Rapporto sulla situazione di emergenza da COVID-19 (14-20 aprile 2020)

Punti salienti

  • Prima morte per COVID-19 registrata a Gerusalemme est.

  • I primi nuovi casi da COVID-19 segnalati a Gaza in quasi due settimane.

  • Il piano di risposta coordinato tra le agenzie per la crisi COVID-19 è attualmente in fase di revisione al fine di includere le necessità emergenti.

  • https://www.ochaopt.org/content/covid-19-emergency-situation-report-5

Riassunto della situazione

Si dà conferma che fino al 21 aprile un totale di 329 palestinesi ha contratto il COVID-19 nei TPO [Territori Palestinesi Occupati, ndtr.], esclusa Gerusalemme Est: 314 in Cisgiordania e 15 nella Striscia di Gaza. Due persone sono morte e 69 sono guarite. Secondo il Ministero della Salute palestinese (MoH) è stato esaminato un totale di 22.800 campioni.

La prima vittima a Gerusalemme est, una donna di 78 anni di Al Issawiya, è stata registrata il 18 aprile: secondo quanto riferito, ma non ancora confermato, una seconda donna è morta a causa del virus nell’ospedale di Hadassah nella notte del 20 aprile. Il MoH palestinese ha riferito che alla data del 20 aprile, a Gerusalemme est, 120 palestinesi risultavano positivi. Secondo l’OMS, la situazione riguardante il COVID-19 è gestita a Gerusalemme Est dalle autorità israeliane e i pazienti vengono trattati dalla East Jerusalem Hospital Network (EJHN) e dagli ospedali israeliani.

Il 20 aprile, a fine giornata, il primo ministro palestinese, il dott. Mohammad Shtayyeh, ha annunciato una serie di allentamenti dello stato di emergenza, che è in vigore in tutti i territori occupati dal 5 marzo. Pur mantenendo alcune restrizioni sugli spostamenti e sul distanziamento fisico, queste misure di allentamento mirano a “garantire la graduale ripresa dei meccanismi economici nei percorsi produttivi”. Nessuna data è stata indicata per l’inizio degli allentamenti, che potrebbero anche essere cancellati se “venisse rilevata una diffusione del virus”.

Nei governatorati con poche, o nessuna, infezioni registrate, inclusa la Striscia di Gaza, “le attività economiche che impiegano meno di tre lavoratori, tra cui agricoltura, cibo, laboratori di costruzione, garage e professioni individuali, sono autorizzate a svolgersi dalle 10 alle 17”, mentre altre attività possono aprire il venerdì e il sabato. Nei governatorati più colpiti, tra cui Ramallah e Betlemme, alcune aziende potrebbero aprire “domenica, martedì e giovedì, con non più di tre persone in ciascun luogo di lavoro”. Tutti i governatorati rimarranno isolati gli uni dagli altri, “ad eccezione dei movimenti commerciali, delle merci agricole e alimentari e delle medicine”.

Moschee, chiese e altri luoghi pubblici rimarranno chiusi e le celebrazioni, compresi gli incontri del Ramadan, sono proibite. Anche i luoghi di istruzione rimarranno chiusi ma l’esame finale di scuola, il Tawjihi, avrà luogo il 30 maggio. Ci sarà anche una riapertura parziale di banche, assicurazioni e borsa.

In base al fatto che la maggior parte dei palestinesi che hanno contratto il COVID-19 sono lavoratori in Israele o persone che sono state con loro a contatto, “gli spostamenti dei lavoratori tra i loro posti di lavoro all’interno di Israele e le loro case è vietato fino a nuovo avviso”. E’ anche severamente proibito lavorare negli insediamenti coloniali.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Netanyahu ha formato un “governo di salvezza personale”

Akiva Eldar

23 aprile 2020 – Al Jazeera

Il governo di emergenza nazionale di Israele è stato formato non per sconfiggere il Covid-19, ma per tenere fuori di prigione Netanyahu.

A differenza dell’Olocausto, questa volta abbiamo identificato il pericolo in tempo”, ha detto il 20 aprile il Primo Ministro ad interim (per ora) Benjamin Netanyahu, dandosi da solo una pacca sulla spalla in una dichiarazione registrata in occasione del Giorno della Memoria dell’Olocausto.

Abbiamo preso importanti decisioni, come la chiusura dei confini”, ha proseguito Netanyahu, rivolgendosi alla telecamera. “Abbiamo mobilitato tutti i sistemi dello Stato per la guerra contro il coronavirus.”

Il distorto sfruttamento da parte di Netanyahu di questo giorno della memoria dedicato ai sei milioni di ebrei massacrati dai nazisti al fine di ostentare le proprie presunte capacità di “individuazione tempestiva” [del virus], è qualcosa che ricorda la sua “rivelazione”, nel 2015, del fatto che il Muftì di Gerusalemme, Haj Amin al-Husseini, fu colui che ideò il piano per lo sterminio del popolo ebraico.

Ci sono molti dubbi che Netanyahu abbia profeticamente identificato la minaccia del coronavirus, ma è certo che ha identificato la sua potenzialità di essere un vaccino contro la propria personale rovina, quella di traslocare dall’ufficio di Primo Ministro alla cella di un carcere.

Il nome ufficiale di questo vaccino è “governo di emergenza nazionale”. Ma la denominazione più appropriata per questo governo, le cui linee guida e composizione sono state definite e messe nero su bianco il 20 aprile, sarebbe “governo di salvezza personale”.

Poco dopo che è stato trasmesso il suo messaggio alla Nazione sull’Olocausto, Netanyahu ha firmato un accordo di 14 pagine sulla condivisione del potere con il suo principale rivale politico, il leader dell’alleanza Blu e Bianco Benny Gantz, che sancisce il governo di Israele più affollato di sempre – con 36 ministri e 16 viceministri.

In base all’accordo, Netanyahu sarà Primo Ministro per i primi 18 mesi del mandato di 3 anni, mentre Gantz ricoprirà la carica appena creata di “Primo Ministro supplente”. Netanyahu consegnerà il potere a Gantz una volta scaduto il termine e per la seconda parte del mandato fungerà lui da Primo Ministro “supplente”.

Ho promesso al popolo di Israele un governo di emergenza che salverà le vite e i mezzi di sussistenza”, ha scritto Netanyahu sulla sua pagina Facebook. “Continuerò a fare qualunque cosa per il vostro bene, cittadini di Israele.”

L’accordo di condivisione del potere è stato firmato dopo settimane di febbrili negoziati. Ma la questione che ha rallentato la firma del documento non riguardava il conflitto israelo-palestinese, né il regime di apartheid in Cisgiordania o il blocco di Gaza.

L’unico accenno nel documento alla malattia cronica nota come occupazione si può trovare nella sezione relativa al piano del presidente USA Donald Trump per la pace israelo-palestinese, che stabilisce che alla data del 1 luglio di quest’anno il primo ministro potrebbe chiedere al governo e alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] di approvare l’accordo raggiunto con gli USA in base al piano Trump sull’imposizione della sovranità sulle colonie israeliane in Cisgiordania.

Secondo l’accordo, anche Gantz sarà invitato a partecipare alle consultazioni con il primo ministro su questo paragrafo del patto, che praticamente rende esplicito l’abbandono della soluzione dei due Stati.

La questione che ha rallentato l’accordo tra le due parti non era neanche legata alla ‘raison d’etre’ ufficiale di un governo di emergenza – alleviare la crisi del coronavirus. Di fatto, l’accordo a malapena menziona la questione, ma lascia al suo posto il Ministro della Sanità in carica, Yaakov Litzman, anche se ciò comporta cambiamenti di ruolo o destituzioni per la maggior parte degli altri ministri dell’attuale coalizione.

Questo è l’uomo che all’inizio della crisi non poteva nemmeno pronunciare la parola “coronavirus”, che ha egli stesso contratto la malattia quando ha pregato in un gruppo contravvenendo alle istruzioni del suo stesso Ministero ed ha speso la maggior parte del tempo dall’inizio della pandemia favorendo gli interessi del suo elettorato ultra-ortodosso.

Con Litzman al proprio posto, Netanyahu continuerà a guidare di fatto il ministero, come ha fatto finora. Inoltre sostituirà il capo della commissione speciale della Knesset per la crisi del coronavirus con uno dei suoi fedelissimi, facilitandosi il compito di mascherare i tanti insuccessi del suo governo nella gestione della pandemia, che sono già stati palesati.

Se dovesse essere istituita una commissione per esaminare la gestione della crisi da parte dello Stato, troverebbe pane per i suoi denti nella relazione provvisoria resa pubblica il 7 aprile dal comitato di sorveglianza della Knesset, alla cui guida si trovava all’epoca il deputato di opposizione Ofer Shelach [del partito di centro tuttora all’opposizione Yesh Atid, ndtr.].

La relazione ha rilevato, tra le varie cose, che le ripercussioni sociali e sanitarie della stretta economica imposta dal governo erano ormai diventate una minaccia reale e grave quanto il virus. Il prezzo politico di queste severe ripercussioni economiche e sociali verrà ora diviso equamente tra tutti i componenti del nuovo governo di coalizione.

La firma dell’accordo era stata bloccata a causa di un articolo che riguardava solo l’unico israeliano il cui processo per corruzione è previsto iniziare il 24 maggio e dispone una deroga per lui, un fatto senza precedenti nella storia politica di Israele.

Il contorto linguaggio di questo articolo in sostanza stabilisce che, se delle circostanze, come per esempio una sentenza della Corte Suprema, impedissero a Netanyahu e/o a Gantz di ricoprire la carica di primo ministro e di primo ministro “supplente”, i partiti Likud [di Netanyahu, ndtr,] e Blu e Bianco [di Gantz, ndtr.] non proporrebbero nessun altro per questi incarichi, scioglierebbero invece congiuntamente la Knesset e indirebbero nuove elezioni.

Se Netanyahu non avesse categoricamente rifiutato di dimettersi dopo essere stato incriminato per corruzione, Israele non sarebbe stato trascinato in tre consecutive e inconcludenti elezioni nell’arco di un anno e con la minaccia di un’incombente quarta turnata elettorale se non si fosse raggiunto un accordo su un nuovo governo.

Fin dall’inizio la leadership di Blu e Bianco ha espresso la propria preferenza per un governo di unità con il Likud. La sua principale, se non unica, condizione era la sostituzione di Netanyahu con un altro membro del suo partito, il Likud. Se lui avesse davvero voluto “fare qualunque cosa” in suo potere per il bene dei cittadini di Israele, come ha dichiarato questa settimana nel suo discorso per commemorare l’Olocausto, Israele non avrebbe avuto bisogno di un governo di emergenza. Quel che doveva fare era dimettersi, anche temporaneamente, e passare il suo tempo in modo accurato a convincere i tribunali della sua innocenza.

