Rapporto OCHA del periodo 4 – 17 febbraio 2020

Il 6 febbraio, in tre distinti attacchi e presunti attacchi palestinesi, due palestinesi sono stati uccisi e 14 soldati israeliani sono rimasti feriti

[segue dettaglio]. Nella Città Vecchia di Gerusalemme, un palestinese 45enne, cittadino israeliano, dopo aver aperto il fuoco ed aver ferito un agente di polizia di frontiera, è stato ucciso dalle forze di polizia israeliane. A Gerusalemme Ovest, un palestinese ha investito con la sua auto un gruppo di soldati israeliani, ferendone 12; l’uomo è stato successivamente arrestato al bivio di Gush Etzion (Hebron). Nello stesso giorno, il 6 febbraio, nei pressi del villaggio di Deir Ibzi (Ramallah), palestinesi, secondo quanto riferito, hanno sparato contro soldati israeliani, ferendone uno; il 17 febbraio, l’esercito israeliano ha comunicato di aver trovato il corpo di un presunto attentatore: l’uomo sarebbe morto per le ferite riportate durante lo scontro a fuoco con i soldati israeliani. In un ulteriore episodio, accaduto il 17 febbraio nella città di Hebron, ad un checkpoint nell’area controllata da Israele, un palestinese ha tentato di pugnalare dei soldati israeliani ed è stato arrestato; non sono stati segnalati feriti.

Il 6 febbraio, in scontri scoppiati durante una demolizione “punitiva” nella città di Jenin, le forze israeliane hanno sparato, uccidendo due palestinesi e ferendone altri nove. Una delle vittime è un 19enne e l’altra un poliziotto palestinese che, secondo quanto riferito, al momento degli scontri si trovava all’interno della stazione di polizia. Secondo fonti israeliane, durante gli scontri in questione, palestinesi hanno sparato e lanciato due ordigni esplosivi contro i soldati; non sono stati segnalati ferimenti di israeliani.

In Cisgiordania, durante molteplici scontri scoppiati in risposta al piano americano per il Medio Oriente, annunciato il 28 gennaio, sono stati uccisi dalle forze israeliane altri due palestinesi e oltre 100 sono rimasti feriti. Le due vittime sono un minore di 17 anni, ucciso nella città di Hebron il 5 febbraio, e un 19enne, ucciso il 7 febbraio vicino a un cancello della Barriera, nei pressi del villaggio di Qaffin (Tulkarm). Altri scontri, con gran numero di feriti, sono stati registrati vicino al checkpoint di Beit El / DCO (Ramallah), all’ingresso della città di Gerico, nel villaggio di Beita (Nablus), e nelle città di Al ‘Eizariya e Abu Dis (governatorato di Gerusalemme). Tra i feriti ci sono 21 minori. Oltre il 70% dei feriti sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeno, il 24% è stato colpito da proiettili di gomma e il 2% da proiettili di arma da fuoco.

In altri scontri, registrati durante il periodo di riferimento, altri 138 palestinesi, tra cui sette minori, sono stati feriti dalle forze israeliane. Oltre il 60% di questi feriti (88) si sono avuti durante scontri scoppiati nel contesto di tre operazioni di ricerca-arresto condotte a Beit Jala (Betlemme) a seguito del presunto investimento volontario del 6 febbraio [vedi 1° paragrafo]. Il 24% [dei 138 feriti] sono stati registrati durante le proteste settimanali nel villaggio di Kafr Qaddum (Qalqiliya) ed i rimanenti in altri scontri; tra cui [quello avvenuto durante] il funerale del poliziotto ucciso nella città di Jenin [vedi 2° paragrafo]. Questi episodi portano a sei il numero di palestinesi uccisi da forze israeliane in Cisgiordania e Israele ed a 623 il numero di feriti dall’inizio del 2020.

Il 15 febbraio, nel quartiere di Al Isawiya a Gerusalemme Est, mentre stava tornando a casa da scuola, un ragazzo palestinese di 9 anni è stato colpito ad un occhio da un proiettile di gomma sparato da un poliziotto israeliano. Il ragazzo è rimasto ferito in modo grave ed ha perso l’uso dell’occhio. Al momento dell’accaduto non risulta fossero in corso scontri. Le autorità israeliane hanno annunciato l’apertura di un’indagine penale. Dalla metà del 2019, ad Al Isawiya sono in corso consistenti operazioni di polizia che, per almeno 18.000 residenti, sono causa di tensioni e disagi quotidiani.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 135 operazioni di ricerca-arresto, arrestando 132 palestinesi, tra cui otto minori. La maggior parte delle operazioni sono state effettuate nel Governatorato di Ramallah (34), seguito dai Governatorati di Hebron (30) e Gerusalemme (26).

È proseguito, da Gaza verso Israele, il lancio di proiettili, nonché di fasci di palloncini recanti esplosivo; sia i proiettili che i palloncini sono atterrati in aree aperte all’interno di Israele, o sono stati intercettati in aria. Nella città di Netivot, due israeliani sono rimasti feriti mentre correvano verso un rifugio. Questi episodi sono stati seguiti da attacchi aerei israeliani contro strutture militari di Gaza; non sono state segnalate vittime, ma nel Campo Profughi Beach è stata danneggiata una conduttura per lo scarico in mare dell’acqua piovana.

In almeno 53 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso palestinesi presenti in aree [di Gaza] adiacenti alla recinzione perimetrale israeliana ed al largo della costa di Gaza [cioé, in “Aree ad Accesso Riservato”, vietate ai palestinesi]; un pescatore palestinese è rimasto ferito e due barche sono state danneggiate dalle forze navali israeliane. In tre occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza (a Beit Lahia, al Campo di Al Maghazi e Khan Younis) ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

In Area C e Gerusalemme Est, citando la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o costretto i palestinesi a demolire 24 strutture, sfollando 23 persone e causando ripercussioni su altre altre 88 [segue dettaglio]. Tredici delle strutture demolite, di cui tre precedentemente fornite come aiuto umanitario, erano situate in Area C. Tra i casi più rilevanti, due si sono verificati vicino alla città di Hebron (Al Hijra) ed a Deir Qaddis (Ramallah), dove sono state demolite tre strutture di sostentamento, due locali ad uso agricolo e due latrine. Sempre in Area C, nella città di Hebron, le autorità israeliane hanno demolito una abitazione ed una latrina fornite come assistenza umanitaria, sfollando una famiglia di sette persone. Le restanti undici strutture colpite si trovavano a Gerusalemme Est; cinque di queste sono state demolite dai proprietari, a seguito degli ordini di demolizione.

Il 6 febbraio, nella città di Jenin, per la seconda volta le autorità israeliane hanno demolito una casa per motivi “punitivi”, sfollando sette persone, tra cui due minori. La casa apparteneva alla famiglia di un palestinese, attualmente in carcere, che, nel gennaio 2018, partecipò ad un attacco in cui fu ucciso un colono israeliano. Dopo la prima demolizione, avvenuta il 23 aprile 2018, la casa era stata ricostruita.

Cinque attacchi, attribuiti a coloni israeliani, hanno provocato il ferimento di tre palestinesi e danni a proprietà palestinesi [segue dettaglio]. Il 16 febbraio, coloni israeliani armati hanno fatto irruzione nel villaggio di Ein ar Rashash (Ramallah), dove hanno aggredito e ferito tre residenti palestinesi ed hanno danneggiato la loro casa. Secondo fonti locali palestinesi, in due episodi separati, coloni israeliani hanno vandalizzato almeno 5 ettari di coltivazioni nel villaggio di Iskaka (Salfit), colpendo i mezzi di sussistenza di sette famiglie, mentre, nel villaggio di Beitillu (Ramallah), hanno vandalizzato 30 ulivi. Nei villaggi di Deir Dibwan e Beitin (entrambi a Ramallah), coloni israeliani hanno vandalizzato 15 veicoli di proprietà palestinese e due case.

Secondo fonti israeliane, a seguito di lanci di pietre e bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro auto percorrenti strade della Cisgiordania, tre israeliane (una ragazza e due donne) sono rimaste ferite e almeno 12 veicoli israeliani sono stati danneggiati.

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Ultimi sviluppi (successivi al periodo di riferimento)

Secondo quanto riferito, in risposta alla recente diminuzione del lancio di razzi e palloni incendiari da Gaza, il 18 febbraio le autorità israeliane hanno ampliato da 10 a 15 miglia nautiche la zona di pesca consentita [ai pescatori palestinesi] al largo della costa meridionale; hanno inoltre riattivato 500 permessi di uscita per le persone classificate come “uomini d’affari”.

Il 19 febbraio, il Comune di Gerusalemme ha annunciato che fermerà per sei mesi la demolizione di case nel quartiere di Al Isawiya, nella parte orientale di Gerusalemme. Dall’agosto 2019, ad Al Isawiya sono state demolite tredici strutture, di cui sette abitative, e per decine di altre sono in corso ordini di demolizione.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali. Il neretto è di OCHAoPt.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Per Angela Merkel, «Israele uber alles !»

Iqbal Jassat

19 febbraio 2020Palestine Chronicle

Poco tempo dopo la sua visita in Sudafrica, il governo della Cancelliera tedesca Angela Merkel ha fatto un nuovo annuncio scioccante difendendo l’insieme delle azioni criminali di Israele e le sue gravi violazioni dei diritti umani.

La Germania ha preso la decisione vergognosa di minare il diritto internazionale contestando la competenza dell’Aja, affermando che la Corte Penale Internazionale (CPI) non ha il potere di indagare sui crimini di guerra di Israele contro i palestinesi.

In un’istanza depositata presso la CPI il governo Merkel ha chiesto di essere considerato « amicus curiae » (collaboratore non coinvolto nella causa giudiziaria) per impedire all’Aja di perseguire il regime di Netanyahu.

Dopo lunghi periodi di rinvii, a dicembre la procuratrice della CPI Fatou Bensouda ha finalmente annunciato che sussistono ragionevoli presupposti per indagare sulle azioni di Israele.

Ha tuttavia lasciato aperta una voragine che viene sfruttata da Israele e dai suoi alleati come la Germania. Bensouda ha chiesto all’Aja di pronunciarsi sulla questione della sua competenza, cosa che potrebbe inficiare e compromettere ogni possibilità di perseguire e punire i criminali di guerra del regime colonialista.

