Dopo le pressioni a favore di Israele The Lancet censura una lettera sulla situazione sanitaria a Gaza

Omar Karmi

1 ottobre 2020 – The Electronic Intifada

Con un nuovo picco nel numero di infezioni da coronavirus, Gaza sta ancora una volta affrontando la prospettiva molto concreta che il suo sistema sanitario venga sopraffatto.

Gaza non sta solo facendo fronte ad una pandemia globale. Sottoposta dal 2007 al blocco israeliano e ai successivi attacchi militari, la fascia costiera è alle prese con uno dei più alti livelli di povertà e disoccupazione del mondo, oltre che con infrastrutture fatiscenti, anche nel settore sanitario.

Una grave carenza di medicine e attrezzature mediche, direttamente collegate all’assedio israeliano, combinata con le devastazioni di una pandemia, potrebbe preludere al completo collasso del servizio sanitario.

Almeno una di queste cose potrebbe essere risolta abbastanza rapidamente se Israele allentasse o ponesse fine al blocco.

Ma rimarcarlo non è così semplice come potrebbe sembrare, come hanno scoperto con sgomento da varie parti del mondo quattro professionisti nel settore medico e nei diritti umani.

A marzo, quando la pandemia ha colpito per la prima volta Gaza, David Mills del Children’s Hospital e Bram Wispelwey del Brigham and Women’s Hospital, entrambi di Boston, Rania Muhareb, in precedenza aderente al gruppo palestinese per i diritti umani Al-Haq, e Mads Gilbert, dell’ospedale universitario della Norvegia settentrionale, hanno scritto una breve lettera a The Lancet, una delle principali riviste mediche del mondo.

Le pandemie causeranno maggiori danni alle “popolazioni gravate da povertà, occupazione militare, discriminazione e oppressione istituzionalizzata”, evidenziano gli autori, che esortano la comunità internazionale ad agire per porre fine alla “violenza strutturale” che viene inflitta ai palestinesi a Gaza.

“Una pandemia da COVID-19, in grado di paralizzare ulteriormente il sistema sanitario della Striscia di Gaza, non dovrebbe essere vista come un inevitabile fenomeno biomedico vissuto allo stesso modo dalla popolazione mondiale, ma come un’ingiustizia biosociale che si potrebbe prevenire, radicata in decenni di oppressione israeliana e complicità internazionali”, concludono.

La lettera – “La violenza strutturale nell’era di una nuova pandemia: il caso della Striscia di Gaza” – è stata puntualmente pubblicata online il 27 marzo.

Solo tre giorni dopo, tuttavia, con una mossa insolita se non senza precedenti per The Lancet, la lettera è stata ritirata senza commenti. (Può ancora essere letta, su un motore di ricerca che pubblica testi accademici). [https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0140673620307303]

Boicottaggio

“Una volta che abbiamo saputo [della cancellazione], abbiamo contattato The Lancet per una spiegazione”, ha detto Wispelwey, che insegna anche presso la Harvard Medical School.

Secondo Wispelwey The Lancet avrebbe solo detto che “il nostro commento aveva provocato una grave crisi”, ma non ha offerto alcun dettaglio, nessun ulteriore commento e nessuna spiegazione pubblica per i lettori.

Gli autori hanno dedotto che la lettera avesse suscitato scalpore tra i sostenitori di Israele all’interno della comunità medica.

Un attivista di spicco, Daniel Drucker, rinomato endocrinologo canadese, il 29 marzo su Twitter ha criticato The Lancet e il suo editore, Richard Horton.

“Mentre il mondo combatte contro COVID-19”, ha scritto, The Lancet e Richard Horton “colgono l’occasione” per pubblicare lettere “che colpiscono Israele”.

Drucker ha anche paragonato l’antisemitismo a un virus, sostenendo che “l’antisemitismo, l’antisionismo e l’invettiva anti-israeliana sono ceppi altamente correlati”.

Drucker non è nuovo a questo tipo di difesa a favore di Israele. Nel 2014, dopo che la rivista aveva pubblicato “Una lettera aperta a favore del popolo di Gaza” per protestare contro gli effetti dell’aggressione militare israeliana di quell’anno, ha preso parte ad una campagna molto efficace contro The Lancet.

L’ attacco provocò la morte di oltre 2.200 persone, per lo più civili, tra cui 550 minorenni.

Alla fine del luglio 2014, e nel bel mezzo dell’offensiva israeliana, quella lettera aveva ricevuto più di 20.000 adesioni e i cui nominativi The Lancet annunciò che, in seguito a “numerose dichiarazioni minacciose nei confronti dei firmatari”, non li avrebbe pubblicati.

Tra le dichiarazioni minacciose, è stato poi rivelato, c’erano attacchi personali contro Horton, con l’accusa di antisemitismo e la sua raffigurazione in uniforme nazista. Sua moglie è stata aggredita verbalmente e a sua figlia è stato detto dai compagni di classe che suo padre era un antisemita.

In risposta a quella lettera, Drucker ha avviato una petizione per mantenere le pubblicazioni scientifiche e di medicina “libere da opinioni politiche controverse”.

La petizione ha ottenuto più di 5.000 firme e ha indotto medici filo-israeliani in tutto il mondo, ma soprattutto in Nord America, a boicottare The Lancet per cinque anni.

Mettere a tacere il dissenso

Alla fine, e dopo che nel 2017 The Lancet ha dedicato un intero numero al sistema sanitario israeliano, il boicottaggio è stato revocato.

Ma Wispelwey afferma che il timore è che le riviste mediche siano ora soggette a censura indiretta o autocensura sulla Palestina a causa del “generalizzato effetto dissuasivo” della campagna contro The Lancet.

Il resoconto di cui è stato cofirmatario a marzo, dice Wispelwey, non era formulato con un tono più perentorio rispetto agli articoli pubblicati altrove negli organi di informazioni ordinari e in quelli israeliani.

Wispelwey sostiene: “La violenza della risposta suggerisce l’impressione che questo spazio – riviste mediche accademiche – sia interdetto anche a idee, documentazioni e narrazioni pubbliche sul contesto sanitario palestinese che contengano critiche a Israele”.

Electronic Intifada ha riferito a marzo che il prospetto di diffusione dei dati ampiamente utilizzato per il COVID-19, diffuso dal Center for Systems Science and Engineering della Johns Hopkins University, aveva effettivamente cancellato i palestinesi unificando i dati riguardanti Israele, la Cisgiordania occupata e la Striscia di Gaza.

Quella decisione è stata alla fine revocata, ma silenziare le voci filo-palestinesi, nel mondo accademico e altrove, è stato ben documentato da tutti, da Edward Said [famoso intellettuale statunitense palestinese, deceduto nel 2003, ndtr.] a Judith Butler [filosofa post-strutturalista statunitense, esperta di filosofia politica ed etica, ndtr.].

È una prassi che mostra pochi segni di cedimento.

Proprio il mese scorso le principali compagnie di comunicazione sociale – Zoom, Facebook e YouTube – hanno fatto il possibile per impedire un evento organizzato dalla San Francisco State University con Leila Khaled, un’icona della resistenza palestinese ed ex combattente del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, ora ultrasettantenne.

E in tutto il mondo i gruppi filo-israeliani stanno facendo pressioni sui governi a tutti i livelli per vietare il movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni, che accusano di antisemitismo.

L’argomento [utilizzato] per mettere a tacere le critiche al trattamento dei palestinesi da parte di Israele nelle pubblicazioni mediche e scientifiche è che queste dovrebbero essere prive di contenuto politico “divisivo”.

Ma questo, ha detto Rania Muhareb, studiosa e ricercatrice giuridica di Al-Haq nel momento in cui veniva scritta la lettera di marzo, è falso.

Le questioni di salute pubblica sono molto chiaramente politiche – l’assistenza sanitaria universale è un ovvio esempio – e le disuguaglianze sociali e politiche sono riconosciute come cause profonde dei problemi di salute. Nelle zone di conflitto è impossibile separare le cose.

“La concretizzazione del diritto alla salute è strettamente collegata al rispetto di altri diritti fondamentali”, ha detto Muhareb a The Electronic Intifada.

Vite in gioco

A Gaza, quando si tratta di salute la politica è sicuramente coinvolta.

Esercitando il controllo totale su tutte le importazioni a Gaza, compresi gli aiuti umanitari, l’esercito israeliano non è tuttavia riuscito a stabilire alcun piano di emergenza per Gaza mentre la regione impoverita cerca di far fronte al COVID-19.

Il rifiuto di Israele di agire persiste nonostante il fatto che in base al diritto internazionale risulti una potenza occupante e quindi sia legalmente responsabile del benessere di base di tutti a Gaza.

E ciò non avviene per mancanza di allarmi. Le organizzazioni per i diritti umani palestinesi, israeliane e internazionali hanno ripetutamente chiesto a Israele di formulare un piano o, più efficacemente, di revocare del tutto l’assedio prima che sia troppo tardi.

I numeri raccontano una storia inquietante: quando la pandemia ha colpito per la prima volta Gaza a marzo era limitata ai pochi viaggiatori che entravano e uscivano dalla fascia costiera assediata.

Era facile identificarli e metterli in quarantena.

Il primo decesso legato al COVID-19 si è verificato a maggio, circa due mesi dopo i primi casi confermati, ed è anche avvenuto in una struttura di isolamento.

Ma una volta che alla fine di agosto è iniziata la diffusione all’interno della comunità, i numeri sono aumentati.

I casi confermati sono balzati dai 200 alla fine di agosto a oltre 2.600 il 25 settembre. Ci sono stati 17 morti.

“Il sistema sanitario di Gaza è stato spinto sull’orlo del collasso”, afferma Mads Gilbert, un chirurgo che per molti anni ha lavorato a Gaza.

Il blocco israeliano e i ripetuti attacchi militari hanno minato irrimediabilmente l’erogazione di assistenza sanitaria a Gaza, dice, e hanno lasciato ospedali e cliniche incapaci e impreparati ad affrontare una pandemia.

Gilbert racconta a The Electronic Intifada: “Il timore è che un’epidemia incontrollata di COVID-19 nella Striscia di Gaza gravi in modo eccessivo sul sistema sanitario di Gaza, peggiorando in questo modo ulteriormente la vulnerabilità dei palestinesi alla pandemia in condizioni di violenza strutturale”.

Commento obiettivo

Commento obiettivo per i medici professionisti? Non secondo Zion Hagay dell’Israeli Medical Association, la cui risposta alla lettera ormai scomparsa scritta da Gilbert ed altri è stata pubblicata nell’ultima edizione online di The Lancet.

Hagay ha denunciato la lettera di marzo come “retorica politica” e ha difeso il blocco israeliano [di Gaza] come “una risposta necessaria al contrabbando di armi e alla violenza incessante contro Israele”.

Ha elogiato Israele per aver “permesso” ai pazienti palestinesi di “continuare a entrare in Israele per ricevere cure mediche salvavita”.

Ma i palestinesi di Gaza devono affrontare un percorso gravoso e ampiamente criticato per ottenere dai militari israeliani i permessi per viaggiare per curarsi o per qualsiasi altra ragione.

A causa del ritardo e del rifiuto dei permessi da parte di Israele i pazienti palestinesi muoiono regolarmente per mancanza di cure. Nel solo 2017 ci sono stati 54 decessi di questo tipo documentati dall’OMS.

Hagay ha anche omesso di notare che il Segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres – del quale invece cita le lodi per la cooperazione tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese in risposta al COVID-19 – ha ampiamente descritto Gaza come una delle crisi umanitarie più “drammatiche” del mondo e ha chiesto che venga revocato l’assedio.

Ma oltre a questo, dice Wispelwey, è stato “sbalorditivo” che The Lancet abbia deciso di pubblicare una lettera in risposta a un articolo che era già stato rimosso.

“Ciò rende l’intera situazione più assurda”, afferma Wispelwey. “Pubblicare una risposta a un articolo ora ‘scomparso’ e consentirgli di fare dei commenti sulla sua rimozione?”

“La censura e la sorveglianza sono metodi classici di controllo coloniale”, aggiunge.

Piuttosto che ambire ad un falso “equilibrio” di punti di vista che non riesca a tenere conto dei differenziali di potere, sostiene Wispelwey, dobbiamo “iniziare a riconoscere, chiamare col loro nome e resistere a queste costrizioni nella medicina accademica e altrove”.

The Lancet non ha voluto commentare.

Omar Karmi is an associate editor with The Electronic Intifada and a former Jerusalem and Washington, DC, correspondent for The National newspaper.

Omar Karmi è un redattore associato di The Electronic Intifada e un ex corrispondente da Gerusalemme e Washington per il quotidiano The National [quotidiano indipendentista scozzese, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Rapporto OCHA del periodo 8 – 21 settembre 2020

Nei governatorati di Jenin e Qalqiliya, in due episodi separati, le forze israeliane hanno lanciato granate assordanti e sparato contro lavoratori palestinesi che cercavano di entrare in Israele attraverso varchi aperti nella Barriera.

Nel primo episodio, avvenuto il 18 settembre, un uomo di 54 anni è morto di infarto mentre cercava di fuggire dalla zona; nel secondo caso, un uomo è stato ferito con arma da fuoco. Dallo scorso marzo, in seguito alla diffusione del COVID-19, gli attraversamenti non autorizzati di lavoratori, attraverso i varchi aperti nella Barriera, sono in aumento. Da allora, in questo contesto, le forze israeliane hanno ferito almeno 66 palestinesi, di cui 23 con armi da fuoco.

Complessivamente, in Cisgiordania, durante il periodo in esame, nove palestinesi sono stati feriti dalle forze israeliane [segue dettaglio]. Tre dei feriti sono minori (13, 14 e 16 anni), colpiti da proiettili di gomma sparati durante scontri nella città di Hebron e nel vicino Campo Profughi di Al Arrub. Le forze israeliane hanno condotto 161 operazioni di ricerca-arresto; due di queste, svolte nel villaggio di Kafr Dan (Jenin) e nella città di Tulkarm, hanno portato a scontri e al ferimento di due persone. Altri tre palestinesi sono rimasti feriti durante la protesta settimanale a Kafr Qaddum (Qalqiliya) e nel corso di un altro scontro verificatosi nella stessa area.

Il 15 settembre, un gruppo armato palestinese ha lanciato diversi razzi contro il sud di Israele, ferendo tre israeliani nella città di Ashdod. I lanci sono stati effettuati mentre, a Washington DC, venivano firmati gli accordi di normalizzazione tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrain. Successivamente, l’aviazione israeliana ha effettuato molteplici attacchi aerei contro siti militari di Gaza, senza provocare feriti. Queste nuove ostilità sopraggiungono dopo gli accordi del 31 agosto, che avevano messo fine a tre settimane di ostilità intermittenti.