La codardia di altri personaggi di spicco del Likud ha lasciato Gantz e i suoi amici tra l’incudine e il martello. Sono stati costretti a scegliere tra far parte di un governo guidato da Netanyahu, contro il volere della maggioranza dei loro elettori che hanno dato a Gantz e alla sua coalizione una maggioranza in parlamento di 62 seggi, e favorire una quarta tornata elettorale all’ombra di una profonda crisi economica e sociale.

La decisione di Blu e Bianco e dei suoi alleati del partito laburista di ignorare il loro principale impegno elettorale di non entrare in una coalizione di governo con Netanyahu è destinata ad abbreviare la loro carriera politica. Dovranno faticare molto per convincere gli elettori che non avevano altra scelta che allearsi a Netanyahu in un governo di più di 40 tra ministri e vice ministri, solo per affrontare l’epidemia.

La palla è ora alla Corte Suprema, cui sono state sottoposte diverse petizioni che chiedono di annullare l’accordo di coalizione, tra cui un appello di decine di ex funzionari della sicurezza, accademici e uomini d’affari contro la nomina di un primo ministro incriminato.

In una lettera a Netanyahu pubblicata il 20 aprile sul quotidiano israeliano Haaretz, l’ex consulente giuridica della Knesset e avvocatessa Nurit Elstein ha scritto: “Alla luce delle sue incriminazioni per corruzione, che comprendono violazione dell’integrità o, più precisamente, condotta immorale, la Corte potrebbe decidere che lei non è adatto ad essere primo ministro Nessuno statuto giuridico le fornirà una completa protezione o, fino a quando Israele sarà una democrazia, darà legittimità ad una questione che è fondamentalmente disonesta.” Considerato il modo in cui è stato costituito il governo designato e le sue linee guida, l’accento andrebbe posto sulle parole “fino a quando”.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera

Akiva Eldar è un analista israeliano

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




La battaglia persa di Israele: il sostegno per la Palestina nelle università

Hatem Baziam

21 Aprile 2020 – Al-Shabaka

Sintesi

Palestine Legal [organizzazione indipendente impegnata nella difesa dei diritti dei palestinesi negli Stati Uniti, ndtr.] ha recentemente pubblicato un rapporto in cui rileva che la maggior parte delle azioni repressive nei confronti delle attività di sostegno per la Palestina negli Stati Uniti è rivolta contro studenti e docenti. Nel dettaglio, tali episodi si sono verificati nei campus universitari per l’89% nel 2014 e per il 74% nel 2019. Mentre queste statistiche mettono in luce l’attuale battaglia che i sostenitori dei diritti dei palestinesi stanno affrontando nelle università, è anche fondamentale delineare lo sviluppo del sostegno per la Palestina nei campus universitari statunitensi. Tracciare quest’arco di 20-30 anni di storia consente una migliore comprensione non solo di come siamo arrivati a questo punto, ma anche dell’attuale crescente fenomeno delle campagne contro studenti e facoltà – e di come contrastarlo.

Questa testimonianza prevede innanzitutto un esame storico sul movimento di sostegno per la Palestina negli Stati Uniti e su come da esso si sia sviluppato il sostegno nei confronti dei palestinesi nei campus universitari, citando come esempio particolare Students for Justice in Palestine [Studenti per la Giustizia in Palestina, ndtr.]. Analizzerà quindi la risposta di Israele e dei suoi sostenitori a questo fenomeno. L’ articolo, in definitiva, offre delle indicazioni su come il contesto universitario, nonostante gli attacchi, possa continuare a costituire e persino amplificare un clima che promuova la ricerca critica e il pensiero sulla Palestina, che a sua volta favorisca la lotta per i diritti e l’autodeterminazione dei palestinesi.

Nascita del movimento di sostegno per la Palestina negli Stati Uniti

Il movimento per i diritti dei palestinesi negli Stati Uniti è cresciuto contemporaneamente ad altre battaglie globali, in particolare quelle contro il regime di apartheid sudafricano, contro l’intervento americano in America Centrale e contro l’attacco americano all’Iraq nella prima guerra del Golfo. Negli anni ’80 furono simultaneamente avviate campagne politiche interne, in particolare contro i tagli dell’amministrazione Reagan all’educazione, alla sanità e all’ambiente, così come contro la sua discutibile guerra alla droga, con il supporto del Comprehensive Crime Control Act del 1984 [la prima revisione complessiva del Codice Penale negli Stati Uniti dai primi anni del xx secolo, ndtr.], che ampliò il complesso industriale carcerario e promosse la criminalizzazione di massa di neri e ispanici. L’attivismo interno ha anche combattuto la riorganizzazione economica che, col pretesto di una riforma del welfare, ha rimosso la rete di protezione sociale e ha gettato nella povertà milioni di persone.

I movimenti progressisti sono nati da queste campagne che hanno collocato la Palestina in un ruolo più centrale rispetto a prima. L’attivismo palestinese e gli attivisti palestinesi hanno affrontato i cambiamenti nelle priorità nazionali e hanno sostenuto la lotta anti-apartheid, la campagna che ha combattuto l’espansionismo americano in America Centrale e il movimento contro la guerra in Iraq.

All’estremo opposto le organizzazioni filo-israeliane si sono collocate dalla parte sbagliata della storia: si sono opposte alle sanzioni contro il Sudafrica e hanno cercato di sostenere le vendite di armi israeliane al regime dell’apartheid. Allo stesso modo, hanno sostenuto Israele nel momento in cui offriva consigli e aiuti agli squadroni della morte centroamericani sponsorizzati dallo Stato. E in occasione dell’intervento americano in Medio Oriente, anche Israele e i suoi alleati hanno sostenuto gli sforzi bellici degli Stati Uniti, ritenendoli utili alla sicurezza di Israele.

Le mobilitazioni politiche progressiste e le lotte interne hanno reso la Palestina un tema centrale su cui organizzarsi. Solo 30 anni fa la sinistra politica degli Stati Uniti, nelle sue mobilitazioni per la pace, la giustizia e l’occupazione, dibatteva regolarmente sul consentire o meno la presenza di una bandiera palestinese, per non parlare di un oratore, su un palco. Oggi non si può tenere una mobilitazione politica su qualsiasi argomento, locale o globale, senza che la Palestina ne faccia parte, se non come principale soggetto, almeno come uno dei temi. Coloro che vorrebbero sostenere o parlare a favore di Israele, al contrario, hanno difficoltà ad ottenere spazio in queste tribune perché si sono completamente schierati dalla parte del complesso industriale militare di destra e dei suoi interventi perniciosi.

L’attacco israeliano del 2012 contro la Striscia di Gaza ha determinato un cambiamento decisivo nelle opinioni su Israele, sia dal basso che tra gli analisti politici. Entrambi i gruppi sono consapevoli che Israele infrange il diritto internazionale e che non dimostra nessun limite nel suo abuso dei diritti umani palestinesi. Inoltre, mentre un punto di vista filo-israeliano dominava inizialmente i media popolari, con il costante ritornello degli opinionisti secondo cui Israele ha “il diritto di difendersi”, gli spazi meno controllati dei social media e di Internet hanno ospitato una diversa narrazione che favorisce un settore più critico dello schieramento politico, tanto che i media popolari hanno effettivamente iniziato a cambiare.

Il sostegno per la Palestina nelle università

Insieme, e in parte grazie, al lavoro instancabile degli attivisti progressisti, gli sviluppi descritti sopra hanno consentito il rafforzamento del sostegno per la Palestina nei campus universitari. In effetti, una visione di solidarietà con la lotta dei palestinesi è diventata, nelle università, la posizione dominante. Un esempio di questo cambiamento è la fondazione e la proliferazione del gruppo Students for Justice in Palestine (SJP).

SJP venne fondata presso l’Università di Berkeley in California nel 1992, dopo la prima guerra del Golfo. Prima della guerra negli Stati Uniti arrivava un numero considerevole di palestinesi per studiare, ma tale numero si ridusse quando lo scontro militare lasciò il passo agli anni del regime di sanzioni. Dato che Yasser Arafat aveva sostenuto Saddam Hussein durante la guerra, i palestinesi del Kuwait e del resto dei Paesi del Golfo vennero licenziati o costretti ad andarsene, con il risultato che molti di quei palestinesi che erano stati in grado di permettersi un’istruzione americana per i loro figli non ne ebbero più la possibilità. Senza studenti palestinesi nelle università statunitensi, scemarono i tentativi di organizzarsi a favore dei diritti dei palestinesi.

Allo stesso modo, questo fenomeno si verificò subito dopo gli Accordi di Oslo, che ridussero l’attivismo palestinese collegato al più ampio movimento transnazionale palestinese, poiché attraverso Oslo l’OLP accettò di limitare il proprio impegno internazionale contro Israele. Di conseguenza, gli attivisti palestinesi nei campus universitari non avevano più una base di supporto con un fondamento storico. Nel contesto dell’attivismo nelle università, l’OLP ebbe, sin dal suo esordio, un braccio universitario e giovanile forte, che si concretizzò nell’Unione Generale degli Studenti Palestinesi (GUPS), con sezioni in tutto il mondo, compresi gli Stati Uniti. In seguito alla trasformazione dell’OLP in Autorità Nazionale Palestinese, il ruolo, le capacità istituzionali e l’importanza del GUPS si ridussero.

Un modo alternativo di impegnarsi era quello di organizzarsi a favore della liberazione dei palestinesi come principio, accogliendo tutti gli studenti che desideravano lavorare per la giustizia in Palestina. Questa è stata la genesi di SJP, che ora ha più di 200 sezioni negli Stati Uniti, in Canada e in Nuova Zelanda. Molti di quegli studenti che si sono impegnati nel sostegno delle lotte di liberazione e dell’antirazzismo in Sud Africa, America Centrale e negli Stati Uniti hanno aderito a SJP perché hanno visto le connessioni tra le battaglie.

Allo stesso tempo, il numero di ebrei americani che non considerano più Israele la parte centrale della propria identità e che si identificano come antisionisti è in aumento. Un numero significativo è ora membro di SJP. Questi giovani non possono impegnarsi nella ribellione al complesso industriale carcerario, al militarismo, al razzismo e al discorso anti-immigrazione senza vedere nella Palestina una rappresentazione paradigmatica di ciò che sanno istintivamente che è sbagliato: l’apartheid israeliano.

