Il regalo dell’ANP a Biden è il ritorno a una strategia fallimentare

Omar Karmi

20 novembre 2020 – The Electronic Intifada

La notizia secondo cui l’Autorità Nazionale Palestinese ha deciso di riprendere il coordinamento con Israele dopo averlo sospeso per sei mesi non rappresenta una grande sorpresa.

Si tratta di un regalo di benvenuto a Joe Biden, il neoeletto presidente americano, che dimostra nel contempo la scarsità di idee della dirigenza dell’ANP.

In maggio la decisione di porre fine al coordinamento era stata presa di fronte alla minaccia di un’annessione formale da parte di Israele di circa il 30% della Cisgiordania occupata. Ma fin dall’inizio i politici palestinesi hanno fatto sapere che sarebbe stata una protesta per lo più simbolica.

Formalmente il coordinamento tra le forze di sicurezza palestinesi e l’esercito israeliano sarebbe dovuto finire. Ma le forze di sicurezza palestinesi hanno agito come se il coordinamento fosse ancora in atto. In altre parole nell’unico ambito che interessa ad Israele, la sicurezza, l’ANP ha subito fatto marcia indietro.

Il resto è stato solo atteggiarsi e farsi del male da soli.

È stata solo una posa perché, senza il coordinamento per la sicurezza, si è trattato di una mossa largamente priva di effetti concreti, rivolta più all’opinione pubblica interna – guardate, stiamo facendo qualcosa – che con la reale speranza di ottenere un qualunque effetto significativo.

È stata autolesionista perché tutto ciò che ne è derivato è stato che l’ANP ha finito per doversela cavare senza la riscossione delle tasse che Israele raccoglie a suo favore.

E, dato che ciò è avvenuto nel bel mezzo di una pandemia globale, ha anche comportato alcune conseguenze molto concrete, soprattutto a Gaza. Lì la fine del coordinamento ha voluto dire che una popolazione già imprigionata dal blocco israeliano ora non ha quasi nessuna possibilità di lasciare il territorio per cercare cure mediche.

Con un settore sanitario sull’orlo del collasso come diretta conseguenza delle sanzioni e dell’assedio israeliani, ciò ha provocato indicibili danni e sofferenze.

Il coordinamento tra l’ANP e Israele è il meccanismo attraverso il quale Israele impone il suo sistema di permessi ai palestinesi nei territori occupati, subìto in modo più pesante nella Striscia di Gaza isolata. Come potenza occupante, tuttavia, Israele conserva la responsabilità del benessere di tutte le persone sotto occupazione, indipendentemente dallo stato del coordinamento.

Una gloriosa vittoria

Ora si potrebbe sostenere, allo stesso modo degli EAU e del Bahrain, che il lavoro è stato fatto, la minaccia di un’annessione formale è superata e che non c’è bisogno di continuare a sospendere il coordinamento, soprattutto alla luce della sua natura autolesionista.

Tuttavia questo suggerirebbe che siano successe almeno due cose, entrambe palesemente false:

primo, che la mancanza del coordinamento tra Palestina e Israele abbia in un certo modo creato talmente tanti problemi ad Israele da fargli abbandonare l’annessione.

Secondo, che Israele abbia abbandonato l’annessione.

È vero che Israele ha accantonato il piano di annunciare formalmente l’annessione di altra terra occupata (ha già annesso formalmente le Alture del Golan e Gerusalemme est). Ma ha portato avanti la costruzione di colonie. Ogni insediamento edificato è un’annessione di fatto. Israele non sta spostando persone in un territorio che ha intenzione di evacuare a favore di uno Stato palestinese. Quindi porre fine al coordinamento con Israele non ha ottenuto assolutamente niente per i palestinesi. Tuttavia ciò non ha impedito a importanti politici dell’ANP di dichiarare che la ripresa del coordinamento è una “vittoria” per il popolo palestinese.

Senza dubbio in senso ironico.

Ci sono solo due ragioni per cui l’ANP ha ripreso il coordinamento e nessuna delle due ha qualcosa a che vedere con un successo diplomatico. La prima è la stretta finanziaria, che è reale. La seconda è stata l’elezione del presidente USA. L’ANP è desiderosa di presentare la (presumibilmente) entrante amministrazione Biden come un nuovo inizio.

Ma nella sua ansia di fare ciò l’ANP sta semplicemente per ristabilire la situazione precedente alla presidenza USA di Donald Trump e per ricominciare con la solita routine che per più di vent’anni non è servita a nessuno, se non a Israele.

Continuare a girare in tondo

Il primo segno delle intenzioni dell’ANP è la sua fretta di riprendere i rapporti diplomatici con gli EAU e il Bahrain, nonostante il loro “tradimento” con la normalizzazione delle relazioni con Israele.

Poi deve assicurarsi la riapertura della missione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina a Washington e una ripresa dei rapporti con gli USA. Questo può sembrare un momento promettente per ottenere qualche concessione dall’amministrazione entrante, desiderosa di prendere le distanze da quella uscente.

Tuttavia una concessione è fuori discussione: Biden ha detto molto tempo fa che non sposterà l’ambasciata USA da Gerusalemme.Ma i palestinesi potrebbero chiedere che gli USA chiariscano la loro posizione su Gerusalemme est come territorio occupato e sulle colonie come illegali in base al diritto internazionale. Queste non sono posizioni controverse a livello internazionale.

Nel corso degli anni gli USA hanno progressivamente alleggerito la loro posizione sulle colonie, arrivando al colmo quando l’amministrazione Trump le ha definite “non…in contraddizione” con le leggi internazionali. Ciò potrebbe fornire a Biden la possibilità di rompere con gli anni di Trump.

Ma Biden è profondamente coinvolto nella cultura filoisraeliana di Washington e, in ogni caso, indipendentemente da quale partito controlli il Congresso USA, dovrà sempre affrontare ostilità quando si tratta di qualunque cosa riguardi Israele.

Qualunque concessione sarà difficile. Ciò è particolarmente vero dal momento che la dirigenza dell’Autorità Nazionale Palestinese difficilmente si troverà a resistere quando la Casa Bianca gli farà l’occhiolino. Quindi non ci si aspetti alcun concreto tentativo di ottenere qualcosa dagli Stati Uniti o da Israele quando l’amministrazione Biden si farà sentire, cosa che inevitabilmente succederà. Al contrario, se e quando l’amministrazione Biden inviterà di nuovo l’OLP a Washington, la dirigenza palestinese non ci penserà due volte.

Di conseguenza, aspettiamoci di vedere cestinati in sordina i tentativi di unità con Hamas, e con essi i colloqui per le elezioni, in quanto l’ANP cerca di evitare qualunque cosa possa mettere in difficolta il presidente Biden.

Il leader dell’ANP Mahmoud Abbas potrebbe consigliare di vedere un nuovo tipo di processo di pace, guidato da un insieme di attori internazionali piuttosto che solo dagli USA.

Nel corso degli ultimi anni ha espresso ripetutamente questa posizione.

Ma ci vorrà poco perché i funzionari di un’amministrazione USA “più amichevole” convincano la loro controparte palestinese ad accettare come primi passi un ritorno dei finanziamenti USA all’ANP o all’UNRWA, l’agenzia dell’ONU che si occupa dei rifugiati palestinesi, insieme alla riapertura della missione dell’OLP a Washington, e a lasciar perdere altre richieste.

Dopodiché sarà solo questione di tempo prima che i palestinesi possano celebrare un’altra “vittoria” diplomatica: il ritorno alla situazione precedente a Trump.

Ovviamente ciò ha dato davvero buoni risultati ai palestinesi.

In mancanza di un cambiamento radicale di strategia da parte della dirigenza dell’OLP, stiamo per assistere di nuovo allo stesso disastroso processo di pace.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Dopo il voto negli Stati Uniti, tutti gli occhi sono puntati sulle elezioni israeliane

Jamal Zahalka

6 novembre 2020 – MIDDLE EAST EYE

Una quarta elezione israeliana nell’arco di due anni porterebbe sicuramente ad un governo più estremista. I palestinesi devono abbandonare la loro “politica di attesa” e contrastare questo percorso

I partiti politici israeliani stanno aspettando la fine delle elezioni americane per decidere le loro posizioni su una data potenziale per delle elezioni anticipate in Israele. Mentre il primo ministro Benjamin Netanyahu vorrebbe elezioni veloci nel caso in cui Donald Trump rimanesse presidente, il primo ministro supplente Benny Gantz le vorrebbe più tempestive se dovesse vincere lo sfidante democratico statunitense Joe Biden.

In Israele, una volta definiti i risultati delle elezioni statunitensi, inizierà la rapida corsa verso una nuova competizione elettorale – la quarta in meno di due anni.

Non c’è dubbio che l’esito del voto statunitense avrà un importante impatto sul Medio Oriente e sul mondo arabo, con questioni spinose in Palestina, Yemen, Libia, Siria, Iraq, Golfo, Iran e Turchia. Tutte le parti hanno iniziato a attrezzarsi per sfruttare le opportunità e prevenire possibili danni.

Anche le elezioni israeliane avranno un grande impatto, soprattutto dopo che un certo numero di paesi arabi hanno cementato legami con Israele che vanno oltre le relazioni diplomatiche – verso la cooperazione, l’alleanza e il partenariato. La parola “normalizzazione” sminuisce la natura di questo legame.

Alcuni paesi arabi preferirebbero che Netanyahu restasse al potere, per garantire la continuazione della sua linea dura sul dossier iraniano e per preservare la “divisione” palestinese. Da parte palestinese ci sarà molta attesa, come se i leader palestinesi fossero spettatori, piuttosto che attori, del processo.