Nella Striscia di Gaza, presumibilmente per far rispettare ai palestinesi le restrizioni loro imposte sia sull’accesso alle aree adiacenti la recinzione perimetrale israeliana, sia al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno otto occasioni; non sono stati registrati feriti. In quattro occasioni, le forze israeliane sono entrate [nella Striscia di] Gaza ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale. Inoltre, al valico di Erez, le autorità israeliane hanno arrestato un paziente [palestinese] in viaggio per cure e, nei pressi della recinzione perimetrale, almeno altre cinque persone che, a quanto riferito, tentavano di infiltrarsi in Israele.

A Gaza, un uomo di 44 anni, intento a coltivare la propria terra, è stato ferito dall’esplosione di un residuato bellico (ERW). Dall’inizio del 2020, almeno due persone sono state uccise e altre cinque sono rimaste ferite da detonazioni di ordigni bellici.

Per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, ventidue strutture di proprietà palestinese sono state demolite o sequestrate, sfollando 50 palestinesi e diversamente riguardando circa 200 persone. Dodici delle demolizioni (di cui otto eseguite dai proprietari delle strutture) sono state registrate a Gerusalemme Est. Da queste [12] sono derivati tutti gli sfollamenti registrati in questo periodo [50]. Poco più della metà di tutte le demolizioni eseguite a Gerusalemme Est dall’inizio dell’anno a seguito di ordini di demolizione (134), sono state effettuate dai proprietari per evitare multe e commissioni più elevate. Le altre dieci strutture [delle 22] si trovavano in Area C. Cinque di queste sono state demolite ad At Taybe (Hebron) e Beit Sira (Ramallah), sulla base di “Ordini militari 1797”, che consentono le demolizioni entro 96 ore dall’emissione degli ordini medesimi. Il 10 settembre, il Coordinatore Umanitario [dell’ONU] ha espresso preoccupazione per il forte aumento delle demolizioni concomitante con l’inizio della pandemia ed ha invitato le autorità israeliane a porre immediatamente fine a questa pratica illegale.

In tre episodi diversi, circa 550 alberi di proprietà palestinese sono stati sradicati o vandalizzati in vario modo ad opera, secondo quanto riferito, di coloni israeliani. L’episodio più grave è avvenuto su un terreno coltivato da tre famiglie del villaggio di Biddya (Salfit), dove coloni sono intervenuti con una ruspa ed hanno distrutto 445 alberi da frutto, una struttura agricola, 1,7 km di muri in pietra e recinzioni in ferro. Secondo fonti israeliane, nonostante la mancanza di permessi di costruzione o approvazione ufficiale, i coloni rivendicano la proprietà della terra e intendono stabilirvi un nuovo insediamento. Gli altri due episodi si sono verificati in aree B e C, prossime al villaggio di As Sawiya (Nablus), dove circa 100 ulivi sono stati abbattuti o, in vario modo, vandalizzati. Dall’inizio dell’anno, quasi 5.000 alberi di proprietà palestinese, principalmente ulivi, sono stati distrutti o danneggiati. La stagione annuale della raccolta delle olive inizierà ufficialmente il 7 ottobre e, vicino agli insediamenti colonici e dietro la Barriera, si svolgerà con gravi restrizioni di accesso alla terra.

In Cisgiordania, secondo fonti israeliane, aggressori, ritenuti palestinesi, hanno aggredito fisicamente e ferito due israeliani, ed hanno rubato i loro veicoli. Secondo quanto riferito, altre sette auto israeliane, in transito sulle strade della Cisgiordania, hanno subito danni da lancio di pietre.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina:https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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PALESTINA. Si è spento il nostro caro amico Ali

25 settembre 2020, Nena News

  Redazione Abbiamo appreso qualche ora fa della scomparsa del nostro amico e compagno Alì Oraney. Alì se n’è andato come se ne sono andate oltre 35.000 persone da fine febbraio nel nostro Paese. Se n’è andato solo in una stanza di ospedale di Napoli lontano migliaia di chilometri dalla sua Terra, la Palestina. Di Alì la nostra redazione ricorda con dolore la sua bontà d’animo, la sua voglia irrefrenabile di riportare con forza al centro del dibattito politico la questione palestinese. Perché Alì amava sinceramente la sua terra e ha combattuto per la giustizia del suo popolo fino alla fine dei suoi giorni. Lo vogliamo ricordare ripubblicando un suo articolo di analisi che aveva scritto per noi: negli ultimi anni, infatti, aveva contribuito con i suoi preziosi contributi ad approfondire quanto accadeva in Palestina. Ci stringiamo al dolore della famiglia e degli amici che in queste ore piangono la sua scomparsa. Che la terra ti sia lieve caro Ali

Attese domani a Napoli le imbarcazioni della Freedom Flotilla diretta a Gaza. Due milioni di palestinesi sono soggetti a una punizione collettiva e a una crescente e spaventosa crisi umanitaria, scrive Ali Oraney

 

di Ali Oraney

Napoli, 10 luglio 2018, Nena News – Da mercoledì 11 luglio  sono previste a  Napoli una serie di iniziative a sostegno delle imbarcazioni della Freedom  Flotilla attraccata al porto, la flotta promossa da un movimento internazionale (Freedom Flotilla Coalition, FFC)  che dal 2008 organizza iniziative per portare aiuti alla popolazione palestinese  della Striscia di Gaza oramai stremata da 11 anni di assedio e per sollevare l’attenzione dell’opinione pubblica e della comunità internazionale sulle condizioni di vita di circa  2 milioni  di persone, di cui quasi la metà bambini, rinchiusi in un fazzoletto di terra di 363 km quadrati, oramai considerato la più grande prigione a cielo aperto della terra dalla quale è impossibile non solo uscire ma anche  entrare.

L’iniziativa della Freedom Flotilla è molto importante e delicata, è come il lavoro del mare che ha bisogno di pazienza e resistenza e la magia del suo equipaggio   sta nel fare durare il suo viaggio alla volta di Gaza il più possibile,  per raccontare la storia dell’assedio in più porti possibili presentando la vera faccia dell’occupante suscitando ovunque così momenti riflessione sul comportamento brutale di Israele e contribuendo a creare un movimento di pressione sullo stato di Israele.

Per questo  sicuramente Napoli, città aperta e solidale , farà  una grande accoglienza all’equipaggio della Freedom Flotilla per incoraggiarlo e stimolarlo ad andare avanti

Quest’anno le imbarcazioni della Freedom Flotilla, salpate dalla Norvegia e dalla Svezia,  dopo aver fatto tappa nel Mediterraneo a Cagliari ed Aiaccio, si fermeranno a Napoli dall’ 11 al 15 luglio, quindi  andranno a Palermo e a Messina per poi rimettersi in mare alla volta di Gaza sperando di riuscire a rompere l’assedio e rifornire la stremata popolazione degli aiuti umanitari raccolti, ma per chi rompe o semplicemente cerca di rompere il blocco è previsto l’arresto e la detenzione nelle carceri israeliane se non viene sparato prima.

Ma ciò nonostante la Freedom Flotilla è più che mai determinata a cercare di forzare il blocco. Si tratta di un blocco illegale che sottopone 2 milioni di abitanti a una punizione collettiva ed una crescente e spaventosa crisi umanitaria. Infatti,  il blocco totale (aereo marino e terrestre) imposto da Israele da 11 anni priva la popolazione civile di Gaza della quasi totalità dei beni di prima necessità ma anche di materiali da costruzione, di farmaci e presidi sanitari mentre l’acqua e l’energia elettrica vengono razionate per poche ore al giorno. L’ economia è oramai al collasso con un tasso di disoccupazione  che supera il 50% e secondo un rapporto delle Nazioni Unite (UNSCO 2017) la Striscia di Gaza rischia di divenire invivibile entro il 2020 se non si pone fine all’assedio.

Con le tappe nel Mediterraneo e negli altri porti la Freedom Flotilla vuole accendere i riflettori non solo su un assedio che dura da 11 anni a danno della popolazione civile di Gaza in violazione delle norme del diritto internazionale ma più in generale sulla lotta del popolo palestinese contro l’occupazione israeliana. Sono 70 anni che il popolo palestinese lotta contro l’occupazione della sua terra e per la sua libertà nonostante la violenta repressione israeliana con morti e feriti, arresti indiscriminati anche di donne e bambini, con quotidiane distruzioni  rapine e limitazioni alla libertà di movimento. Sono 70 anni che il popolo palestinese lotta contro la politica di occupazione israeliana  nonostante sia sempre più sostenuta dagli Stati Uniti che hanno riconosciuto Gerusalemme capitale d’Israele e il 14 maggio vi hanno trasferito la propria ambasciata. Ma nonostante tutto questo  il popolo palestinese non rinuncia  ai suoi diritti, non rinuncia al diritto al ritorno dai quei territori dai quali fu cacciato 70 anni fa.

Infatti, il popolo palestinese oggi è più che mai determinato a portare avanti la sua lotta come lo testimoniano le tante manifestazioni in Cisgiordania di questi giorni (a Ramallah, Nablus…..) e le marce di ritorno che dal 30 marzo ogni venerdì vengono organizzate a Gaza nonostante oltre 137 morti e 15.800 feriti

Nel caso specifico di Gaza non si può accettare l’obiezione sollevata da alcuni in base alla quale non si possa parlare di assedio dal momento che Israele si sarebbe ritirata da Gaza dal 2005 in quanto si può parlare di occupazione anche senza la presenza  militare se c’è un controllo reale del territorio ed Israele controlla il mare, la terra,  lo spazio aereo, insomma tutti i punti di passaggio da e per Gaza. Quindi, anche nei confronti di Gaza, Israele si configura come potenza occupante e come tale ha, in base al diritto internazionale, dei precisi obblighi nei confronti della popolazione a cui dovrebbe garantire i mezzi necessari per vivere e non colpire i civili. Israele non rispettando questi obblighi ed impedendo  a chiunque di portare aiuti alla popolazione  si macchia così di un doppio crimine.

Tutto ciò costituirà materia di riflessione nelle tante iniziative organizzate dal Comitato di Accoglienza alla Freedom Flotilla di Napoli , fra queste mercoledì 11 la conferenza stampa di presentazione  presso la Biblioteca Autogestita Gramasci Dax  della facoltà di Lettere e Filosofia in Via Porta di Massa (ore 11,00) e l’accoglienza al porto della Freedom Flotilla con la cittadinanza ed artisti di strada (ore 18,30); giovedì 12 dalle 19,00 nello splendido scenario offerto dal Castello del Maschio Angioino “Gli  Artisti Napoletani a sostegno della Palestina” daranno vita ad un concerto con l’esibizione appunto di artisti e gruppi tra i più noti nel panorama musicale partenopeo; venerdì  13 sarà organizzata una cena sociale presso la mensa Occupata di via Mezzocannone , mentre l’intera giornata di sabato  14 sarà destinata ad una assemblea nazionale  organizzata presso il complesso di Santa Fede Liberata in Via S. Giovanni Maggiore Pignatelli a sostegno della resistenza palestinese.

Gli organizzatori si augurano che a questa assemblea ci sia una grande partecipazione di associazioni, comitati, attivisti ma anche di semplici cittadini, tutti indignati per comportamento criminale di Israele che da 11 anni  ha imposto un blocco disumano, economicamente e socialmente paralizzante a 2 milioni di persone,  che occupa i territori palestinesi negando al popolo palestinese  i suoi più elementari diritti e libertà. L’obiettivo di questa assemblea nazionale  è di parlare di Palestina nella speranza di creare una rete a livello nazionale capace di esprimere una solidarietà solo annunciata ma anche soprattutto praticata,  che faccia sentire la sua voce per porre fine all’assedio di Gaza e che sostenga concretamente il popolo palestinese nella sua lotta per la libertà. Nena News




La Corte Penale Internazionale esclude l’indagine sulla Freedom Flottiglia a Gaza

Maureen Clare Murphy 

19 Settembre 2020 – Electronic Intifada

Una giuria della Corte Penale Internazionale ha respinto il ricorso contro la decisione della procuratrice capo di non procedere nell’indagine sull’attacco mortale di Israele a una nave in acque internazionali nel 2010.

I soldati israeliani avevano ferito a morte 10 persone a bordo della Mavi Marmara  dopo aver fatto irruzione sulla nave, che era parte di una flottiglia civile intenzionata a rompere l’assedio in corso a Gaza.

La decisione della camera preliminare di questa settimana sembra porre fine a sette anni di procedimenti legali e di botta e risposta tra la procuratrice Fatou Bensouda e il collegio dei giudici che le hanno ripetutamente chiesto di riconsiderare la sua decisione di non indagare.

Bensouda ha riconosciuto che “c’è un ragionevole margine di dubbio per credere che siano stati commessi crimini di guerra” dalle forze israeliane quando sono salite a bordo della Mavi Marmara.

Ma ha insistito sul fatto che l’attacco israeliano in alto mare non è “sufficientemente grave” da giustificare un procedimento giudiziario.

I giudici hanno identificato una serie di errori che è stato chiesto a Bensouda di correggere.

Nella loro decisione di questa settimana, i giudici affermano che Bensouda “non ha veramente riconsiderato” la sua decisione del 2014 di eludere l’indagine. Secondo i giudici, ha anche “commesso nuovi errori” lo scorso anno nel riaffermare le proprie decisioni.

Gli errori includono la valutazione del pubblico ministero della gravità dell’eventuale causa derivante dai fatti.

Nella sua conferma del 2019 della decisione di non perseguire, Bensouda ha affermato che i commando israeliani che hanno preso d’assalto la Mavi Marmara sembrano essere i principali responsabili dei presunti crimini e sarebbero perciò stati al centro di qualsiasi indagine.

Ha ritenuto non esserci basi ragionevoli per credere che gli alti comandi israeliani e i leader civili non presenti sulla Mavi Marmara fossero responsabili.

Come riassumono i giudici, Bensouda ha sostenuto che l’ambito dell’eventuale causa [giudiziaria] sarebbe probabilmente limitato e che l’identificazione degli autori dei crimini di omicidio intenzionale e lesioni gravi sarebbe difficile data la “situazione caotica” durante l’attacco alla Mavi Marmara.

I giudici sottolineano che la procuratrice ha “essenzialmente escluso dall’ambito” di un’eventuale indagine, “a parte gli stessi responsabili, altre categorie di persone, dai comandanti diretti… agli alti comandi [militari] e leader israeliani”.

I giudici aggiungono che una valutazione iniziale “non dovrebbe mai portare all’esclusione di alcune categorie di persone ancor prima che le indagini siano iniziate”.

La procuratrice ha dichiarato di essere stata incaricata in fase istruttoria non di “valutare se l’indagine si sarebbe estesa” a comandanti e funzionari di alto livello, “ma se si potesse portarla avanti per i principali responsabili, chiunque fossero”.