In gran parte a causa del lavoro di SJP e di altri gruppi nelle università degli Stati Uniti e del mondo, Israele non ha più una causa da difendere dal punto di vista intellettuale e accademico. Questa evoluzione politica venti – trentennale deve essere presa in considerazione quando si ricerca il motivo per cui Israele stia ora agendo in modo disordinato nel cercare di ricostruire un sostegno, quando la diga delle menzogne e dell’opacità è già crollata.

La risposta disperata di Israele 

La perdita della posizione di Israele nel campo dell’istruzione superiore e tra l’intellighenzia americana ha spinto il Ministero degli Affari Strategici israeliano (IMSA) e i sostenitori di Israele a tentare freneticamente di invertire questa situazione. Vi è quindi una percentuale enorme di attacchi ai campus universitari. Tuttavia, l’unico strumento che i sostenitori di Israele e l’IMSA hanno per cercare di recuperare posizioni all’interno delle università è il rozzo potere della diffamazione. Pertanto progetti come Canary Mission [sito web che raccoglie dossier su attivisti, professori e organizzazioni studentesche che considera anti-israeliane e ne minaccia l’invio ai potenziali datori di lavoro, ndtr.] e il Lawfare Project [ong americana che professa un impegno contro l’antisemitismo attraverso il finanziamento di azioni legali, ndtr.] si rivolgono a studenti e docenti affermando che il sostegno per la Palestina e il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) sono antisemiti.

Queste forze stanno contemporaneamente cercando di mobilitare gli organi legislativi statali e il Congresso perché vengano approvate delle leggi che proteggano Israele dal diritto alla libertà di parola quando si tratti della Palestina. Questo è un errore strategico, perché l’attenzione su un bavaglio preventivo sposta il dibattito su uno dei principali emendamenti [della costituzione USA, ndtr.] e diritti costituzionali, che finora rimane un diritto generalmente ben protetto nel contesto americano.

L’ uso della forza bruta da parte del governo israeliano dimostra la sua paura. In effetti, una dimostrazione di effettivo potere consiste nella possibilità di esercitare moderazione e di astenersi dall’uso della forza grazie alla paura del suo esercizio da parte delle persone. In questo senso Israele tenta disperatamente di ricostituire una barriera contro il calo della sua reputazione anche nella società statunitense nel suo complesso.

La base del Partito Democratico, nonché i suoi militanti, ad esempio, hanno abbandonato Israele come componente centrale del loro programma politico. Si può rintracciare questo fenomeno negli attacchi al presidente Obama da parte del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e dell’AIPAC [American Israel Public Affairs Committee, principale gruppo di pressione americano noto per il forte sostegno allo Stato di Israele, ndtr.] a partire dal discorso di Obama al Cairo nel 2009 e fino agli attacchi contro il suo accordo con l’Iran, incluso il discorso di Netanyahu del marzo 2015 in una sessione congiunta del Congresso, che ha espresso l’esplicita opposizione del leader del governo israeliano al presidente degli Stati Uniti in carica. Questi attacchi hanno portato molti componenti del Partito Democratico a capire il collegamento degli attacchi mirati contro Obama all’ascesa del Tea Party [fazione di estrema destra del partito Repubblicano, ndtr.] e, in definitiva, di Trump, contribuendo a modificare nettamente la linea tradizionale del partito su Israele.

Anche i tentativi di Israele di usare il potere puro e semplice per mettere a tacere le critiche non sono piaciuti a molti democratici. Non sorprende quindi che Bernie Sanders stia cominciando a riconoscere che opporsi a Israele e mettere da parte l’AIPAC – sottolineando anche come l’AIPAC sia una “tribuna per il fanatismo” – non abbia più le stesse conseguenze negative in gran parte dell’elettorato del partito.

Anche se il decreto di Trump del dicembre 2019 per combattere l’antisemitismo nei campus universitari può apparire disastroso – l’ordine consente di de-finanziare le istituzioni sulla base della definizione di antisemitismo da parte dell’Alleanza Internazionale della Memoria dell’Olocausto [L’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) è un’organizzazione intergovernativa fondata nel 1998 che unisce i governi e gli esperti per rafforzare, promuovere e divulgare l’educazione sull’Olocausto, ndtr.] che include le critiche allo Stato israeliano, facendo sì che il sostegno alla Palestina sia “antisemita” – esso è importante per capire che lo status quo su Israele sia crollato fin dagli Accordi di Oslo. Questo decreto è uno sconsiderato tentativo di arginare quella spirale discendente. Inoltre, quando Trump mette il suo nome su qualcosa, una grande quantità di persone si oppone se non altro perché lo ha fatto lui. 

Naturalmente a breve termine ci saranno degli effetti negativi su studenti e docenti, come tentativi di chiusura degli studi sulla Palestina, molestie online e condanne contro dipartimenti e gruppi di studenti. Recenti attacchi contro il Center for Contemporary Arab Studies [Centro per gli studi Arabi Contemporanei, ndtr.] presso la Georgetown University e il SJP e la Columbia University Apartheid Divest [Columbia University Libera dall’Apartheid, ndtr.] alla Columbia University illustrano queste difficoltà.

Tuttavia, sebbene tali azioni possano avvantaggiare il governo israeliano e Trump nel breve termine, a lungo termine i cambiamenti nella posizione di Israele saranno irreversibili. Non è più possibile ridefinire la posizione di Israele nel contesto universitario e nella società civile in generale come uno Stato non ritenuto un trasgressore dei diritti umani e del diritto internazionale. Chi milita nel campo dell’istruzione superiore può impegnarsi per sostenere questa tendenza attraverso una serie di sforzi.

Promuovere la Palestina all’università

Gli studenti, i docenti e coloro che lavorano nelle istituzioni accademiche devono chiedere che la Palestina sia inclusa e coinvolta alle proprie condizioni. Pertanto, devono insistere su studi che esaminino e contestualizzino la Palestina senza interrogarsi se siano “buoni per Israele” o riguardo la loro relazione con il sionismo.

In questo senso è fondamentale un approccio alla Palestina nel contesto delle lotte internazionaliste per l’emancipazione, rendendola una parte della storia moderna condivisa dell’umanità, piuttosto che un’eccezione. Un corso potrebbe, ad esempio, mettere a confronto i movimenti di liberazione nell’Africa sub-sahariana e in Palestina. Tali studi prenderebbero in considerazione non solo il Sudafrica, ma esaminerebbero anche il collegamento del movimento palestinese con le campagne per l’unità africana e il loro impegno collettivo nei movimenti anti-coloniali e de-coloniali negli anni ’60 e ’70. Un altro corso potrebbe esaminare il rapporto tra Palestina e America Latina, dove esistono solide comunità palestinesi.

Docenti e studenti dovrebbero anche insistere sullo sviluppo delle capacità istituzionali all’interno di diverse università e contesti. Finora, Studi sulla Palestina è disponibile come programma di studio a sé stante solo alla Brown University e alla Columbia University. Gli studenti possono mobilitarsi nelle università per insistere sulla realizzazione di programmi allo stesso modo dei programmi di studi etnici sviluppati istituzionalmente negli anni ’60 e ’70. E’ anche fondamentale la creazione di programmi di studio all’estero in Palestina.

Anche gli accademici che lavorano in Palestina dovrebbero mobilitare risorse finanziarie per sostenere questi programmi. I palestinesi negli Stati Uniti e altrove non hanno prodotto uno sviluppo strategico di importanti finanziatori. Devono mobilitare questi donatori per investire in iniziative che avranno conseguenze positive a lungo termine per la lotta palestinese.

Infine, devono essere rafforzati studi legali che forniscono protezione in ambito accademico. Palestine Legal, fondata nel 2012, offre già un irrinunciabile supporto, ma tale impegno deve essere rafforzato e intensificato.

In breve, gli attacchi agli accademici, agli attivisti del SJP e alla Palestina devono essere compresi in un ambito storico di lunga durata e con una profonda consapevolezza del cammino verso la giustizia in atto nei campus universitari, a livello nazionale e internazionale. Le argomentazioni morali, etiche e intellettuali che si oppongono con successo agli sforzi israeliani ben finanziati e istituzionalmente connessi per la demonizzazione, dovrebbero aiutare a continuare la lotta per la liberazione palestinese e la fine dell’apartheid. Al cospetto di circostanze avverse, il futuro della Palestina si sta realizzando in primo luogo all’interno della Palestina storica, così come nei movimenti di solidarietà e del BDS in tutto il mondo e nei campus universitari. Proprio come l’apartheid in Sudafrica è stato messo nella pattumiera della storia, ci stiamo avvicinando a una libera Palestina.

Hatem Bazian

Consulente politico di Al-Shabaka, Hatem Bazian è professore associato presso i Dipartimenti di Studi Etnici e del Medio Oriente dell’Università di Berkely in California. Ha insegnato alla Boalt Hall School of Law di Berkeley ed è anche professore ospite in Studi Religiosi al Saint Mary’s College of California e tutor presso il Centro di religione, politica e globalizzazione di Berkeley, nonché presidente della Academic Affairs presso lo Zaytuna College of California [università musulmana di Berkeley]. Ha anche fondato il Centro per lo studio e la documentazione sull’islamofobia di Berkeley, un’unità di ricerca dedicata allo studio sistematico dell’ostilità preconcetta contro l’Islam e musulmani. È anche Presidente del Board of American Muslims for Palestine.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)




Mancano meno di dieci giorni al Ramadan e le strade della Palestina sono irriconoscibili

Yumna Patel

16 aprile 2020 – Mondoweiss

Ogni anno i palestinesi di Gaza, Israele, Gerusalemme e della Cisgiordania si uniscono a milioni di musulmani di tutto il mondo nel celebrare il sacro mese islamico del Ramadan.

Per i palestinesi, questo periodo è non solo un intenso momento di devozione e preghiera, ma anche il momento per riunirsi con amici e familiari e osservare varie tradizioni.

Ma nel periodo in cui normalmente affollerebbero i mercati per fare la spesa e appenderebbero luminarie festose e altre decorazioni davanti alle loro case, le strade sono vuote e la solita frenesia in vista del Ramadan è stata sostituita da un’atmosfera triste.

Come in gran parte del resto del mondo, i palestinesi sono ancora in lockdown a causa del coronavirus che ha continuato a diffondersi in Israele e nei territori occupati costringendo la gente alla quarantena e al distanziamento sociale.

Dato che il Ramadan si incentra sulle riunioni, nelle moschee per pregare e intorno alla tavola per condividere il cibo con amici e familiari, i palestinesi e tutti i musulmani si trovano a far fronte ad un ennesimo problema a causa della pandemia.

Il sentimento che in questo momento provo io, e con me tutti i palestinesi, è di grande tristezza” dice a Mondoweiss Sheikh Abed al-Majid Amarna, 62anni, il muftì [autorità religiosa, ndtr.] del governatorato di Betlemme.