Mentre molteplici scenari potrebbero verificarsi nelle elezioni israeliane, sappiamo già che il risultato sarà una vittoria della destra e la formazione di un governo più estremista e razzista. Tuttavia, sebbene questo processo abbia un impatto enorme sul destino dei palestinesi, la leadership sembra soddisfatta di continuare ad attendere. Ormai possiamo facilmente desumere che Israele non può aprire la strada verso una pace giusta, quindi perché aspettare?

Perché il movimento nazionale palestinese non sta facendo ciò che sarebbe necessario attraverso l’unificazione delle istituzioni, compresa l’azione politica e l’attivazione della resistenza popolare? Purtroppo più se ne parla meno si passa alla sua attuazione. Coloro che persistono nella “politica di attesa” dicono che le azioni congiunte da parte dei palestinesi contro l’occupazione hanno contrariato gli Stati Uniti e rafforzato la destra israeliana, mentre hanno indebolito il centro e la sinistra.

Tuttavia in realtà una delle ragioni principali della crescita del potere della destra è che la società israeliana non paga un prezzo per l’occupazione e le sue pratiche repressive. Netanyahu si vanta che la forza e il pugno di ferro di Israele garantiscono calma, sicurezza e stabilità mentre l’occupazione e le sue colonie rimangono in piedi.

Destra contro estrema destra

La sinistra sionista è scomparsa come forza politica significativa. Non è più in competizione con la destra, e anche le forze di centrodestra rappresentate da Yair Lapid, leader del partito Yesh Atid, e Gantz [a capo dell’alleanza centrista Blu e Bianco, ndtr.] non rappresentano più un’alternativa al governo della destra.

La competizione per il potere in Israele si è trasformata in una lotta tra la destra e l’estrema destra; tra il Likud di Netanyahu e l’alleanza di estrema destra Yamina di Naftali Bennett. Ciò rende impossibile l’idea di negoziati seri e di una pace giusta.

Sondaggi recenti indicano che alle prossime elezioni il Likud rimarrà il più grande partito, con 30 seggi, seguito da Yamina con 22 seggi. Così la competizione tra questi due [partiti] è diventata l’unica opzione possibile, e il risultato sarà una vittoria certa per la destra.

Netanyahu vuole che le elezioni si svolgano il prossimo luglio, sperando che, per allora, avrà sotto controllo l’attuale crisi economica e sanitaria. Il piano di Netanyahu include la normalizzazione con più paesi arabi, una politica che aumenta la sua popolarità in Israele: ciò è la prova che egli ha messo ai margini la causa palestinese e ottenuto una vittoria pacifica sugli arabi.

Nessuno crede che Netanyahu renderà effettivo l’accordo sull’alternanza della carica di primo ministro con Gantz prevista per novembre 2021. Dopo aver compreso ciò, e aver capito che Netanyahu sta cercando una finestra temporale per proclamare le elezioni anticipate, l’alleanza Blu e Bianca di Gantz ha chiesto lo scioglimento della partnership e elezioni anticipate, per impedire a Netanyahu di programmarle a proprio vantaggio.

Aggressività crescente

Tutti i segnali politici indicano che Israele si stia rapidamente avviando verso una quarta elezione nell’arco di due anni. Netanyahu ha iniziato la sua campagna per indebolire Bennett, con l’obiettivo di bloccare un governo alternativo o un altro accordo di alternanza della carica di primo ministro. L’istituzione di un governo guidato da Bennett non è uno scenario impossibile, soprattutto perché altri partiti sono pronti ad allearsi con lui contro Netanyahu.

Una stagione di elezioni in Israele comporterebbe il rischio di ulteriori attacchi aerei, sia per scopi militari che elettorali. Nei prossimi mesi potremmo assistere a un’escalation di aggressioni israeliane contro Iran, Libano, Siria e Palestina, e forse altre operazioni in coordinamento con i suoi “nuovi” e vecchi alleati arabi.

Forse una delle più importanti sarebbe un’operazione militare su larga scala per “disarmare” la Striscia di Gaza, già preparata dai servizi di sicurezza israeliani e dalle loro controparti statunitensi. Se si presenterà l’occasione, Netanyahu colpirà prima delle elezioni.

In generale, Israele è rivolto verso un maggior estremismo di destra, e ciò non sarà modificato dall’imminenza delle elezioni. Non dovremmo aspettare l’ ‘“evento” israeliano; quello che è necessario è un “evento” palestinese e arabo, nonostante le difficoltà, le complicazioni e gli ostacoli. Ciò comporta l’unità palestinese e una forte lotta di massa contro l’occupazione, con un serio impegno rivolto a fermare il processo di normalizzazione.

Il popolo palestinese non ha nulla da perdere tranne le proprie catene, e non ha niente da aspettare, tranne l’appuntamento con una battaglia per la libertà e la dignità.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Jamal Zahalka è un cittadino palestinese di Israele membro della Knesset in rappresentanza del partito Balad [partito arabo israeliano, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La tecnologia israeliana scopre un tunnel d’attacco a Gaza e mette Hamas a dura prova

Ben Caspit

23 ottobre 2020 – AL-MONITOR

L’esercito israeliano sa che la scoperta di un grosso tunnel terroristico di Hamas non significa che l’organizzazione abbandonerà i suoi tentativi di attaccare Israele.

*Nota redazionale: nell’articolo di Ben Caspit sono riportate alcune affermazioni che non condividiamo anche se il contenuto è interessante e degno di essere pubblicato.

Questa settimana è iniziata con una intensa attività militare israeliana lungo tutta la barriera di confine con la Striscia di Gaza, caratterizzata da un ammassamento di truppe, dispiegamento di carri armati Merkava Mark 4 e allestimento di punti di raduno e di stazionamento provvisori. Le IDF [forze armate israeliane, ndtr.] hanno anche chiuso le strade al traffico civile e hanno ordinato ai lavoratori agricoli di stare lontano dai campi lungo il confine. Chiaramente qualcosa era in corso sotto terra, anche se una calma carica di tensione aleggiava sopra. Il 20 ottobre, il segreto è stato svelato con l’annuncio da parte delle IDF che avevano identificato un tunnel di attacco di Hamas scavato da Gaza che si estendeva per alcune decine di metri in Israele. “Un tunnel terroristico molto, molto importante”, come è stato definito il giorno dopo dal tenente generale delle IDF Aviv Kochavi.

Il tunnel non è solo importante e di natura strategica, è anche il primo risultato conosciuto della massiccia barriera sotterranea che Israele ha scavato lungo il confine di Gaza fino a una profondità di diverse decine di metri. La “barriera”, come viene definita, è un’innovazione israeliana unica e altamente complessa progettata per porre fine all’arma dei tunnel strategici sviluppata e utilizzata da Hamas negli ultimi anni, dopo essersi resa conto che non sarebbe stata in grado di prevalere contro le IDF sulla terra, nell’aria o sul mare. Con la recente realizzazione quasi completa della barriera, Hamas è stata privata anche di questo teatro militare sotterraneo.

Il nuovo tunnel è stato scoperto dalla sofisticata tecnologia dei sensori montati sulla barriera in profondità nel sottosuolo. Il muro – del costo di centinaia di milioni di dollari – è dotato di strumenti tecnologici capaci di rilevare movimenti, perforazioni e qualsiasi tipo di lavoro svolto sotto terra. Il tunnel sembra essere stato rilevato il 18 ottobre. Il giorno successivo, è stata introdotta una potente attrezzatura di perforazione ed è stato trovato il tunnel che attraversava il confine e si avvicinava molto alla barriera costruita sul lato israeliano. “Il tunnel più importante che abbiamo visto fino ad oggi, sia in termini di profondità che di infrastrutture”, ha detto sotto anonimato ad Al-Monitor una fonte militare israeliana di alto livello.

Le IDF hanno rifiutato di rivelare ulteriori dettagli, ma si ritiene che Hamas abbia investito pesantemente in un tunnel più profondo e più ampio di quelli scavati in precedenza, dotandolo di elettricità, linee telefoniche e altri strumenti che lo hanno trasformato in un’arma strategica con un potenziale particolarmente letale, adatto all’invio di terroristi in Israele per organizzare attacchi e rapimenti. Hamas ha impiegato per lo scavo del tunnel dozzine di operai che hanno lavorato in gran segreto con turni di 24 ore su 24, 7 giorni su 7. “Il danno ad Hamas derivante dalla scoperta di questo tunnel è notevole”, ha detto in anonimato ad Al-Monitor un’importante fonte della sicurezza israeliana. “Denaro, energia, lavoro e tempo che avrebbero potuto essere investiti nella cura degli abitanti impoveriti di Gaza”.

Israele e Hamas stanno ora giocando al gatto con il topo. Hamas non ha rinunciato del tutto all’idea del tunnel, ma ha iniziato a predisporre delle alternative, come alianti che esplodono, velivoli Buckeye a motore per parapendio e altri mezzi per attraversare la recinzione che Israele ha costruito sulla terra lungo il confine.

Contemporaneamente Hamas continua a esaminare i punti deboli e i limiti della barriera. “Cercheranno di scavare in profondità dove pensano che la barriera non arrivi”, ha riferito ad Al-Monitor un alto ufficiale delle IDF in incognito. Tuttavia questo tipo di risposta non appare ovvia. In effetti scavare così in profondità sarebbe probabilmente estremamente difficile – per non dire un’impresa impossibile, data la posizione della falda acquifera costiera, il bacino idrico più importante di Israele situato nella regione a una profondità relativamente bassa.

Tuttavia, entrambe le parti si rendono conto che la barriera, proprio come il sistema antimissile Iron Dome, fornisce a Israele una difesa efficace ma non infallibile. Proprio come gli intercettori Iron Dome non possono garantire che tutti i missili lanciati da Gaza contro Israele siano deviati, così la barriera non è un ostacolo totalmente impenetrabile. I palestinesi continueranno a cercare modi per aggirarlo, soprattutto perché non hanno altra scelta.