E questo nonostante che l’Ufficio della Procura abbia insistito sul fatto che Israele ha distrutto proprietà palestinesi, espulso con la forza palestinesi dalla Cisgiordania occupata e da Gerusalemme est. Bensouda ha anche incluso nel suo atto d’accusa crimini di guerra commessi nella Striscia di Gaza occupata durante l’operazione ‘Margine protettivo’ del 2014, oltre all’operazione israeliana di espulsione degli abitanti palestinesi del villaggio beduino di Khan al-Ahmar e alla costruzione di colonie in Cisgiordania.

La decisione poco accorta di Merkel di prendere le parti di Israele rafforza l’attacco di Netanyahu contro la CPI. In una recente intervista rilasciata ad una catena televisiva cristiana, il dirigente israeliano, che è stato incriminato per frode e corruzione [in Israele], ha falsamente affermato che la CPI sta conducendo un “attacco frontale” contro gli ebrei ed ha sfacciatamente invocato sanzioni contro l’Aja.

L’argomentazione della Germania nella sua istanza sembra un «copia e incolla» delle dichiarazioni di Israele, che sostiene che la competenza della CPI non si estende ai territori palestinesi occupati perché la Palestina non è uno Stato. Incredibilmente, in questo modo la Germania ignora il fatto che la Palestina è firmataria dello Statuto di Roma della CPI.

Non solo è disonesto da parte tedesca non rispettare i diritti della Palestina, ma, tentando di indurre in errore la CPI, il governo Merkel legittima settant’anni di disumanizzazione dei palestinesi da parte di Israele.

Mentre la vergognosa collusione di Merkel con Netanyahu da alcuni può essere vista come un colpo di fortuna per lui in un momento in cui rischia il carcere, per i palestinesi è chiaro che la Germania ha tradito la loro giusta e legittima causa per la giustizia. Come possono le famiglie dei martiri interpretare in altro modo l’istanza scioccante e ingiusta di Merkel, che sostiene che la CPI non ha nemmeno il potere di discutere se Israele ha commesso dei crimini di guerra?

Essendo la Germania uno dei principali membri del Tribunale dell’Aja, ha l’ingiustificato vantaggio di poter influenzare un risultato che nuocerà alle rivendicazioni di giustizia dei palestinesi. La decisione così spudorata di Merkel di schierarsi al fianco di Netanyahu è quindi un abuso di potere a causa della sua posizione privilegiata al momento delle udienze.

Gli ultimi rapporti indicano che, oltre alla Germania, Israele è attivamente impegnato nel reclutamento di diversi Paesi che appoggino la sua causa in quanto “rappresentanti non ufficiali”, poiché esso stesso ha deciso di non partecipare in modo da “evitare di dare legittimità” alla CPI.

L’Ungheria e la Repubblica Ceca, come anche l’Austria, l’Australia e il Canada si sono uniti per sostenere l’impunità di Israele.

Benché la Procuratrice Bensouda ritenga che la Palestina sia «sufficientemente uno Stato » perché all’Aja venga trasferita la giurisdizione penale sul suo territorio, la sua richiesta di verifica di questo punto di vista può far fallire l’inchiesta, essendoci una battaglia giuridica riguardo alla definizione di ciò che costituisca uno “Stato”. 

L’attacco contro la CPI – con gli appelli di Netanyahu a sottoscriverlo – arriva proprio dopo la pubblicazione da parte dell’ONU di un elenco di 112 imprese legate alle colonie illegali di Israele. E, nello stesso spirito contrario all’etica, il regime di apartheid ha attaccato il commissario delle Nazioni Unite definendolo partigiano e strumento del movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni).

Schierarsi dalla parte di Netanyahu per mascherare i suoi terribili crimini contro i palestinesi può consentire alla Merkel di evitare la collera di Israele, ma questo pone la Germania dalla parte sbagliata della storia – ancora una volta !

Anche se appare incongruo che la Germania ed una manciata di Paesi vogliano impedire l’esercizio della giustizia da parte dell’Aja – cosa che peraltro si sforzano di fare – è vero che, per quanto riguarda i palestinesi, il fatto di schierarsi a fianco di Israele permette a questo Stato delinquente di continuare a commettere crimini di guerra e violazioni del diritto umanitario internazionale.

Alcuni commentatori hanno sostenuto a giusto titolo che questa assurda difesa della sistematica condotta criminale di Israele possa rappresentare un colpo mortale per la CPI.

Il timore che viene espresso è che l’azione della Cancelliera Merkel sia miope, creando un buco nero legale nei territori palestinesi occupati che potrebbe comportare la distruzione di una CPI già fortemente screditata.

Israele spera che, distorcendo i fatti e sviando gli obbiettivi della CPI, ne uscirà indenne. Le sue speranze poggiano sulla Cancelliera Merkel in quanto principale dirigente europeo che può distogliere l’Aja dalle sue responsabilità impegnandola in una battaglia giuridica semantica priva di senso, come è la questione della “giurisdizione”, e contestando la ratifica da parte della Palestina dello Statuto di Roma.

Mentre i giuristi internazionali saranno impegnati (si fa per dire) nella discussione sui concetti giuridici, spetta a Paesi come il Sudafrica alzare la voce contro i diversivi giuridici.

Il silenzio a fronte di questo ostacolo giuridico inventato di sana pianta sarà interpretato come una rinuncia a far rispettare e a difendere i diritti umani dei palestinesi.

Iqbal Jassat è membro esecutivo di Media Rewiew Network, con sede in Sudafrica.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Nuovo servizio di salute mentale a Gaza: un progetto di controllo psicologico

Samah Jabr

14 febbraio 2020 – Middle East Monitor

In marzo nel nord della Striscia di Gaza, nei pressi del valico di Erez, inizierà ad operare un ospedale da campo costruito dal gruppo di soccorso israeliano “Natan” insieme all’organizzazione evangelica cristiana statunitense “Friend Ships” [Navi Amiche].

Le autorità della Ramallah occupata hanno affermato che il progetto, capeggiato da donatori filo-israeliani, è una copertura per operazioni americane e israeliane di intelligence. Il primo ministro dell’ANP Mohammed Shtayyeh ha accusato l’ospedale di essere funzionale al “piano per la pace” dell’amministrazione Trump; ma sfortunatamente le proteste hanno inteso danneggiare l’immagine pubblica delle autorità di Gaza più che analizzare e spiegare ai palestinesi, comprese le autorità di Gaza, il danno intenzionale di un tale progetto. Come reazione, il portavoce di Hamas, Hazem Qassim, è rimasto sulla difensiva, dicendo a Dunya Al-Watan [portale di notizie]: “Loro (l’Autorità Nazionale Palestinese) confondono quelli (i loro timori) con informazioni immaginarie.”

Ho visto inserzioni per cercare volontari internazionali, compresi professionisti della salute mentale, perché lavorino nel progetto e ho scoperto quanto segue:

Natan”, una “organizzazione umanitaria no-profit” israeliana con sede a Tel Aviv fa parte di questo progetto, che tra le varie cose fornisce cure psicologiche tramite persone con passaporto non israeliano contattate per fornire servizi sanitari a Gaza.

Friend Ships e Natan hanno anche collaborato per fornire cure mediche ai siriani sul lato controllato dalla Siria delle Alture del Golan occupate.

Nella sua inserzione per [la ricerca di] volontari Natan afferma: “Questo nuovo centro di salute può influenzare direttamente la sicurezza israeliana riducendo la minaccia di violenze da Gaza migliorandovi la qualità di vita dei civili.” L’organizzazione utilizza l’usuale linguaggio israeliano per descrivere i palestinesi come una minaccia che deve essere tenuta sotto controllo in ogni modo possibile: niente riguardo alla giustizia, all’occupazione o alla necessità di togliere l’assedio. In questo caso “migliorarvi la qualità di vita dei civili” è una strategia di controllo ed egemonia.

L’inserzione menziona in particolare un membro della direzione di Natan, il maggiore generale Matan Vilnai, ex vice capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, che viene consultato per garantire la sicurezza dei volontari. L’annuncio non cita tuttavia il fatto che quest’uomo è stato imputato di crimini contro l’umanità per il bombardamento di Gaza nel 2009. Né fa riferimento alle sue minacce di genocidio contro i gazawi “che attireranno su di sé una Shoà più grande perché useremo tutta la nostra potenza per difenderci,” utilizzando la parola ebraica normalmente riservata per fare riferimento all’Olocausto ebraico.

L’equipe e i volontari presso il nuovo centro medico entreranno nel campo da Israele e i pazienti del lato palestinese attraverso checkpoint controllati da forze di occupazione israeliane scelte in base ai criteri di Vilnai: altro che umanitarismo!

Le politiche americane sostenute da Israele hanno danneggiato il settore della salute, soprattutto a Gaza. C’è una grave carenza di cure mediche, medicinali e materiale sanitario che nessuno può negare. Apparentemente il settore delle cure mediche sembra un tentativo di mitigare questa situazione premeditata, ma di fatto è un modo per imporre ulteriore controllo e dipendenza per i palestinesi più vulnerabili.

Israele ha fatto accordi con i pazienti palestinesi che sperano di lasciare la Striscia di Gaza per trattamenti sanitari per trasformarli in informatori contro il loro stesso popolo in cambio di permessi di uscita per avere accesso a cure mediche. Ha anche impedito ai genitori di accompagnare i figli molto malati fuori da Gaza, lasciando che i minori morissero da soli negli ospedali di Gerusalemme.

Israele ha imposto un assedio, ha danneggiato infrastrutture e provocato una situazione umanitaria terribile a Gaza, lasciandola nell’assoluta necessità di aiuti e dipendente dagli interventi umanitari dall’estero. Ciò ha reso i governanti di Gaza incapaci di vedere il chiaro danno psicologico e morale di questo progetto, che consente a Israele di lavarsi le mani dopo tutto il sangue che ha versato nella Striscia ed essere sia chi perpetra [crimini] che chi guarisce, in una dinamica del trauma estremamente complessa.

