. E così il parco giochi del luogo. L’unica cosa che ritrovarono della Faja che conoscevano fu il solitario albero di eucalipto, che immaginavano sarebbe riuscito a sopravvivere, nell’attesa che i suoi giovani amici tornassero a giocare a seega sotto la sua chioma. Mia madre, Aysha, mi ha detto che quando suo padre vide l’albero si sedette sotto di esso e pianse! Avrebbe voluto restare lì per sempre, ma non poteva perché il suo permesso di permanenza rilasciato dagli israeliani stava per scadere. Il permesso di tornare nella terra di proprietà della sua famiglia era valido solo per una volta e per poche ore!

Posso chiederle di mettersi nei nostri panni? Chiuda gli occhi e immagini di voler tornare a casa dei suoi nonni. Ma l’ufficiale dell’aeroporto non glielo permetterà. Oppure, nella migliore delle ipotesi, può entrare in città solo per poche ore. Se rimanesse di più, verrebbe punito, probabilmente sbattuto in prigione. Come si sentirebbe, ci pensa? Definirlo crepacuore non è sufficiente a descrivere quello che provo ogni giorno.

Sono una ragazza palestinese di 25 anni per metà rifugiata (la famiglia di mio padre è nata qui), a cui non è mai stato permesso di lasciare il campo di concentramento di Gaza. Potrebbe pensare che sia eccessivo chiamarlo così, ma consideri: non siamo autorizzati a gestire un porto o un aeroporto e possiamo partire solo via terra se ci viene concesso un raro permesso. Tutto quello che so degli aeroplani riguarda i droni e i caccia a reazione. Conosco persino la differenza tra un F16 e un F35. Mentre scrivo questo il suono dei bombardamenti è tanto forte nel mio cuore. Non ci è permesso guadagnarci da vivere con le esportazioni. Abbiamo l’elettricità solo dalle quattro alle otto ore al giorno a causa della scarsità di carburante e la maggior parte della nostra acqua non è potabile perché non possiamo ricostruire i nostri impianti di trattamento delle acque reflue.

La nostra Nakba non è rimasta limitata al 1948. Continua ogni giorno che siamo costretti a vivere in queste condizioni. Quindi, per favore, signor Blinken, quando nei prossimi mesi prenderà decisioni sulla politica riguardante Israele e i palestinesi si ricordi della mia famiglia. Stiamo cercando in ogni modo di vivere e sopravvivere. Venga a trovarci per vedere di persona. Sarà mio ospite. Forse potremmo persino insegnarle il seega.

Fiduciosi saluti,

Mona AlMsaddar

Un’altra sopravvissuta alla guerra

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)