Dopo che le IDF hanno individuato il tunnel e iniziato a esaminarlo, sia Hamas che Israele hanno precisato che il fatto non avrebbe compromesso i tentativi in corso di organizzare un cessate il fuoco a lungo termine tra le parti e mantenere la calma preservata negli ultimi mesi lungo il confine. Queste dichiarazioni si sono volatilizzate davanti a due razzi lanciati da Gaza verso la città di Ashkelon nella tarda giornata del 22 ottobre. Uno è stato intercettato dall’Iron Dome, l’altro è caduto su una zona disabitata. Qualche ora dopo l’aviazione israeliana ha bombardato obiettivi di Hamas a Gaza, in quello che è diventato un ciclo quasi di routine di lanci occasionali di razzi e rappresaglie. Tuttavia entrambe le parti sanno che se anche un solo razzo attraversasse lo scudo dell’intercettore e provocasse vittime israeliane, tutti gli accordi salterebbero.

Nel frattempo, anche se indirettamente negozia con Israele un cessate il fuoco, Hamas continua ad armarsi. Israele continua a seguire con grande preoccupazione i tentativi dell’organizzazione di migliorare la propria capacità militare nonostante sia isolata e sotto assedio sia da parte di Israele che dell’Egitto. “È proprio questo fatto che incoraggia gli ingegneri di Hamas a continuare a provare”, ha detto ad Al-Monitor un’altra importante fonte di sicurezza israeliana anonima. “A differenza di Hezbollah, che ottiene tutto pronto dall’Iran, Hamas non ha queste possibilità e deve prendere la via difficile”. Israele sta monitorando da vicino i nuovi test missilistici di Hamas lungo la costa di Gaza e i continui tentativi del gruppo islamista di ottenere capacità navali e sviluppare esplosivi evoluti in grado di violare la barriera di confine.

Allo stesso tempo, le IDF continuano a sostenere pienamente gli sforzi per migliorare l’economia di Gaza e sviluppare progetti di infrastrutture civili. Sostengono inoltre un incremento del numero di abitanti di Gaza autorizzati a lavorare in Israele nel tentativo di affrontare la dilagante disoccupazione dell’enclave, anche se devono affrontare un difficile dilemma sul consentire al Qatar di continuare a fornire ad Hamas massicce forniture di denaro per garantirne la sopravvivenza. “Sappiamo che parte del cemento che va a Gaza [per l’edilizia civile] viene utilizzato per costruire tunnel”, ha detto la seconda fonte della sicurezza israeliana. “Ancora non abbiamo su questo un controllo adeguato. Sappiamo che il tunnel scoperto questa settimana non è l’ultimo, ma speriamo che il miglioramento economico nella Striscia di Gaza migliori la stabilità. Le persone che lavorano per vivere, non scavano tunnel”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Rapporto OCHA del periodo 6 – 19 ottobre 2020

La stagione della raccolta delle olive, iniziata il 7 ottobre, è stata perturbata o interrotta, da 19 episodi provocati da persone ritenute, o riconosciute, come coloni israeliani: 23 agricoltori palestinesi sono rimasti feriti, oltre 1.000 ulivi sono stati bruciati o danneggiati in altro modo, e grandi quantità di prodotti sono stati rubati

Nella periferia del villaggio di Burqa (Ramallah), in tre occasioni, coloni hanno preso a sassate e aggredito fisicamente palestinesi intenti a raccogliere olive, innescando scontri. In uno di tali scontri sono intervenute le forze israeliane: 14 palestinesi sono rimasti feriti e 30 alberi sono stati bruciati dai lacrimogeni. Gli altri ferimenti sono stati registrati in zone agricole nei pressi della città di Huwwara (Nablus) e nei villaggi di Ni’lin e Beitillu (Ramallah). Nei pressi dell’insediamento israeliano di Mevo Dotan (Jenin), circa 450 ulivi sono stati dati alle fiamme e distrutti; poco prima i contadini palestinesi del villaggio di Yaabad erano stati attaccati da coloni e costretti dai soldati israeliani ad allontanarsi. Anche nel villaggio di Saffa (Ramallah), in un’area chiusa dietro la Barriera, alcune centinaia di ulivi appartenenti a palestinesi sono stati incendiati e danneggiati. In altre dieci località, attigue ad insediamenti colonici, gli agricoltori, allorquando hanno potuto raggiungere i loro terreni, hanno scoperto che i loro ulivi erano stati vandalizzati o che i prodotti erano stati raccolti e rubati. Molti degli episodi hanno avuto luogo in aree ad “accesso limitato”; aree nelle quali, durante l’intera stagione del raccolto, le autorità israeliane consentono l’accesso ai palestinesi per soli due-quattro giorni.

Sono stati registrati altri quattro attacchi da parte di persone ritenute coloni [seguono dettagli]. Nel governatorato di Betlemme, un bimbo palestinese di un anno è rimasto ferito nell’auto su cui viaggiava, colpita da pietre. Nella vicina Al Khader, 40 alveari sono stati dati alle fiamme e bruciati. Nell’area Farsiya della Valle del Giordano settentrionale, pastori palestinesi sono stati aggrediti fisicamente da un gruppo di coloni e una delle loro pecore è stata uccisa. Nel villaggio di Jalud (Nablus) sono stati tagliati e danneggiati pali e cavi elettrici che portano energia a locali agricoli [palestinesi].

Le autorità israeliane hanno annunciato che, durante la stagione della raccolta delle olive, per gli agricoltori palestinesi vi saranno facilitazioni nel rilascio dei permessi di accesso alle loro terre che si trovano dietro la Barriera. In una lettera a un Gruppo israeliano per i Diritti umani, HaMoked, le autorità hanno comunicato che, a coloro che lo avevano ottenuto durante la stagione precedente, il permesso sarebbe stato concesso automaticamente e che il ritiro doveva essere effettuato presso gli uffici israeliani di coordinamento e collegamento distrettuale (DCL). Tuttavia, questa disposizione non verrebbe applicata [ai palestinesi] su cui pendono “obiezioni di sicurezza”. Negli ultimi mesi gli uffici della DCL sono stati sovraffollati, sollevando preoccupazioni per le potenziali trasmissioni COVID-19.

In Cisgiordania, oltre ai summenzionati episodi connessi alla raccolta delle olive, in scontri [tra palestinesi e forze israeliane] sono rimasti feriti ottantacinque palestinesi, tra cui almeno 11 minori, e due soldati israeliani [seguono dettagli]. La stragrande maggioranza di questi ferimenti è stata registrata nei campi profughi di Al Am’ari, Al Jalazun (Ramallah), Al Arrub (Hebron) e Balata (Nablus), a seguito di operazioni di ricerca-arresto ed episodi di lancio di pietre. Ad Al Jalazun, i soldati hanno sparato grandi quantità di lacrimogeni contro studenti che, a quanto riferito, avevano lanciato pietre; successivamente i militari sono entrati nell’edificio scolastico ed hanno rinchiuso gli studenti nelle aule. Cinque palestinesi sono rimasti feriti in scontri scoppiati durante l’aratura di un terreno prossimo all’insediamento colonico di Elon More; terreno di cui coloni israeliani avevano tentato di appropriarsi per stabilirvi un avamposto. I rimanenti ferimenti sono stati registrati in altri scontri o durante tentativi di entrare in Israele attraverso brecce della Barriera. Nel complesso, 21 palestinesi sono stati colpiti da proiettili di gomma e dieci da proiettili di armi da fuoco, mentre la maggior parte delle restanti persone sono state curate per inalazione di gas lacrimogeno.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 126 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 132 palestinesi. La metà delle operazioni sono state registrate nel governatorato di Gerusalemme; in particolare, il quartiere Al ‘Isawiya di Gerusalemme Est è stato sottoposto ad attività di polizia, quasi quotidiane, che hanno portato all’arresto di 30 palestinesi, compresi 13 minori.

Il 16 ottobre, da Gaza, un gruppo armato palestinese ha lanciato un razzo verso il sud di Israele, colpendo un’area aperta, senza provocare feriti. Sempre a Gaza, presumibilmente per far rispettare le restrizioni di accesso alle aree prossime alla recinzione perimetrale israeliana e al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 30 occasioni, senza provocare feriti.

Il 18 ottobre, le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza, ad est di Khan Younis, ed hanno devastato con buldozer terreni a circa 400 metri dalla recinzione perimetrale, distruggendo vaste aree di colture e sistemi di irrigazione. Secondo fonti israeliane, le operazioni avevano lo scopo di distruggere tunnel scavati da gruppi armati palestinesi per scopi militari.

In Area C, per mancanza di permessi di costruzione emessi da Israele, in tre circostanze, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato otto strutture di proprietà palestinese, sfollando 12 persone. Cinque delle strutture si trovavano in due Comunità nell’area di Massafer Yatta a Hebron, in un’area designata [da Israele] “zona per esercitazioni a fuoco”, destinata all’addestramento militare israeliano. Le restanti tre strutture sono state demolite nella Comunità di Al Farisiya-Khallet Khader della Valle del Giordano, sulla base di “Ordini Militari 1797” che consentono di effettuare le demolizioni entro 96 ore dall’emissione degli stessi. Nessun episodio è stato registrato a Gerusalemme Est, dove, il 1° ottobre, le autorità israeliane avevano annunciato che, a causa della pandemia COVID-19, avrebbero sospeso la demolizione di case abitate.