Quest’anno il Ramadan sarà molto diverso per tutti noi” sostiene Amarna. “Quindi dovremo trovare modi nuovi per adeguarci e celebrarlo comunque.”

I luoghi di preghiera restano chiusi

Quando agli inizi di marzo è iniziato il contagio a Betlemme, decine di moschee e chiese in città sono state chiuse, molte per la prima volta in decenni.

Finora tenere la gente lontana dalle moschee è stato relativamente facile, ma il mese del Ramadan di solito vede grande affluenza di devoti che vanno alle moschee a pregare insieme, dato che il Corano dice che la preghiera collettiva vale di più di quella fatta da soli.

La gente è molto triste per il fatto che il Ramadan stia per arrivare e che le moschee siano ancora chiuse” sostiene Amarna, aggiungendo di aver ricevuto negli ultimi giorni decine di chiamate dai fedeli che volevano sapere se la moschea sarebbe stata aperta durante il mese sacro.

Sono molto dispiaciuto, ma devo dir loro che probabilmente le moschee resteranno chiuse” afferma Amarna, aggiungendo che esse non sono solo luoghi di preghiera, ma anche posti dove la gente va per socializzare e passare del tempo insieme.”

Dall’altra parte del muro, nel territorio occupato di Gerusalemme est, Alaa Daya, 23 anni, studentessa di cinema, che vive nella Città Vecchia, si lamenta del fatto che la moschea di Al-Aqsa, il terzo luogo sacro per i musulmani che attrae migliaia di fedeli ogni giorno, ma specialmente durante il Ramadan, resterà invece chiusa.

Questa è la prima volta nella mia vita che la vedo chiusa ” dice Daya a Mondoweiss. “Spezza veramente il cuore.”

Questo è il momento dell’anno durante il quale le strade della Città Vecchia sono normalmente affollate di palestinesi provenienti da tutto il Paese e da altri musulmani di tutto il mondo che vengono qui, in questo luogo sacro, a passare il loro Ramadan, ” sostiene. “Ma ora sembra una città spettrale.”

Oltre a perdere le preghiere che attirano decine di migliaia di fedeli, Daya dice che lei e i suoi amici non vedevano l’ora di ritrovarsi insieme nel vasto cortile e negli spazi che circondano la moschea.

Le nostre case nella Città Vecchia sono veramente piccole e attaccate una all’altra, e così noi spesso ci ritroviamo intorno ad Al-Aqsa e passiamo del tempo insieme dopo le preghiere della sera” afferma. “Ma ora, per via del coronavirus, non potremo farlo. È veramente triste.”

Trovare modi nuovi per pregare

Nonostante le difficoltà causate dal lockdown, Sheikh Amarna e altri leader religiosi a Betlemme e in Palestina stanno cercando di adattarsi in modi nuovi per osservare anche quest’anno il Ramadan.

Stiamo facendo del nostro meglio per trovare modi nuovi e creativi per far sì che la gente senta comunque che sta vivendo al meglio questo mese,” dice Amarna a Mondoweiss.

Fra le nuove misure che i leader adotteranno ci sono le lezioni di storia islamica e di spiritualità, tradizionali durante il Ramadan, che verranno trasmesse sui canali televisivi e in streaming sui social.

Abbiamo aperto le nostre linee telefoniche e i canali social alla gente in modo che, se hanno domande durante questo mese o vogliono saperne di più dell’Islam, possono farlo guardando la TV e tramite i loro telefonini invece di andare in moschea.” dice Amarna.

Amarna ha anche incoraggiato i fedeli a recitare a casa e con le loro famiglie le preghiere rituali supplementari di tarawih che i musulmani recitano prima dell’alba e dopo quelle di isha [quinta preghiera giornaliera dei musulmani, ndtr.] solo durante il Ramadan.

Possono riunirsi con le loro famiglie, uno di loro può guidare la preghiera e ciò impartirà loro la stessa benedizione che avrebbero se pregassero in una moschea.” dice Amarna.

Si possono notare le differenze’

Oltre a trovare nuovi modi di devozione, i palestinesi saranno anche costretti ad adattare le loro abitudini culturali e sociali durante il Ramadan.

Waleed Da’na, 53 anni, un panettiere di Betlemme racconta a Mondoweiss che avrebbe potuto dire che quest’anno il Ramadan sarebbe stato diverso perché la gente non faceva o acquistava i qatayef, pancake ripieni di panna o noci speziate, dolci tipici del Ramadan.

Di solito in questo periodo dell’anno, poco prima del Ramadan, si poteva sentire il profumo di qatayef aleggiare per le strade. Ma dato che tutti sono chiusi in casa, abbiamo avuto solo pochissimi clienti.” afferma, aggiungendo che sia musulmani che cristiani aspettano tutto l’anno per godersi questi dolcetti tipici.

Il Ramadan ha qualcosa di speciale nel modo in cui facciamo le cose in Palestina,” dice Da’na.  “Si può veramente notare che quest’anno è diverso.”

Il Ramadan non è solo preghiera e celebrazioni, ma è anche un momento per riunirsi, condividere pasti e storie tutti insieme e riallacciare i rapporti. ” continua. “È veramente un momento speciale affinché le famiglie e i vicini si ritrovino.“

Da’na, Sheikh Amarna e Alaa Daya sperano che le famiglie approfittino del mese stando insieme, cercando di gustarselo per quanto possibile, date le difficili circostanze.

Anche se la gente celebra da sola nelle proprie case, spero che trascorrano un Ramadan felice e benedetto.”

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)




 Coronavirus: l’accademia del resto del mondo ha un assaggio del blocco totale dei palestinesi

Emile Badarin

16 aprile 2020 – Middle East Eye

La pandemia riflette quello che generazioni di studenti, insegnanti e docenti universitari palestinesi hanno sopportato sotto l’occupazione israeliana.

In tutto il mondo lo scoppio della pandemia da Covid-19 ha ostacolato la formazione degli studenti. Ma ciò non è affatto una novità per gli studenti e accademici palestinesi, la cui vita nel settore della formazione per decenni è stata sistematicamente ostacolata dalle pratiche colonialiste israeliane.

L’allarmante diffusione del coronavirus ha obbligato molte università e scuole a chiudere e adottare l’apprendimento virtuale nel tentativo di contenere la pandemia. Secondo l’UNESCO [l’agenzia ONU per l’Educazione, la Scienza e la Cultura, ndtr.] ciò ha riguardato più del 90% del corpo studentesco mondiale.

Per la maggioranza degli studenti, insegnanti, docenti e rettori universitari del mondo la chiusura delle istituzioni educative non ha precedenti. Per i loro colleghi palestinesi gli ostacoli alla formazione sono la vita quotidiana.

Chiusure e interruzioni

Per decenni nessuna università o scuola palestinese è sfuggita a chiusure e interruzioni. Come conseguenza di ciò, sotto la dominazione colonialista il diritto all’educazione delle successive generazioni di palestinesi, sancito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, è stato regolarmente violato e danneggiato.

Attraverso le note restrizioni agli spostamenti nei checkpoint militari, il muro dell’apartheid e le colonie, insieme ad arresti arbitrari di studenti e docenti, chiusura di scuole, irruzioni nelle università, demolizioni di classi, il divieto di ingresso ad accademici stranieri e l’assedio contro Gaza, le politiche israeliane hanno sistematicamente ostacolato giornalmente l’accesso dei palestinesi all’istruzione.

Opportunità di imparare e tempo preziosi si perdono nell’attesa ai checkpoint e nell’impossibilità di raggiungere le aule scolastiche, o a causa della mancanza di scambi con studiosi e università dall’estero.

Nelle circostanze anomale del dominio colonialista di insediamento di Israele, sono stati imposti alla Palestina blocchi e coprifuoco militari lunghi e a volte mortali – punizioni collettive che sono illegali in base alla Quarta Convenzione di Ginevra. Il settore educativo palestinese, e soprattutto gli studenti, sono state le vittime principali delle chiusure e dei blocchi.

Stretta coloniale

Dagli anni ’70 il settore educativo palestinese è stato direttamente preso di mira. Nel 1974 il governo militare israeliano ordinò alla principale e più influente università palestinese, la Birzeit, di chiudere e ne esiliò il rettore.

Nel 1981 la Birzeit rimase chiusa da novembre a gennaio e il rettore, l’amministrazione e un certo numero di docenti e studenti messi agli arresti domiciliari o nelle prigioni israeliane.

Le restrizioni ed interruzioni dell’educazione dei palestinesi furono istituzionalizzate attraverso l’imposizione della legge marziale. Nel luglio 1980 le autorità israeliane emanarono l’ordine militare 854, una norma colonialista che intensificò ulteriormente la stretta di Israele sull’educazione superiore palestinese.

Durante la Prima Intifada le università palestinesi vennero obbligate a chiudere per quattro anni di seguito, dal 1988 al 1991. Anche l’educazione scolastica venne notevolmente ridotta. Fu la chiusura più estesa di sempre nel settore formativo.

Durante la Seconda Intifada chiusure, coprifuoco, assedi, restrizioni da parte dell’esercito sugli spostamenti e irruzioni nelle università compromisero gravemente l’educazione superiore palestinese. Università e scuole furono invase, saccheggiate, bombardate e chiuse. I danni furono gravissimi: più di 498 scuole vennero definitivamente chiuse, 1.289 lo furono temporaneamente, alcune trasformate in avamposti militari, e 297 furono bombardate. Tra il 2002 e il 2005 gli studenti palestinesi persero 7.825 giorni di lezioni.

Durante quel periodo gli studenti, insegnanti e docenti palestinesi spesso non poterono raggiungere le proprie università e vennero sottoposti a maltrattamenti, incarcerazioni e al rischio di essere picchiati o aggrediti con lacrimogeni o proiettili veri.

Inoltre dal 2007 l’assedio israelo-egiziano contro Gaza ha inesorabilmente ostacolato il diritto dei palestinesi all’educazione. Università, scuole e altre istituzioni educative vennero distrutte durante gli attacchi israeliani nel 2008-09 e nel 2014. Gaza è tagliata fuori dal mondo, e ciò riduce gli scambi con docenti e università esteri.

Innovazioni educative

Il settore educativo palestinese non ha ceduto alle restrizioni colonialiste, ha continuato a resistere e a perseguire sistemi innovativi per portare avanti la propria missione formativa. Anche senza il lusso dell’apprendimento virtuale, i palestinesi hanno insegnato e imparato in ogni luogo disponibile, trasformando persino le proprie cucine in laboratori con l’equipaggiamento spostato lì dai laboratori delle università.