Non considerate le nuove prove

Bensouda inoltre si è basata solo sulle informazioni messe a sua disposizione al novembre del 2014. Ciò escluderebbe le prove derivanti tra l’altro dalle testimonianze a una commissione pubblica del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e di Ehud Barak, ministro della Difesa israeliano al momento dell’attacco alla Mavi Marmara.

Le affermazioni di Bensouda sono state contestate dal governo delle Comore, di cui la Mavi Marmara batte bandiera. In un appello presentato nel marzo di quest’anno, le Comore hanno sostenuto che le prove “dimostrano che l’intera operazione è stata attentamente pianificata e diretta da diversi ministeri e dai vertici” dell’esercito israeliano.

Le richieste della camera preliminare affinché Bensouda riconsiderasse la sua decisione, tuttavia, sostenevano che la cosa “avrebbe dovuto essere condotta sulla base delle informazioni già in possesso della procuratrice.

La quale era già in possesso di informazioni che “possono ragionevolmente suggerire che ci fosseroro un’intenzione e un piano preesistenti di uccidere i passeggeri”, notano i giudici. Si tratta dell’uso di armi da fuoco da parte dei militari israeliani deciso prima dell’assalto alla Mavi Marmara.

I giudici hanno anche criticato come “prematura” la decisione della procuratrice secondo cui il presunto maltrattamento dei passeggeri sulla Mavi Marmara da parte dei soldati israeliani non si qualifica come trattamento disumano.

“La procuratrice avrebbe dovuto riconoscere che c’era una ragionevole base per credere che fosse stato commesso il crimine di guerra di tortura o di trattamento disumano”, affermano i giudici.

Aggiungono che “il deliberato rifiuto di cure mediche nella giurisprudenza della Corte e di altri tribunali [israeliani] è da considerarsi equivalente a un trattamento crudele che costituisce un crimine di guerra … o altri atti disumani costituiscono un crimine contro l’umanità”.

I soldati israeliani e la polizia negano abitualmente cure mediche ai palestinesi colpiti da colpi di arma da fuoco in quelli che Israele sostiene siano attacchi ai suoi militari, ma che in molti casi non sono altro che uccisioni illegali.

I giudici accusano inoltre la procuratrice di aver introdotto considerazioni irrilevanti ai fini della valutazione della gravità dell’eventuale causa facendo riferimento alla “resistenza violenta dei passeggeri” sulla Mavi Marmara, ipotizzando addirittura che i soldati israeliani possano aver agito per legittima difesa.

Nella sua decisione del 2014 di non indagare, Bensouda comunque ha stabilito che i passeggeri a bordo della Mavi Marmara fossero protetti dalle Convenzioni di Ginevra e che la loro uccisione o lesioni fossero crimini di guerra.

Bensouda considerava che vi fosse un margine ragionevole per credere che fosse stato commesso un crimine che rientrasse nella giurisdizione della Corte. Per questo motivo, affermano i giudici, “non è appropriato che faccia affidamento su incertezze o sull’esistenza di diverse spiegazioni plausibili in merito alla presunta attuazione dei crimini”.

I giudici incolpano il pubblico ministero anche di non aver “dichiarato come abbia valutato il danno subito dalle vittime”, portandoli a concludere che “non ha attribuito alcun peso all’impatto dei presunti crimini sulle vittime dirette e indirette”.

Questo è altro rispetto all’entità dei crimini, che “si riferisce al numero delle vittime, all’area geografica colpita e alla durata e ‘intensità nel tempo dei presunti crimini “.

Secondo i giudici l’impatto è in relazione all’entità del danno subito dalle vittime, sia esso fisico, psicologico o materiale, e affermano che il numero delle vittime registrate per partecipare al procedimento relativo all’assedio di Mavi Marmara “è vicino a 500”.

Altri casi “di gravità paragonabile o minore” rispetto alle circostanze della Mavi Marmara erano stati riconosciuti tali da giustificare ulteriori azioni da parte della Corte, notano i giudici.

La “mancata e coerente applicazione del requisito di gravità” da parte di Bensouda …. “sottopone la Corte alle critiche di doppio standard e di arbitrio”, affermano.

Conclusione scioccante

I giudici, tuttavia, alla fine hanno respinto l’appello del governo delle Comore perché si proceda nell’indagine perché non è chiaro “se e in quale misura si possa chiedere alla procuratrice di correggere gli errori individuati dalla camera (preliminare)”.

Meno di 10 paragrafi nelle 51 pagine dell’istanza sono dedicati a spiegare il rigetto.

È una conclusione scioccante, viste le critiche alla procuratrice di non aver considerato in modo soddisfacente gli errori nel resto dell’istanza.

Il rifiuto della Corte Penale Internazionale ad indagare su quei crimini di guerra sarà senza dubbio frustrante per le vittime di Mavi Marmara che invocano giustizia da più di un decennio. Ancora una volta, Israele non deve farsi carico di conseguenze durature per presunti crimini di guerra.

Ma non si è liberato della CPI.

Nel dicembre dello scorso anno, dopo una lunga indagine preliminare, Bensouda ha raccomandato al tribunale di indagare sui presunti crimini di guerra perpetrati in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

La stessa camera preliminare dei giudici che hanno liquidato la vicenda della Mavi Marmara presso la CPI sta attualmente valutando se il tribunale internazionale eserciti giurisdizione sul territorio palestinese occupato.

L’amministrazione Trump a Washington ha adottato una misura senza precedenti imponendo sanzioni economiche a Bensouda e a un altro membro della Corte Penale Internazionale a causa delle indagini della Corte in Afghanistan, che potrebbero portare all’incriminazione di personale statunitense, così come nella situazione in Palestina.

Nonostante le Comore abbiano portato il caso della Mavi Marmara alla Corte Penale Internazionale, si ipotizza che l’isola dell’Oceano Indiano sarà tra le prossime nazioni della Lega Araba a normalizzare le relazioni con Israele.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




I palestinesi indicono la “giornata della rivolta” contro l’accordo di normalizzazione tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrain

Shatha HammadMohammed al-Hajjar

15 settembre 2020 – Middle East Eye

Un nuovo gruppo della società civile palestinese costituito da diverse fazioni ha protestato martedì contro la firma dei controversi accordi.

I palestinesi della Striscia di Gaza e della Cisgiordania occupata sono scesi in piazza per denunciare gli accordi di normalizzazione firmati martedì a Washington tra Israele, Bahrain ed Emirati Arabi Uniti (EAU).

Sia l’Autorità Palestinese (ANP) che il movimento di Hamas, che governa la Striscia di Gaza, hanno condannato gli accordi mediati dagli Stati Uniti come una “pugnalata alle spalle” al loro popolo.

Dalla prima mattina di martedì si sono svolte manifestazioni nella Cisgiordania occupata a Ramallah, Tulkarem, Nablus, Gerico, Jenin, Betlemme e Hebron, in altre località più piccole nonché a Gaza.

I manifestanti hanno cantato ed esposto cartelli che denunciavano la normalizzazione e si appellavano all’unità araba contro l’occupazione israeliana. 

Martedì il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e gli alti diplomatici degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrain hanno firmato gli accordi per normalizzare le loro relazioni, senza alcun progresso verso un accordo israelo-palestinese.

Ismail Haniyeh, leader di Hamas, che martedì era a Beirut per un incontro con i segretari delle fazioni palestinesi, ha detto al presidente Mahmoud Abbas al telefono che tutte le fazioni palestinesi erano unite contro l’accordo e “non permetteranno che la causa palestinese sia un ponte per il riconoscimento e la normalizzazione della potenza occupante a scapito dei nostri diritti nazionali, della nostra Gerusalemme e del diritto al ritorno”.

Lunedì, il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh ha descritto gli accordi come un altro “giorno nero” per il mondo arabo.

“Un’altra data da aggiungere al calendario della disgrazia palestinese”, ha detto, aggiungendo che l’Autorità Nazionale Palestinese dovrebbe “rettificare” le proprie relazioni con la Lega Araba a causa del rifiuto di condannare i due accordi di normalizzazione conclusi nel mese scorso.

Il ministro degli Esteri del Bahrain Abdullatif al-Zayani e il ministro degli Affari Esteri degli Emirati Arabi Uniti Abdullah bin Zayed bin Sultan Al Nahyan sono arrivati a Washington domenica, mentre Netanyahu è arrivato lunedì nel pieno delle molte richieste in Israele di dimissioni per le indagini in corso sulla sua corruzione e la cattiva gestione del suo governo della pandemia di coronavirus.

Il Bahrain e gli Emirati Arabi Uniti non hanno combattuto guerre contro Israele, a differenza di Egitto e Giordania, che hanno firmato trattati di pace con Israele rispettivamente nel 1979 e nel 1994.

“Giornata di rivolta popolare”

Un nuovo gruppo della società civile, costituito da varie fazioni, ha chiamato martedì a una “giornata di rivolta popolare” in coincidenza con la firma dell’accordo.

Il gruppo, chiamato Leadership Palestinese Unita per la Resistenza Popolare (UPLPR), si è formato la scorsa settimana dall’incontro tra i leader di tutte le fazioni politiche palestinesi nella capitale libanese Beirut.

Nella sua prima dichiarazione, il gruppo ha lanciato un appello per manifestazioni nazionali –definite “il giorno nero” – in tutti i territori palestinesi per chiedere la cancellazione del cosiddetto “accordo del secolo” e dell’occupazione israeliana. 

Ha lanciato anche un altro giorno di protesta – denominato “giorno di lutto” – per venerdì, durante il quale dovranno essere issate bandiere nere per esprimere il rifiuto dell’accordo di normalizzazione.

Martedì, le proteste sono iniziate alle 11 in tutta la Cisgiordania occupata.

A Hebron, secondo un corrispondente di Middle East Eye, a Bab al-Zaweya, al termine di una manifestazione sono scoppiati piccoli scontri tra giovani palestinesi e forze israeliane.

Fahmy Shaheen, rappresentante delle forze nazionali e islamiche a Hebron, ha affermato che le proteste in città riflettono la rabbia per i conflitti praticamente quotidiani tra gli abitanti, i coloni israeliani e le forze dell’esercito a causa della continua espansione degli insediamenti nella città storica.

“Stiamo manifestando il nostro rifiuto alla normalizzazione perché avviene a scapito dei diritti e dei sacrifici del popolo palestinese”, ha detto Shaheen a MEE.

“È anche un omaggio gratuito a Stati Uniti e Israele, offerto a scapito delle aspirazioni arabe alla libertà. Non contiamo sui regimi arabi che stanno svendendo le aspirazioni dei loro popoli e la nostra causa palestinese. Contiamo piuttosto sul popolo arabo che è unito [nella sua convinzione] che la causa della Palestina sia fondamentale”.

Anche Jamal Zahalka, a capo del partito Assemblea Nazionale Democratica, che martedì stava prendendo parte a una protesta a Wadi Ara, ha descritto la firma dell’accordo di normalizzazione come “un regalo pericoloso dagli Emirati Arabi Uniti e dal Bahrein a Trump e Netanyahu, vittime di una soffocante crisi politica nei loro paesi”.

“Oggi, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain dichiarano di sostenere l’occupazione israeliana contro il popolo palestinese. Ciò che si sta discutendo non è la normalizzazione, ma piuttosto un’alleanza strategica”, ha detto.

“Chiunque stringa alleanza con Israele non potrà mai stare con il popolo palestinese e con i suoi giusti diritti”.

Faisal Salameh, capo del comitato popolare di Tulkarem, ha detto a MEE che le manifestazioni hanno portato “un messaggio di amore e rispetto per tutti i popoli arabi”, nonostante le critiche ai governi degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrain.

Razzi e proteste da Gaza

Appena firmati gli accordi a Washington, sono giunte notizie di diversi razzi lanciati verso Israele dalla Striscia di Gaza. Sebbene non sia chiaro quale fosse il gruppo responsabile del lancio di razzi, Israele ritiene il movimento di Hamas responsabile di tutti gli attacchi dall’enclave.

Si sono viste a Gaza anche manifestazioni per tutto il giorno, con centinaia di persone che marciavano contro l’accordo di normalizzazione.

I manifestanti si sono radunati davanti al palazzo dell’Unesco a Gaza per esprimere la loro disapprovazione all’accordo.

Abdel-Haq Shehadeh, membro della più alta leadership del movimento di Fatah a Gaza, ha criticato gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain per non aver rispettato l’Iniziativa di Pace araba del 2002, che delineava tutti i passi per porre fine al conflitto israelo-palestinese.

Shehadeh ha detto che vorrebbe chiedere a qualsiasi paese stia pensando di seguire le orme degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrain di fermarsi e riconsiderare, sottolineando di non credere che la gente nel mondo arabo sia d’accordo con una scelta simile – messaggio rimbalzato martedì durante le proteste palestinesi.

Durante la manifestazione Ismail Radwan, alto funzionario di Hamas, ha definito l’iniziativa guidata dagli Stati Uniti “un pugnalata alle spalle del popolo palestinese” e ha assicurato che si stava organizzando “una strategia globale e unificata di tutte le fazioni palestinesi per contrastare Israele”.

“Ai governanti degli Emirati e del Bahrain: avete dismesso il sostegno al popolo palestinese ma le generazioni palestinesi non dimenticheranno le vostre scelte”, ha detto Radwan, lodando i cittadini che nei due paesi si erano espressi contro le decisioni dei loro governi.

A Washington, 50 ONG hanno lanciato una protesta davanti alla Casa Bianca durante la cerimonia della firma per esprimere la loro opposizione.

Martedì anche le fazioni palestinesi in Libano hanno organizzato proteste per condannare l’accordo.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Gli accordi di Abramo visti da Gaza: “È la fine della nazione araba. La vecchia guardia ha fallito”

Umberto De Giovannangeli

16 settembre 2020 Globalist

Quei missili lanciati da Gaza, e l’immediata risposta israeliana, raccontano che la pace, quella vera, non può prescindere dai palestinesi. “Non ci sarà nessuna pace in Medio Oriente finché durerà l’occupazione israeliana dei territori palestinesi”, scandisce il presidente Abu Mazen. “È un giorno buio”, ripete il premier palestinese Mohammed Shtayyeh.

  “Tradimento” grida la folla scesa in strada a Ramallah. E dalla Striscia di Gaza, controllata da Hamas, diversi razzi sono stati lanciati nella notte su Israele, inducendo decine di migliaia di residenti di Asheklon e Ashdod a precipitarsi nei rifugi antiaerei. Due soli i feriti, stando a quanto riferiscono i media locali, ma la paura è grande. In risposta, aerei ed elicotteri da combattimento israeliani avrebbero colpito “10 obiettivi terroristici di Hamas a Gaza”Fra questi, fa sapere il portavoce militare israeliano, anche degli stabilimenti per la produzione di armi e di esplosivi nonché una base di addestramento utilizzata per condurre esperimenti nei lanci di razzi. “La organizzazione terroristica di Hamas – ha precisato il portavoce militare israeliano – è responsabile di ogni evento che abbia origine dalla Striscia”. Un chiaro riferimento agli attacchi di ieri verso le città israeliane. 