Un israeliano è rimasto ferito e nove veicoli israeliani, che viaggiavano all’interno della Cisgiordania, hanno subito danni ad opera di aggressori ritenuti palestinesi che, secondo fonti israeliane, hanno lanciato pietre o bottiglie di vernice.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina:https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Aerei da guerra israeliani attaccano le posizioni di Hamas nella Striscia di Gaza

Al-Jazeera e agenzie

21 ottobre 2020 – Al Jazeera

Fonti palestinesi dicono che l’esercito israeliano ha colpito due aree agricole a Khan Younis e Deir al-Balah.

Secondo l’esercito israeliano aerei da guerra israeliani hanno effettuato un’incursione colpendo posizioni di Hamas nella Striscia di Gaza assediata.

Il portavoce dell’esercito israeliano Avichay Adraee ha detto su Twitter che le incursioni di martedì hanno colpito un presunto tunnel dell’organizzazione palestinese Hamas, aggiungendo che l’attacco è stato effettuato in risposta al lancio di razzi da Gaza.

Tuttavia, testimoni oculari palestinesi affermano che due aree agricole a Khan Younis e Deir al-Balah sono state colpite da tre missili.

In precedenza, l’esercito israeliano aveva detto che un razzo lanciato dalla zona di Khan Younis era stato “intercettato dal sistema di difesa aerea Iron Dome”, senza indicare se abbia causato vittime o danni.

Nessun gruppo ha rivendicato la responsabilità del razzo né è stato fatto alcun commento in merito da parte delle autorità palestinesi.

Finora non si hanno informazioni su vittime in nessuno dei due attacchi.

Alcune ore prima che il razzo fosse lanciato da Khan Younis martedì, l’esercito israeliano ha annunciato di aver trovato un tunnel che da Gaza sconfina “per decine di metri dentro Israele”.

Il portavoce dell’esercito israeliano Jonathan Conricus ha affermato che Israele non sa chi abbia scavato il tunnel, ma di ritenere Hamas responsabile di tutte le attività nell’enclave palestinese.

I palestinesi hanno usato i tunnel sotterranei per contrabbandare ogni sorta di merci a Gaza.

La Striscia di Gaza, impoverita e densamente popolata, dal 2007 è sottoposta a un paralizzante blocco israeliano, dopo che Hamas ha preso il controllo dell’enclave costiera.

Alla fine di settembre Hamas e Israele hanno raggiunto un accordo per la cessazione delle ostilità, ma gli attacchi sono continuati.

Israele ha lanciato tre offensive contro la Striscia di Gaza dal 2008, e ci sono state numerose fasi acute di scontri.




Perché il mito di “Pallywood” persiste

Natasha Roth-Rowland

15 ottobre 2020 – +972

Un’eredità durevole della Seconda Intifada è la perfida idea che i palestinesi non siano affidabili quando raccontano le loro esperienze dell’oppressione israeliana.

Il 30 settembre 2000, all’inizio della Seconda Intifada, un cineoperatore palestinese che lavorava per una rete televisiva francese filmò quello che sarebbe diventato un famoso scontro a fuoco a Gaza. Durante una prolungata sparatoria al valico di Netzarim, il dodicenne Muhammad al-Durrah e suo padre Jamal si trovarono in mezzo dal tiro incrociato tra israeliani e palestinesi.

Il cineoperatore, Talal Abu Rahma, filmò la coppia mentre cercava un rifugio e, dopo qualche raffica di arma da fuoco durante le quali le riprese vennero interrotte, le immagini mostrarono Muhammad crollare in braccio al padre. Colpito da uno sparo letale all’addome, morì poco dopo in seguito alle ferite.

L’incidente, spesso citato come “la questione Al-Durrah”, divenne il punto d’inizio del termine dell’hasbara [propaganda israeliana] “Pallywood”. Parola composta di “palestinese” e “Hollywood”, suggerisce che, per scopi propagandistici contro Israele, i palestinesi recitano scene che mostrano gli spari dell’esercito israeliano contro civili. Il termine venne coniato da Richard Landes, un medievalista americano, che nel 2005 fece un breve documentario definendo la sua teoria di quella che chiamò “una fiorente industria di cinema all’aperto.”

L’accusa di “Pallywood” ora è una fiorente industria in sé, essendo stata ampiamente applicata ad episodi che vanno dagli attacchi aerei israeliani fino all’uccisione con armi da fuoco nel 2014 di due adolescenti palestinesi durante le proteste del giorno della Nakba. È diventata un luogo comune, il cui scopo è mettere in dubbio a priori ogni accusa di crudeltà o uso eccessivo della forza da parte delle forze di sicurezza israeliane, soprattutto quando vengono riprese in video. Infatti, in base alla logica dell’accusa di “Pallywood”, il solo fatto che la violenza sia stata documentata in immagini è una ragione in più, non in meno, per dubitare della sua esistenza.

Seguendo le orme di Landes, è spuntata una legione di esperti di psicologia forense e comportamentale in poltrona che decostruiscono video della violenza israeliana contro i palestinesi. Lo scopo è screditare quello che è stato filmato, e quindi minare tutta la narrazione palestinese sull’occupazione, un proiettile alla volta.

Questa guerra contro le immagini, e la solidarietà, non è iniziata con il cliché di “Pallywood”, e non è affatto unica. Come in ogni zona di conflitto, la propaganda gioca un importante ruolo nelle società sia israeliana che palestinese, una pratica che spesso interferisce con i tentativi di decodificare narrazioni in contrasto tra loro e riferire informazioni accurate sul terreno. Tuttavia questa propaganda non può essere disgiunta dal differenziale di potere tra le due parti, una che tenta di resistere all’occupazione e all’oppressione, l’altra che cerca di conservarle, giustificarle o persino negarle.

Questa asimmetria è una ragione fondamentale per la quale Israele è stato particolarmente sensibile al conflitto di narrazioni fin da molto prima che emergesse il cliché di “Pallywood”. La Prima Intifada, iniziata nel 1987, rese famosa l’iconica dinamica dei manifestanti palestinesi, soprattutto giovani e donne, che affrontavano i carrarmati israeliani con nient’altro che pietre.

La consapevolezza israeliana della pubblicità negativa determinata dal suo uso eccessivo della forza è a lungo sopravvissuta a quel momento. Nel 2013, per esempio, l’esercito israeliano annunciò che avrebbe smesso di utilizzare fosforo bianco come arma chimica contro i palestinesi a Gaza perché “non è fotogenico” (questa dichiarazione giunse dopo che l’esercito aveva negato di aver utilizzato fosforo bianco durante l’operazione “Piombo Fuso” del 2008-09, poi negò di averlo utilizzato in aree urbane, e infine ammise di averlo fatto con l’avvertenza che il suo uso era giustificato).

Una riedizione di “Pallywood”

Le indagini iniziali di Israele sulla sparatoria di al-Durrah riconobbero che il ragazzino poteva essere stato colpito da una pallottola israeliana. Ma il capo dell’esercito nei territori occupati dell’epoca, il generale di divisione Yom-Tov Samia, dichiarò che c’erano “forti dubbi” riguardo a questa possibilità e disse che era molto probabile che al-Durrah fosse stato ucciso da un proiettile palestinese.

A cinque anni di distanza, poco dopo che uscisse il film di Landes, questa velata supposizione venne ritirata: un altro ufficiale delle IDF [Israeli Defence Forces, l’esercito israeliano, ndtr.] affermò invece che l’esercito non era assolutamente responsabile della morte di al-Durrah. Nel 2013 il governo andò anche oltre: su richiesta personale del primo ministro Benjamin Netanyah il governo avviò un’ulteriore inchiesta, che concluse non solo che le IDF non avevano sparato ad al-Durrah, ma che egli non era stato affatto colpito. Una riedizione di “Pallywood”.

Questi amanti di “Pallywood” per sostenere le loro affermazioni riescono in genere a basarsi sulle smentite e sugli insabbiamenti del governo israeliano. Quando nel 2014 durante le proteste del Giorno della Nakba a Beitunia le forze di sicurezza israeliane colpirono tre adolescenti palestinesi con proiettili veri, uccidendone due, fonti ufficiali israeliane, sia militari che civili, si unirono per affermare che le immagini della CCTV [televisione cinese, ndtr.] di tutta la sparatoria erano state manipolate.

A loro si unirono importanti commentatori della diaspora, uno dei quali suggerì che le accuse contro l’esercito israeliano avrebbero potuto benissimo rappresentare “una nuova versione dell’accusa del sangue (sic) di al-Durrah”, evocando un mito antisemita cristiano medievale. La Corte Suprema israeliana in seguito condannò un agente della polizia di frontiera a 18 mesi di prigione per aver sparato uno dei proiettili.

Allo stesso modo quando nell’agosto 2015 nel villaggio di Nabi Saleh un soldato israeliano si mise a cavalcioni sul dodicenne Mohammed Tamimi e lo prese per il collo per arrestarlo nonostante Tamimi avesse il braccio destro ingessato, entrò di nuovo in azione il marchio “Pallywood”. Questa volta la diffamazione venne diretta contro l’allora tredicenne Ahed Tamimi, una parente di Mohammed che era tra coloro che avevano impedito il suo arresto. Benché le foto della vicenda fossero indiscutibili, Mail Online, con sede in GB, istigato da propagandisti filoisraeliani, modificò il proprio titolo sull’incidente per sostenere che Ahed si era “rivelata come una prolifica stella di ‘Pallywood’.”

Numerosi messaggi sulle reti sociali cercarono inoltre di sostenere che il braccio di Mohammed non fosse per niente rotto, mostrando foto di lui con il gesso su un altro braccio, omettendo il fatto che queste foto erano di anni prima. La difesa delle azioni dei soldati da parte dell’esercito fu che Mohammed aveva lanciato pietre e che non sapevano che fosse un minorenne.