Per studenti, docenti e settore amministrativo palestinesi l’incertezza è la norma, non l’eccezione. Non sanno nemmeno se saranno in grado di terminare un anno accademico.

Sfortunatamente la crisi del Covid-19 ha universalizzato questa terribile sensazione di incertezza.  Quasi ogni studente, insegnante o amministratore sta sperimentando la penosa insicurezza che i loro colleghi hanno attraversato per molto tempo in Palestina.

Il Covid-19 ha dato a tutti noi un assaggio personale degli effetti deleteri della chiusura e delle restrizioni sulla formazione. Il mondo accademico ora ha un’esperienza di prima mano di quello contro cui generazioni di studenti, insegnanti e docenti palestinesi hanno dovuto lottare sotto il colonialismo d’insediamento israeliano.

Una volta terminata la crisi del Codiv-19, in molte parti del mondo la vita educative tornerà alla normalità. Ma non in Palestina, dove la formazione continuerà a soffrire di restrizioni e interruzioni sistematiche, finché non finirà la dominazione coloniale.

Quando sarà passata – e passerà – l’attuale crisi, il mondo accademico avrà il dovere morale di schierarsi in solidarietà con i colleghi palestinesi ancor più di prima.

Le opinioni espresse in questi articoli solo dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Emile Badarin

Emile Badarin è un assegnista di ricerca post-dottorato della European Neighbourhood Policy Chair [cattedra di Politica Europea di Vicinanza] (ENP), College of Europe [istituto indipendente di studi europei, con sede a Bruges e a Varsavia, ndtr.], Natolin [alla periferia di Varsavia, ndtr.]. Ha conseguito un dottorato in politiche del Medio Oriente. Le sue ricerche riguardano i campi delle relazioni internazionali e della politica estera, con Medio Oriente ed UE come area di studio.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 31 marzo – 13 aprile 2020

Il 1° aprile, un palestinese di 22 anni è morto per le ferite riportate l’11 marzo scorso, quando venne colpito dalle forze israeliane durante una manifestazione nel villaggio di Beita, a sud di Nablus [vedere Rapporto precedente].

In questo villaggio [situato in Area B], da fine febbraio sono in corso manifestazioni contro ripetuti tentativi, da parte di coloni israeliani, di appropriarsi di una vicina collina. Alle manifestazioni di protesta hanno fatto seguito intensi scontri con le forze israeliane che [ad oggi] hanno provocato due vittime palestinesi, tra cui un minore, e oltre 380 feriti. Non è stato segnalato alcun ferito israeliano.

In Cisgiordania, in scontri con forze israeliane, sono rimasti feriti dodici palestinesi, tra cui quattro minori [segue dettaglio]. Otto [dei 12] feriti sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeno, due sono stati colpiti con proiettili di arma da fuoco e due sono stati aggrediti fisicamente. Cinque di questi feriti (tra cui un bimbo piccolo e un bambino di tre anni, che hanno inalato gas lacrimogeno) sono stati registrati nel quartiere di Silwan a Gerusalemme Est, nel corso di due distinti episodi: durante un’operazione di ricerca-arresto e durante un’azione della polizia finalizzata ad imporre le restrizioni di movimento legate al COVID-19. Altri sei palestinesi sono rimasti feriti nel villaggio di Burin (Nablus), durante scontri con le forze israeliane in pattugliamento e a Kafr Qaddum (Qalqiliya), durante le manifestazioni settimanali contro l’espansione degli insediamenti [colonici] e contro le restrizioni di accesso. Dall’inizio di marzo, la frequenza degli scontri e dei relativi ferimenti è fortemente diminuita, come conseguenza delle restrizioni ai movimenti imposte dalle autorità palestinesi per contenere la diffusione di COVID-19 e per la riduzione della frequenza delle operazioni israeliane di ricerca-arresto.

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno effettuato 53 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 45 palestinesi. La metà di queste operazioni, e circa il 60% degli arresti, sono stati registrati a Gerusalemme Est, dieci in Hebron, nell’area controllata da Israele (H2) e nove nel governatorato di Ramallah. Ciò rappresenta un calo di oltre il 50%, rispetto alla media quindicinale di tali operazioni registrata nel primo trimestre di quest’anno.

Al fine di far rispettare le restrizioni di accesso alle aree [di Gaza] prossime alla recinzione perimetrale israeliana e al largo della costa di Gaza, in almeno 56 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento: tre pescatori palestinesi sono rimasti feriti e una barca da pesca è stata danneggiata. In cinque occasioni, le forze israeliane sono entrate in Gaza, nei pressi di Khan Younis e nelle aree settentrionali, ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale. Nel contesto della crisi COVID-19, sono state annullate le dimostrazioni, previste [nella Striscia di Gaza] per il 31 marzo, in commemorazione del secondo anniversario della “Grande Marcia del Ritorno” e della “Giornata della Terra”.

Secondo agricoltori palestinesi, il 6 aprile, ad est della città di Gaza, aerei israeliani hanno irrorato erbicidi su terreni agricoli prossimi alla recinzione perimetrale. È il terzo episodio di questo tipo segnalato quest’anno, con conseguenti danni alle colture.

Per consentire il ritorno di migliaia di palestinesi bloccati in Egitto, dal 13 aprile, per quattro giorni, è stato riaperto (solo verso Gaza) il valico di Rafah, a controllo egiziano. Le autorità di Gaza hanno lanciato una piattaforma online per registrare i palestinesi che intendono rientrare, in modo da poter organizzare la loro sistemazione in centri di quarantena obbligatori. Dal 15 marzo il valico era stato chiuso in entrambe le direzioni per impedire la diffusione del COVID-19. Anche per i titolari di permesso, rimane bloccato l’ingresso in Israele attraverso il valico di Erez (a controllo israeliano); fanno eccezione i casi sanitari urgenti ed i malati di cancro. Decine di palestinesi rientravano quotidianamente in Gaza attraverso questo valico .

Nell’Area C della Cisgiordania, citando la mancanza di permessi di costruzione, sono state demolite, sequestrate o smantellate 18 strutture di proprietà palestinese e 1.200 alberi sono stati sradicati, in quanto piantati su “terra di stato” [segue dettaglio]. In seguito alla epidemia di COVID-19, le autorità israeliane hanno fermato in gran parte la demolizione delle abitazioni, ma hanno continuato a prendere di mira strutture di sostentamento e di servizio. Preoccupa, in modo particolare, il ripetersi di demolizioni di strutture idriche ed igieniche; ciò potrebbe minare gli sforzi per contenere la diffusione del virus. [Infatti,] durante il periodo in esame, le autorità israeliane hanno requisito due latrine mobili ed hanno danneggiato due serbatoi d’acqua nella Comunità di pastori di At Taybe (Hebron), mentre, nel villaggio di Kafr Ni’ma (Ramallah), hanno demolito tre cisterne per la raccolta dell’acqua. Durante quest’ultimo episodio, le forze israeliane hanno anche sradicato circa 1.200 alberi, con la motivazione che erano piantati su terra dichiarata [da Israele] “terra di stato”. Da metà marzo, a Gerusalemme Est, non sono state effettuate demolizioni.

Otto palestinesi sono rimasti feriti e un gran numero di proprietà [palestinesi], tra cui oltre 670 alberi, sono state vandalizzate da aggressori ritenuti coloni israeliani [segue dettaglio]. I ferimenti sono avvenuti in tre distinti episodi: nell’Area H2 della città di Hebron, controllata da Israele, due uomini (uno dei quali disabile mentale) sono stati spruzzati con liquido al peperoncino; vicino al villaggio di Kobar (Ramallah), tre contadini sono stati picchiati con i fucili mentre lavoravano la loro terra; e, infine, nell’insediamento di Ramat Eshkol a Gerusalemme Est, tre lavoratori palestinesi sono stati aggrediti fisicamente e uno di essi è stato accoltellato e ferito gravemente. Altri quattro casi sono avvenuti ad At Tuwani (Hebron), Turmus’ayya (Ramallah) e Al Khader (Betlemme), dove sono stati sradicati o vandalizzati oltre 670 alberelli di ulivo e altri alberi. In quest’ultimo villaggio (Al Khader), dall’inizio dell’anno sono stati vandalizzati circa 1.450 alberi appartenenti ad agricoltori del luogo. I residenti della Comunità di pastori di Umm al Kheir hanno riferito che coloni hanno avvelenato oltre 20 mandorli. Nel villaggio di Ein Qiniya (Ramallah), coloni sono passati con motociclette su terreni coltivati a cetrioli, mentre a Yanun (Nablus) e Al Jab’a (Betlemme), hanno fatto pascolare le loro pecore su coltivazioni, danneggiandole. In altri due casi, coloni hanno fatto irruzione nella periferia dei villaggi di Qusra (Nablus) e Al Mazra’a al Qibliya (Ramallah), vandalizzando proprietà. Dall’inizio di marzo, la media settimanale di aggressioni condotte da coloni verso palestinesi, comportanti ferimenti o danni a loro proprietà (9 casi), risulta aumentata dell’80% rispetto alla media settimanale del periodo gennaio-febbraio (5 casi).

Sono stati segnalati numerosi episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie, ad opera di palestinesi, contro veicoli israeliani che transitavano lungo le strade della Cisgiordania. Non ci sono stati feriti, ma, secondo una ONG israeliana, in Ramallah e nella Valle del Giordano, tre veicoli hanno subìto danni.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali. Il neretto è di OCHAoPt.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Hamas rifiuta le condizioni israeliane per gli aiuti a Gaza contro il coronavirus

Adnan Abu Amer

10 aprile 2020 Middle East Monitor

Nei giorni scorsi, Hamas e Israele hanno avuto un evidente scontro sulla fornitura di assistenza medica alla Striscia di Gaza per contrastare il coronavirus, poiché come condizione dell’assistenza medica Israele ha posto il ritorno dei suoi soldati catturati nella guerra del 2014. I media israeliani hanno chiesto a Hamas di liberare i soldati in cambio degli aiuti per combattere il coronavirus.

Da parte sua, Hamas ha annunciato tramite il suo leader a Gaza, Yahya Al-Sinwar, che otterrà quanto serve alle necessità umanitarie con la forza, minacciando che “sei milioni di israeliani potrebbero smettere di respirare” se Israele non sarà disposto a rifornire la Striscia di Gaza dei respiratori necessari ai pazienti con coronavirus.

Al-Sinwar ha lasciato anche intendere che Hamas potrebbe fare una concessione in merito all’accordo di scambio se sarà permesso l’ingresso di forniture per migliorare le condizioni di vita e l’assistenza medica a Gaza nonché il rilascio dei prigionieri palestinesi anziani, malati, minori e donne. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha risposto incaricando Yaron Bloom, coordinatore israeliano dei prigionieri di guerra e prigionieri israeliani MIA [missing in action, dispersi durante una azione, ndtr], di avviare i colloqui necessari per riprendere il negoziato di scambio di prigionieri con Hamas.