Sulla escalation di violenza in mattinata è intervenuto anche Netanyahu. “Non mi stupisco dei terroristi palestinesi – ha detto il premier in partenza da Washington-. Hanno sparato contro Israele proprio durante una cerimonia storica. Vogliono far retrocedere la pace, ma non ci riusciranno. Noi colpiremo chiunque tenti di colpirci, ma porgiamo una mano di pace a quanti vogliono la pace con noi”. Al ritorno in Israele, ha aggiunto, lo attendono adesso tre compiti urgenti: “Combattere il coronavirus, combattere il terrorismo ed allargare il cerchio della pace“.

Punto di non ritorno

Per cogliere gli umori della gente palestinese, Globalist ha scelto di affidarsi alle considerazione di un giovane intellettuale palestinese, non arruolato in una delle tante fazioni dell’arcipelago palestinese: Muhammad Shehada,  scrittore e attivista della società civile della Striscia di Gaza.

“Oggi il Medio Oriente è giunto un punto di non ritorno – annota Shehada su Haaretz -. Non che un leader palestinese avrebbe potuto fermare la frenesia della normalizzazione tra il Golfo e Israele. Ma la debolezza, il cinismo e la frammentazione dei leader palestinesi ora in carica hanno criticamente minato ogni potenziale capacità di prevenire, ritardare, impegnarsi o rispondere in modo significativo all’innovativo strisciare degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein verso Israele, e verso Donald Trump. Questo non ha impedito agli eserciti troll saudita e degli Emirati Arabi Uniti di investire i loro sforzi nell’incolpare i palestinesi per il loro stesso abbandono, non offrendo alcuna ragione chiara per l’abbandono dei loro regimi di quella che una volta era la causa del consenso della regione. Questa settimana, almeno un leader palestinese ha raccolto parole di lotta. Il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh ha dichiarato lunedì che “Domani, l’iniziativa di pace araba muore, così come il consenso arabo… [è] un giorno buio nella storia della nazione araba e della Lega araba”.  Il tradimento della Palestina da parte degli Emirati Arabi Uniti infrange finalmente il mito della nazione araba. L’amore tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti è stata una pubblicità provocatoria, non un affare di pace. Il problema con i monarchi del Golfo – famosi per la brutale repressione delle loro popolazioni – non è mai stata la loro mancanza di consapevolezza delle tribolazioni che i palestinesi subiscono. I loro difetti fatali sono la mancanza di coscienza, l’assenza di una bussola morale e la priorità degli interessi egoistici: mantenere i loro troni e far progredire la loro egemonia regionale. Nessun discorso emotivo o anche solo eloquente potrebbe influenzare i regimi arabi autocratici a rinunciare a vendere la causa palestinese a buon mercato, solo azioni drastiche. I leader dell’Autorità palestinese lo sapevano fin troppo bene, ma non sono riusciti a gestire questo rischio: hanno ripiegato sui discorsi.

Negli ultimi quattro anni  prosegue Shehada – è stato chiarissimo che i regimi arabi si sono mossi verso la normalizzazione. Mentre l’Autorità Palestinese  ha investito grandi sforzi nell’approfondire i rapporti con i governi europei, ha fatto molto meno per rafforzare i rapporti con i Paesi arabi nel proprio cortile di casa – e ancor meno per contrastare la corsa alla normalizzazione.

Invece, i funzionari dell’AP ci hanno assicurato in ogni occasione che la sua posizione regionale era eccellente e che nessuno Stato arabo avrebbe mai osato staccarsi dal consenso di lunga data sull’Iniziativa di pace araba.  Seriamente e incautamente, il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat ha sfidato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a nominare un Paese arabo con il quale Israele ha migliorato le sue relazioni. Più recentemente, Erekat ha dichiarato che il Bahrein è ‘pienamente impegnato’ nell’Iniziativa di pace araba, il che significa nessun riconoscimento unilaterale di Israele senza un progresso verso uno Stato palestinese. Sei giorni dopo è stato annunciato l’accordo Bahrein-Israele. Erekat era ingenuo, fuorviato  o cieco a ciò che non voleva vedere? Nel corso degli ultimi quattro anni i leader palestinesi hanno volontariamente presentato le dichiarazioni ufficiali senza senso dei regimi del Golfo come promesse di ferro. Questo è servito ad alleviare le preoccupazioni dell’opinione pubblica, assicurandogli (erroneamente) che i loro interessi e diritti erano protetti. Nel frattempo, quei leader palestinesi non hanno reagito con sufficiente forza all’aumento delle prove sul terreno della strisciante normalizzazione.  Questa strategia è nata da una serie di ipotesi radicalmente superate, se non addirittura auto-elusive, su gran parte del mondo arabo. L’Autorità Palestinese ha dato per scontata la lealtà di un regime arabo di base alla causa palestinese. La sua strategia è nata da una serie di ipotesi radicalmente superate, se non addirittura auto-elusive, su gran parte del mondo arabo. L’Autorità palestinese ha dato per scontata la fedeltà di un regime arabo di base alla causa palestinese: era un presupposto fatalmente falso. Credeva che la causa palestinese godesse ancora dello stesso potere simbolico di sempre, non ultimo per i governanti arabi che tradizionalmente usavano la questione per mobilitare, placare e distrarre il loro pubblico.

Ma il Medio Oriente è coinvolto in altri conflitti, crisi e distrazioni. L’Autorità Palestinese ha anche lavorato con l’errata convinzione che l’equità e la giustezza della nostra causa sarebbero ancora sufficienti per ottenere simpatia e sostegno da parte dei governanti arabi. ‘Ciò che ci lega al mondo arabo non sono solo le relazioni o gli interessi, è il sangue e il sangue non diventerà mai acqua’, mi disse una volta un alto funzionario dell’AP. Quella falsa fiducia ha portato la leadership dell’AP a sedersi tra il pubblico, ma poi, scioccato, si è affrettato ad agire ogni volta che sono arrivate notizie di paesi arabi che si avvicinavano alla piena normalizzazione.

Capolinea per la vecchia guardia

La strategia dell’AP o la sua mancanza, è nata dal presupposto che il diritto prevarrà sempre inevitabilmente sulla falsità, l’ingiustizia e l’oppressione. Tutto quello che dovevano fare era stare fermi, resistere alla pressione e aspettare che le condizioni maturassero a loro vantaggio.  Più l’AP ha aspettato con ansia e si è bloccata, per quanto amaramente, con lo status quo, più ha perso. Come recita l’adagio arabo ‘Un diritto non si perde mai, finché qualcuno si sforza di rivendicarlo’. Gli attuali leader palestinesi non sono riusciti a lottare adeguatamente per i diritti dei palestinesi. Tanto per cominciare, il raggiungimento dell’unità palestinese avrebbe dovuto essere la loro priorità assoluta, in modo che la comunità internazionale potesse prenderci sul serio e che nessuno dei due campi palestinesi minasse l’altro. Per mantenere viva la lotta, per fare notizia piuttosto che reagire sempre ad essa, i leader palestinesi dovrebbero partecipare ad atti di resistenza popolare e non violenta, piuttosto che partecipare ad interminabili vertici in sale conferenze patinate. Mobilitare una simpatia e un sostegno più attivo nel mondo arabo sarebbe un monito ai governanti arabi che cercano di abbandonare la causa palestinese. .L ‘AP avrebbe dovuto amplificare il suo valore per i governanti del Golfo: unendosi alla coalizione contro l’Isis, o coltivando gli sforzi per aumentare la visibilità positiva dei palestinesi, come gli scambi culturali e il commercio. E quei leader avrebbero dovuto mantenere la lotta attiva diplomaticamente offrendo un’alternativa al prepotente racconto della ‘normalizzazione senza concessioni’: mettere sul tavolo le loro creative proposte di pace. Salam Fayyad ha recentemente chiesto all’Olp di modificare il suo statuto per includere gli appelli per le soluzioni a uno e due Stati contemporaneamente. Abbas ha accennato solo una volta, e di sfuggita, che avrebbe sostenuto una confederazione israelo-palestinese, ma non è mai stata fatta alcuna proposta ufficiale. Israele ha determinato la sua nuova era di relazioni con i regimi arabi attraverso decenni di lobbying, cooperazione, innumerevoli incontri, tangenti, pacificazione, manipolazione, costruzione della fiducia e altre tattiche che hanno aperto la strada fino al momento opportuno, quando è emersa la disperazione di Trump per la spedizione elettorale, mentre l’AP ha perso per decenni di inadeguatezza e fiducia nelle sue tattiche obsolete. Ora che abbiamo superato il punto di non ritorno, i leader palestinesi si sono finalmente svegliati e si sono riuniti. Hanno lanciato un comitato nazionale unificato per la resistenza popolare, che ha chiesto ai palestinesi di iniziare atti di resistenza civile non violenta: issare la bandiera palestinese il giorno della firma degli accordi, e marciare verso i confini della Cisgiordania, bloccati o murati, una settimana dopo. Il cambiamento inizia quando i leader palestinesi di tutte le fazioni si rivolgono al loro pubblico effettivo piuttosto che l’uno all’altro, trattando il popolo palestinese come un elettorato e non come un suddito, permettendogli di decidere chi è più meritevole di guidare la causa palestinese e in quale direzione. Il minimo che si dovrebbe fare ora è indire elezioni nazionali che rianimino il pubblico, gli diano voce al proprio destino e lo rendano di nuovo visibile alla loro leadership.  È il momento di iniettare nuovo sangue nell’AP e nell’Olp da parte delle giovani generazioni molto più sensibili alle priorità e ai terribili bisogni dell’opinione pubblica, e non così concentrate sulla salvaguardia dei loro peccati.  L’opinione pubblica palestinese dovrebbe decidere, attraverso le elezioni, se vuole una leadership che si impegni o resista alla nuova realtà mediorientale. Solo leader freschi, più trasparenti e responsabili possono determinare una vera svolta per il futuro palestinese”.

Di certo, quello di Muhammad Shehada è un pensiero condiviso da molti, soprattutto dai giovani, a Gaza. Quegli accordi sono un punto di non ritorno, anche per il notabilato palestinese. E forse la vera sfida a Israele è quella di uno Stato binazionale.




Sprofondate nella disperazione: le politiche di Israele colpiscono le famiglie di Gaza che vivono di pesca

9 settembre 2020 – B’Tselem

Il 12 agosto 2020 Israele ha ridotto da 15 a 8 miglia nautiche [da 27 a 15 km, ndtr.] la zona di pesca nelle acque di Gaza, ufficialmente a causa dei palloni esplosivi lanciati verso Israele. Il 16 agosto 2020 ha poi interdetto totalmente l’accesso al mare di Gaza, ma il 2 settembre 2020 l’ha riaperto entro le 15 miglia. Questa restrizione va ad aggiungersi a varie altre forme di pene collettive inflitte ai pescatori palestinesi dall’inizio del blocco imposto da Israele sulla Striscia nel 2007. Israele ha arrestato pescatori e ne ha confiscato le imbarcazioni, proibito l’importazione di materie prime usate per le riparazioni e sparato ai pescherecci accusati di oltrepassare i limiti permessi. A oggi il fuoco israeliano ha ucciso sette pescatori, ferendone centinaia. Le restrizioni hanno quasi portato al crollo dell’industria ittica: al momento ci sono meno di 4.000 pescatori invece dei circa 10.000 di vent’anni fa. Chi è rimasto soffre per le pericolose condizioni di lavoro imposte da Israele e vive con la propria famiglia in povertà estrema.

Le seguenti testimonianze sono state raccolte sul campo per noi da Olfat al-Kurd fra mogli e madri di pescatori e pescivendoli a Gaza. Descrivendo la loro dolorosa realtà e il loro futuro incerto, le donne hanno parlato della costante paura per i loro cari e dei gravi problemi economici creati dalle restrizioni israeliane al loro sostentamento e destinate a peggiorare a causa della pandemia.

Nella sua testimonianza del 5 agosto 2020, Intesar a-Sa’idi (52 anni), mamma con sei figli che vive nel campo rifugiati di a-Shati’ a Gaza City, descrive le difficoltà economiche e la tragedia personale che affliggono la sua famiglia:

Quando Muamen va a lavorare sono preoccupata perché penso che non ritornerà, mi tranquillizzo solo quando è di nuovo a casa.

Agli inizi del 2018, Muamen era andato a pesca e non era tornato per molto tempo. Ho avuto paura per la sua vita quando ho saputo da altri pescatori della nostra famiglia che i soldati l’avevano arrestato. Ero terrorizzata e in lacrime. All’epoca i soldati avevano in custodia anche suo fratello. Avevo paura che non sarebbe tornato a casa. Nostro figlio Muhammad aveva solo sette mesi.

Per tre settimane non abbiamo saputo dove lo tenessero e non ho quasi dormito o mangiato. Finalmente l’hanno liberato. Quando è entrato in casa, quasi non credevo ai miei occhi, piangevo e ridevo, l’ho abbracciato, ero così felice.

Dopo l’arresto, nonostante i rischi, è tornato a pescare, è l’unico lavoro che sa fare. Fra il 2013 e il 2017 i soldati hanno confiscato tre dei pescherecci della famiglia e finora ne hanno restituito solo uno. L’anno scorso i fratelli di Muamen hanno comprato una barca e lui ha ricominciato a lavorare con loro, 5 fratelli in una barca. Ogni fine-settimana riceve 150 shekel (circa 40 euro), ma non è abbastanza per noi quattro, specialmente perché i bambini sono piccoli e hanno bisogno di pannolini e latte ogni giorno. La mia vita gira intorno a prestiti e debiti con famigliari e amici. Mia suocera ogni tre o quattro mesi prende 750 shekel (185 euro) dal Ministero del Welfare e li divide fra i figli. Mio marito li usa tutti per saldare i nostri debiti. Qualche volta fa dei prestiti per comprare reti e remi e quando vende il pesce usa tutti i soldi per ripagare i debiti.

Quando sento che i soldati hanno aperto il fuoco contro i pescatori chiamo immediatamente i miei cognati per sapere di Muamen e non sono tranquilla finché non è a casa. Anche lui ha paura di essere arrestato o ucciso, questo mi rende ancora più agitata. Gli chiedo di non dire cose così e di tornare sano e salvo, se dio vuole.

Qualche volta dico a Muamen che spero cambi lavoro per i pericoli che vengono dal mare e dall’esercito israeliano. Gli chiedo di cercarsene un altro e di smettere con la pesca, ma lui dice che la situazione a Gaza è difficile e non c’è nient’altro. Mi chiede di essere paziente e sperare in tempi migliori.