Diffamare gli oppressi

L’accusa di “Pallywood” non svanisce nemmeno quando l’esercito conferma la versione degli avvenimenti che risulta dai filmati. Nell’ottobre 2015 agenti israeliani in borghese vennero ripresi e fotografati mentre si infiltravano in una manifestazione nei pressi di Betlemme, nella Cisgiordania occupata, con kefiah attorno alla testa, prima di brandire le loro armi e arrestare dei manifestanti, a uno dei quali spararono a una gamba da distanza ravvicinata.

Un portavoce delle IDF confermò questa serie di avvenimenti, descrivendo lo sparo [contro il manifestante] come “un colpo preciso che ha reso innocuo il principale sospettato.” Tuttavia commentatori del video sulle reti sociali insistettero che si trattava di una ingannevole produzione di “Pallywood”. Come ha scritto acutamente all’epoca su +972 Lisa Goldman, “quando la gente non può credere ai propri occhi, in genere si tratta di ideologia.”

Questa ideologia alimenta una più generale e pericolosa idea secondo cui gli atti di violenza contro i palestinesi, sia da parte di soldati che di civili israeliani, non sono mai quello che sembrano. È per questo che, per esempio, quando nel 2014 i coloni israeliani rapirono il sedicenne Muhammad Abu Khdeir fuori da casa sua a Gerusalemme est e lo torturarono a morte, inizialmente la polizia insinuò, con un certo successo, che Abu Khdeir fosse stato ucciso dalla sua famiglia perché era gay (e non lo era), oppure che fosse stato vittima di una faida locale.

È per questo che, dopo che nell’estate 2015 due coloni israeliani uccisero membri della famiglia Dawabshe a Duma, investigatori dilettanti produssero “prove” infinite secondo cui gli ebrei non erano stati responsabili dell’attacco, compresa l’affermazione che le scritte sul muro trovate sul posto non fossero di un ebreo madre lingua. Ed è per questo che, nel tentativo di dimostrare che i palestinesi di Gaza non stiano soffrendo in seguito al blocco e agli attacchi militari [israeliani], interventi in rete a favore di Israele amano condividere foto (vere e false) di supermercati, caffè e altre zone di Gaza che non sono state ridotte in macerie dai bombardamenti aerei israeliani, come se ogni apparenza di “normalità” palestinese rendesse ogni distruzione israeliana un lavoro di fantasia, un miraggio inteso solo a ingannare.

Insieme al suo pernicioso razzismo, il problema dell’accusa di “Pallywood”, ancora fiorente due decenni dopo la vicenda di al-Durrah, consiste nelle sue disoneste pretese di preoccuparsi della correttezza giornalistica. In un’epoca di “deepfakes” [false notizie ottenute manipolando le immagini, ndtr.] e bots [programmi che infettano i computer, ndtr.], i tentativi di garantire la verità nell’informazione sono fondamentali. Ma le innumerevoli “inchieste” sui video della violenza israeliana contro i palestinesi non riguardano l’approfondimento di avvenimenti specifici, intendono inculcare il concetto secondo cui i palestinesi non possono essere creduti riguardo a niente di quello che dicono in merito a ciò che subiscono per mano dei soldati e dei coloni israeliani.

Come strategia essa precede di molto le accuse di “notizie false” che accompagnano informazioni tutt’altro che lusinghiere su politici e governi. Ma il tentativo è lo stesso: diffamare gli oppressi, delegittimare le loro lotte e distogliere lo sguardo del mondo dalla violenza dell’oppressore.

Natasha Roth-Rowland è studentessa di dottorato in storia all’università della Virginia, è ricercatrice e scrive sull’estrema destra ebraica in Israele-Palestina e negli USA. In precedenza ha passato parecchi anni come giornalista, editorialista e traduttrice in Israele-Palestina e il suo lavoro è stato pubblicato su The Daily Beast [sito di notizie statunitense, ndtr.], sul blog della London Review of Books [prestigiosa rivista britannica, ndtr.], Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.], The Forward [storico giornale della comunità ebraica statunitense, ndtr.], e Protocols [rivista di sinistra della diaspora ebraica, ndtr.]. Scrive con il vero cognome della sua famiglia in memoria di suo nonno, Kurt, che venne obbligato a cambiare il suo cognome in Rowland quando cercava di rifugiarsi in GB durante la Seconda Guerra Mondiale.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 22 settembre – 5 ottobre 2020

Il 5 ottobre, nei pressi del villaggio di Beit Lid, a Tulkarm, le forze israeliane hanno colpito con arma da fuoco e ucciso un palestinese di 28 anni.

Secondo fonti di media israeliani, l’uomo faceva parte di un gruppo di tre persone che stavano lanciando bottiglie incendiarie contro soldati vicino al checkpoint di Enav; le altre due persone sono riuscite a fuggire. Questa morte porta a 20 il numero di palestinesi uccisi in Cisgiordania dall’inizio dell’anno.

In Cisgiordania, durante il periodo in esame, 27 palestinesi sono stati feriti dalle forze israeliane [seguono dettagli]. Nella città di Hizma (Gerusalemme), in circostanze non ancora chiare, soldati israeliani hanno sparato, ferendo alla testa un ragazzo di 15 anni. Vicino al villaggio di Qusra (Nablus), le forze israeliane, intervenute per fermare uno scontro tra coloni e agricoltori, hanno sparato proiettili di gomma e lacrimogeni, ferendo otto palestinesi. Gli scontri erano scoppiati dopo che alcuni coloni avevano aggredito contadini palestinesi intenti a lavorare la propria terra. A Kafr Qaddum (Qalqiliya), sette palestinesi sono rimasti feriti durante la protesta settimanale. Altri due sono rimasti feriti nel villaggio di ‘Asira al Qibliya, dove agricoltori palestinesi ed attivisti stavano arando e piantando alberi su un terreno, nel tentativo di impedire ai coloni di impossessarsene. Inoltre, nei Campi profughi di Jenin e Ein as Sultan (Gerico), e nei villaggi di Surif e Beit Ummar (entrambi a Hebron), nel corso di scontri per motivi specifici con le forze israeliane, sono stati registrati quattro feriti. Altri tre palestinesi sono rimasti feriti, in circostanze non chiare, nel villaggio di Kafr Malik (Ramallah) e nella città di Jenin. I restanti due palestinesi sono rimasti feriti nei governatorati di Tulkarm e Jenin, nel tentativo di entrare in Israele attraverso brecce nella Barriera. Complessivamente, 14 persone sono state ferite da proiettili gommati, nove da proiettili di arma da fuoco e i rimanenti sono stati aggrediti fisicamente o hanno avuto bisogno di trattamento medico a seguito dell’inalazione di gas lacrimogeno.

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno effettuato 226 operazioni di ricerca ed hanno arrestato almeno 180 palestinesi; ciò rappresenta un aumento dell’87% rispetto alla media quindicinale registrata finora nel 2020. Come in precedenti settimane, la maggior parte delle operazioni (42) è avvenuta nel governatorato di Gerusalemme, in particolare nel quartiere Al ‘Isawiya di Gerusalemme Est, seguito dai governatorati di Hebron (35) e Qalqiliya (31). Ad al ‘Isawiya, nella notte del 1° ottobre, e fino a mezzogiorno del giorno successivo, si è svolta un’operazione su vasta scala, con almeno 18 [dei 180] palestinesi arrestati. Ad Al Isawiya, dalla metà del 2019, sono in corso intense operazioni di polizia che generano un aumento delle tensioni ed interruzioni delle attività quotidiane per almeno 18.000 residenti.

Il 25 settembre, le forze navali egiziane hanno aperto il fuoco contro un peschereccio palestinese, uccidendo due pescatori e ferendone un altro. L’imbarcazione sulla quale stavano navigando i tre pescatori, che erano fratelli, secondo quanto riferito, avrebbe sconfinato nelle acque egiziane a sud della città di Rafah. Dal novembre 2018, questo è il primo episodio in cui pescatori palestinesi vengono uccisi da forze egiziane. Il Sindacato di pesca a Gaza ha chiesto di sospendere la pesca per un giorno per protestare contro l’accaduto.

Il 5 ottobre, un gruppo armato palestinese ha lanciato un razzo verso il sud di Israele, senza provocare feriti o danni a proprietà. Successivamente, l’aviazione israeliana ha effettuato un attacco aereo, prendendo di mira un sito militare a Gaza, provocando danni, ma non feriti.

Nella Striscia di Gaza, presumibilmente per far rispettare ai palestinesi le restrizioni loro imposte sia sull’accesso alle aree adiacenti la recinzione perimetrale israeliana, sia al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 28 occasioni; non sono stati registrati feriti. In uno degli episodi, le forze navali israeliane hanno usato cannoni ad acqua, facendo affondare tre barche da pesca. In due occasioni, le forze israeliane sono entrate a Gaza ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale. Inoltre, tre palestinesi sono stati arrestati dalle forze israeliane vicino alla recinzione perimetrale mentre, secondo quanto riferito, cercavano di infiltrarsi in Israele.

Per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 42 strutture di proprietà palestinese, sfollando 53 palestinesi e creando ripercussioni di diversa entità su circa 150 persone [seguono dettagli]. La maggior parte delle strutture demolite (39), di cui 15 fornite come assistenza umanitaria, e tutti gli sfollamenti, sono stati registrati in Area C. Queste includevano sei strutture abitative, dislocate nelle Comunità di Ar Rakeez e Mantiqat Shi’b al Butum, sulle colline a sud di Hebron, situate in un’area chiusa destinata [da Israele] all’addestramento militare; sono state sfollate 27 persone [delle 53]. Nel villaggio di Kisan (Betlemme), nello stesso episodio, sono state demolite altre otto strutture, sfollando 13 palestinesi. Inoltre, a Khirbet Yarza (Tubas), Ni’lin (Ramallah) e Deir Samit (Hebron), sei strutture sono state demolite sulla base di un “Ordine militare 1797”, che consente la demolizione entro 96 ore dall’emissione del medesimo. A Gerusalemme Est sono state demolite tre strutture di sostentamento; non sono state registrate autodemolizioni.