Questo tira e molla significa che sarà possibile un incremento di violenza tra Hamas e Israele, perché le fazioni palestinesi cercheranno di fare pressione su Israele affinché conceda l’ingresso di forniture mediche e assistenza sanitaria a Gaza per combattere il coronavirus. Alcuni giorni fa sono stati lanciati dei missili da Gaza contro Israele e questo solleva degli interrogativi, se entrambe le parti si indirizzeranno ad un’escalation militare o se raggiungeranno un accordo di scambio. Assisteremo a uno scontro militare non voluto durante questa disastrosa situazione sanitaria a Gaza e in Israele, o alla fine avranno luogo negoziati per raggiungere un nuovo accordo di scambio di prigionieri tra le parti?

Alcuni giorni fa l’esercito israeliano ha annunciato di aver bombardato le postazioni di Hamas nella Striscia di Gaza, in risposta a un missile sparato contro gli insediamenti intorno a Gaza. Migliaia di israeliani si sono precipitati nei rifugi, anche se era la prima aggressione dall’inizio dell’emergenza coronavirus a febbraio, con palestinesi e israeliani chiusi nelle loro case per fermarne la diffusione.

Nessuna delle fazioni palestinesi ha rivendicato il lancio di missili, ma il bombardamento israeliano delle postazioni di Hamas è per via del controllo di Hamas su Gaza. Le fazioni palestinesi hanno affermato che Israele stesse approfittando della preoccupazione del mondo nella lotta al coronavirus per intensificare il blocco su Gaza.

L’atmosfera nella Striscia di Gaza segnala che la crisi sanitaria, dopo l’individuazione di numerosi casi di coronavirus, potrebbe spingere Hamas a fare pressione su Israele perché allenti il blocco su Gaza. Alcuni gruppi israeliani hanno profilato un cupo scenario simile al Giorno del Giudizio, con Gaza che esplode in faccia a Israele un diffuso contagio di coronavirus.

Hamas ha ripetutamente affermato che sotto il blocco israeliano Gaza vive in condizioni catastrofiche e che solo Israele è responsabile del suo prolungamento. Hamas è in contatto con dei mediatori per costringere Israele a revocare il blocco su Gaza, alla luce della pandemia di coronavirus che aggrava la situazione – segnalando che il lungo blocco di Gaza non favorisce il mantenimento della calma nei sistemi di vigilanza. Hamas non ha esplicitamente ammesso la sua responsabilità nel lancio di missili contro Israele, ma non ha negato, ammantando la questione di mistero e ambiguità.

La Commissione di Monitoraggio del governo guidato da Hamas nella Striscia di Gaza ha dichiarato che le autorità governative di Gaza hanno bisogno di supporto dall’interno e dall’esterno per affrontare il virus. Ha annunciato la distribuzione di un milione di dollari in fondi di emergenza urgenti a 10.000 famiglie a basso reddito colpite dai provvedimenti, e l’assunzione di 300 nuovi membri del personale per il Ministero della Sanità di Gaza. Il leader di Hamas Ismail Haniyeh ha discusso con alcuni partiti palestinesi, regionali e internazionali, gli effetti della diffusione del coronavirus in Palestina.

La posizione palestinese ammette che Hamas e Israele non hanno interesse a un’escalation militare sotto il coronavirus, e il lancio del missile da Gaza potrebbe far parte del caos nella sicurezza creato dai militanti armati che Hamas sta cercando di controllare. Inoltre, Israele teme la diffusione del virus a Gaza per paura che la comunità internazionale lo ritenga responsabile di Gaza; potrebbe quindi concedere alcune agevolazioni, come consentire l’ingresso di attrezzature sanitarie e forniture mediche di prevenzione, nonché mobilitarsi per un sostegno finanziario alla paralisi economica di Gaza a seguito allo scoppio della pandemia.

Le principali richieste di Gaza per affrontare il coronavirus sono forniture mediche: respiratori, kit per testare il virus, provviste alimentari e aiuti per gli abitanti di Gaza che soffrono i provvedimenti presi per combattere la pandemia.

Vale la pena notare che Gaza è in grado di gestire solo 100-150 casi di coronavirus, perché il suo sistema sanitario è fragile e non può prendere in carico grandi numeri. Ha uno scarso numero di ventilatori e letti per terapia intensiva, nonché una carenza di farmaci del 39%.

Anche se la recente escalation a Gaza potrebbe non essere collegata a una specifica organizzazione palestinese, potrebbe essere un messaggio che segnala che Israele ha la responsabilità di affrontare esaustivamente la situazione sanitaria a Gaza, dove ci sarebbe una grande catastrofe se il coronavirus si diffondesse tra la gente. Chiunque abbia lanciato i missili, sembra aver chiesto a Israele di revocare il blocco su Gaza. Israele è interessato a soddisfare il bisogno di salute e di vita di Gaza, perché se la pandemia si diffonde tra i palestinesi, li spingerà a lanciare e far scoppiare decine, se non centinaia, di missili. Potrebbero anche affollarsi al confine Israele-Gaza per salvarsi dalla pandemia.

Con il mantenimento delle prescrizioni per affrontare il coronavirus a Gaza, le autorità governative di Gaza affiliate ad Hamas stanno, tra le altre misure, sottoponendo i viaggiatori che ritornano a Gaza attraverso il valico di Rafah con l’Egitto e il valico di Beit Hanoun con Israele ad una quarantena obbligatoria di 21 giorni. Hanno anche chiuso tutte le moschee, università, scuole, mercati, sale per matrimoni e ristoranti fino a nuovo avviso. Stanno anche studiando la possibilità di imporre un coprifuoco completo, oltre a chiedere ai palestinesi di rimanere sempre in casa.

Tutte queste misure hanno contribuito alla crescente sofferenza di gruppi vulnerabili come autisti, impiegati di sale per matrimoni, ristoranti e bar. Forse la sovvenzione mensile del Qatar di 100 dollari distribuita a 100.000 famiglie bisognose a Gaza riduce relativamente l’effetto dell’assedio israeliano e allevia il deterioramento della situazione economica di Gaza; la sovvenzione del Qatar faceva parte degli accordi umanitari concordati tra Hamas e Israele nell’ottobre 2018.

In questi giorni, il Qatar ha annunciato che avrebbe fornito 150 milioni di dollari in sostegno finanziario alla Striscia di Gaza per un periodo di sei mesi, per alleviare le sofferenze dei palestinesi e per aiutare a combattere il coronavirus, senza chiarire la natura della distribuzione della sovvenzione né i beneficiari.

Nel frattempo, il Ministero dello Sviluppo Sociale di Gaza ha fornito tutti i pasti a coloro che sono stati messi in quarantena nei centri sanitari, per un totale di 6.000 pasti al giorno. Il Ministero fornisce anche le risorse necessarie ai soggetti in quarantena, come frigoriferi, elettrodomestici e utensili per la casa. Il Ministero ha anche registrato il numero di famiglie colpite dallo stato di emergenza imposto dal coronavirus; queste famiglie saranno raggiunte e aiutate.

Tutto ciò conferma peraltro che le condizioni sanitarie ed economiche a Gaza sono disastrose, le necessità fondamentali dei palestinesi non sono coperte e ciò che le agenzie internazionali e l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) forniscono è solo una piccola parte del necessario. Le agenzie governative di Gaza forniscono cibo e bevande a 1.600 palestinesi in centri di quarantena; queste agenzie soffrono da tempo di un grave deficit economico, che richiede un’urgente iniezione di finanze.

Il lancio di un missile da Gaza verso Israele potrebbe essere il messaggio palestinese a Israele che le condizioni a Gaza non sono accettabili e che qualsiasi tentativo israeliano di esimersi dal provvedere alle richieste umanitarie e sanitarie di Gaza potrebbe significare che nel prossimo futuro i missili aumenteranno. Tuttavia, è improbabile che si arrivi ad uno scontro a pieno titolo tra Hamas e Israele, piuttosto ad un processo di progressiva intensità, per diversi giorni, se il virus si diffondesse tragicamente a Gaza.

Middle East Monitor ha appreso da fonti palestinesi che Hamas ha inviato un messaggio a Israele attraverso dei mediatori regionali e internazionali: “Hamas considera Israele direttamente responsabile del deterioramento delle condizioni di vita e salute a Gaza e non rimarrà inerte di fronte alla diffusione del coronavirus, perché Hamas crede che Israele sia tenuto a agire per impedire il collasso del sistema sanitario, con aiuti diretti o attraverso l’ANP o le agenzie internazionali “.

Hamas non ha rivendicato il lancio di missili contro Israele e potrebbe non essere nel suo interesse impegnarsi in un esteso confronto militare. Tuttavia, l’attuale peggioramento delle condizioni nella Striscia di Gaza, l’aumento dei casi di coronavirus, la mancanza di attrezzature mediche sufficienti per esaminare i pazienti e la mancanza di supporto finanziario necessario per aiutare coloro che non possono lavorare in quanto costretti a rimanere a casa, possono intensificare l’effetto a catena. Hamas potrebbe decidere un incremento di violenza contro Israele per costringerlo a fornire le scorte insufficienti a Gaza. Hamas pensa che Israele corrisponderà alle sue richieste, per essere libero di affrontare la diffusione su larga scala del coronavirus tra gli israeliani.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dallinglese di Luciana Galliano)




Israele trasforma in propaganda il plauso dell’ONU

Tamara Nassar

2 aprile 2020 – Electronic Intifada

Alcuni funzionari dell’ONU stanno elogiando Israele nonostante il modo in cui tiene i palestinesi in condizioni di scarsità di servizi sanitari basilari mentre affrontano la pandemia di COVID 19. António Guterres, segretario generale dell’ONU, si è persino rallegrato della cooperazione tra l’occupazione israeliana e l’Autorità Nazionale Palestinese nell’arginare la minaccia del nuovo coronavirus.

Come prevedibile, Il suo elogio è stato sfruttato per scopi propagandistici dal ministero degli Esteri israeliano.

Nikolay Mladenov, l’inviato ONU per il Medio Oriente, ha descritto il coordinamento come “eccellente”.

Il coordinatore per gli aiuti umanitari dell’ONU Jamie McGoldrick ha fatto eco alle lodi del suo collega.

Foglia di fico

Non solo l’ONU plaude al cosiddetto coordinamento per la sicurezza tra l’esercito israeliano e l’ANP, ma fornisce anche una foglia di fico a Israele per nascondere i suoi continui attacchi contro il diritto alla salute dei palestinesi.