Prego dio che tenga I’esercito israeliano lontano da mio marito e dagli altri pescatori. Prego che la nostra situazione economica migliori, per un futuro sicuro per i nostri figli e perché mio marito rimanga sano e salvo e che non venga ferito.

Anche ‘Ula a-Sa’idi (36), mamma di nove bambini che vive nel campo rifugiati di a-Shati’ a Gaza City, parla delle difficoltà di dipendere dalla pesca:

Mio marito (42 anni) ha fatto il pescatore fin da quando ci siamo sposati 18 anni fa. È un lavoro impegnativo e non mi piace perché è molto pericoloso, anche se tutti i miei parenti sono pescatori. Ma è la nostra sola fonte di reddito, così dobbiamo vivere con questo rischio.  Abbiamo dei problemi economici. Dall’inizio del blocco, il guadagno di mio marito è crollato a 700 shekel (~170 euro) al mese. Adesso, anche se lavora duro, guadagniamo al massimo 500 shekel (~120 euro). È piuttosto poco e non basta per le nostre necessità. Prendevo un sussidio di 1.800 shekel (~445 euro) dal Ministero dei servizi sociali ogni tre o quattro mesi. Dopo quattro anni è sceso a 700 shekel che non bastano per vivere e qualche volta neppure per i bisogni giornalieri o per comprare dei vestiti nuovi ai bambini per le vacanze.

Dallo scoppio del coronavirus, le cose sono persino peggiorate perché la situazione economica a Gaza è pessima e la gente compra meno pesce, ci sono meno stranieri, meno grandi eventi e ordinazioni.  

Mio marito lavora con il fratello sulla sua barca. Va in mare alle tre del mattino e torna dopo le tre del pomeriggio. Quando va a pesca, prego dio che lo tenga lontano dai soldati e dai loro proiettili. Non sono tranquilla fino a quando non torna a casa o mi chiama. Quando è fuori, sono molto in ansia, specialmente quando sento che sparano ai pescatori. Divento nervosa e lo chiamo immediatamente per controllare che stia bene. Anche i miei bambini stanno in ansia quando sentono degli spari e si chiedono quale dei pescatori è stato arrestato e sperano non sia papà. Io cerco di calmarli, dico di essere pazienti, che papà tornerà a casa. Quando mio marito è in ritardo, nostro figlio Anas di 9 anni è così preoccupato che va al porto ad aspettarlo.

Per una moglie avere un marito pescatore è la cosa peggiore. D’inverno mio marito soffre per il gran freddo e così mi preoccupo anche di quello, oltre ai pericoli del mare e più di tutto delle sparatorie contro i pescatori. Ogni volta che qualcuno mi dice che i soldati hanno sparato contro i pescatori, sento che sto per perdere mio marito. Prego dio che ce lo riporti sano e salvo.

I soldati hanno arrestato mio marito varie volte, l’ultima nel 2018. Nel 2007 è stato in prigione per sei mesi. Avevano anche confiscato due delle nostre barche e quattro motori e li hanno bloccati nel porto di Ashdod. Di solito l’esercito non li restituisce dopo la confisca.

Spero che un giorno la nostra situazione migliori. Vorrei che ci restituissero i nostri pescherecci, così mio marito avrebbe la sua barca, e che allarghino la zona di pesca. Voglio vivere dignitosamente, sicura per il futuro dei bambini e in grado di soddisfare i loro bisogni e desideri. Spero che non diventeranno pescatori, è un lavoro duro e pericoloso.

A.M. (49 anni), sposata e con nove figli, vive nel campo rifugiati di a-Shati’ a Gaza City, il cui marito è un commerciante di pesce, in una testimonianza rilasciata il 9 agosto 2020 dice:

Mi sono sposata nel 1989. Mio marito ha lavorato nel settore del pesce da quando aveva 12 anni. Lavorava con il padre pescivendolo e con altri parenti. Ho nove figli dai sei ai 29 anni. Viviamo vicino alla costa e molti dei nostri parenti sono in questo settore.

Nei primi anni di matrimonio c’era un sacco di pesce e poca concorrenza. Mio marito andava al mercato alle 3 del mattino e portava a casa grandi quantità di pesce, lo puliva e lo portava al mercato. Di solito lo vendeva tutto nel giro di due ore e tornava a casa. Avevamo un buon reddito di circa 3.000-4.000 shekel mensili (~ 740-990 euro).

È andata avanti così per anni e avevamo un alto livello di vita, ci siamo comprati la casa e avevamo tutto quello che ci serviva, mi ero persino comprata dei gioielli d’oro. Abbiamo allevato i nostri figli in un momento in cui le nostre finanze erano ottime, non gli è mancato niente, vivevamo felici e tranquilli.

Circa 13 anni fa, quando Israele ha cominciato il blocco su Gaza, le cose sono cambiate. Gli affari ne hanno sofferto, la zona di pesca è stata limitata e talvolta la pesca è stata completamente vietata. Il pesce era scarso e caro per i commercianti e i consumatori. D’estate quando ce n’era tanto, la gente ne comprava 4/5 chili, adesso uno o due.

Qualche volta mio marito deve portarsi a casa un po’ o quasi tutto il pesce. Sta al mercato tutto il pomeriggio e la sera cercando invano di venderlo. È impossibile tenere al fresco il pesce per la scarsità di energia elettrica e qualche volta va a male.    

Dall’inizio del blocco le nostre finanze sono peggiorate. Mio marito non possiede una bancarella al mercato e così affitta uno spazio largo un metro o due a circa 10 shekel (~2,50 euro) al giorno. I bambini lavorano con lui, ma in totale non guadagniamo più di 1,500 shekel (~ 370 euro) al mese e siamo in 14 in famiglia. Due figli sono sposati e uno ha dei bambini, ma viviamo tutti nella stessa casa. Anche se siamo una famiglia numerosa, non prendiamo sussidi perché mio marito lavora in proprio. Per saldare i debiti e pagare per i matrimoni dei nostri figli ho venduto tutto il mio oro e 250 mq di terra che avevo comprato. Uno dei nostri figli ha abbandonato l’università perché non potevamo continuare a pagare le rette. Dall’inizio della crisi da coronavirus la situazione è peggiorata: ristoranti e hotel non comprano quasi più pesce perché restano chiusi per lunghi periodi e a Gaza non ci sono visitatori perché i confini sono chiusi. La crisi ha veramente danneggiato il lavoro di mio marito al mercato.  

È molto dura non essere in grado di soddisfare le necessità dei miei figli. Non ho potuto comprare i vestiti per le vacanze da festa e per l’inizio dell’anno scolastico. Devono usare vestiti, zainetti e persino scarpe dell’anno scorso. Mi fa male al cuore perché avrei veramente voluto dar loro delle cose nuove! Ma non possiamo permettercelo e quando chiedono qualcosa, come andare in gita, ogni volta devo rimandare. Mi fa male perché mi piacerebbe vedere i loro occhi riempirsi di gioia.

La situazione è deprimente e opprimente, ma so che non c’è un altro lavoro per mio marito o per i nostri figli. Spero che la nostra situazione migliori.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Rapporto OCHA del periodo 25 agosto – 7 settembre 2020

In due distinti episodi, palestinesi hanno ucciso un civile israeliano ed hanno ferito un ufficiale di polizia israeliano e un soldato

Il 26 agosto, nella città israeliana di Petah Tikva, un palestinese ha accoltellato mortalmente un israeliano. Il sospetto aggressore, un uomo di 46 anni della zona di Nablus, a quanto riferito in possesso di un permesso di lavoro, è stato successivamente arrestato. In Cisgiordania, al checkpoint di Za’atra, nel governatorato di Nablus, un palestinese ha guidato la sua auto contro forze israeliane, causando lievi ferite a un soldato e ad un ufficiale di polizia. Secondo quanto riferito, l’aggressore è poi sceso dall’auto e, brandendo un coltello, è corso verso i militari; questi hanno sparato, ferendolo ed arrestandolo. Il 6 settembre, nei pressi dell’insediamento di Ariel (Salfit), un palestinese ha tentato di accoltellare un soldato israeliano ed è stato arrestato.

In Cisgiordania, nel corso di vari scontri, sono rimasti feriti settanta palestinesi e due soldati israeliani [segue dettaglio]. La maggior parte dei feriti palestinesi sono stati registrati in scontri scoppiati durante cinque operazioni di ricerca-arresto. Altri otto palestinesi sono stati colpiti con armi da fuoco e feriti nel nord della Cisgiordania, in vari tentativi di entrare in Israele attraverso varchi aperti nella Barriera. Tre palestinesi e due soldati israeliani sono rimasti feriti durante scontri nella città di Hebron. Dei settanta palestinesi feriti, dieci sono stati colpiti con armi da fuoco, due sono stati colpiti da proiettili di gomma, due sono stati aggrediti fisicamente; i rimanenti hanno necessitato di cure mediche per aver inalato gas lacrimogeno.

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno complessivamente svolto 152 operazioni di ricerca-arresto, arrestando 117 palestinesi [seguono dettagli]. Nella notte del 7 settembre, nel governatorato di Hebron, si è svolta un’operazione su vasta scala, conclusa con l’arresto di almeno 30 palestinesi. Un’altra grande operazione è stata effettuata il 26 agosto, a Gerusalemme Est, in più quartieri contemporaneamente: dieci persone sono state arrestate, secondo quanto riferito, per aver lavorato per l’Autorità Palestinese a Gerusalemme Est, in violazione della legge israeliana. Sempre a Gerusalemme Est, nel quartiere Al ‘Isawiya, sono continuate le consuete attività di polizia, con relative tensioni: un giornalista è stato arrestato e la sua attrezzatura è stata confiscata.

Il 31 agosto, a Gaza e nel sud di Israele, dopo oltre tre settimane di ostilità intermittenti, è ritornata una relativa calma ed Israele ha revocato le restrizioni di accesso imposte durante la situazione precedente. Durante le fasi di tensione, sono rimasti feriti 12 palestinesi e sei israeliani, e da entrambe le parti sono stati registrati estesi danni alle proprietà. A seguito della riduzione delle tensioni, Israele ha nuovamente autorizzato l’ingresso di merci, compresi materiali da costruzione e carburante; le interruzioni di corrente si sono così ridotte a 12-16 ore giornaliere; le zone di pesca consentite sono state ripristinate [da Israele] al livello pre-crisi, cioè fino a 15 miglia nautiche dalla riva meridionale [di Gaza].

Nella Striscia di Gaza, presumibilmente per far rispettare ai palestinesi le restrizioni loro imposte sia sull’accesso alle aree adiacenti la recinzione perimetrale israeliana, sia al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 17 occasioni; non sono stati registrati feriti. Inoltre, in tre occasioni, le forze israeliane sono entrate a Gaza ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

Il 31 agosto, mentre raccoglievano rottami metallici nei pressi del villaggio di Khuza’a (Khan Younis), due minori palestinesi di 8 e 12 anni, sono stati feriti dalla esplosione di un residuato bellici (ERW) che essi stavano maneggiando. A Gaza, dal 2014, data della fine dell’ultimo conflitto,19 palestinesi sono stati uccisi e 172 sono stati feriti da residuati bellici.

Trentatré strutture di proprietà palestinese sono state demolite o sequestrate per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, sfollando 98 palestinesi, di cui oltre la metà minori, e diversamente coinvolgendo circa 100 persone [segue dettaglio]. La maggior parte delle demolizioni e degli sfollamenti sono stati registrati in Area C: il più alto numero di sfollati (45 persone) si è avuto, in due momenti diversi, nella Comunità beduina di Wadi As Seeq (Ramallah). Inoltre, 12 persone sono state sfollate a seguito della demolizione di cinque strutture nella Comunità di pastori di Jinba (Hebron), situata in un’area designata [da Israele] “zona per esercitazioni a fuoco” e destinata all’addestramento dell’esercito israeliano. A Ras at Tin, presso un’altra Comunità di pastori dell’area di Ramallah, situata anch’essa in una “zona per esercitazioni a fuoco”, sono state sequestrate parti di una scuola in costruzione, finanziata da donatori, insieme ad attrezzature e materiali da costruzione. A Gerusalemme Est, quattro demolizioni hanno provocato lo sfollamento di 39 persone; in tre di questi episodi le demolizioni sono state eseguite dai proprietari, costretti a farlo per evitare costi aggiuntivi e multe.

In azioni compiute da coloni, due palestinesi sono rimasti feriti e proprietà palestinesi sono state vandalizzate [segue dettaglio]. Palestinesi di Kafr Malik (Ramallah) si sono scontrati con coloni israeliani mentre questi ultimi tentavano di creare un nuovo avamposto colonico sul terreno del villaggio; forze israeliane intervenute sul posto hanno sparato, ferendo un palestinese. In un’altra circostanza, una donna palestinese, che transitava sulla Strada 60, nel governatorato di Nablus, è stata colpita con pietre e ferita; altre tre auto hanno subito danni dal lancio di pietre. Nel villaggio di At Tuwani (Hebron meridionale) un pastore ha riferito che un colono ha speronato con l’auto le sue pecore, uccidendone dieci e ferendone cinque. In tre episodi distinti, coloni hanno vandalizzato quattro veicoli in Asira al Qibliya e Huwwara (entrambi in Nablus), dove hanno anche spruzzato graffiti su muri di case, e nel governatorato di Hebron, sulla strada 60. Inoltre, nella zona H2 di Hebron, una scalinata che porta ad un asilo è stata danneggiata da coloni.

Secondo fonti israeliane, tre israeliani sono rimasti feriti e 12 veicoli sono stati danneggiati dal lancio di pietre da parte di aggressori ritenuti palestinesi. Le pietre sono state lanciate contro veicoli israeliani che percorrevano strade della Cisgiordania.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Gaza entra nella seconda settimana di isolamento tra le difficoltà per il controllo dell’epidemia

DALLA REDAZIONE DI Mondoweiss

4 SETTEMBRE 2020 Mondoweiss

Gli ultimi dati:

32.817 palestinesi sono risultati positivi per COVID-19; 24.445 in Cisgiordania; 697 a Gaza; 7.675 a Gerusalemme Est; 192 morti

126.419 israeliani sono risultati positivi per COVID-19; 993 morti;

mercoledì Israele ha registrato il maggior numero di nuovi casi con 3.074 persone risultate positive

Per la seconda settimana di seguito la maggior parte della Striscia di Gaza resta sotto isolamento mentre le autorità sanitarie, nel tentativo di rallentare la diffusione del coronavirus, si affrettano ad incrementare rapidamente i test e impongono ai palestinesi di restare nelle loro case. La scorsa settimana l’intera Striscia di Gaza è stata isolata, quando sono stati scoperti i primi casi di trasmissione all’interno della comunità. Questa settimana gli isolamenti sono stati limitati a 19 focolai.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità nel suo ultimo rapporto sulla situazione ha fatto una descrizione del coprifuoco a più livelli di Gaza, riferendo che a nord non c’è “nessun movimento tranne che per motivi di emergenza fino a nuovo avviso”, e nel centro e nel sud le persone sono costrette nelle loro case durante la notte tra le 20:00 e le 8:00.