Il 1° ottobre, in risposta a una lettera della Coalizione Civica per i Diritti dei Palestinesi a Gerusalemme e della ONG israeliana Adalah [Centro Legale per i Diritti delle Minoranze Arabe in Israele], il Ministero della Giustizia di Israele ha accettato di ripristinare la linea di condotta applicata a marzo con l’intento di fermare la demolizione di edifici residenziali abitati a Gerusalemme Est durante la prima ondata della pandemia COVID-19. L’accordo non si applicherà alle strutture realizzate dopo il 1° ottobre. L’emissione di ordini di demolizione amministrativa sarà, in generale, ridotta, in modo che gli ordini siano emessi solo per le costruzioni recenti, in particolare per quelle che si ritiene siano state realizzate traendo vantaggio dallo stato di emergenza.

A Hebron, le autorità israeliane hanno autorizzato la rimozione di un importante blocco stradale, in vigore dal 2000. La chiusura impediva ai residenti del villaggio di Qalqas di accedere alla Strada 60, situata a tre chilometri dalla città di Hebron. Negli ultimi 20 anni, migliaia di residenti sono stati costretti a utilizzare circonvallazioni, allungando il percorso fino a 11 chilometri.

Tre palestinesi sono rimasti feriti e dozzine di ulivi sono stati danneggiati in quattro episodi che hanno avuto coloni come protagonisti. I tre palestinesi erano impegnati nella misurazione del loro terreno vicino all’insediamento colonico di Yitzhar; sono stati inseguiti da una guardia e sono caduti, ferendosi. Inoltre, in tre località vicino ai villaggi di Al Jab’a e Al Khadr (Betlemme) e a Kafr ad Dik (Salfit), 80 ulivi di proprietà palestinese sono stati vandalizzati da coloni. Infine, nella zona H2 della città di Hebron, coloni hanno aggredito una donna e rotto il suo cellulare; ella li stava filmando mentre attraversavano il suo terreno.

In Cisgiordania, secondo fonti israeliane, quattro israeliani sono rimasti feriti quando aggressori, ritenuti palestinesi, hanno lanciato pietre contro tre veicoli e ne hanno rubato un altro. Altre 15 auto israeliane che percorrevano le strade della Cisgiordania avrebbero subito danni dal lancio di pietre.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Dopo le pressioni a favore di Israele The Lancet censura una lettera sulla situazione sanitaria a Gaza

Omar Karmi

1 ottobre 2020 – The Electronic Intifada

Con un nuovo picco nel numero di infezioni da coronavirus, Gaza sta ancora una volta affrontando la prospettiva molto concreta che il suo sistema sanitario venga sopraffatto.

Gaza non sta solo facendo fronte ad una pandemia globale. Sottoposta dal 2007 al blocco israeliano e ai successivi attacchi militari, la fascia costiera è alle prese con uno dei più alti livelli di povertà e disoccupazione del mondo, oltre che con infrastrutture fatiscenti, anche nel settore sanitario.

Una grave carenza di medicine e attrezzature mediche, direttamente collegate all’assedio israeliano, combinata con le devastazioni di una pandemia, potrebbe preludere al completo collasso del servizio sanitario.

Almeno una di queste cose potrebbe essere risolta abbastanza rapidamente se Israele allentasse o ponesse fine al blocco.

Ma rimarcarlo non è così semplice come potrebbe sembrare, come hanno scoperto con sgomento da varie parti del mondo quattro professionisti nel settore medico e nei diritti umani.

A marzo, quando la pandemia ha colpito per la prima volta Gaza, David Mills del Children’s Hospital e Bram Wispelwey del Brigham and Women’s Hospital, entrambi di Boston, Rania Muhareb, in precedenza aderente al gruppo palestinese per i diritti umani Al-Haq, e Mads Gilbert, dell’ospedale universitario della Norvegia settentrionale, hanno scritto una breve lettera a The Lancet, una delle principali riviste mediche del mondo.

Le pandemie causeranno maggiori danni alle “popolazioni gravate da povertà, occupazione militare, discriminazione e oppressione istituzionalizzata”, evidenziano gli autori, che esortano la comunità internazionale ad agire per porre fine alla “violenza strutturale” che viene inflitta ai palestinesi a Gaza.

“Una pandemia da COVID-19, in grado di paralizzare ulteriormente il sistema sanitario della Striscia di Gaza, non dovrebbe essere vista come un inevitabile fenomeno biomedico vissuto allo stesso modo dalla popolazione mondiale, ma come un’ingiustizia biosociale che si potrebbe prevenire, radicata in decenni di oppressione israeliana e complicità internazionali”, concludono.

La lettera – “La violenza strutturale nell’era di una nuova pandemia: il caso della Striscia di Gaza” – è stata puntualmente pubblicata online il 27 marzo.

Solo tre giorni dopo, tuttavia, con una mossa insolita se non senza precedenti per The Lancet, la lettera è stata ritirata senza commenti. (Può ancora essere letta, su un motore di ricerca che pubblica testi accademici). [https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0140673620307303]

Boicottaggio

“Una volta che abbiamo saputo [della cancellazione], abbiamo contattato The Lancet per una spiegazione”, ha detto Wispelwey, che insegna anche presso la Harvard Medical School.

Secondo Wispelwey The Lancet avrebbe solo detto che “il nostro commento aveva provocato una grave crisi”, ma non ha offerto alcun dettaglio, nessun ulteriore commento e nessuna spiegazione pubblica per i lettori.

Gli autori hanno dedotto che la lettera avesse suscitato scalpore tra i sostenitori di Israele all’interno della comunità medica.

Un attivista di spicco, Daniel Drucker, rinomato endocrinologo canadese, il 29 marzo su Twitter ha criticato The Lancet e il suo editore, Richard Horton.

“Mentre il mondo combatte contro COVID-19”, ha scritto, The Lancet e Richard Horton “colgono l’occasione” per pubblicare lettere “che colpiscono Israele”.

Drucker ha anche paragonato l’antisemitismo a un virus, sostenendo che “l’antisemitismo, l’antisionismo e l’invettiva anti-israeliana sono ceppi altamente correlati”.

Drucker non è nuovo a questo tipo di difesa a favore di Israele. Nel 2014, dopo che la rivista aveva pubblicato “Una lettera aperta a favore del popolo di Gaza” per protestare contro gli effetti dell’aggressione militare israeliana di quell’anno, ha preso parte ad una campagna molto efficace contro The Lancet.

L’ attacco provocò la morte di oltre 2.200 persone, per lo più civili, tra cui 550 minorenni.

Alla fine del luglio 2014, e nel bel mezzo dell’offensiva israeliana, quella lettera aveva ricevuto più di 20.000 adesioni e i cui nominativi The Lancet annunciò che, in seguito a “numerose dichiarazioni minacciose nei confronti dei firmatari”, non li avrebbe pubblicati.

Tra le dichiarazioni minacciose, è stato poi rivelato, c’erano attacchi personali contro Horton, con l’accusa di antisemitismo e la sua raffigurazione in uniforme nazista. Sua moglie è stata aggredita verbalmente e a sua figlia è stato detto dai compagni di classe che suo padre era un antisemita.

In risposta a quella lettera, Drucker ha avviato una petizione per mantenere le pubblicazioni scientifiche e di medicina “libere da opinioni politiche controverse”.

La petizione ha ottenuto più di 5.000 firme e ha indotto medici filo-israeliani in tutto il mondo, ma soprattutto in Nord America, a boicottare The Lancet per cinque anni.

Mettere a tacere il dissenso

Alla fine, e dopo che nel 2017 The Lancet ha dedicato un intero numero al sistema sanitario israeliano, il boicottaggio è stato revocato.

Ma Wispelwey afferma che il timore è che le riviste mediche siano ora soggette a censura indiretta o autocensura sulla Palestina a causa del “generalizzato effetto dissuasivo” della campagna contro The Lancet.

Il resoconto di cui è stato cofirmatario a marzo, dice Wispelwey, non era formulato con un tono più perentorio rispetto agli articoli pubblicati altrove negli organi di informazioni ordinari e in quelli israeliani.

Wispelwey sostiene: “La violenza della risposta suggerisce l’impressione che questo spazio – riviste mediche accademiche – sia interdetto anche a idee, documentazioni e narrazioni pubbliche sul contesto sanitario palestinese che contengano critiche a Israele”.

Electronic Intifada ha riferito a marzo che il prospetto di diffusione dei dati ampiamente utilizzato per il COVID-19, diffuso dal Center for Systems Science and Engineering della Johns Hopkins University, aveva effettivamente cancellato i palestinesi unificando i dati riguardanti Israele, la Cisgiordania occupata e la Striscia di Gaza.

Quella decisione è stata alla fine revocata, ma silenziare le voci filo-palestinesi, nel mondo accademico e altrove, è stato ben documentato da tutti, da Edward Said [famoso intellettuale statunitense palestinese, deceduto nel 2003, ndtr.] a Judith Butler [filosofa post-strutturalista statunitense, esperta di filosofia politica ed etica, ndtr.].

È una prassi che mostra pochi segni di cedimento.

Proprio il mese scorso le principali compagnie di comunicazione sociale – Zoom, Facebook e YouTube – hanno fatto il possibile per impedire un evento organizzato dalla San Francisco State University con Leila Khaled, un’icona della resistenza palestinese ed ex combattente del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, ora ultrasettantenne.

E in tutto il mondo i gruppi filo-israeliani stanno facendo pressioni sui governi a tutti i livelli per vietare il movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni, che accusano di antisemitismo.