Israele ha il dovere giuridico di garantire questo diritto. In quanto potenza occupante, in base al diritto internazionale Israele è obbligato a garantire ai palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza le infrastrutture necessarie.

Invece per più di un decennio Israele ha ripetutamente compromesso e danneggiato il sistema sanitario di Gaza, riducendo sistematicamente la fornitura di cibo, carburante, medicinali e materiale da costruzione alla Striscia al punto da calcolare persino il numero minimo di calorie che ogni persona potrebbe consumare per non morire di fame.

Oltre ad imporre un assedio devastante, Israele ha scatenato tre gravi attacchi, spianando interi quartieri e uccidendo migliaia di palestinesi. Dopo ogni invasione ha gravemente intralciato la ricostruzione.

“Le restrizioni al movimento e all’accesso, e ora uno stato d’emergenza imposto a livello mondiale dalla pandemia, sono stati la situazione quotidiana per i palestinesi di Gaza da circa 13 anni,” ha affermato questa settimana Al Mezan, un’associazione per i diritti umani di Gaza.

In Cisgiordania Israele ha continuato ad aggredire le comunità palestinesi, ha sequestrato attrezzature per la costruzione di ospedali da campo, ha confiscato pacchi di alimenti per famiglie in quarantena, ha fatto incursioni in casa nel cuore della notte ed ha continuato con gli arresti arbitrari di minorenni.

Tutte queste attività espongono le comunità palestinesi a un maggior rischio di contrarre il virus.

Hanan Ashrawi, membro del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ha commentato uno di questi raid nella città della Cisgiordania occupata di Ramallah, sede dell’Autorità Nazionale Palestinese, paragonando le forze israeliane ad “alieni ostili senza alcun rapporto con l’umanità.”

Tuttavia Ashrawi non ha fatto alcuna menzione a come normalmente l’Autorità Nazionale Palestinese collabora con l’occupazione militare israeliana.

L’apparato statale di polizia dell’ANP gioca un ruolo molto importante nel reprimere il dissenso palestinese per conto dell’esercito israeliano, arrestando frequentemente attivisti e condividendo informazioni con gli investigatori israeliani.

Ora Israele si congratula con se stesso in quanto si è guadagnato le lodi delle Nazioni Unite per aver fornito il minimo indispensabile alle persone che sottopone all’occupazione e all’assedio.

La propaganda dell’occupazione

Il COGAT, l’organo burocratico dell’occupazione militare israeliana che sovrintende alla punizione collettiva dei due milioni di abitanti di Gaza, spesso usa Twitter per vantarsi di aver inviato alla Striscia kit di analisi ed altre apparecchiature. Questi invii vengono presentati come gesti di buona volontà.

Tuttavia consentire a qualche prodotto di arrivare ai palestinesi non è molto, dato che il COGAT controlla tutto il movimento dei beni dentro e fuori la Striscia di Gaza.

Anche l’OCHA, agenzia di monitoraggio dell’ONU, ha rilevato la “stretta collaborazione senza precedenti” tra le autorità palestinesi ed israeliana dall’inizio dell’attuale crisi sanitaria.

L’organizzazione ha riconsociuto ad Israele di aver agevolato l’Autorità Nazionale Palestinese nell’ importazione di 10.000 kit di analisi e di aver tenuto una formazione per equipe mediche nell’ospedale al-Makassed della Gerusalemme est occupata.

Questi presunti esempi di generosità hanno fornito materiale bell’e pronto al COGAT da sfruttare a fini di propaganda.

Il COGAT ha anche limitato gli spostamenti di milioni di palestinesi nella Cisgiordania occupata con posti di controllo militari.

I checkpoint provocano quotidiane sofferenze ai palestinesi. Eppure il COGAT ha esaltato come il loro incremento “migliorerà la qualità di vita della popolazione della regione.”

Nel contempo un rapporto stilato da associazioni per i diritti umani ha evidenziato l’“impunità cronica” di Israele riguardo all’uccisione e alla mutilazione di personale medico palestinese.

Il rapporto è stato firmato da Al Mezan di Gaza e dalle associazioni benefiche con sede nel Regno Unito “Medical Aid for Palestinians” [Soccorso Medico per i Palestinesi] e “Lawyers for Palestinian Human Rights” [Avvocati per i Diritti Umani dei Palestinesi].

Vi si afferma che l’impunità cronica “rende più probabile che ciò si ripeta.”

Israele ha anche metodicamente negato o ritardato la concessione di permessi di viaggio per i palestinesi che necessitano di cure mediche fuori da Gaza.

Quindi perché le Nazioni Unite stanno lodando Israele perché fa il minimo possibile per la popolazione che aggredisce ed opprime?

Come scrisse il famoso scrittore palestinese Ghassan Kanafani: “Ci rubano il pane, ce ne danno una briciola, poi ci chiedono di ringraziarli della loro generosità…Che sfacciataggine!”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La battaglia dell’acqua in Palestina ( II Parte)

Francesca Merz

25 marzo 2020 Nena News

(per la leggere la prima parte clicca qui)

Fin dal 1936 era stata proposta una «Jordan Valley Authority » posta sotto controllo internazionale. In gran parte, questa idea fu ripresa per la valle del Giordano dal Piano Johnston, dal nome di un inviato del Presidente americano Eisenhower, con l’intento di creare tra il 1954-1955 un’autorità regionale, fondata su una cooperazione fra gli Stati bagnati dal Giordano, allo scopo di attribuire e gestire al meglio le risorse d’acqua. Anche in questo caso Israele non fu d’accordo, e nel 1959, per tutta risposta, approvò una legge secondo la quale rendeva le risorse idriche «una proprietà pubblica (…) sottoposta all’autorità dello Stato». Con questa legge vede di fatto la nascita un sistema che impedisce ai Palestinesi di disporre liberamente delle loro risorse idriche.

E’ il 1967, e subito dopo le invasioni di Gaza e Cisgiordania, le prime due disposizioni introdotte, riguardano proprio l’argomento acqua: la prima è la proibizione alla costruzione di qualsiasi nuova infrastruttura idrica, di perforazione e di nuovi pozzi, senza autorizzazione; la seconda è la confisca delle risorse idriche, che vengono dichiarate proprietà dello Stato, in conformità alla legislazione israeliana sull’acqua. La quantità d’acqua a disposizione degli agricoltori della Cisgiordania è congelata proprio a quel 1967: il plafond è fissato a 90-100 milioni di metri cubi all’anno, per 400 villaggi, assai diversa la quantità d’acqua messa a disposizione delle colonie ebraiche, che è aumentata del 100% nel corso degli anni Ottanta. A questo si aggiunga la perquisizione degli antichi pozzi palestinesi in ottemperanza alla famosa «legge sulla proprietà degli assenti ». Non è questa la sede poi per approfondire la quantità di limitazioni imposte da Israele in Cisgiordania, regioni sottoposte a razionamento, distretti di drenaggio, aree di sicurezza militare, come nel caso di una striscia di terra lungo il Giordano, dichiarata «zona militare », che i Palestinesi utilizzavano a scopo di irrigazione. Nella Striscia di Gaza, prima del 1967, non esisteva alcun sistema di permessi e l’utilizzazione dell’acqua dipendeva dal diritto consuetudinario. In seguito, attraverso le ordinanze militari n° 450 e 451 del 1971, il diritto di concedere licenze di utilizzazione dell’acqua, prerogativa del Direttore del catasto giordano, veniva trasferito alle autorità israeliane. Secondo diverse fonti, dopo il 1967, sono stati concessi dai 5 ai 10 permessi. Allo stesso modo, come in ogni colonizzazione che si rispetti, anche il rifacimento e la manutenzione dei pozzi sono sottoposti ad autorizzazioni israeliane, mai accordate.

La finalità, anche questa tipica del colonialismo, come ci ricorda già il sempre illuminante Neve Gordon, nel suo testo “L’occupazione israeliana”, era quella di porre i Territori palestinesi in una situazione di dipendenza giuridica, amministrativa ed economica. A partire dal 1967, la Mekorot, l’azienda israeliana che controlla i rifornimenti d’acqua sul territorio, ha sviluppato reti di distribuzione in favore di un profitto quasi esclusivo per le colonie, mentre nei settori palestinesi serviti dalla Mekorot, lo stato di manutenzione è tale che fino al 40% dell’acqua trasportata in Cisgiordania è persa in rete. A Gaza, la situazione è ancora più drammatica, dato che la falda acquifera costiera super sfruttata viene infiltrata attualmente dall’acqua del mare. Le distruzioni delle reti idriche e delle riserve obbligano a far arrivare l’acqua tramite camion-cisterna, facendone rincarare il prezzo, che può arrivare fino a 40 NIS/metro cubo (più di 8 euro), vale a dire un prezzo quasi 10 volte più alto di quello inizialmente richiesto dalle municipalità. Se gli Israeliani beneficiano dell’acqua corrente tutto l’anno, i Palestinesi sono vittime di interruzioni arbitrarie, in particolar modo durante l’estate. Per quel che riguarda il prezzo pagato da un consumatore palestinese, l’acqua è fortemente sovvenzionata per le colonie ebraiche, mentre un Palestinese deve pagarla 4 volte più cara di un colono per accedervi. D’altra parte l’acqua e la sua riduzione fa ridurre drasticamente anche la già scarsissima possibilità che aveva l’agricoltura palestinese di poter competere in un mercato fatto di mille restrizioni alla circolazione dei beni. In aggiunta, il 75 % delle acque del Giordano sono deviate da Israele prima che queste bagnino i Territori.

A Gaza, proprio ai margini della Striscia, il governo israeliano ha costruito delle pompe che seccano in buona parte i pozzi palestinesi, la cui acqua disponibile risulta salmastra e oramai inquinata. Non esistono corsi d’acqua nella striscia di Gaza, ma un Wadi che raccoglie le acque di molti wadi della regione. Gli Israeliani hanno disposto piccoli sbarramenti su questi wadi e la sola acqua che scorre ormai nel Wadi Gaza è quella già usata e non ritrattata della città di Gaza.