Allo stesso tempo i test, che erano circa 18.000 la scorsa settimana, sono aumentati nel corso della settimana successiva, quando l’OMS, in collaborazione con l’Agenzia austriaca per lo sviluppo, ha consegnato altri 50 kit di test, sufficienti per sottoporre a screening quasi 5.000 persone, e ulteriori 4.000 tamponi. Dal 24 agosto più di 7.000 persone sono state sottoposte al test e quasi 500 sono risultate positive.

Nello stesso momento in cui venivano emessi gli ordini di isolamento a Gaza è stato interrotto il servizio idrico, lasciando molti palestinesi in quarantena nelle loro case con circa quattro ore di elettricità al giorno e senza acqua dal rubinetto. Torniamo un po’ indietro per fare chiarezza:

In concomitanza con la pandemia c’è stata un’escalation tra Hamas e Israele che ha avuto poca copertura mediatica. I palestinesi di Gaza hanno rilasciato dei palloncini che trasportavano dispositivi incendiari e lanciato razzi su Israele, e Israele ha sferrato quasi ogni notte attacchi aerei contro Gaza. Nel contesto di queste ostilità Israele ha fermato il trasferimento di carburante, il che ha fatto interrompere il funzionamento dell’unica centrale elettrica di Gaza. Ciò ha di punto in bianco lasciato i palestinesi in una crisi energetica che poi è sfociata in una crisi idrica.

A Gaza il servizio idrico comunale dipende dal flusso costante di energia verso gli impianti di desalinizzazione al fine di depurare l’acqua che viene pompata da pozzi che attingono da una falda acquifera. L’intera operazione collassa se manca la corrente.

Per una famiglia l’interruzione si è rivelata fatale.

Omar al-Hazeen ha usato delle candele per illuminare la sua casa nel campo profughi di al-Nuseirat, nella parte centrale della striscia di Gaza. Mercoledì è scoppiato un incendio nella camera da letto condivisa da tre dei suoi figli che sono rimasti tragicamente uccisi nell’incendio.

Niente elettricità, niente acqua, l’isolamento priva i più poveri di Gaza del sostentamento essenziale

Tareq S. Hajjaj ha riportato sul nostro sito le conseguenze devastanti parlando con le famiglie del quartiere di Shujaiyeh, nel nord-est di Gaza.

Abbiamo sentito e visto i pericoli di questa pandemia, ma restare a casa costituisce un ulteriore pericolo mortale. Potremmo morire di fame, ha detto Baker Mousa, 52 anni, ad Hajjaj che lo ha intervistato davanti alla sua casa, dove il soggiorno è stato trasformato in un piccolo negozio di alimentari. “Giorni fa ho dovuto bussare alla porta del mio vicino per prendere dell’acqua.”

Hajjaj ha scoperto che a Shujaiyeh molte persone, essendo loro impedito di lasciare le loro case a causa delle misure di isolamento e restando bloccate in casa con i rubinetti asciutti, hanno dovuto fare la difficile scelta di acquistare l’acqua al posto del cibo.

Hajjaj racconta:

Majeda al-Zaalan, 49 anni, siede al tavolo della sua cucina con i suoi tre figli adolescenti e organizza le loro razioni per la giornata. Divide una singola porzione di pane e formaggio da condividere in quattro. Successivamente fa le razioni dell’acqua, dando a ciascuno tre litri al giorno per uso personale. Nel corso dell’ultima settimana ha fatto il bucato per la casa una volta e a ciascuno è stata concessa una doccia.

Afferma: “In questi tempi l’acqua è la cosa più preziosa e deve esserci in ogni casa ma sfortunatamente di solito non l’abbiamo per nulla”.

Al – Zaalan prosegue: ‘La famiglia viveva con una piccola entrata del mio figlio maggiore Ahmed, che vendeva boccette di profumo in una strada principale. Ma da lunedì nessuno di noi ha attraversato la porta per uscire”. Ora la sua unica fonte di reddito proviene da una sovvenzione dell’organizzazione benefica britannica Oxfam International che le fornisce la modesta cifra di 30 euro al mese.

“Ho solo la mia famiglia – prosegue – e non ho intenzione di perdere nessuno di loro.”

Cosa ha portato all’epidemia?

Il dottor Yasser Jamei, responsabile del Gaza Community Mental Health Program, il più grande istituto palestinese della Striscia di Gaza per la salute mentale, ha raccontato come i funzionari siano venuti a conoscenza della diffusione inosservata del coronavirus abbastanza per caso.

Jamei riporta una sinossi dal tracciamento dei contatti,

lunedì 24 agosto 2020 drammatiche notizie per la popolazione nella Striscia di Gaza. Quel giorno, l’ospedale Makassed di Gerusalemme ha informato le autorità sanitarie che una donna di Gaza che era presente all’ospedale è risultata positiva al COVID-19. La donna era lì per fare compagnia alla figlia malata che aveva ricevuto un permesso per uscire da Gaza per motivi umanitari. Erano arrivate a Gerusalemme sei giorni prima. Il ministero della salute di Gaza ha contattato la famiglia della donna che vive nel campo profughi di Maghazi, nella parte centrale della Striscia, e ha sottoposto al test i suoi familiari. Quattro di loro sono risultati positivi, di cui uno è proprietario di un supermercato. Un altro lavora in una scuola.

Poco prima di lasciare Gaza, la donna risultata positiva a Gerusalemme aveva partecipato a un matrimonio. Le grandi feste erano state vietate, ma poche settimane prima [della sua partenza, ndtr.] le autorità locali hanno adottato misure diverse al fine di allentare le restrizioni. Ciò era stato giustificato dal fatto che Gaza veniva considerata libera da COVID. Le moschee sono state riaperte. Sono state permesse le riunioni e nella prima settimana di agosto gli studenti sono rientrati a scuola”.

Subire la pandemia sotto l’occupazione

Per buona parte dell’estate abbiamo riferito dello sbalorditivo aumento del numero di nuovi casi giornalieri in Cisgiordania, dove si è verificata una seconda ondata più virulenta del coronavirus. L’OMS riferisce che, soltanto in agosto, il numero totale di coloro che sono risultati positivi in tutti i territori palestinesi occupati è raddoppiato da 15.201 a 31.929. La maggior parte dell’incremento interessa la Cisgiordania.

Questa settimana la corrispondente di Mondoweiss, Yumna Patel, ha pubblicato un secondo video della sua serie in cinque parti che racconta come i palestinesi stanno subendo la pandemia sotto l’occupazione. La sua ultima puntata ci porta al villaggio di al-Walaja, nei pressi di Betlemme, che si trova nell’Area C della Cisgiordania [area sotto esclusivo controllo israeliano, ndtr.], e osserva che “all’Autorità Nazionale Palestinese è stato qui impedito di portare aiuto con interventi di contenimento” e che il governo israeliano “non ha fornito nulla” ai palestinesi “in termini di test, trattamento o contenimento del coronavirus”.

Patel riferisce:

Immagina di essere lasciato a difenderti da solo contro il coronavirus mentre la tua casa è minacciata di demolizione e la tua famiglia vive sotto l’occupazione militare.

Questa è la realtà per i palestinesi che vivono nel villaggio di Al-Walaja, annidato tra le colline di Betlemme e Gerusalemme, nel sud della Cisgiordania occupata”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




PCHR: violazioni israeliane dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati

Rapporto settimanale del Palestinian Center for Human Rights [Centro Palestinese per i Diritti Umani] (PCHR) dal 27 agosto al 2 settembre 2020

4 settembre 2020 – International Middle East Media Center

Sintesi

Le Forze Israeliane di Occupazione (FIO) hanno continuato a commettere crimini e svariate violazioni contro i civili palestinesi e le loro proprietà, comprese incursioni caratterizzate da un uso eccessivo della forza, aggressioni, maltrattamenti e attacchi contro i civili nelle città palestinesi. Questa settimana le FIO hanno ferito sei civili palestinesi, compreso un minore, con uso eccessivo della forza durante incursioni in città palestinesi e la repressione di proteste pacifiche in Cisgiordania. Le FIO hanno anche continuato la loro politica di demolizione e distruzione di case e strutture palestinesi per i loro programmi di espansione delle colonie.

Alla fine di questa settimana Dawoud Tal’at al-Khatib (48 anni) è morto all’interno della prigione di Ofer a causa di un infarto solo a quattro mesi dalla data del suo rilascio. Al-Khatib, di Betlemme, è stato nelle prigioni israeliane negli ultimi 18 anni e negli ultimi anni di prigionia ha sofferto condizioni di salute particolarmente difficili, l’ultima delle quali è stata una crisi cardiaca nel 2017. La decisione di tenerlo in carcere ha aggravato le sue critiche condizioni di salute, e alla fine è morto per un attacco cardiaco il 2 settembre 2020.

Nella Striscia di Gaza, dopo che sono stati scoperti casi fuori dai centri di quarantena, per la seconda settimana di fila è proseguito il coprifuoco per limitare la diffusione del coronavirus. Il PCHR teme un peggioramento catastrofico nelle condizioni di vita se il coprifuoco verrà mantenuto per un periodo prolungato senza un meccanismo di protezione per le famiglie povere, disoccupate e con un reddito ridotto, così come per i lavoratori a giornata che hanno perso la loro fonte di sostentamento a causa dello stato di emergenza e del coprifuoco. Il PCHR mette in guardia dalle conseguenze catastrofiche della diffusione del coronavirus nella Striscia di Gaza, soprattutto con il suo sistema sanitario già allo stremo a causa di 14 anni dell’illegale e disumano blocco e delle politiche di punizione collettiva imposti alla Striscia di Gaza dalle FIO.

Questa settimana il PCHR ha documentato 151 violazioni delle leggi internazionali per i diritti umani e del diritto umanitario internazionale (IHL) da parte delle FIO e dei coloni nei TPO. Va rilevato che i limiti dovuti alla pandemia da coronavirus hanno ridotto gli spostamenti per il lavoro sul campo del PCHR e la sua possibilità essere presente sul posto; di conseguenza le informazioni contenute in questo rapporto sono solo una parte delle continue violazioni da parte delle FIO.

Spari e violazioni del diritto all’integrità fisica da parte delle FIO:

In Cisgiordania le FIO hanno ferito 6 civili, compreso un minore, con un uso eccessivo della forza: 2 civili, compreso un minore, feriti a Jenin, 1 ferito durante scontri ad Hebron, nella repressione da parte delle FIO delle proteste di Kufur Qaddoum a Qalqilia e un ferito a Betlemme. Le FIO hanno aggredito a Tulkarem un anziano palestinese, gettandolo a terra, ferendolo e umiliandolo gravemente in un incidente documentato da media e giornalisti. Nella Striscia di Gaza le FIO hanno aperto il fuoco 5 volte verso le terre agricole ad est di Khan Younis e Rafah, nella zona meridionale della Striscia di Gaza.

Incursioni delle FIO e arresti di civili palestinesi:

Le FIO hanno effettuato 70 incursioni in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est. Queste incursioni hanno incluso attacchi in case di civili e sparatorie, terrorizzando i civili e aggredendone molti. Durante le incursioni di questa settimana sono stati arrestati 38 palestinesi, compresi 6 minori e un giornalista. A Gaza le FIO hanno condotto una incursione limitata nella zona ad est di Rafah, nella Striscia di Gaza meridionale.

Espansione delle attività delle colonie e attacchi dei coloni:

Le FIO hanno continuato le operazioni di espansione delle loro colonie in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est occupata. Il PCHR ha documentato 7 violazioni, comprese:

  • Jenin: demolizione di una panetteria e notifica di un ordine di demolizione al negozio di un falegname;

  • Gerusalemme est: 3 case demolite dagli stessi proprietari [per non dover pagare i costi di demolizione, ndtr.];

  • Betlemme: divieto a un palestinese di continuare la costruzione della sua casa e confisca di materiale da costruzione;

  • Hebron: due case di lamiera e una baracca demolite, 1 stanza (di mattoni e lamiera) demolita;

  • Ramallah: 3 tende adibite ad abitazione smontate e confiscate.

Attacchi dei coloni:

Il PCHR ha documentato l’attacco incendiario contro un veicolo e atti di vandalismo contro arabi a Nablus.

Politica israeliana di interruzione della circolazione e limitazioni alla libertà di movimento:

Lunedì 31 agosto 2020 le autorità israeliane hanno dichiarato la riapertura del valico di Karem Abu Salem, consentendo di nuovo l’ingresso di carburante e materiali da costruzione nella Striscia di Gaza.

Le autorità israeliane hanno anche deciso di estendere di nuovo l’area di pesca come prima delle recenti misure punitive imposte alla Striscia di Gaza. Ciò è avvenuto in seguito al raggiungimento di un accordo per fermare l’escalation militare israeliana contro la Striscia di Gaza iniziata il 10 agosto, durante la quale Israele ha imposto misure punitive contro Gaza, sostenendo che si trattava della risposta al lancio di palloni incendiari verso le colonie israeliane vicine alla Striscia di Gaza.

La Striscia di Gaza soffre ancora del peggiore blocco, ormai arrivato al quattordicesimo anno, nella storia dell’occupazione israeliana dei TPO, senza nessun miglioramento riguardo agli spostamenti di persone e cose, alle condizioni umanitarie e sopportando conseguenze catastrofiche in tutti gli aspetti della vita.

Per la seconda settimana di seguito a Gaza è ancora imposto il coprifuoco per contenere l’epidemia di coronavirus, soprattutto dopo che fuori dai centri di quarantena della Striscia di Gaza sono stati confermati casi di COVID-19. In seguito a ciò le sofferenze della popolazione della Striscia di Gaza sono aumentate. Il PCHR teme un peggioramento catastrofico delle condizioni di vita se il coprifuoco verrà mantenuto per un lungo periodo senza meccanismi di protezione per le famiglie povere, disoccupate e con scarsi mezzi economici, così come per i lavoratori a giornata che hanno perso le fonti di reddito a causa dello stato di emergenza e del coprifuoco.

Nel contempo le FIO continuano a dividere la Cisgiordania in cantoni separati, con le principali strade bloccate dall’occupazione israeliana fin dalla Seconda Intifada e con posti di controllo temporanei e permanenti, per cui il movimento dei civili è limitato ed essi rischiano l’arresto.

I. Sparatorie e altre violazioni del diritto alla vita e all’integrità fisica:

  • Alle 2 circa di giovedì 27 agosto 2020 le FIO, con il sostegno di parecchi veicoli militari, hanno attaccato il campo di rifugiati di al-Fawar, a sud di Hebron. Hanno pattugliato le strade del campo e si sono schierate nella zona meridionale, mentre soldati si sono distribuiti tra le case civili nel centro del campo. Numerosi militari hanno fatto incursione e perquisito una casa della famiglia Abu Hashhash, di tre piani e 5 appartamenti.