L’argomento [utilizzato] per mettere a tacere le critiche al trattamento dei palestinesi da parte di Israele nelle pubblicazioni mediche e scientifiche è che queste dovrebbero essere prive di contenuto politico “divisivo”.

Ma questo, ha detto Rania Muhareb, studiosa e ricercatrice giuridica di Al-Haq nel momento in cui veniva scritta la lettera di marzo, è falso.

Le questioni di salute pubblica sono molto chiaramente politiche – l’assistenza sanitaria universale è un ovvio esempio – e le disuguaglianze sociali e politiche sono riconosciute come cause profonde dei problemi di salute. Nelle zone di conflitto è impossibile separare le cose.

“La concretizzazione del diritto alla salute è strettamente collegata al rispetto di altri diritti fondamentali”, ha detto Muhareb a The Electronic Intifada.

Vite in gioco

A Gaza, quando si tratta di salute la politica è sicuramente coinvolta.

Esercitando il controllo totale su tutte le importazioni a Gaza, compresi gli aiuti umanitari, l’esercito israeliano non è tuttavia riuscito a stabilire alcun piano di emergenza per Gaza mentre la regione impoverita cerca di far fronte al COVID-19.

Il rifiuto di Israele di agire persiste nonostante il fatto che in base al diritto internazionale risulti una potenza occupante e quindi sia legalmente responsabile del benessere di base di tutti a Gaza.

E ciò non avviene per mancanza di allarmi. Le organizzazioni per i diritti umani palestinesi, israeliane e internazionali hanno ripetutamente chiesto a Israele di formulare un piano o, più efficacemente, di revocare del tutto l’assedio prima che sia troppo tardi.

I numeri raccontano una storia inquietante: quando la pandemia ha colpito per la prima volta Gaza a marzo era limitata ai pochi viaggiatori che entravano e uscivano dalla fascia costiera assediata.

Era facile identificarli e metterli in quarantena.

Il primo decesso legato al COVID-19 si è verificato a maggio, circa due mesi dopo i primi casi confermati, ed è anche avvenuto in una struttura di isolamento.

Ma una volta che alla fine di agosto è iniziata la diffusione all’interno della comunità, i numeri sono aumentati.

I casi confermati sono balzati dai 200 alla fine di agosto a oltre 2.600 il 25 settembre. Ci sono stati 17 morti.

“Il sistema sanitario di Gaza è stato spinto sull’orlo del collasso”, afferma Mads Gilbert, un chirurgo che per molti anni ha lavorato a Gaza.

Il blocco israeliano e i ripetuti attacchi militari hanno minato irrimediabilmente l’erogazione di assistenza sanitaria a Gaza, dice, e hanno lasciato ospedali e cliniche incapaci e impreparati ad affrontare una pandemia.

Gilbert racconta a The Electronic Intifada: “Il timore è che un’epidemia incontrollata di COVID-19 nella Striscia di Gaza gravi in modo eccessivo sul sistema sanitario di Gaza, peggiorando in questo modo ulteriormente la vulnerabilità dei palestinesi alla pandemia in condizioni di violenza strutturale”.

Commento obiettivo

Commento obiettivo per i medici professionisti? Non secondo Zion Hagay dell’Israeli Medical Association, la cui risposta alla lettera ormai scomparsa scritta da Gilbert ed altri è stata pubblicata nell’ultima edizione online di The Lancet.

Hagay ha denunciato la lettera di marzo come “retorica politica” e ha difeso il blocco israeliano [di Gaza] come “una risposta necessaria al contrabbando di armi e alla violenza incessante contro Israele”.

Ha elogiato Israele per aver “permesso” ai pazienti palestinesi di “continuare a entrare in Israele per ricevere cure mediche salvavita”.

Ma i palestinesi di Gaza devono affrontare un percorso gravoso e ampiamente criticato per ottenere dai militari israeliani i permessi per viaggiare per curarsi o per qualsiasi altra ragione.

A causa del ritardo e del rifiuto dei permessi da parte di Israele i pazienti palestinesi muoiono regolarmente per mancanza di cure. Nel solo 2017 ci sono stati 54 decessi di questo tipo documentati dall’OMS.

Hagay ha anche omesso di notare che il Segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres – del quale invece cita le lodi per la cooperazione tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese in risposta al COVID-19 – ha ampiamente descritto Gaza come una delle crisi umanitarie più “drammatiche” del mondo e ha chiesto che venga revocato l’assedio.

Ma oltre a questo, dice Wispelwey, è stato “sbalorditivo” che The Lancet abbia deciso di pubblicare una lettera in risposta a un articolo che era già stato rimosso.

“Ciò rende l’intera situazione più assurda”, afferma Wispelwey. “Pubblicare una risposta a un articolo ora ‘scomparso’ e consentirgli di fare dei commenti sulla sua rimozione?”

“La censura e la sorveglianza sono metodi classici di controllo coloniale”, aggiunge.

Piuttosto che ambire ad un falso “equilibrio” di punti di vista che non riesca a tenere conto dei differenziali di potere, sostiene Wispelwey, dobbiamo “iniziare a riconoscere, chiamare col loro nome e resistere a queste costrizioni nella medicina accademica e altrove”.

The Lancet non ha voluto commentare.

Omar Karmi is an associate editor with The Electronic Intifada and a former Jerusalem and Washington, DC, correspondent for The National newspaper.

Omar Karmi è un redattore associato di The Electronic Intifada e un ex corrispondente da Gerusalemme e Washington per il quotidiano The National [quotidiano indipendentista scozzese, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Rapporto OCHA del periodo 8 – 21 settembre 2020

Nei governatorati di Jenin e Qalqiliya, in due episodi separati, le forze israeliane hanno lanciato granate assordanti e sparato contro lavoratori palestinesi che cercavano di entrare in Israele attraverso varchi aperti nella Barriera.

Nel primo episodio, avvenuto il 18 settembre, un uomo di 54 anni è morto di infarto mentre cercava di fuggire dalla zona; nel secondo caso, un uomo è stato ferito con arma da fuoco. Dallo scorso marzo, in seguito alla diffusione del COVID-19, gli attraversamenti non autorizzati di lavoratori, attraverso i varchi aperti nella Barriera, sono in aumento. Da allora, in questo contesto, le forze israeliane hanno ferito almeno 66 palestinesi, di cui 23 con armi da fuoco.

Complessivamente, in Cisgiordania, durante il periodo in esame, nove palestinesi sono stati feriti dalle forze israeliane [segue dettaglio]. Tre dei feriti sono minori (13, 14 e 16 anni), colpiti da proiettili di gomma sparati durante scontri nella città di Hebron e nel vicino Campo Profughi di Al Arrub. Le forze israeliane hanno condotto 161 operazioni di ricerca-arresto; due di queste, svolte nel villaggio di Kafr Dan (Jenin) e nella città di Tulkarm, hanno portato a scontri e al ferimento di due persone. Altri tre palestinesi sono rimasti feriti durante la protesta settimanale a Kafr Qaddum (Qalqiliya) e nel corso di un altro scontro verificatosi nella stessa area.

Il 15 settembre, un gruppo armato palestinese ha lanciato diversi razzi contro il sud di Israele, ferendo tre israeliani nella città di Ashdod. I lanci sono stati effettuati mentre, a Washington DC, venivano firmati gli accordi di normalizzazione tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrain. Successivamente, l’aviazione israeliana ha effettuato molteplici attacchi aerei contro siti militari di Gaza, senza provocare feriti. Queste nuove ostilità sopraggiungono dopo gli accordi del 31 agosto, che avevano messo fine a tre settimane di ostilità intermittenti.

Nella Striscia di Gaza, presumibilmente per far rispettare ai palestinesi le restrizioni loro imposte sia sull’accesso alle aree adiacenti la recinzione perimetrale israeliana, sia al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno otto occasioni; non sono stati registrati feriti. In quattro occasioni, le forze israeliane sono entrate [nella Striscia di] Gaza ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale. Inoltre, al valico di Erez, le autorità israeliane hanno arrestato un paziente [palestinese] in viaggio per cure e, nei pressi della recinzione perimetrale, almeno altre cinque persone che, a quanto riferito, tentavano di infiltrarsi in Israele.

A Gaza, un uomo di 44 anni, intento a coltivare la propria terra, è stato ferito dall’esplosione di un residuato bellico (ERW). Dall’inizio del 2020, almeno due persone sono state uccise e altre cinque sono rimaste ferite da detonazioni di ordigni bellici.

Per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, ventidue strutture di proprietà palestinese sono state demolite o sequestrate, sfollando 50 palestinesi e diversamente riguardando circa 200 persone. Dodici delle demolizioni (di cui otto eseguite dai proprietari delle strutture) sono state registrate a Gerusalemme Est. Da queste [12] sono derivati tutti gli sfollamenti registrati in questo periodo [50]. Poco più della metà di tutte le demolizioni eseguite a Gerusalemme Est dall’inizio dell’anno a seguito di ordini di demolizione (134), sono state effettuate dai proprietari per evitare multe e commissioni più elevate. Le altre dieci strutture [delle 22] si trovavano in Area C. Cinque di queste sono state demolite ad At Taybe (Hebron) e Beit Sira (Ramallah), sulla base di “Ordini militari 1797”, che consentono le demolizioni entro 96 ore dall’emissione degli ordini medesimi. Il 10 settembre, il Coordinatore Umanitario [dell’ONU] ha espresso preoccupazione per il forte aumento delle demolizioni concomitante con l’inizio della pandemia ed ha invitato le autorità israeliane a porre immediatamente fine a questa pratica illegale.