Dulcis in fundo, come se ci fosse qualcosa di non amaro in tutto questo, come già detto, i Palestinesi non hanno il diritto di perforare pozzi, mentre i coloni lo possono fare e sempre più a grandi profondità (dai 300 ai 500 metri) non solo infatti viene proibito ai Palestinesi di perforare dei nuovi pozzi senza l’autorizzazione militare israeliana, ma soprattutto i loro pozzi non possono arrivare oltre i 140 metri di profondità, mentre quelli dei coloni hanno la potenzialità di arrivare oltre gli 800 metri. Un rapporto dell’ONU indica che fra la firma degli accordi di Oslo del 1993 e del 1999, sono stati distrutti 780 pozzi che fornivano acqua per uso domestico e per l’irrigazione. Nel marzo 2003, ed in seguito all’inizio della Seconda Intifada, i danni procurati nei Territori occupati potevano enumerarsi come segue : 151 pozzi, 153 sorgenti, 447 cisterne, 52 cisterne mobili (tankers), 9.128 serbatoi da abitazione, 14 bacini di riserva, 150 km di condutture e canalizzazioni che collegavano più di 78.000 abitazioni. Come ho già avuto modo di spiegare in un precedente articolo, dal titolo “i fiori del deserto”, la nascita di questa leggenda che pone Israele, come unico Stato capace di far fiorire il deserto, ha purtroppo un’origine macabra, quei fiori fondano la loro crescita su un sistema che non solo, come abbiamo brevemente analizzato, non rispetta la scarsità delle risorse, oggettiva a tutto il territorio, ma distrugge al contempo un fragilissimo ecosistema, schiacciando giornalmente i più basilari diritti umani.

Per sostenere questo sistema di fioritura Israele sta da anni affrontando una delle crisi più ampie sul rifornimento di acqua, il lago di Tiberiade, che era stata la principale fonte d’acqua potabile per Israele, si sta prosciugando. Da un paio di decenni, resisi conto che il problema stava divenendo assai importante per tutta l’economia dello Stato, le autorità israeliane hanno avviato un piano di desalinizzazione dell’acqua di mare riuscendo a ridurre la quantità di acqua che veniva estratta dal lago per irrigare le vaste coltivazioni del deserto. Tiberiade rimane però in condizioni sempre sotto soglia. Il governo israeliano era arrivato a prendere 400 milioni di metri cubi all’anno di acqua, per poter gestire la sempre maggiore richiesta idrica per coltivazioni, allevamenti e colonie con esigenze ben lontane da quel calibrato uso delle risorse che era stato attuato per secoli dalle comunità storiche. È il motivo per cui Israele aveva deciso di investire circa 250 milioni di euro per pompare nel lago acqua presa dal Mediterraneo, che dista circa 50 chilometri, e in seguito desalinizzarla. È risultata però un’impresa complicata, perché mai nella storia un lago di acqua dolce è stato ri-riempito in questo modo, una volta installate tutte le pompe, ci si aspettava di stabilizzare il livello del lago entro il 2020, obiettivo che appare quanto mai lontano. I lavori fanno parte di un ancora più grande piano del Ministro dell’Energia Yuval Steinitz, che vuole raddoppiare la quantità d’acqua che Israele desalinizza ogni anno, e che al momento è pari a circa 600 milioni di metri cubi.

Il problema dell’acqua, abbiamo visto, è stato vivo sin dall’inizio dell’occupazione: la crescente quantità di popolazione, e le necessità di una popolazione con abitudini occidentali, hanno comportato fin dall’inizio la necessità di controllare le risorse idriche del territorio. Il 90 per cento dell’acqua del Giordano viene portata al Negev per il progetto sul deserto, non solo bypassando tutte le necessità dei palestinesi sulla strada, ma sballando completamente tutti gli equilibri naturali. Assolutamente esemplare è l’esempio della valle di Gerico, in cui sono sorte 33 colonie, per la maggior parte specializzate in monocolture molto richieste dal mercato interno e internazionale, come il caffè e il the, piantagioni tipicamente inadatte al luogo, e che tendono ad inaridire terreni, che avrebbero necessità di colture a rotazione. Parallelamente, proseguendo nella valle, le intense monocolture sono invece di ananas, banane, palma da dattero, manghi, avocados. Coltivazioni non endemiche, disadatte alla ciclicità e al naturale rinnovamento del terreno; in tutta la valle di Gerico e non solo, sono completamente scomparsi gli alberi più caratteristici del territorio, ovvero gli alberi di arance, il commercio delle arance, come tristemente ci racconta anche l’esperienza economica siciliana, era troppo poco redditizio rispetto a datteri, manghi o avocados, cibi che oramai con la nuova cultura alimentare sono molto più richiesti e vengono pagati maggiormente.

La gestione di questo modello economico, e i progetti di immensa portata, che prevedono la costruzione di pompe idrauliche e la desalinizzazione progressiva delle acque pompate dal mare, sono salutati dalla comunità internazionale con l’afflato salvifico che fa come sempre di Israele il salvatore di un territorio arido, senza invece capire minimamente che questa immensa opera è pensata per arginare i danni irreversibili di uno sviluppo economico insostenibile sul piano ambientale, prosciugando il lago di Tiberiade, il Giordano e conseguentemente il Mar Morto, a causa di una politica dello spreco senza precedenti. Il medesimo discorso fatto per Tiberiade vale ovviamente per il Mar Morto, il calo dei livelli di acqua non è il solo risultato dei cambiamenti climatici, ma è dovuto all’aumentato uso delle acque degli immissari che dovrebbero rifornire il lago per l’irrigazione, e allo sfruttamento per l’estrazione di minerali. Il bacino è alimentato principalmente dal fiume Giordano, che si immette nel lago a nord, ma il Giordano non ha emissari, dunque modificando il suo corso prelevando una ingente parte delle sue acque per l’agricoltura e le colonie, il contraccolpo non solo sul fiume stesso ma anche sul mar Morto è risultato insostenibile: il ritiro dell’acqua ha lasciato intere sezioni del lago completamente secche, e questa rapida diminuzione del livello del Mar Morto ha una serie di conseguenze dannose, che vanno dai più elevati costi di pompaggio per le fabbriche che utilizzano il Mar Morto per estrarre il cloruro di potassio, magnesio e sale, ad un accelerato deflusso delle acque dolci sotterrane e circostanti dalle falde acquifere, inoltre, sempre per portare i famosi “fiori nel deserto”, il Giordano da circa cinquanta anni viene sfruttato per irrigazione su larga scala sottraendo gran parte dell’acqua che da sempre alimenta il lago.

Buona giornata dell’acqua, a chi può considerarla un bene non in discussione, ma soprattutto, a chi non ha questa fortuna.




Il punto di vista di un epidemiologo sul COVID-19 in Palestina

Rob Lipton

2 aprile 2020 Mondoweiss

In deroga al mio solito focus su Muzzlewatch sui tentativi di censurare il BDS e su altri punti di vista “pro-palestinesi” e anti-sionisti, indosso le vesti del mio lavoro quotidiano come epidemiologo socio- territoriale per parlare di alcuni aspetti della pandemia COVID-19, in via di diffusione in Paestina e Israele. Questo nell’ambito di un ciclo di interventi che seguirà gli effetti della pandemia in Israele e Palestina. Chiaramente, questo evento mondiale avrà ripercussioni di vasta portata e molto imprevedibili.

La prima cosa da capire è che ci troviamo nei primissimi giorni della pandemia. Al momento della stesura di questo articolo, ci sono 6.360 casi in Israele con 33 morti, mentre in Palestina 155 casi e 1 morto. Queste [cifre] cresceranno rapidamente su entrambi i lati della linea verde. Ovviamente la Cisgiordania, prosciugata delle sue risorse, e Gaza, prigione a cielo aperto, sono a gravissimo rischio, come in questa sede è stato a lungo ribadito – ma, come è ovvio, i confini non sono qualcosa che il COVID-19 riconosca.

Il problema più importante riguarda la capacità di assistenza sanitaria, e la Palestina semplicemente non ha le risorse per affrontare alcun genere di forte impennata nelle cure di emergenza, le cure intensive e le cure post ricovero. Al momento della stesura di questo articolo la maggior parte dei casi gravi e dei decessi riguardano la popolazione più anziana e, a questo proposito, la piramide delle età in Cisgiordania e Gaza potrebbe essere effettivamente favorevole. Rispetto all’età della popolazione israeliana possiamo rilevare che ci sono molti più giovani in Palestina. Al momento, le persone anziane sono più a rischio di malattie gravi e decessi rispetto alle più giovani (anche se sembra che, negli Stati Uniti, anche gli adulti relativamente più giovani, di età compresa tra 25 e 44 anni, siano a rischio di ricovero). D’altra parte, sebbene i giovani possano contrarre una malattia lieve o essere asintomatici, queste persone risultano comunque contagiose. Non sappiamo con precisione cosa questo implicherà col procedere della pandemia.

Il problema più consistente, tuttavia, riguarda i confini artificiali e il controllo micro-territoriale dei movimenti dei palestinesi. L’impossibilità per i palestinesi, già abbastanza grave in tempi “normali”, di suddividere le risorse sanitarie in base alle necessità, di organizzare correttamente la popolazione in base alle esigenze di distanziamento sociale e di una razionale quarantena e di tracciare e testare correttamente le persone, prevedibilmente comporterà molti più casi di malattie gravi e di morti, al di là di ciò che potrebbe accadere in uno scenario meno ad ostacoli. Se Israele imporrà un duro coprifuoco / quarantena alla Palestina, simile a quello del 2002 durante la seconda Intifada, diventerà estremamente difficile rispondere alla pandemia in crescita, fino al punto di vietare la libertà di movimento di ambulanze e operatori di Pronto Soccorso.

Una popolazione segregata, che sia per la porosità dei confini della Cisgiordania che per il contesto carcerario di Gaza, fa sì che il coronavirus sarà molto più grave per i palestinesi e lo stesso per gli israeliani, perché ci sarà un enorme serbatoio di infezione facilmente travasabile tra popolazioni contigue. La struttura a patchwork della Cisgiordania implica che sarà davvero difficile mantenere un effettivo isolamento in quanto palestinesi e israeliani vivono essenzialmente fianco a fianco. Questa situazione sarà aggravata dalla mancanza, in Palestina, di risorse sanitarie disponibili. Le malattie gravi dei palestinesi sono spesso curate in Israele e possiamo facilmente immaginare una situazione di quarantena “stretta” che impedisca tale assistenza sanitaria. Inoltre, se il sistema sanitario israeliano risultasse sovraccarico, ci sarebbero ancora minori possibilità per tutte le persone in Israele e in Palestina.

Rob Lipton è membro di lunga data di Jewish Voice for Peace, ha scritto per il Muzzlewatch di JVP, è stato membro dell’ISM [Movimento Internazionale di Solidarietà, ONG impegnata nel sostegno della causa palestinese, ndtr.] ed è stato il direttore di FAIR [organizzazione che monitora le notizie dei media degli Stati Uniti per “inesattezza, pregiudizi, e la censura”, ndtr.] di Los Angeles durante la prima guerra del Golfo. È poeta laureato a Richmond, California e epidemiologo territoriale.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)