Un centro di salute controllato dall’esercito israeliano è l’antitesi di un luogo sicuro richiesto per cure psicologiche; un terapista volontario che accetti le premesse di un progetto per rafforzare la sicurezza di “Israele” e controllare la “violenza” palestinese non ha la consapevolezza necessaria e l’empatia richiesta per essere un terapeuta per i gazawi; di fatto, e nel migliore dei casi, questo è un progetto per migliorare le pubbliche relazioni a favore di Israele e garantire un’esperienza professionale molto eccitante a volontari in una zona di trauma.

Ovviamente ci sono altri potenziali rischi politici e per la sicurezza nell’utilizzo di questo complesso sanitario: domare la Marcia del Ritorno e far perdere la sincera solidarietà internazionale che invia la Freedom Flottilla con una piccola quantità di aiuti sanitari a Gaza. In un precedente articolo ho affermato che “un rapporto della UN Disengagement Observer Force [Forza di Osservazione del Disimpegno dell’ONU] (UNDOF) ha rivelato che Israele ha collaborato con gruppi jihadisti salafiti nelle Alture del Golan occupate. Questa collaborazione non si è limitata ad offrire aiuto medico ai membri di Jabhat Al-Nusra feriti. Al contrario, ci sono rapporti che descrivono il trasferimento di materiale non specificato da Israele ai siriani, così come incidenti in cui i soldati israeliani hanno lasciato passare siriani che non erano feriti.”

Temo che questo progetto non solo faccia arrivare materiale ed equipaggiamento dal confine siriano a quello di Gaza, ma anche competenze nell’uso del rapporto terapeutico e rapporti medici confidenziali per spiare la popolazione, creare divisioni e reclutare informatori e collaborazionisti.

L’11 novembre 2018 otto agenti israeliani in incognito travestiti da membri di una famiglia palestinese sono entrati a Gaza con l’obiettivo di installarvi impianti di spionaggio nel sistema di comunicazioni private di Hamas. Un’inchiesta ha scoperto che l’unità israeliana utilizzava mezzi di spionaggio e un’attrezzatura per la perforazione entrati a Gaza con la copertura dell’organizzazione umanitaria internazionale Humedica, un ente con sede in Germania che fornisce aiuti a Gaza.

Il responsabile di zona, Joao Santos, con passaporto portoghese, ha abbandonato Gaza il giorno dopo che l’operazione è fallita. Sarebbe un volontario.

In un momento in cui la politica internazionale sta consentendo a Israele di avere il controllo totale su terra e risorse, l’aiuto umanitario viene utilizzato per consentire il controllo delle menti dei palestinesi.

L’aiuto umanitario può essere un mascheramento di intenzioni sadiche e per mantenere la dominazione degli israeliani sui palestinesi. La giusta risposta a tutto ciò sono la promozione dell’autosufficienza palestinese e la fine immediata della separazione tra Gaza e Cisgiordania. I professionisti e i servizi palestinesi della salute mentale in Cisgiordania sono ansiosi di fornire una risposta e di soddisfare le necessità degli abitanti di Gaza appena avremo la libertà di farlo.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




I tagli dell’ANP provocano uno shock a Gaza

Isra Saleh el-Namey

10 febbraio 2020 – The Electronic Intifada

Inam Ibrahim non dimenticherà presto la mattinata faticosa e deludente che di recente ha dovuto affrontare. La donna cinquantatreenne ha aspettato per cinque ore all’interno della sua banca per ricevere il suo regolare sussidio da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese. Invece un impiegato le ha detto che il suo conto era vuoto e non c’era denaro da prendere. “Lo scorso dicembre” ha detto a The Electronic Intifada “ho seguito ansiosamente alla radio le notizie sui tagli da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese e sono rimasta in attesa di qualunque cosa riguardasse la distribuzione delle indennità. Ho cercato di andare presto in banca per riscuotere i sussidi per me e mia sorella. Ma quando ho saputo che non c’era niente da ritirare, sono scoppiata in lacrime e sono tornata a casa con il cuore spezzato.”

Inam e sua sorella sono entrambe cinquantenni, nubili e non hanno nessun’altra fonte di reddito a parte l’aiuto governativo. Ogni tre mesi le sorelle aspettano una sovvenzione totale di 220 dollari che le aiuti a coprire le necessità economiche.

L’assegnazione è gestita dall’Autorità Nazionale Palestinese, che ha sede nella città cisgiordana occupata di Ramallah.

Con quel sussidio pagavo alcune delle medicine per i miei forti dolori alla schiena e potevo andare spesso dal dottore,” afferma Inam. “Mia sorella Muna, che ha 56 anni, ogni volta prende la sua parte per le sue necessità. Quando otteniamo quei soldi paghiamo anche i debiti al negozio di alimentari.”

I nostri genitori,” dice Inam, “sono morti da molto tempo e nostro fratello vive con la sua famiglia lontano da noi. Riesce a malapena a mantenerla. Quindi non abbiamo altro che questo sussidio. Ne abbiamo bisogno. Le persone povere e in difficoltà come noi non devono essere coinvolte dai problemi politici.”

Shock

Molte altre persone si sono trovate ad affrontare lo stesso shock a causa dei tagli degli aiuti.

Aziza al-Kahlout, portavoce del ministero degli Affari Sociali di Gaza, dice a The Electronic Intifada che nelle ultime settimane più di 1.470 famiglie hanno sofferto dei tagli ai loro sussidi. Il ministero ha ricevuto molte lamentele e richieste da parte di famiglie perché approfondisca la questione.

Le famiglie sono scioccate” afferma. “Abbiamo difficoltà quando cerchiamo di spiegare loro la situazione e che stiamo facendo ogni sforzo per far capire ai politici di Ramallah le loro sofferenze. Allo stesso tempo continuiamo a coordinarci con i colleghi di Ramallah per risolvere questo problema”.

Aggiunge che il personale del ministero ha condotto verifiche su tutte le famiglie colpite dai tagli. Il ministero ha stabilito che tutti, tranne due casi, hanno diritto a ricevere le somme intere in quanto la maggioranza si trova in gravissime condizioni economiche o soffre di gravi malattie come cancro o insufficienza renale.

Altre ancora sono vedove o donne divorziate che devono occuparsi di bambini o giovani disabili. “La situazione è molto pesante” sottolinea Kahlout. “Ricevo visite quotidiane di persone che vengono a controllare cosa ne è dei loro casi e per sapere se saranno pagate o meno. Questi tagli drastici ed arbitrari determinano il fatto che parecchie migliaia di donne e bambini poveri siano lasciati senza cibo o cure.”

Abbiamo spiegato la situazione ai nostri colleghi di Ramallah e li abbiamo avvertiti delle sofferenze delle persone qui, ma finora la situazione non è cambiata.”

Al-Kahlout sostiene anche che il suo ministero deve far fronte a molte difficoltà nel seguire i casi, registrarli e aggiornare i dati, in quanto il ministero a Ramallah ha impedito ai suoi colleghi di avere accesso ai documenti che classificano le famiglie in possesso dei requisiti.

Negarci l’accesso a questa documentazione fondamentale ha reso il nostro lavoro ancora più difficile. Dovremmo poter accedervi in quanto Gaza ha più di 60.000 casi registrati.”

Ulteriore assistenza a un maggior numero di persone a Gaza è fornita dall’UNRWA, l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi. Il solo aiuto alimentare a Gaza arriva a circa un milione di rifugiati.

Futuro in pericolo”

A Gaza famiglie con problemi di salute sono colpite dai drastici tagli nello stesso modo di quelle con difficoltà economiche.

Per Muhammad al-Bashiti la vita è diventata un inferno dopo che la sua ultima fonte di reddito è finita.

Il quarantaseienne stava aspettando il denaro per pagare la retta universitaria di suo figlio in modo che il giovane potesse ottenere i voti dei suoi esami più recenti ed iscriversi al semestre successivo. “Ho promesso a mio figlio, che studia legge all’università Al-Azhar, che gli avrei dato la cifra di cui ha bisogno in modo che possa finire la sua formazione. Ora il futuro di mio figlio è in pericolo,” afferma. Al-Bashiti ha sei figli, tutti a scuola o all’università.

La sua famiglia dipende principalmente dall’assistenza. Dice che ogni tre mesi riceve aiuti alimentari dalle Nazioni Unite, che aiutano a rifornire la famiglia di farina, riso e olio. E il sussidio dell’ANP, che riceve in contanti, copre alcune delle altre spese indispensabili.

Sono andato al ministero di Gaza per lamentarmi dei tagli ed hanno mandato i loro impiegati a controllare la mia situazione,” sostiene al-Bashiti. “Hanno scoperto che ho veramente bisogno di questo sussidio. Spero che non gli ci voglia molto per risolvere la questione.”

Vogliamo che ci venga pagato quello che abbiamo perso,” aggiunge, “e che non ci siano più tagli.”

In un comunicato il ministro degli Affari Sociali con sede a Ramallah Ahmad Majdalani ha affermato che più di 100.000 famiglie palestinesi, di cui circa 70.000 a Gaza, ricevono questa assistenza.

Ha sostenuto che l’ultima distribuzione di fondi è costata più di 27 milioni di dollari, rilevando che circa 2.000 nuove famiglie, di cui 1.500 di Gaza e altre 500 in Cisgiordania, sono state aggiunte alla lista.

Ha sostenuto che le famiglie sono state escluse se hanno un’altra fonte di reddito e non hanno più bisogno di aiuti.

Però questa spiegazione non riesce ad alleviare la sofferenza e il disappunto di Khalil Abu Amra dopo che non ha ricevuto il suo sussidio.

Ho un tumore. Ho bisogno dei soldi per continuare le mie cure e salvarmi la vita in modo che i miei quattro figli non rimangano orfani di padre,” dice il trentanovenne con la voce rotta. “Abbiamo bisogno che questo problema venga risolto in fretta. Rivogliamo i nostri diritti. Questo è scorretto.”

Isra Saleh el-Namey è una giornalista di Gaza.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Dove sono finite le masse arabe?