In tre episodi diversi, circa 550 alberi di proprietà palestinese sono stati sradicati o vandalizzati in vario modo ad opera, secondo quanto riferito, di coloni israeliani. L’episodio più grave è avvenuto su un terreno coltivato da tre famiglie del villaggio di Biddya (Salfit), dove coloni sono intervenuti con una ruspa ed hanno distrutto 445 alberi da frutto, una struttura agricola, 1,7 km di muri in pietra e recinzioni in ferro. Secondo fonti israeliane, nonostante la mancanza di permessi di costruzione o approvazione ufficiale, i coloni rivendicano la proprietà della terra e intendono stabilirvi un nuovo insediamento. Gli altri due episodi si sono verificati in aree B e C, prossime al villaggio di As Sawiya (Nablus), dove circa 100 ulivi sono stati abbattuti o, in vario modo, vandalizzati. Dall’inizio dell’anno, quasi 5.000 alberi di proprietà palestinese, principalmente ulivi, sono stati distrutti o danneggiati. La stagione annuale della raccolta delle olive inizierà ufficialmente il 7 ottobre e, vicino agli insediamenti colonici e dietro la Barriera, si svolgerà con gravi restrizioni di accesso alla terra.

In Cisgiordania, secondo fonti israeliane, aggressori, ritenuti palestinesi, hanno aggredito fisicamente e ferito due israeliani, ed hanno rubato i loro veicoli. Secondo quanto riferito, altre sette auto israeliane, in transito sulle strade della Cisgiordania, hanno subito danni da lancio di pietre.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina:https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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PALESTINA. Si è spento il nostro caro amico Ali

25 settembre 2020, Nena News

  Redazione Abbiamo appreso qualche ora fa della scomparsa del nostro amico e compagno Alì Oraney. Alì se n’è andato come se ne sono andate oltre 35.000 persone da fine febbraio nel nostro Paese. Se n’è andato solo in una stanza di ospedale di Napoli lontano migliaia di chilometri dalla sua Terra, la Palestina. Di Alì la nostra redazione ricorda con dolore la sua bontà d’animo, la sua voglia irrefrenabile di riportare con forza al centro del dibattito politico la questione palestinese. Perché Alì amava sinceramente la sua terra e ha combattuto per la giustizia del suo popolo fino alla fine dei suoi giorni. Lo vogliamo ricordare ripubblicando un suo articolo di analisi che aveva scritto per noi: negli ultimi anni, infatti, aveva contribuito con i suoi preziosi contributi ad approfondire quanto accadeva in Palestina. Ci stringiamo al dolore della famiglia e degli amici che in queste ore piangono la sua scomparsa. Che la terra ti sia lieve caro Ali

Attese domani a Napoli le imbarcazioni della Freedom Flotilla diretta a Gaza. Due milioni di palestinesi sono soggetti a una punizione collettiva e a una crescente e spaventosa crisi umanitaria, scrive Ali Oraney

 

di Ali Oraney

Napoli, 10 luglio 2018, Nena News – Da mercoledì 11 luglio  sono previste a  Napoli una serie di iniziative a sostegno delle imbarcazioni della Freedom  Flotilla attraccata al porto, la flotta promossa da un movimento internazionale (Freedom Flotilla Coalition, FFC)  che dal 2008 organizza iniziative per portare aiuti alla popolazione palestinese  della Striscia di Gaza oramai stremata da 11 anni di assedio e per sollevare l’attenzione dell’opinione pubblica e della comunità internazionale sulle condizioni di vita di circa  2 milioni  di persone, di cui quasi la metà bambini, rinchiusi in un fazzoletto di terra di 363 km quadrati, oramai considerato la più grande prigione a cielo aperto della terra dalla quale è impossibile non solo uscire ma anche  entrare.

L’iniziativa della Freedom Flotilla è molto importante e delicata, è come il lavoro del mare che ha bisogno di pazienza e resistenza e la magia del suo equipaggio   sta nel fare durare il suo viaggio alla volta di Gaza il più possibile,  per raccontare la storia dell’assedio in più porti possibili presentando la vera faccia dell’occupante suscitando ovunque così momenti riflessione sul comportamento brutale di Israele e contribuendo a creare un movimento di pressione sullo stato di Israele.

Per questo  sicuramente Napoli, città aperta e solidale , farà  una grande accoglienza all’equipaggio della Freedom Flotilla per incoraggiarlo e stimolarlo ad andare avanti

Quest’anno le imbarcazioni della Freedom Flotilla, salpate dalla Norvegia e dalla Svezia,  dopo aver fatto tappa nel Mediterraneo a Cagliari ed Aiaccio, si fermeranno a Napoli dall’ 11 al 15 luglio, quindi  andranno a Palermo e a Messina per poi rimettersi in mare alla volta di Gaza sperando di riuscire a rompere l’assedio e rifornire la stremata popolazione degli aiuti umanitari raccolti, ma per chi rompe o semplicemente cerca di rompere il blocco è previsto l’arresto e la detenzione nelle carceri israeliane se non viene sparato prima.

Ma ciò nonostante la Freedom Flotilla è più che mai determinata a cercare di forzare il blocco. Si tratta di un blocco illegale che sottopone 2 milioni di abitanti a una punizione collettiva ed una crescente e spaventosa crisi umanitaria. Infatti,  il blocco totale (aereo marino e terrestre) imposto da Israele da 11 anni priva la popolazione civile di Gaza della quasi totalità dei beni di prima necessità ma anche di materiali da costruzione, di farmaci e presidi sanitari mentre l’acqua e l’energia elettrica vengono razionate per poche ore al giorno. L’ economia è oramai al collasso con un tasso di disoccupazione  che supera il 50% e secondo un rapporto delle Nazioni Unite (UNSCO 2017) la Striscia di Gaza rischia di divenire invivibile entro il 2020 se non si pone fine all’assedio.

Con le tappe nel Mediterraneo e negli altri porti la Freedom Flotilla vuole accendere i riflettori non solo su un assedio che dura da 11 anni a danno della popolazione civile di Gaza in violazione delle norme del diritto internazionale ma più in generale sulla lotta del popolo palestinese contro l’occupazione israeliana. Sono 70 anni che il popolo palestinese lotta contro l’occupazione della sua terra e per la sua libertà nonostante la violenta repressione israeliana con morti e feriti, arresti indiscriminati anche di donne e bambini, con quotidiane distruzioni  rapine e limitazioni alla libertà di movimento. Sono 70 anni che il popolo palestinese lotta contro la politica di occupazione israeliana  nonostante sia sempre più sostenuta dagli Stati Uniti che hanno riconosciuto Gerusalemme capitale d’Israele e il 14 maggio vi hanno trasferito la propria ambasciata. Ma nonostante tutto questo  il popolo palestinese non rinuncia  ai suoi diritti, non rinuncia al diritto al ritorno dai quei territori dai quali fu cacciato 70 anni fa.

Infatti, il popolo palestinese oggi è più che mai determinato a portare avanti la sua lotta come lo testimoniano le tante manifestazioni in Cisgiordania di questi giorni (a Ramallah, Nablus…..) e le marce di ritorno che dal 30 marzo ogni venerdì vengono organizzate a Gaza nonostante oltre 137 morti e 15.800 feriti

Nel caso specifico di Gaza non si può accettare l’obiezione sollevata da alcuni in base alla quale non si possa parlare di assedio dal momento che Israele si sarebbe ritirata da Gaza dal 2005 in quanto si può parlare di occupazione anche senza la presenza  militare se c’è un controllo reale del territorio ed Israele controlla il mare, la terra,  lo spazio aereo, insomma tutti i punti di passaggio da e per Gaza. Quindi, anche nei confronti di Gaza, Israele si configura come potenza occupante e come tale ha, in base al diritto internazionale, dei precisi obblighi nei confronti della popolazione a cui dovrebbe garantire i mezzi necessari per vivere e non colpire i civili. Israele non rispettando questi obblighi ed impedendo  a chiunque di portare aiuti alla popolazione  si macchia così di un doppio crimine.

Tutto ciò costituirà materia di riflessione nelle tante iniziative organizzate dal Comitato di Accoglienza alla Freedom Flotilla di Napoli , fra queste mercoledì 11 la conferenza stampa di presentazione  presso la Biblioteca Autogestita Gramasci Dax  della facoltà di Lettere e Filosofia in Via Porta di Massa (ore 11,00) e l’accoglienza al porto della Freedom Flotilla con la cittadinanza ed artisti di strada (ore 18,30); giovedì 12 dalle 19,00 nello splendido scenario offerto dal Castello del Maschio Angioino “Gli  Artisti Napoletani a sostegno della Palestina” daranno vita ad un concerto con l’esibizione appunto di artisti e gruppi tra i più noti nel panorama musicale partenopeo; venerdì  13 sarà organizzata una cena sociale presso la mensa Occupata di via Mezzocannone , mentre l’intera giornata di sabato  14 sarà destinata ad una assemblea nazionale  organizzata presso il complesso di Santa Fede Liberata in Via S. Giovanni Maggiore Pignatelli a sostegno della resistenza palestinese.

Gli organizzatori si augurano che a questa assemblea ci sia una grande partecipazione di associazioni, comitati, attivisti ma anche di semplici cittadini, tutti indignati per comportamento criminale di Israele che da 11 anni  ha imposto un blocco disumano, economicamente e socialmente paralizzante a 2 milioni di persone,  che occupa i territori palestinesi negando al popolo palestinese  i suoi più elementari diritti e libertà. L’obiettivo di questa assemblea nazionale  è di parlare di Palestina nella speranza di creare una rete a livello nazionale capace di esprimere una solidarietà solo annunciata ma anche soprattutto praticata,  che faccia sentire la sua voce per porre fine all’assedio di Gaza e che sostenga concretamente il popolo palestinese nella sua lotta per la libertà. Nena News