I soldati [sono entrati] nell’appartamento di Iyad Mahmoud Ahmed Abu Hashhash (40 anni) e lo hanno aggredito picchiandolo duramente e arrestandolo. I soldati hanno aggredito anche il fratello di Iyad, Yaqoub, (35 anni), e, dopo aver fatto irruzione nel suo appartamento, l’hanno colpito al naso, fratturandolo. I soldati lo hanno ammanettato, lo hanno portato nell’appartamento di suo fratello ed hanno iniziato a picchiare entrambi con mani, piedi e calci dei fucili. In seguito a ciò Iyad e Yaqoub sono svenuti. Dopo che le FIO si sono ritirate dalla casa, portandosi via Iyad, Yaqoub è stato trasferito all’ospedale al-Ahli, dove ha ricevuto cure mediche, e i medici hanno fissato un appuntamento per operarlo al naso. Quando Yaqoub è tornato a casa ha scoperto che i soldati israeliani gli avevano rubato 5.800 shekel [circa 1.500 euro] che si trovavano nella sua camera da letto. Va sottolineato che i soldati israeliani avevano già fatto irruzione nella casa un mese fa, avevano aggredito Yaqoub e gli avevano rotto il naso, per cui si era già sottoposto a un’operazione chirurgica al naso.

  • Verso le 23,30 di giovedì 27 agosto 2020 soldati israeliani schierati lungo la barriera di confine a est del villaggio di al-Shoka, a est di Rafah, hanno aperto il fuoco verso terreni agricoli. Non ci sono notizie di vittime.

  • Verso le 13,30 di venerdì 28 agosto 2020 alcuni giovani palestinesi si sono riuniti nella zona di Bab al-Zawiyah, nel centro di Hebron, ed hanno lanciato pietre contro soldati israeliani vicino a un posto di controllo militare nei pressi della di via al-Shuhada chiusa.

Alcuni soldati israeliani hanno sparato granate stordenti contro i manifestanti. I giovani si sono dispersi nelle zone di Beir al-Sabe’a e Wadi al-Tuffah, sono tornati al checkpoint ed hanno lanciato pietre contro i soldati israeliani protetti da cubi di cemento e hanno nuovamente lanciato pietre contro di loro. I soldati hanno sparato proiettili veri. In conseguenza di ciò un diciottenne è stato colpito al ginocchio sinistro. I soldati lo hanno inseguito e arrestato, portandolo al posto di controllo. Verso le 19,30 è arrivata sul posto un’ambulanza militare e ha portato il civile ferito all’ospedale pubblico di Hebron. La sua ferita non è considerata grave.

  • Verso le 13 di sabato 29 agosto 2020 le FIO si sono schierate nei pressi dell’ingresso settentrionale del villaggio di Kufur Qaddoum, a nord di Qalqilia, hanno represso una protesta a cui partecipavano decine di civili palestinesi. Le FIO hanno dato la caccia ai giovani riuniti nella zona. Si sono scontrati con loro, hanno sparato proiettili ricoperti di gomma, bombe stordenti e lacrimogeni. In seguito a ciò 2 civili sono stati colpiti agli arti inferiori da proiettili veri.

  • Verso l’una di domenica 3 agosto 2020 le FIO, con alcuni veicoli militari, hanno attaccato il campo di rifugiati di al-Aroub, a nord di Hebron, e si sono piazzati nei pressi del centro di distribuzione dell’UNRWA [agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, ndtr.]. I soldati hanno pattugliato i quartieri e hanno lanciato molti volantini minacciando gli abitanti del campo a causa dei cosiddetti “violenze, disordini e continuo lancio di pietre”. Nel contempo decine di giovani si sono riuniti ed hanno lanciato pietre contro le unità di fanteria delle FIO, mentre queste ultime hanno sparato indiscriminatamente granate stordenti e lacrimogeni contro chi lanciava le pietre e tra le case.

A causa di ciò alcuni manifestanti sono rimasti soffocati dall’inalazione dei gas lacrimogeni. Scontri tra le FIO e i giovani sono continuati fino alle 2,30, quando le FIO hanno sparato raffiche di proiettili veri in aria per ritirarsi dal campo. Non ci sono notizie di arresti né di incursioni nelle case.

  • Verso le 2,15 della stessa domenica le FIO hanno fatto irruzione a Hebron, si sono piazzati in via Malek Faisal e si sono schierati tra le case. Dopo aver aperto la porta con attrezzi speciali, hanno fatto irruzione e perquisito una fabbrica per la lavorazione del legno e mobili di proprietà della famiglia di Taha Abu Suneinah. Nel contempo alcuni giovani palestinesi si sono riuniti ed hanno lanciato pietre e bottiglie vuote contro le FIO, mentre queste ultime sparavano in modo indiscriminato granate assordanti e lacrimogeni. Come conseguenza di ciò, una granata assordante è caduta in una stanza del reparto di medicina interna dell’ospedale pubblico Aaliyah, adiacente all’area degli scontri. Perciò circa 25 pazienti affetti da coronavirus sono rimasti soffocati e sono stati portati in altri reparti dell’ospedale. Verso le 4 dello stesso giorno le FIO si sono ritirate dalla zona. Non ci sono notizie di arresti.

  • Verso le 20,30 di lunedì 31 agosto 2020 le FIO incaricate di controllare il muro di annessione a nordest del villaggio di Faqqua, a nord est di Jenin, hanno aperto il fuoco contro Mahmoud Taleb Mahmoud Shaheen (18 anni), mentre stava tornando a casa, che si trova a 200 metri dal summenzionato muro. In seguito a ciò Shaheen è stato colpito alla gamba destra da un proiettile vero ed è stato trasferito all’ospedale Khalil Suleiman a Jenin per essere curato.

  • Il padre di Shaheen ha detto all’operatore sul campo del PCHR:

  • Verso le 20,30 di lunedì 31 agosto 2020 mio figlio Mahmoud (18 anni) ha partecipato ad una festa di matrimonio nel villaggio di Faqqua, a nordest di Jenin, e stava tornando a casa nel quartiere a nord, che si trova a 200 metri dal muro di annessione. Quando è arrivato a circa 40-50 metri dal muro, i soldati israeliani incaricati di controllare il muro di annessione hanno aperto il fuoco contro di lui, ferendolo senza ragione alla gamba destra. I vicini sono subito arrivati nella zona e lo hanno trasportato all’ospedale Khalil Suleiman a Jenin perché venisse curato.

  • Verso le 3,50 di martedì 1 settembre 2020 le FIO hanno invaso le vie al-Saf e al- Mahd nel centro di Betlemme. Hanno fatto irruzione e perquisito alcune delle case e arrestato Shadi Mohammed al-Harimi (31 anni) e Touni Asa’ad Qatan (27 anni). Nel contempo alcuni giovani palestinesi si sono riuniti nei pressi di piazza al-Mahd ed hanno lanciato pietre e bottiglie molotov contro le FIO che si trovavano nella zona, mentre queste ultime hanno subito sparato contro di loro proiettili ricoperti di gomma, granate assordanti e lacrimogeni. Alcuni giovani hanno patito le conseguenze dell’inalazione di gas lacrimogeni.

  • Verso le 13 le FIO che si trovavano sulle terre dei villaggi di Shufah e Jbarah, a sudest di Tulkarem, hanno represso una manifestazione a cui hanno partecipato decine di civili. Le Fio hanno inseguito giovani riuniti nella zona, si sono scontrati con loro ed hanno sparato pallottole vere e ricoperte di gomma, bombe stordenti e lacrimogeni. Le Fio hanno aggredito Khairi Hanoun (64 anni), del villaggio di Anabta, a est di Tulkarem, colpendolo ai piedi. Lo hanno arrestato e rilasciato dopo un’ora e mezza. Le FIO hanno aggredito anche molti giornalisti che stavano informando delle proteste, compreso Fadi Yaseen, fotografo di Palestine TV. Inoltre molti civili hanno sofferto le conseguenze dell’inalazione di gas lacrimogeni.

  • Verso le 0.20 di mercoledì 2 settembre 2020 le FIO schierate lungo la barriera di confine a est di Khan Younis [nella Striscia di Gaza, ndtr.], hanno sparato proiettili veri e lacrimogeni verso terreni coltivati, a est del villaggio di al-Qararah, nei pressi della barriera di confine.

  • Verso le 4 dello stesso mercoledì le FIO di stanza presso una torre di guardia nella zona della Tomba di Rachele, di fianco alla moschea Bilal Ben Rabah, a nord di Betlemme, hanno aperto il fuoco contro un civile di 32 anni che stava camminando nella zona. In conseguenza di ciò è stato colpito al piede da un proiettile vero. È stato portato all’ospedale Beit Jala per essere curato.

  • Verso le 4,15 le FIO hanno fatto irruzione nel villaggio di Ash-Shuhada, a sudest di Jenin, nel nord della Cisgiordania, e hanno circondato una casa di proprietà di Ihab Hatem Husein Darwish Asous (27 anni). Nel contempo alcuni civili palestinesi si sono riuniti ed hanno lanciato pietre contro le FIO, mentre queste ultime hanno risposto con pallottole vere, bombe assordanti e lacrimogeni. In seguito a ciò un ragazzo di 16 anni è stato colpito con 2 proiettili veri. È stato portato all’ospedale pubblico Khalil Suleiman per essere curato. Prima di ritirarsi dal villaggio le FIO hanno arrestato il civile Asous.

  • Verso le 8,30 dello stesso mercoledì le FIO di stanza lungo la barriera di confine a est di Khan Younis hanno sparato proiettili veri verso terreni coltivati a est del villaggio di Khuza’a, vicino alla barriera di confine. Non si hanno notizie di vittime.

II. Incursioni e arresti:

Martedì 27 agosto 2020:

  • Verso l’una le FIO sono entrate nel villaggio di Biddu, a nordovest di Gerusalemme est occupata. Hanno fatto irruzione e perquisito la casa di Ayyoub Mohammed al-Khadour’s (28 anni) e l’hanno arrestato. Va rilevato che al-Khadour è già stato imprigionato nelle carceri israeliane.

  • Verso le 2 le FIO sono entrate nel villaggio di Qutna, a nordovest di Gerusalemme occupata. Hanno fatto irruzione e perquisito la casa di Mos’ab Saleem Shamasna’s (23 anni) e lo hanno arrestato.

  • Verso le 2,30 le FIO sono entrate nel villaggio di Jabal Hindaza, a est di Betlemme. Hanno fatto irruzione e hanno perquisito la casa di Na’eem Mousa Abu ‘Ahour’s (18 anni) e lo hanno arrestato. È da rilevare che Abu ‘Ahour era rimasto ferito a una gamba da un proiettile vero mentre si trovava nei pressi della stazione di servizio al-Quds vicino alla moschea Bilal Bin Rabah all’ingresso settentrionale di Betlemme.

  • Più o meno alla stessa ora le FIO sono entrate nel villaggio di al-Arqa, a sudovest di Jenin. Hanno fatto irruzione e hanno perquisito la casa di Nael Mohammed Yehya’s (24 anni) e lo hanno arrestato.

  • Verso le 3,10 le FIO sono entrate nel villaggio di Rujeib, a sudest di Nablus, nella Cisgiordania settentrionale. Hanno fatto irruzione e perquisito la casa di Khalil Abdul Khaleq Mohammed Dwaikat, che il 26 agosto 2020 ha accoltellato un soldato israeliano a Bitah Tikva [in Israele, ndtr.] per prendere le misure della casa prima della demolizione. Va notato che le autorità israeliane utilizzano la demolizione come punizione collettiva contro le famiglie palestinesi.

  • Verso le 3,30 le FIO sono entrate nel villaggio di al-‘Abayat, a est di Betlemme. Hanno fatto irruzione e perquisito la casa di Omar Khaled Ayyad’s (17 anni) e lo hanno arrestato.

  • Verso le 3,30 le FIO sono entrate nel villaggio di Qarawat Bani Zeid, a nordovest di Ramallah. Hanno fatto irruzione e perquisito la casa di Amer Bassam Sneif’s (31 anni) e lo hanno arrestato. In seguito le FIO lo hanno rilasciato.

  • Verso le 3,50 le FIO sono entrate nel villaggio di Beit Loqya, a sudovest di Ramallah. Hanno fatto irruzione e hanno perquisito la casa di Najeeb Ahmed Najeeb Mafarja’s (35 anni) e lo hanno arrestato.

  • Verso le 6,30 le FIO sono entrate nel villaggio di Jin Safout, a est di Qalqilia. Hanno fatto irruzione e hanno perquisito la casa di Karam Khamees Shobaki’s (22 anni) e lo hanno arrestato

  • Verso le 7 le FIO, con vari veicoli militari e scavatrici, sono entrate per 100 metri nel villaggio di al-Shwaika, a est di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza. Hanno fatto irruzione dalla porta al-Motabaq, nei pressi della barriera di confine tra la Striscia di Gaza e Israele. Hanno rastrellato e spianato il terreno e si sono ritirati verso le 11.

  • Verso le 14 le FIO hanno arrestato Ghassan Alian (55 anni), di Bitin, a ovest di Betlemme, dopo aver fatto rapporto al servizio israeliano di intelligence nella colonia di Gush Etzion, a sud della città.

  • Le FIO hanno compiuto (6) incursioni nei villaggi di Beit Ammer, Hadab al-Fawwar e Sa’eer a Hebron, a Faqoua’, a sudest di Jenin, a Tayaseer, a est di Tubas, e a Karf Ein, a nordovest di Ramallah. Non si hanno notizie di arresti.

Venerdì 28 agosto 2020:

  • Verso le 2 le FIO, con alcuni veicoli militari, sono entrate nel campo di rifugiati di al-‘Aroub, a nord di Hebron. Hanno fatto irruzione ed hanno perquisito la casa di Bara’ Abdul Hai Jawabra’s (19 anni) e lo hanno arrestato.

  • Verso le 3,50 le FIO sono entrate nel villaggio di Azun, a est di Qalqilia. Hanno fatto irruzione ed hanno perquisito la casa di Karam Fares Shbaita’s (18 anni) e lo hanno arrestato.

  • Verso le 22,30 le FIO, dopo averli duramente percossi, hanno arrestato 3 civili che si trovavano in via al-Wad nella Città Vecchia di Gerusalemme occupata. Le Fio li hanno portati nel centro investigativo di al-Qushla nella Città Vecchia. Gli arrestati sono Khaled al-Sokhn (23 anni), Abdullah al-Julani (28 anni) e Mohammed Zein (21 anni).