Amira Abo el-Fetouh

10 febbraio 2020 – Middle East Monitor

Donald Trump ha fatto scoppiare una bomba con il suo “accordo del secolo”, che elimina ciò che rimane della Palestina storica e liquida completamente la causa palestinese. I Paesi arabi avrebbero dovuto ribellarsi all’unanimità contro di esso. Le masse arabe avrebbero dovuto scendere in piazza a milioni come reazione naturale all’accordo. Non è successo, nemmeno nei territori palestinesi occupati in Cisgiordania. Quelli che sono scesi in strada, un po’ timidamente, lo hanno fatto in Giordania, Algeria e Marocco.

Che cosa è successo al popolo arabo? Dove sono finite le masse? Si sono affievoliti i loro sentimenti verso la principale causa araba, la Palestina? Abbiamo assistito a manifestazioni di massa negli anni passati, quando, ad esempio, Ariel Sharon profanò la moschea di Al-Aqsa; quando Mohammad Al-Durra, 12 anni, fu ucciso; quando lo sceicco Ahmed Yassin, Abdel Aziz Al-Rantisi e altri furono trasformati in martiri. Le masse sono scese in piazza anche durante i frequenti attacchi israeliani contro i palestinesi nella Striscia di Gaza.

La recente debole risposta ricorda la reazione alla decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale “indivisa” dello Stato di Israele. All’epoca lo stesso presidente degli Stati Uniti dichiarò di essersi aspettato una reazione maggiore dagli arabi. Sono sicuro che sia stata la mancanza di una reazione infuriata che lo ha incoraggiato a fare tante altre mosse ingiuste a favore del nemico sionista, che avrebbero dovuto provocare gli arabi – ma gli era stato assicurato che, come Nazione unita, sono moribondi. Tali mosse includono il via libera a Israele per annettere le alture del Golan siriano e gli insediamenti sionisti illegali, oltre al taglio delle donazioni statunitensi all’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e il Lavoro [per i rifugiati palestinesi in Medio Oriente, ndtr.] (UNRWA), tutte preludio al malaugurato accordo.

Invece di scendere in strada, le masse arabe apparentemente si accontentano di dichiarare la loro rabbia attraverso i social media, senza dubbio perché sono essi stessi oppressi da dittatori che governano con il pugno di ferro e non consentono alcun tipo di dissenso pubblico. Quando hanno preso il controllo della situazione, durante e dopo le rivoluzioni delle primavere arabe, le bandiere palestinesi sventolavano nelle piazze in solidarietà con il popolo palestinese.

In Egitto, ad esempio, dopo la rivoluzione un uomo scalò il muro del grattacielo dove al 12 ° piano si trova l’ambasciata israeliana e tirò giù la bandiera israeliana, che fu poi gettata a terra e bruciata; l’atto fu applaudito dai presenti. Al confronto è ben diverso il destino del giovane che qualche mese fa ha alzato una bandiera palestinese mentre guardava una partita di calcio. É stato arrestato e mandato a processo.

Questo è ciò che è accaduto al popolo arabo, e chiarisce perché Israele abbia cospirato contro le primavere arabe con i suoi agenti nella regione, in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti, in modo che leader nazionali controllati da Israele possano essere suoi subordinati a guardia dei confini. Nel suo discorso alla cosiddetta Lega araba il presidente del coordinamento della sicurezza con Israele, Mahmoud Abbas, ha ammesso il proprio tradimento. Ha detto di aver dato agli israeliani informazioni che potevano solo sognare di avere, ma che ora ha smesso e che dovranno difendersi da soli. Ha anche detto di credere che i palestinesi non abbiano bisogno di armi, e che cercherà di rendere lo Stato palestinese un’entità demilitarizzata. È un dato di fatto che i sovrani arabi vedano Israele come un’ancora di salvezza, per cui si affrettano a compiacerlo in ogni modo per garantirsi di rimanere sui propri troni.

È quindi vergognoso che il presidente del Consiglio militare di transizione in Sudan, Abdel Fattah Al-Burhan, abbia incontrato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in Uganda dopo l’annuncio dell’accordo della vergogna di Trump e abbia annunciato di aver accettato di normalizzare le relazioni con lo Stato sionista. Incredibilmente, ha affermato che la sua visita a Entebbe andrà a beneficio del popolo palestinese.

Dopo il viaggio di Al-Burhan – un tradimento sia per la nostra religione che per il popolo arabo – possiamo dire senza esagerazione che l’intera Valle del Nilo è ora sotto il dominio israeliano. Così si conclude l’assedio arabo totale del popolo palestinese, a cui viene ora chiesto di rinunciare a tutto all’interno del documento di resa mascherato da “piano di pace”.

Tuttavia, questo non accadrà. L’eroico popolo palestinese non si arrenderà mai e non abbandonerà mai la lotta. I palestinesi hanno già iniziato con azioni individuali, ma vogliamo che mettano in atto una rivolta collettiva guidata da una leadership unita che faccia tremare la terra sotto i piedi dei sionisti. Vogliamo una resistenza unita e un ritorno alla lotta del passato. La terra storica della Palestina, dal fiume al mare [cioè dal Giordano al Mediterraneo, ndtr.], sarà recuperata solo attraverso ogni tipo di legittima resistenza.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dallinglese di Luciana Galliano)




“Una morte lenta”: le dighe israeliane hanno inondato i campi di Gaza prima del raccolto

Maha Hussaini dalla Striscia di Gaza

8 febbraio 2020 – Middle East Eye

I contadini palestinesi accusano Israele di condurre deliberatamente una guerra contro il settore agricolo di Gaza

Per 5 mesi i contadini palestinesi come Naim al-Khaissi hanno coltivato e irrigato i loro terreni nella Striscia di Gaza assediata, in attesa della fine di gennaio per raccogliere ortaggi nelle coltivazioni a est, situate nei pressi della barriera di separazione con Israele.

Ma dopo un duro lavoro i coltivatori palestinesi hanno scoperto che le autorità israeliane avevano vuotato il vicino invaso per la raccolta dell’acqua piovana allagando di fatto i campi di Gaza pochi giorni prima della stagione del raccolto.

Secondo il ministero palestinese dell’Agricoltura, il fatto che Israele abbia aperto le paratie della diga ha provocato solo in gennaio più di 500.000 dollari di perdite in oltre 332 ettari di terre.

I terreni agricoli nella “zona di sicurezza” imposta da Israele nei pressi della barriera di separazione rappresentano la fonte di sussistenza per centinaia di famiglie palestinesi e costituiscono la principale fonte di frutta e verdura della Striscia.

L’allagamento si è accompagnato ad altre misure che secondo i palestinesi sono state deliberatamente messe in atto dalle forze israeliane per colpire la riserva di cibo del territorio assediato e impoverito e cacciare i contadini dalle loro terre.

Terre coltivate allagate

Khaissi, 75 anni, è coltivatore dal 1962. Prima del 2005, quando Israele evacuò i coloni dalla Striscia di Gaza, era proprietario di circa 10 ettari di terre. Ma vide la grande maggioranza dei suoi terreni rientrare nella zona di sicurezza e non essere più raggiungibile.

Sono cresciuto contadino, mio padre e mio nonno mi hanno insegnato la professione, ma le cose sono cambiate molto da allora. Abbiamo perso buona parte delle nostre terre e posso a malapena arrivare fino a ciò che ne rimane,” dice a Middle East Eye.

Lo scorso settembre ho seminato molte varietà di ortaggi, compresi cavoli, patate e cipolle, e stavo aspettando la fine di gennaio per raccoglierli. Ma, dopo che lo scorso mese per quattro volte Israele ha aperto il bacino di acqua piovana, le coltivazioni sono state completamente distrutte.” Per Khaissi l’inondazione delle terre palestinesi è stata una mossa deliberata.

Israele ha intenzionalmente allagato in questo periodo dell’anno le terre coltivate, in particolare dopo essersi assicurato che abbiamo fatto tutto il possibile e speso un sacco di soldi per far crescere i nostri ortaggi ed eravamo finalmente pronti a raccoglierli,” dice.

Khaissi dice di aver perso più di 10.000 shekel (circa 2.600 €) per i danni provocati dall’allagamento – ma si considera fortunato rispetto ad altri contadini.

Ho perso molto meno dei miei vicini perché attualmente ho solo due acri (poco meno di un ettaro), ma quelli che hanno cinque o sei acri hanno perso una fortuna,” afferma.

L’agricoltore stima che dal 2004 le pratiche israeliane – come allagare, spianare terre con veicoli dell’esercito e spargere erbicidi chimici – gli siano costate più di 111.000 dollari di danni.

Lo fanno in modo sistematico per obbligarci a rinunciare alle nostre terre e ad andarcene,” dice Khaissi. “Ma non importa quello che fanno, semplicemente non possiamo andarcene. È occuparci della terra che ci tiene vivi.”

Massimo danno”

Gli agricoltori palestinesi hanno detto di aver visto, poco dopo l’allagamento delle terre coltivate, aerei israeliani per i trattamenti agricoli spruzzare all’interno di Gaza prodotti chimici che ritengono fossero erbicidi.

Abbiamo visto soldati israeliani bruciare un copertone nei pressi della barriera per capire la direzione del vento,” dice Aref Shamali, un contadino quarantenne. “Quando hanno visto che il fumo andava verso ovest, per cui i prodotti chimici avrebbero raggiunto vaste aree all’interno di Gaza e provocato il massimo danno, hanno mandato l’aereo a cospargere tutti i campi.”

L’esercito israeliano abitualmente sostiene che gli erbicidi vengano usati per ripulire dalla vegetazione la zona di sicurezza sul lato di Gaza della barriera, per avere una vista senza ostacoli dell’area per ragioni militari. Ma i palestinesi affermano che questa politica infligge notevoli danni agli abitanti di Gaza.

I prodotti chimici e gli erbicidi che spruzzano non danneggiano solo le terre coltivate, ma hanno anche conseguenze catastrofiche se la gente mangia gli ortaggi irrorati,” dice Shamali a MEE. “Pochi giorni fa rappresentanti del ministero dell’Agricoltura sono corsi nei mercati dove alcuni agricoltori vendevano quelli che si pensava fossero ortaggi irrorati e li hanno distrutti prima che la gente potesse comprarli.”

Shamali e i suoi fratelli possiedono circa 24 ettari di terra, quasi tutti danneggiati prima del raccolto di gennaio, con una perdita stimata di 20.000 dollari.

Nessun contadino è stato fortunato o al sicuro,” dice. “Loro (gli israeliani) affermano di aver sparso solo pesticidi, ma chi è così ingenuo da credere che si siano presi cura gratis delle nostre terre coltivate? Questa zona sfama praticamente tutti gli abitanti di Gaza City, e questa è la ragione per cui la prendono sempre di mira,” aggiunge Shamali. “Vogliono cacciare i contadini e dimostrare che la loro fatica non è valsa a niente.”

Effetti a lungo termine

L’agronomo ed esperto ambientale Nizar al-Wahidi afferma che il fatto che Israele danneggi l’agricoltura palestinese ha conseguenze politiche, economiche, ambientali e sociali. Secondo lui, i prodotti chimici spruzzati non danneggiano solo gli ortaggi, ma anche il terreno, i contadini e gli animali e inquinano la falda freatica.

Anche se loro (gli israeliani) volessero spargere profumo (dentro Gaza), non ne avrebbero il diritto senza il coordinamento con la parte interessata e un mutuo accordo sulla sostanza, sulla sua quantità e sul modo in cui viene irrorata,” dice a MEE. “Perché non si mettono d’accordo almeno con la Croce Rossa in modo che i coltivatori e i loro figli non vengano colpiti?” L’esperto afferma che rimane difficile accertare l’esatto contenuto e l’impatto dei pesticidi.

Non possiamo individuare fino a che punto questi prodotti chimici siano velenosi. Questi esami richiedono apparecchiature che non sono disponibili nella Striscia, e Israele proibisce assolutamente ogni tentativo di inviare le sostanze fuori da Gaza perché siano esaminate,” afferma. “La procedura è molto complicata.”

Anche se la correlazione non è stata ufficialmente stabilita, i contadini palestinesi accusano i prodotti chimici dei problemi di salute che affrontano da anni, ed esprimono timori che queste conseguenze negative possano colpire anche quelli che mangiano i prodotti contaminati.

Soffro di problemi respiratori cronici,” dice a MEE il contadino Abu Zor. “Ci sono tante ragioni per cui abbiamo questo tipo di problemi. Per esempio l’ultima volta che sono andato a lavorare la terra con mio figlio, i soldati israeliani hanno sparato un lacrimogeno proprio tra noi due. Non avevamo fatto niente di male, volevano solo che smettessimo di coltivare gli ortaggi nella zona.”

Il quarantaseienne dice che i soldati israeliani schierati lungo la zona di sicurezza spesso aprono il fuoco contro agricoltori per impedire loro di lavorare.

Non c’è bisogno di camminare nei pressi della barriera o di attaccarli per essere presi di mira. Far crescere un albero può essere una ragione sufficiente perché ti sparino,” dice Abu Zor. “Ogni contadino nella Striscia sta patendo le conseguenze delle pratiche israeliane che prendono regolarmente di mira loro e le loro terre coltivate. Il messaggio è chiaro: non vogliono che Gaza sia autosufficiente. Si può dire che gli abitanti sono condannati a una morte lenta.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




VITTORIO ARRIGONI. RICORDO DI UN VINCITORE

Patrizia Cecconi

1 febbraio 2020 Vitamine Vaganti

Nasceva il 4 febbraio del 1975 in un piccolo comune lombardo, Besana in Brianza, e per 16 anni, prima di venire ucciso appena trentaseienne, si era portato ovunque potesse aiutare, sia lavorando materialmente, sia provando a far conoscere al mondo le drammatiche situazioni dei popoli con i quali entrava empaticamente in sintonia.
Fu così che poco dopo il diploma Vittorio Arrigoni partiva per l’Europa dell’est, poi per l’America latina, poi per Africa.
Era uno spirito libero Vittorio, e come ricorda sua madre Egidia portando i suoi libri e la sua memoria ovunque venga invitata, aveva da sempre questo desiderio di dar senso alla sua vita aiutando gli altri. Aveva, come lui stesso diceva e come sua madre ricorda in ogni occasione, «un folle amore per i diritti umani».
Aveva aiutato a costruire e ristrutturare centri per disabili o per senzatetto tanto in Africa che in altri luoghi massacrati da guerra e povertà senza mai perdere quel suo look di giovane che, alla bellezza regalatagli dalla natura, aveva aggiunto un’espressività data dai valori che lo guidavano. Era questo che gli conferiva un forte carisma.
Era il 2002 quando toccò per la prima volta la Palestina, inviato a Gerusalemme Est dalla Ong nella quale era volontario. Successivamente entrò nell’Ism (International Solidarity Movement) prendendo a cuore la causa palestinese dopo aver visto cosa significasse vivere sotto la feroce occupazione militare israeliana.
Vittorio era un partigiano della giustizia e dei diritti umani, e mentre si batteva contro le quotidiane e sistematiche ingiustizie israeliane, aveva sufficienti critiche da fare anche alle leadership palestinesi, che si chiamassero Hamas o Fatah non faceva differenza.
Cominciò a scrivere report sulla situazione in cui era immerso dal vivo; faceva grande uso dei social e questo fece conoscere le sue parole ben oltre quelle frontiere odiose rappresentate dai muri di cemento e dai muri del pregiudizio. Non era un giornalista ma molto di più. Anche volendolo inserire nella categoria che secondo il grande Kapuscinski connota il giornalismo empatico, Vittorio era qualcosa di più, era uno scrittore prestato per congiunture drammatiche e per necessità di comunicazione al giornalismo. Passava alla tastiera ciò che vedevano i suoi occhi e senza cedimenti da libro-Cuore raccontava con un’empatia che riusciva a trasmettere a chiunque lo leggesse o lo ascoltasse quella verità generalmente filtrata e deformata dai media mainstream per “esigenze” di redazione.Probabilmente questo suo trasmettere ciò che portava conoscenza autentica, mettendo in comunicazione mente e cuore con l’efficacia del testimone diretto, fu la causa del suo inserimento nel libro nero di Israele e, nella primavera del 2005, mentre varcava la frontiera dalla Giordania che, come ogni accesso alla Palestina, è controllata dai soldati israeliani fin dal 1967, venne prelevato, massacrato e buttato in strada morente. Fu per un caso fortunato che alcuni militari giordani raccolsero il suo corpo ancora vivo e lo salvarono ma, chiaramente, per quella strada non sarebbe più potuto passare. Ci fu un’interrogazione parlamentare da parte di un senatore del gruppo dei Verdi ma si sa, a Israele – come diceva Golda Meir – dopo la Shoah tutto è permesso e quindi non successe nulla.
L’anno successivo Vittorio era in Congo, poi in Libano dove diede il suo aiuto nell’ampliamento di un centro sanitario in un campo profughi. Finalmente, nel 2008, quando la Striscia di Gaza era già sotto l’assedio israeliano, eludendo i controlli, via mare riuscì ad entrare come attivista umanitario e riprese a diffondere i suoi report.
La sua voce andava molto oltre l’assedio – immorale e illegittimo eppure ancora in atto dopo 13 anni di inutili appelli alle Nazioni Unite – e arrivava nel mondo.
Israele non poteva sopportare questo giovane italiano, insieme spavaldo e generoso, eccentrico e coraggioso, solidale con i pescatori e i contadini fino a rischiare la pelle, tenero con i bambini e duro nel denunciare i crimini quotidiani che l’assediante commetteva in quella striscia di terra lunga appena 40 chilometri e larga al massimo 10 nelle zone più estese. In totale 360 chilometri quadrati di carcere a cielo aperto.
Fu in una delle sue azioni di interposizione fisica a difesa dei pescatori che venne di nuovo preso dai soldati israeliani, picchiato duramente e probabilmente – se non si fosse gettato in acqua – sarebbero riusciti ad ucciderlo, magari simulando un incidente, visto che era cittadino di un Paese amico e non un palestinese per la cui uccisione non avrebbero avuto alcun obbligo di giustificazione.
Era il secondo tentativo di eliminazione di una voce troppo ascoltata e quindi troppo pericolosa. Ricordo che in quei giorni mi tornavano alla mente le parole che dalle elementari alle superiori avevo sentito tante volte nelle lezioni sul Risorgimento. Erano le parole dell’austriaco Metternich, primo ministro asburgico che vista la diffusione dell’autobiografia Le mie prigioni di Silvio Pellico, aveva definito quel libro più dannoso, per l’Austria, di una guerra perduta. Altre volte ho pensato invece a quando il generale e poi ministro israeliano Moshe Dayan convocò la poeta palestinese Fadwa Tuqan dicendole che una sua poesia (Mendicare un permesso, nda) faceva più danno all’immagine di Israele di dieci fedain.