  • Le FIO hanno effettuato (6) incursioni a Hebron, nel campo profughi di al-Fawwar e a Yatta, nel governatorato di Hebron, a Yamoun, a ovest di Jenin, e a Kufur Qaddoum e Hibla, a est di Qalqilia. Non si hanno notizie di arresti.

Sabato 29 agosto 2020:

  • Verso le 16 le FIO sono entrate in via al-Bostan nel quartiere di Obaid, a ovest di al-‘Isawiya, a nordest di Gerusalemme est occupata. Hanno fatto irruzione e perquisito la casa di Mo’tasem Hamza Obaid’s (17 anni) e lo hanno arrestato. Va rilevato che Obaid era stato arrestato 10 giorni prima ed era agli arresti domiciliari per due settimane.

  • Le FIO hanno fatto (4) incursioni nei villaggi di al-Samoua’, Hebron, Beit Ammer e al-Mowreq, nel governatorato di Hebron. Non si ha notizia di arresti.

Domenica 30 agosto 2020:

  • All’una circa le FIO sono entrate nel villaggio di Nahaleen, a ovest di Betlemme. Hanno fatto irruzione e perquisito varie case e arrestato Mahmoud Maher Shakarna (17 anni) e consegnato ad Hamdan Yousef Fannoun (32 anni) una convocazione al servizio israeliano di intelligence nella colonia di Gush Etzion, a sud della città.

  • Verso le 2,30 le FIO sono entrate nella zona periferica di al-Shwaika, a est di Tulkarem. Hanno fatto irruzione e perquisito due case di Sameer Abdul Qader Mohammed Omar (47 anni) e Sameh Adnan Mohammed Obaid (31 anni) e li hanno arrestati.

  • Verso le 7 le FIO hanno fatto un’imboscata nei pressi della località di Haddad, a sudest di Jenin, nel nord della Cisgiordania, ed hanno arrestato Yaser Waleed Khuzeima (30 anni), di Qabatya, a sudest di Jenin, dopo aver fermato e perquisito la sua auto. Le FIO lo hanno portato in un luogo sconosciuto ed hanno abbandonato la sua auto. Va rilevato che Khuzeima è già stato detenuto nelle prigioni israeliane.

  • Verso le 15 nel centro di Gerusalemme le FIO hanno fermato un autobus, hanno obbligato (4) minori a scendere per arrestarli e li hanno portati alla stazione di polizia “al-Bareed” in via Salah al Dein. Gli arrestati sono: Ahmed Dari (17 anni), sua sorella Noumi (16 anni), Yasmine Qaisiya (16 anni) e Sajeda Abu Roumi (16 anni).

  • Testimoni affermano che le FIO hanno fermato e perquisito un autobus in via Nablus, controllato i documenti di identità e obbligato alcuni di loro a scendere dal bus sostenendo che non stavano portando in modo corretto le mascherine. Hanno aggiunto che le FIO hanno colpito e spintonato alcuni di loro e hanno arrestato (4) studenti di ritorno da scuola verso la loro casa a al-‘Isawiya. In seguito Qaisiya e Abu Roumi sono stati rilasciati su cauzione, Dari è stata rilasciata dopo alcune ore a condizione che rimanga agli arresti domiciliari per due giorni e le hanno vietato di entrare dalla porta di Damasco “Bab al-‘Amoud” per 10 giorni.

  • Le FIO hanno fatto un’incursione a Sabastya, a nordovest di Nablus. Non si ha notizia di arresti.

  • Lunedì 31 agosto 2020:

  • Alle 2 circa un’unità israeliana di fanteria è entrata nella città vecchia di Hebron. Ha fatto irruzione e perquisito la casa di Saif al-Dein Mahmoud al-Ja’bari’s (22 anni) e lo ha arrestato.

  • Verso le 2,30 le FIO sono entrate a Nablus, nel nord della Cisgiordania. Hanno fatto irruzione e perquisito la casa di Mohammed Hilal al-Titi’s (22 anni) e lo hanno arrestato.

  • Verso le 4 le FIO sono entrate nel villaggio di Anata, a nordest di Gerusalemme est occupata. Hanno fatto irruzione e hanno perquisito la casa di Mohammed

  • Verso le 8 le FIO hanno arrestato Khalaf Hussain Obaidallah (26 anni), mentre si trovava all’entrata del villaggio di Kisan, a sudest di Betlemme. Le FIO lo hanno portato in un luogo sconosciuto.

  • Verso le 19 le FIO sono entrate nel villaggio di Bab Hatta, uno dei quartieri di Gerusalemme est occupata. Hanno fatto irruzione e hanno perquisito la casa di Ameer Farid al-Basti’s (23 anni) e lo hanno arrestato.

  • Verso le 19,45 un gruppo di Mista‘arvim (unità speciale israeliana travestita da civili palestinesi) ha arrestato Nizar Issa Obaid (22 anni), di Kufur Qaddoum, a est di Qalqilia, mentre stava lavorando alla stazione di servizio di al-Natour, a Tulkarem. Secondo una telecamera di sorveglianza che ha documentato la scena, un veicolo con targa palestinese è arrivato alla stazione di servizio e, quando Obaid è andato a fare il pieno all’auto, due uomini sono scesi e lo hanno arrestato.

  • Verso le 23 il servizio israeliano di intelligence ha convocato tre membri del movimento Fatah di Silwan, a sud della Città Vecchia di Gerusalemme est occupata, per essere interrogati nella stazione id polizia di al-Bareed, in via Salah al-Dein. Shadi al-Mtawr, segretario del movimento Fatah a Gerusalemme, ha affermato che i servizi israeliani di intelligence hanno convocato Fawzi Sha’ban, Mohammed Abu Sowi e Ahmed al-‘Abbasi per interrogarli riguardo alla loro presenza a una riunione sulla demolizione di case a Silwan. Dopo alcune ore le FIO li hanno rilasciati su cauzione (3.000 shekel [circa 750 euro] per ciascuno) e con il divieto di partecipare per tre mesi ai sit in del quartiere di al-Bostan a Silwan.

  • Le FIO hanno effettuato (4) incursioni nei villaggi di Ethna, Surif e Karma, nel governatorato di Hebron, e a Tulkarem. Non si ha notizia di arresti.

Martedì 1 settembre 2020:

  • Verso l’una le FIO sono entrate a Hebron e si sono schierate in via al-Salam. Hanno fatto irruzione e hanno perquisito la casa di Ma’moun Hussain al-Natsha’s (25 anni) e lo hanno arrestato.

  • Le FIO hanno fatto (2) incursioni a Dura e al-Samoua’, nel governatorato di Hebron. Non si ha notizia di arresti.

Mercoledì 2 settembre 2020:

  • Verso le 2 le FIO sono entrate a Yatta, a sud di Hebron, e si sono schierate nella zona di Roq’a. Hanno fatto irruzione e perquisito la casa di Shadi Bader al-‘Amour’s (30 anni) e lo hanno arrestato.

  • Verso le 5 le FIO sono entrate nel villaggio di al-Fridis, a est di Betlemme. Hanno fatto irruzione e perquisito la casa di Jom’a Abu Moheimed’s (29 anni) e lo hanno arrestato.

  • Verso le 18 le FIO sono entrate ad al-‘Isawiya, a nordest di Gerusalemme est occupata. Hanno fatto irruzione e perquisito la casa del fotogiornalista Mohammed Qarout Edkaik’s (27 anni), lo hanno arrestato e gli hanno confiscato l’ equipaggiamento, le macchine fotografiche, molti dei suoi files e documenti personali. Samer Edakaik, il fratello di Mohammed, ha detto al collaboratore sul campo del PCHR che le FIO hanno fatto irruzione, perquisito e confiscato varie fotocamere, un dispositivo senza fili, documenti personali e un tablet di Mohammed. Ha confermato che le FIO hanno ammanettato suo fratello e lo hanno portato al commissariato di “al-Bareed” in via Salah al-Dein. Va rilevato che Adkaik è un fotogiornalista del canale Al-Jazeera e di molte altre agenzie di notizie ed è un attivista sulle reti sociali con migliaia di follower.

  • Le FIO hanno fatto (4) incursioni nei villaggi di Hebron, Ethna, Beit Owa e Deir Samit nel governatorato di Hebron. Non ci sono notizie di arresti.

III. Espansione delle colonie e violenza dei coloni in Cisgiordania:

a. Demolizione e confisca di proprietà di civili:

  • Verso le 9 di giovedì 27 agosto 2020 le FIO, con veicoli da costruzione militari e accompagnati da funzionari dell’Amministrazione Civile Israeliana [l’ente militare che governa in Cisgiordania, ndtr.] sono entrate nel villaggio di ‘Arraba, a sudovest di Jenin. I veicoli da costruzione militari hanno demolito la panetteria in costruzione di Rami Ahmed Abu Mashaikh, costruita 3 mesi fa su un terreno di 170 m2. È da notare che 12 giorni fa le FIO avevano notificato di smettere di lavorare nella panetteria in previsione della sua demolizione, con il pretesto di costruzione illegale in Area C. Per lo stesso motivo, le FIO hanno anche notificato a Mostafa ‘Ali Hammad di demolire il suo negozio di falegnameria.

  • Domenica 30 agosto 2020 Khaled Mahmoud Mohammed Basheer ha adempiuto alla decisione del Comune israeliano di autodemolizione della sua casa nel villaggio di Jabal al-Mokkaber, a sudest di Gerusalemme est occupata, con il pretesto che non aveva la licenza edilizia.

Basheer ha affermato che 3 mesi fa ha costruito per suo figlio una casa di 50 m2 composta da una stanza, una cucina e un bagno. Basheer ha chiarito che due settimane fa gli impiegati dell’amministrazione comunale israeliana, insieme al ministero degli Interni, si sono presentati nella sua casa e gli hanno consegnato un ordine di demolizione. Basheer ha aggiunto di essere stato obbligato a demolire lui stesso la sua casa per evitare di pagare i costi di demolizione, stimati in 100.000 shekel [25.000 euro] al personale del Comune. Ha anche detto che nel 2014 i funzionari del Comune hanno demolito la casa di suo figlio Mahmoud nel quartiere di al-Sal’ah del villaggio di Jabal al-Mokkaber e gli hanno comminato una multa di 80.000 shekel [20.000 euro] con il pretesto che non aveva la licenza edilizia.

  • Lunedì 31 agosto 2020 ‘Odai e ‘Abed al-Salam al-Razem hanno adempiuto alla decisione dell’amministrazione comunale israeliana ed hanno demolito la propria casa nel quartiere di al-Ashqariyia nel villaggio di Beit Hanina, a nord della Città Vecchia nella Gerusalemme est occupata, con il pretesto che non avevano la licenza edilizia. ‘Abed al-Salam al-Razem ha detto che la sua famiglia, composta da 6 persone, e quella di suo fratello, di 3 persone, hanno vissuto per 8 anni nella loro casa di 65 m2. Ha spiegato che 5 anni fa il personale del Comune si è presentato nelle loro case ed ha notificato a suo fratello di demolirle, oltre a una multa di 40.000 shekel [10.000 euro] contro di loro. ‘Abed al-Salam ha aggiunto che durante gli ultimi anni lui e suo fratello hanno atteso inutilmente di avere la licenza edilizia. Ha anche detto che un mese fa il tribunale israeliano ha emesso una ordinanza di demolizione definitiva delle loro case, e se non l’avessero rispettata lo avrebbe fatto il personale del Comune e li avrebbe obbligati a pagare i costi, stimati a 125.000 shekel [circa 30.000 euro].

  • Alle 6,30 circa di martedì 1 settembre 2020 le FIO, accompagnate da veicoli da costruzione militari, sono entrati nel villaggio di Tuqu, a sudest di Betlemme, dove hanno ordinato a Mohammed Fahed Shawareeh di interrompere i lavori per la costruzione della sua casa e gli hanno confiscato materiali da costruzione. Il sindaco di Tuqu, Tayseer Abu Mefreh, ha affermato che le FIO hanno requisito materiali dalla casa in costruzione di Shawareeh. Ha aggiunto che una settimana fa, con il pretesto della mancanza di un permesso edilizio, a Shawareeh era stata consegnata una ingiunzione di cessazione della costruzione.

  • Verso le 10 di mercoledì 2 settembre 2020 le FIO, insieme a veicoli da costruzione militari e funzionari dell’Amministrazione Civile Israeliana, sono entrate nella zona di al-Masafer a Yatta, a sud di Hebron. Le FIO si sono schierate tra le case palestinesi mentre veicoli da costruzione demolivano 2 case in lamiera con il pretesto che non avevano la licenza edilizia.

Queste sono state le demolizioni:

Mahmoud ‘Isaa Rab’i: casa fatta con lamiera e mattoni, con 16 abitanti;

Mahmoud ‘Isaa Rab’i: baracche fatte di lamiera e mattoni, per il bestiame;

Fadel ‘Isaa Rab’i: casa fatta di lamiera e mattoni, con 15 abitanti.

Va rilevato che il 23 febbraio 2012 le autorità israeliane avevano consegnato ingiunzioni di blocco delle costruzioni per le due case e la baracca.

  • Verso le 10 le FIO, accompagnate da veicoli da costruzione militari e da funzionari dell’Amministrazione Civile Israeliana, sono entrate nel villaggio di Beren nella zona orientale di Hebron. Le FIO si sono schierate tra le case palestinesi mentre i veicoli militari da costruzione hanno demolito la stanza di 40 m2 di Faraj Mohammed Ghaith, costruita di mattoni, con il pretesto della mancanza di permesso edilizio.

  • Verso le 13 le FIO, accompagnate da veicoli da costruzione militari e da funzionari dell’Amministrazione Civile Israeliana, sono entrate nel villaggio di Deir Dibwan, a est di Ramallah. Le FIO hanno portato addetti israeliani per smantellare e confiscare tre tende da abitazione, con il pretesto che erano senza permesso nell’Area C.

Le tende erano di:

Suliman Mostafa Ka’abnah: smantellamento e confisca di una tenda che ospitava la sua famiglia, composta da 7 persone;

Oda ‘Awwad Ka’abnah: smantellamento e confisca di una tenda che ospitava 8 persone;

Suliman Salem Ka’abnah: smantellamento e confisca di una tenda che ospitava 8 persone.

Va rilevato che per due volte le FIO hanno demolito proprietà dei summenzionati civili e senza precedente avviso, notando che queste proprietà erano state demolite in precedenza, il 25 agosto 2020.

b. Violenza dei coloni israeliani

  • Verso le 2,30 di venerdì 28 agosto 2020 i coloni israeliani del gruppo “Price Tag” [coloni estremisti particolarmente violenti, ndtr.] hanno attaccato la zona meridionale del villaggio di Asira al-Qibliya, a sudest di Nablus. I coloni hanno dato fuoco al veicolo di Wael Mousa ‘Asayrah ed hanno vandalizzato i muri della sua casa, scrivendo slogan razzisti.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)