Interessante rendersi conto che quando la parola fa male perché vera, il potere non corregge sé stesso ma cerca di neutralizzare o imbavagliare chi divulga la verità. Così anche Vittorio doveva essere tacitato, ma “con destrezza”, senza sollevare noie, che poi solo noie sarebbero state data l’impunità conclamata di quello Stato, ma meglio non averne. Comunque Vittorio, ancora una volta ferito, venne arrestato e successivamente espulso.
Ma questo ragazzo aveva deciso che Gaza era il luogo che in quel momento gli occupava  mente e cuore perché le condizioni in cui viveva la popolazione, ma soprattutto la mortificazione che si univa alla ferocia dell’assedio e, in mezzo a tutto questo, il calore umano che chiunque abbia vissuto qualche tempo a Gaza può testimoniare, gli avevano fatto scegliere la Striscia come sua momentanea patria di elezione. Fu così che tentò ancora e il 21 dicembre, con l’ultima nave che riuscì ad entrare nella Striscia, la Dignity del Free Gaza Movement, si ritrovò a Gaza pochi giorni prima della terribile aggressione da terra cielo e mare che in soli 22 giorni distrusse migliaia di case, scuole (compresa una scuola dell’Onu facendo strage dei rifugiati al suo interno), moschee, uffici pubblici, uccidendo immediatamente 1.203 palestinesi di cui 410 bambini e ferendone diverse migliaia di cui non tutti sarebbero sopravvissuti. Anche Israele ebbe i suoi morti, 12 militari e un civile e quasi 200 feriti, la maggior parte dei quali ricoverati per crisi di panico.
L’operazione venne definita “piombo fuso” e sembrava il massimo della ferocia possibile contro una popolazione sostanzialmente indifesa e impossibilitata a fuggire essendo chiusa in una gabbia che si apriva solo dall’esterno e solo per far entrare artiglieria a completare il lavoro degli F16. Venne usato il fosforo bianco, arma vietata che non si limita a uccidere ma brucia il corpo arrivando velocemente alle ossa fino alla completa combustione di ogni residuo di questa materia infernale che si alimenta con l’ossigeno contenuto nella sostanza organica.
Vittorio non volle uscire da Gaza per mettersi in salvo e, forse, non avremmo mai saputo la verità su “piombo fuso” se lui fosse uscito. I media si affannavano a parlare di rottura della tregua da una parte o dall’altra e poi, finalmente, venne fuori il perché di un attacco così particolarmente feroce: 410 bambini, o terroristi in erba come li definì una deputata  israeliana, che quindi era bene eliminare da piccoli! Tanta ferocia era finalizzata a guadagnarsi le simpatie dei votanti vista l’imminenza delle democratiche elezioni in Israele, il che non fa certo onore al popolo israeliano, ma il copione purtroppo si è più volte ripetuto anche se non c’era più Vittorio a raccontarci delle ambulanze schiacciate dai carri armati con la stella di David o dei bambini arsi vivi dal fosforo bianco e del correre tra un bombardamento e l’altro cercando di salvare qualche vita.
Vittorio era in mezzo a una violenza esercitata sui più deboli, una violenza di tale entità da far dimenticare torti e ragioni e capace di produrre solo odio eppure… Ecco che mi tornano alla mente le parole tante volte sentite nelle lezioni di storia relative a Silvio Pellico. Devo essere sincera, quelle parole le trovavo sincere solo perché scritte dopo essere uscito dal terribile carcere dello Spielberg, non credevo si potessero realmente pensare in stato di cattività. Pellico, con espressioni oggi arcaiche invitava «i cuori nobili a non odiare alcun mortale ma solo la pusillanimità, la perfidia e ogni morale degradamento». Vittorio è andato oltre. Vittorio firmava i suoi report con una frase, oggi diventata un leitmotiv più recitato che praticato, ma allora, tra terrore e sangue innocente, aveva la forza di cozzare contro la disumanità dell’Idf con lo stesso effetto dell’eruzione improvvisa e spettacolare di un vulcano dormiente. Vittorio firmava con la frase «restiamo umani». Un invito, un’invocazione, un comando, un impegno morale, una promessa, una via d’uscita dalla crudeltà che porta soltanto odio che si somma ad altro odio. Restiamo umani…nonostante tutto.
La realtà fatta di dolore e di urla, di morte e di terrore, nei report di Vittorio per “Il Manifesto” e per “Peace reporter” diventava letteratura, più e oltre che giornalismo, senza mai tradire di un millimetro l’impegno civile e umano che lo portava a restare sotto le bombe. Quando “Il Manifesto” raccolse i suoi report in un volume che titolò, appunto, Restiamo umani, ci si rese conto che quelle parole arrivavano alla mente e al cuore senza mai diventare emozioni viscerali di bassa lega. Vittorio forse sarebbe diventato un vero scrittore. La morte precoce glielo impedì.
La prima volta che parlai direttamente con lui era il 31 maggio del 2010. Era il giorno in cui Israele si era macchiato di un nuovo enorme crimine, stavolta era vera e propria pirateria, abbordando le navi della prima Freedom flotilla che tentavano pacificamente di rompere l’illegale assedio di Gaza portando medicinali, cibo e addirittura giochi per i bambini. Giusto un quotidiano come “Il Giornale” poteva titolare, a caratteri cubitali e a firma di Feltri, Israele ha fatto bene a uccidere.
Calandosi dagli elicotteri militari alle quattro di notte, in acque internazionali e col supporto di imbarcazioni da guerra, Israele aveva bloccato la flottiglia, sequestrato le navi e i loro passeggeri e ucciso a sangue freddo nove pacifisti sparando loro alla testa. Fu allora che Rainews24 chiamò me (ero tra le cinque persone che seguivano la Freedom flotilla in Italia) negli studi di Saxa Rubra a Roma e Vittorio in corrispondenza da Gaza per sentire le nostre opinioni.
La trasmissione venne censurata in alcuni punti per volere della direzione di Rainews e non andò a ripetizione come volevano i redattori che l’avevano organizzata, ma dopo la prima messa in onda dovette aspettare le tre di notte per un replay.
Vittorio, al di là del mare, sapeva come me che non sarebbe successo niente, che neanche per questo Israele avrebbe avuto sanzioni, ma ugualmente bisognava parlare perché non è vero che l’opinione pubblica non conta, altrimenti non si farebbe l’impossibile per addomesticarla, e quindi ci era chiaro che dovevamo usare i social perché quell’intervista non avrebbe girato troppo per i canali ufficiali, altrimenti avrebbe reso ridicola, come in effetti era, la voce dei valletti di Israele che affermava che i poveri soldati israeliani (armati fino ai denti) calatisi dagli elicotteri sulla nave Mavi Marmara, in piena notte, in acque internazionali (e coadiuvati dalle lance militari che avevano circondato la flottiglia) erano stati “costretti” a sparare in testa a nove attivisti per proteggersi dalla brutale violenza dei passeggeri (tra loro c’era anche un’anziana pacifista ebrea quasi novantenne) che “addirittura” avevano preso dei pezzi di sedia per colpirli.
Avevamo bisogno di operatori mediatici audaci e onesti che potessero dar senso a un’operazione tanto coraggiosa e portata avanti con spirito totalmente pacifista ma, a parte “Il Manifesto”, i media, anche senza arrivare all’ignobile titolo di Feltri, non diedero a questo fatto l’importanza che meritava, né misero l’accento sull’illegalità e l’illegittimità dell’assedio. Proprio per questo i social erano importanti, perché in parte riuscivano a supplire a quei voluti buchi neri in cui la verità andava smarrita e persa. E la voce di Vittorio era una voce che arrivava molto lontano. Vittorio, pur nella durezza delle sue condanne, invocava l’umanità nascosta dietro i silenzi e chiedeva attenzione al mondo. Lo faceva già prima di “piombo fuso”e avrebbe seguitato a farlo fino al suo rapimento.
La sua voce doveva essere spenta. Lo sapevamo tutti.
Quando venne ucciso Juliano Mer Kamis, il fondatore del Freedom theater a Jenin, circa dieci giorni prima del rapimento di Vittorio, la notizia ci arrivò da una radio “di movimento” e fu come un pugno in faccia. Stavamo preparando una serata per la Palestina. La mia amica ed io ci guardammo e dicemmo all’unisono «Vittorio deve tornare subito in Italia». Vittorio stava organizzandosi per tornare perché suo padre stava molto male, era questione di giorni, al massimo di settimane. Ma circa due mesi prima, quando lo avevo invitato a un convegno all’Università La Sapienza, mi aveva risposto «non sono io il regista della mia vita, verrò se potrò, altrimenti faremo un collegamento audio e vedrai che verrà una bellezza», poi mi aveva ricordato di mandargli sempre un sms prima di chiamarlo da un numero privato, aveva infatti smesso di rispondere a chiamate anonime perché erano tutte minacce di morte.
Vittorio quindi sapeva di essere preso di mira ma c’era qualcosa, la stessa cosa che non lo rendeva “il regista della sua vita” che gli imponeva di restare lì dove sentiva di poter essere utile. Era il 15 marzo il giorno del convegno e lui fu presente in diretta attraverso un cellulare. Esattamente un mese prima che lo uccidessero.
Quel giorno ci furono molti disordini a Gaza. Il movimento dei giovani che non volevano più sentir parlare di divisioni politiche aveva deciso di manifestare organizzando presidi di piazza ma le autorità locali, quelle che con spregio e con una buona dose di malafede quando non è pura ignoranza vengono definite “i terroristi di Hamas” avevano represso la manifestazione. E Vittorio spiegò la situazione al pubblico venuto ad ascoltarlo.
Le forze governative locali avevano ed hanno molte e purtroppo giustificate paure: lo spionaggio israeliano finalizzato agli omicidi dei leader, il tentativo di infiltrazione dell’Isis, i salafiti, i disperati per disoccupazione che vivono solo di sussidi, i giovani che vorrebbero vedere e assaggiare la libertà oltre la linea dell’assedio in cui li costringe Israele, le rivalità interne tra le diverse fazioni. Tutti elementi che Vittorio conosceva bene, ma conoscerli non è servito a proteggerlo.
Venne sequestrato mentre usciva dalla palestra. Sì, a Gaza ci sono palestre e anche molto altro per fortuna, e non solo disperazione e macerie. Gaza è un mosaico multicolore dove ciò che assolutamente manca è la libertà perché Israele la chiude da cielo, da terra e dal mare, ma i gazawi – e Vittorio lo sapeva benissimo – hanno una straordinaria dote, loro la definiscono “specifica follia gazawa”, forse è vero, comunque sanno fare nella loro prigione ciò che a un occhio estraneo sembrerebbe impossibile. Quindi hanno anche palestre e Vittorio andava regolarmente nella sua palestra e lì lo hanno aspettato per sequestrarlo.
Quando il suo viso pestato e bendato è apparso sui nostri telegiornali molti di noi hanno capito subito che i sequestratori non avrebbero aspettato il riscatto. “L’oggetto” di un riscatto è prezioso, non si massacra e soprattutto non si danno poche ore per decidere della sua sorte. Vittorio fu ucciso subito.
Le mani che lo strangolarono erano palestinesi. Il perché non si sa. Ma non era ai palestinesi che la voce di Vittorio dava fastidio.
Due dei suoi rapitori furono uccisi in uno scontro a fuoco con la polizia che andava ad arrestarli. Gli altri tre non dettero giustificazioni comprensibili. Certo è solo che Vittorio non era un loro nemico! Questo è ciò che a distanza di nove anni ancora ci interroga e che ancora oggi non dà pace a sua madre: il non sapere il vero motivo della morte di questo figlio che però, paradossalmente, morendo, ha moltiplicato la sua voce, quella che Israele voleva spegnere.
Ricordo che il dolore per la sua morte colpì decine di migliaia di persone. Arrivarono ai suoi funerali a Bulciago non solo migliaia e migliaia di italiani, ma qualcuno prese l’aereo dall’Irlanda, qualcuno dalla Spagna, qualcuno dall’Africa. A me e ad altri arrivarono perfino telefonate dall’Australia.
A fronte di tanto dolore da parte di chi aveva imparato a sentire la sua voce tramite il suo blog ma anche tramite la trasmissione radio Caterpillar e di chi leggeva i suoi report o lo aveva seguito durante “piombo fuso”, c’è da dire che la sua salma arrivò in Italia senza che neanche l’ultimo straccio di un vice-vice-sotto-vice ministro andasse a riceverla all’aeroporto.
C’eravamo noi, gli  amici e i compagni, prima all’aeroporto e poi, a migliaia, a rendergli omaggio a San Lorenzo dove venne allestita la camera ardente.
Rainews24 aveva intervistato alcuni attivisti e fece un servizio decoroso. Altre TV, invece,  parlarono del «pacifista italiano ucciso dai palestinesi». Una notizia ghiotta e fasulla, perché “i” palestinesi ancora piangono Vittorio e lo definiscono un loro martire. I sicari che lo hanno ucciso, invece, di palestinese avevano solo la carta d’identità e neanche tutti. Erano altri che desideravano spegnere quella voce, esplosa invece come una galassia che è andata moltiplicandosi raggiungendo anche chi non l’aveva mai sentita prima. Chi non lo aveva conosciuto cominciò a conoscerlo allora. E cominciò ad amarlo. E a capire a distanza cosa significa vivere sotto il tallone di un’occupazione militare pluridecennale o dentro il recinto di una prigione a cielo aperto.   
Il dolore per il suo assassinio col tempo si è placato, mentre è rimasto vivo quel grido trasmesso dalla sua firma, “restiamo umani!”.
Di certo Vittorio, o Vik come veniva chiamato, è stato un sognatore e come lui stesso disse un giorno prendendo le parole di Nelson Mandela: «un vincitore è un sognatore che non ha mai smesso di sognare e se un giorno, tra 100 anni dovessi morire, vorrei che sulla mia tomba fosse scritto: ‘Vittorio Arrigoni, un vincitore’».
È stato quindi un sognatore che ha vinto, ha vinto sul male e sulla morte perché, come una nuvola leggera, Vittorio ha lasciato nell’aria quell’invito accorato al mondo, quell’invito che vuole essere un programma senza scadenza, un programma da seguire, valido ovunque e per sempre: restiamo umani!

 

Patrizia Cecconi

Nata a Roma. Laureata prima in sociologia, poi in erboristeria. Si accorge che i meccanismi di inclusione ed esclusione applicati al mondo umano, il mondo umano li applica anche alla natura, così scrive qualche libro in cui tratta sia di piante che di diritti umani. Dopo 25 anni di appassionato lavoro all’interno delle scuole, lascia l’insegnamento si dedica alla scrittura e alla causa che ormai sente sua: la Palestina.




La criminalizzazione della resistenza palestinese: le nuove condizioni dell’UE per gli aiuti alla Palestina

Tariq Dana 

2 febbraio 2020 – Al-Shabaka

Recentemente l’UE ha comunicato alla rete delle Organizzazioni Non Governative Palestinesi (ONGP) le nuove condizioni per i finanziamenti, cioè che le organizzazioni della società civile palestinese sono obbligate a non avere rapporti con individui o gruppi definiti “terroristi” dalla UE. Ciò comprende il personale, gli appaltatori, i beneficiari e i destinatari degli aiuti. La misura non solo riduce ulteriormente la libertà della società civile palestinese, ma inoltre criminalizza la resistenza palestinese persino nelle sue forme più pacifiche. (1)

Che cosa ha causato il cambiamento, quali effetti avrà sulla società civile palestinese e che cosa possono fare i palestinesi al riguardo? Al-Shabaka ha parlato di queste questioni e più in generale dei problemi degli aiuti internazionali alla Palestina con l’analista politico Tariq Dana, professore associato presso il ‘Centro per i Conflitti e gli Studi Umanitari’ dell’Istituto di Studi Universitari di Doha,

L’UE sostiene che la nuova clausola non è nuova, in quanto è coerente con la politica dell’UE dal 2001 tesa ad evitare il finanziamento di gruppi classificati come “organizzazioni terroristiche”. È così?

È importante distinguere tra la politica dell’UE e le politiche dei diversi Stati membri che non riflettono necessariamente gli accordi UE riguardo ad una particolare questione. All’inizio degli anni 2000, quando l’USAID [ente governativo USA per la cooperazione internazionale e gli aiuti umanitari, ndtr.] ha incominciato ad imporre la clausola “antiterrorismo” nei confronti delle ONG palestinesi, pochi Stati europei hanno seguito la strada americana e imposto requisiti più severi alle organizzazioni della società civile palestinese. Però l’Unione Europea all’epoca non era coinvolta direttamente in questa controversia ed ha preferito porre l’accento sulla professionalità, la trasparenza e l’efficacia dei programmi delle ONG come principali criteri per ricevere fondi e attuare progetti, piuttosto che focalizzarsi sull’identità politica delle organizzazioni e del loro personale. La tempistica della recente iniziativa dell’UE sulle condizioni di finanziamento e dell’attacco politico alla società civile palestinese è molto sospetta, poiché giunge in un momento molto difficile per i palestinesi.

Allora che cosa ha portato a questo cambiamento?

Il cambiamento va collocato nel contesto della continua colonizzazione israeliana e dell’abilità della sua impresa coloniale di inventare nuovi meccanismi di controllo. L’ultima mossa dell’UE è il risultato della costante pressione israeliana su di essa per impedirle di finanziare molte organizzazioni palestinesi, soprattutto quelle impegnate nel rivelare e rendere note le pratiche coloniali, le violazioni dei diritti umani e i crimini israeliani.

Israele ha infatti adottato un’ampia gamma di misure aggressive per limitare il campo d’azione della società civile nei Territori Palestinesi Occupati, incluse le detenzioni arbitrarie e gli arresti di attivisti della società civile, giustificazioni in base alla “sicurezza” per ostacolare il lavoro delle organizzazioni locali, il finanziamento di campagne di diffamazione per delegittimare l’attività di queste organizzazioni e la pressione sulle organizzazioni e i donatori internazionali perché sospendano i finanziamenti alle ONG palestinesi. Questo è particolarmente evidente riguardo alle organizzazioni legali che utilizzano le leggi internazionali per riferire sulle violazioni dei diritti umani, come Al-Haq e Addameer, e le organizzazioni per lo sviluppo che realizzano progetti nell’area C [sotto il totale ma temporaneo controllo israeliano, in base agli Accordi di Oslo, ndtr.] per sostenere la tenacia delle comunità locali che soffrono a causa dell’esercito e dei coloni, quali il ‘Centro Bisian per la Ricerca e lo Sviluppo’ il cui direttore, Ubai Aboudi, è stato recentemente arrestato da Israele ed è sottoposto a detenzione amministrativa senza capi d’accusa.

Anche alcune influenti organizzazioni di destra in Israele, come ‘NGO Monitor’, che attacca le organizzazioni palestinesi non-profit e i loro partner internazionali con false accuse, per esempio, di “terrorismo” e “antisemitismo” e che ha il sostegno del governo israeliano, hanno fatto pressione e creato mobilitazione contro il finanziamento delle tendenze, anche quelle più moderate, all’interno della società civile palestinese. Purtroppo la definizione dell’UE di “terrorismo” ricalca la prospettiva israeliana e perciò giova ampiamente a questi interessi tesi a sopprimere le voci critiche palestinesi.

Inoltre, mentre la mossa dell’UE rappresenta un’altra vittoria per la propaganda israeliana, è anche l’ennesima di un’infinita serie di sconfitte dell’ANP [Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.]. L’ANP per anni ha escluso la resistenza e ha represso diverse forme di lotta popolare, mentre al contempo sosteneva di appoggiare la “lotta diplomatica” per fare pressione su Israele perché rispettasse il diritto internazionale. Quello che in realtà abbiamo visto è un vergognoso numero di ripetute sconfitte e la scarsa propensione a perseguire un’efficace politica e diplomazia. Quindi non c’è dubbio che il cambio di politica dell’UE nell’intensificare le limitazioni dei finanziamenti alla società civile palestinese è stato in parte il risultato delle politiche insensate dell’ANP.

Come hanno risposto l’ANP e la società civile palestinese alla mossa dell’UE?

Al momento, la società civile palestinese ha mobilitato i propri sostenitori e le proprie reti per respingere questa mossa. La ‘Campagna Nazionale Palestinese per Respingere i Finanziamenti Condizionati’ ha emesso una dichiarazione che critica aspramente la politica dell’UE, affermando la propria totale opposizione al condizionamento politico dei finanziamenti. La dichiarazione afferma l’impegno dell’organizzazione su questa posizione fino al punto che rimarrà ferma anche se “portasse al collasso della nostra organizzazione e all’impossibilità di svolgere il nostro vitale lavoro.” Da parte sua, l’ANP ha denunciato solo verbalmente la misura e non ha formulato alcun piano per trasformare la propria posizione in un passo concreto per fermare l’UE.

Che impatto avrà la politica dell’UE sui palestinesi e sulla società civile palestinese?

La mossa dell’UE giunge in un momento molto difficile per i palestinesi: Israele si sta preparando ad annettere la maggior parte dell’area C e la Valle del Giordano; i palestinesi sono deboli, frammentati e divisi; l’ANP è diventata de facto un esecutore della sicurezza israeliana; la causa palestinese negli ultimi anni ha subito una marginalizzazione e non è più una priorità regionale. Le limitazioni dell’UE si aggiungono a questi elementi, criminalizzando molte organizzazioni palestinesi impegnate in forme moderate di resistenza attraverso il diritto internazionale e la difesa e il sostegno alla sopravvivenza delle comunità. Queste restrizioni quindi non solo contribuiranno ad un’ulteriore emarginazione della causa palestinese, ma favoriranno anche l’istituzionalizzazione dell’espansione coloniale israeliana, poiché, se non riusciranno a trovare alternative ai finanziamenti UE, molte organizzazioni non saranno in grado di sostenere il proprio lavoro di monitoraggio e denuncia dei crimini israeliani.  

Più precisamente, mentre l’elenco dei bersagli dell’UE include molti movimenti di resistenza palestinesi, numerose persone e famiglie subiranno le conseguenze del nuovo cambio di politica. Per esempio, persone che sono state arrestate in passato, compresi coloro che sono stati reclusi in detenzione amministrativa, condannata a livello internazionale, e che ora sono impegnate nell’attivismo della società civile, possono essere classificati “terroristi” e perciò escluse dal ricevere finanziamenti. In più, organizzazioni e gruppi che appoggiano il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) e le sue attività sono chiaramente visti come una minaccia agli interessi israeliani e probabilmente le campagne per delegittimare le loro attività, non solo in Palestina, ma anche in parecchi Stati dell’UE, aumenteranno.

È importante sottolineare anche la contraddizione tra la retorica dell’UE e le sue politiche. Per esempio, l’UE afferma che non riconoscerà l’annessione israeliana dell’area C o della Valle del Giordano, ma tagliando gli aiuti essa ostacola il lavoro delle ONG palestinesi che sostengono le comunità minacciate dall’espulsione israeliana in quelle aree. Di fatto l’UE sarà complice del processo di espulsione, anche se afferma di non riconoscere alcuna possibile annessione.   

Quale è lo stato della società civile palestinese in questo momento cruciale?

Attivisti e studiosi hanno ripetutamente messo in guardia rispetto alla costante dipendenza delle ONG palestinesi dagli aiuti condizionati dell’occidente per finanziare le organizzazioni e i progetti locali. Pur riconoscendo gli sforzi delle iniziative di base per riorganizzarsi attraverso risorse locali e attività volontaria per avviare e sostenere alcuni importanti progetti, queste iniziative non si sono trasformate in una tendenza collettiva e strategica. Il più grande e influente segmento della società civile continua a dipendere dagli aiuti internazionali, che sono ampiamente condizionati a livello politico e ideologico e quindi impongono parecchie limitazioni al lavoro dei soggetti della società civile.

Il predominio di queste ONG ha creato una società stagnante, ha depoliticizzato gli attivisti locali, ha prodotto una nuova elite separata ed ha sprecato milioni in progetti insensati. Per esempio, il ruolo della società civile nella divisione tra Fatah e Hamas è stato chiaramente assente e le organizzazioni non sono riuscite a lanciare iniziative strategiche per contrastare le conseguenze delle divisioni. Il risultato è che la società civile palestinese è molto più frammentata di dieci anni fa, mentre le organizzazioni attive in Cisgiordania hanno priorità e programmi diversi dalle loro controparti nella Striscia di Gaza. Quindi, mentre la società civile dovrebbe essere un ambito di resistenza e di mobilitazione contro la frammentazione, essa ne è diventata parte.

Che cosa occorrerebbe fare per rafforzare la società civile palestinese e contrastare la frammentazione?

Le restrizioni dell’UE potrebbero essere dannose per molte organizzazioni locali, ma dovrebbero essere viste come un’opportunità per creare strategie collettive al di là dell’aiuto ufficiale convenzionale dell’occidente e delle sue limitazioni. La pressione creata dai sistematici tagli ai finanziamenti per gli aiuti da parte dei donatori internazionali potrebbe auspicabilmente spingere molte organizzazioni a cercare risorse alternative all’interno della società palestinese in Palestina e nella diaspora e a collegarsi con gli autentici movimenti della società civile e coi gruppi della solidarietà in tutto il mondo, cosa che offrirebbe piattaforme internazionali per l’attivismo dei difensori e possibili risorse finanziarie per contribuire a ricostruire la società civile su nuovi binari.

E’ vitale per le organizzazioni della società civile dare priorità a quei tipi di azioni che valorizzino le strutture popolari, partecipative e democratiche e l’organizzazione sociale di base. Ci dovrebbe essere uno sforzo organizzato a favore del dialogo interno incentrato su una concezione della società civile che privilegi il programma di liberazione nazionale, la mobilitazione popolare, l’impegno, la resistenza e le politiche e la conoscenza anticolonialiste. Questo dovrebbe essere affiancato da una prospettiva di alternative all’attuale sistema di aiuti, reinventando nuove fonti di solidarietà per finanziare le attività della società civile. Ciò potrebbe comprendere progetti di auto-finanziamento che coinvolgano più palestinesi della diaspora, gruppi della solidarietà internazionale e movimenti per la giustizia sociale che aiuterebbero a ridurre la dipendenza dai finanziamenti condizionati.

Note:

  1. Al-Shabaka è grata per gli sforzi dei difensori dei diritti umani di tradurre i suoi articoli, ma non è responsabile per qualunque modifica del loro significato.

Tariq Dana

Il consulente politico di Al-Shabaka Tariq Dana è professore associato presso il ‘Centro per i Conflitti e gli Studi Umanitari’ dell’Istituto di Studi post-universitari di Doha. Ha lavorato come direttore del ‘Centro per gli Studi sullo Sviluppo’ all’università di Birzeit (2015-2017) ed è stato ricercatore presso l’‘Istituto di Studi Internazionali Ibrahim Abu-Lughod’. Ha conseguito la laurea presso la Scuola Sant’Anna di Studi Avanzati, in Italia. Gli interessi di Tariq nel campo della ricerca comprendono l’economia politica, la società civile, i movimenti sociali e le ONG, la costruzione dello Stato e i rapporti società-Stato, con focus particolare sulla Palestina e più in generale sul Medio Oriente arabo.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA del periodo 21 gennaio – 3 febbraio 2020

Il 21 gennaio, le forze israeliane hanno ucciso tre palestinesi: due 18enni e un 17enne. I giovani avevano varcato la recinzione israeliana che cinge Gaza e, a quanto riferito, avevano lanciato un ordigno esplosivo contro i soldati.

I loro corpi sono stati trattenuti dalle autorità israeliane. Non sono stati riportati ferimenti di israeliani.

Un 14enne palestinese è morto per la ferita riportate il 10 novembre 2019, durante una manifestazione della “Grande Marcia del Ritorno” (GMR): era stato colpito alla testa da un contenitore di gas lacrimogeno sparato dalle forze israeliane. La sua morte, avvenuta il 31 gennaio, porta a 214 (di cui 47 minori) il numero totale di vittime delle manifestazioni GMR da quando queste sono iniziate, il 30 marzo 2018. Il Comitato Organizzatore del GMR aveva annunciato che, dalla fine del 2019, le manifestazioni settimanali sarebbero state sospese fino al 30 marzo 2020; dopo tale data esse riprenderanno per continuare su base mensile e su temi specifici. Dal 28 gennaio, nei pressi della recinzione perimetrale con Israele, si sono svolte una serie di proteste contro il piano americano per il Medio Oriente, durante le quali 11 palestinesi, tra cui tre minori, sono stati feriti dalle forze israeliane.

Palestinesi di Gaza (compresi gruppi armati) hanno sparato colpi di mortaio ed hanno lanciato verso Israele diversi razzi, nonché ordigni esplosivi appesi a fasci di palloncini. I proiettili sono stati intercettati in aria o sono caduti in aree aperte. Nella città di Sderot, una donna israeliana e il suo bambino, mentre correvano verso un rifugio, sono rimasti feriti.

L’esercito israeliano ha effettuato una serie di attacchi aerei contro strutture di gruppi armati di Gaza; due di questi attacchi hanno provocato il ferimento di due minori palestinesi. Il 2 febbraio, le autorità israeliane hanno sospeso l’ingresso di cemento in Gaza [i valichi sono sotto controllo israeliano] ed hanno revocato il permesso di uscita a 500 uomini d’affari. Secondo quanto riferito, questi attacchi e questi provvedimenti sono stati attuati in risposta al lancio di razzi e palloncini esplosivi da Gaza.

In almeno 30 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso palestinesi presenti in aree [di Gaza] adiacenti alla recinzione perimetrale israeliana ed al largo della costa di Gaza [cioé, le “Aree ad Accesso Riservato”]; sono stati segnalati tre feriti, tra cui un minore. In un caso separato, le forze navali israeliane hanno arrestato tre pescatori palestinesi, tra cui un minore, ed hanno sequestrato la loro barca.

In Cisgiordania (fino alla chiusura di questo bollettino), 287 palestinesi, tra cui 43 minori e otto donne, sono rimasti feriti in scontri avvenuti a partire dal 28 gennaio, data dell’annuncio del piano USA per il Medio Oriente. Gli scontri più ampi sono stati registrati nel villaggio di Beita (Nablus), nella città di Betlemme, al checkpoint Beit-El / DCO (Ramallah), nelle città di Hebron e di Al ‘Eizariya (Gerusalemme), nel villaggio di Khirbet ‘Atuf ed al checkpoint di Tayasir (questi ultimi due in Tubas ). Oltre l’80% dei feriti sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeni, il 16% è stato colpito da proiettili di gomma e il 2% da armi da fuoco. Nella città di Hebron, durante scontri, le uniformi di un soldato israeliano e di un ufficiale della Polizia di Frontiera sono andate a fuoco a causa del lancio di bottiglie incendiarie da parte di palestinesi.

In altri scontri, avvenuti all’inizio del periodo di riferimento, sono stati feriti dalle forze israeliane altri 49 palestinesi, di cui otto minori. Dei 49 feriti, venticinque sono stati registrati a Gerusalemme Est, nell’area di Beit Hanina, durante scontri scoppiati al diffondersi di voci secondo cui un ragazzo palestinese, scomparso, sarebbe stato rapito da coloni israeliani; il ragazzo è stato successivamente trovato morto, secondo quanto riferito, annegato in una cisterna d’acqua. Altri tredici palestinesi [dei 49] sono rimasti feriti nella città di Al ‘Eizariya (Gerusalemme) durante scontri spontanei, e cinque sono rimasti feriti durante le proteste settimanali nel villaggio di Kafr Qaddum (Qalqiliya). Preoccupa la situazione di un ragazzo palestinese di 11 anni, colpito alla testa da una bomboletta di gas lacrimogeno sparata dalle forze israeliane durante scontri vicino alla scuola di Burin (Nablus); in conseguenza di ciò, le lezioni sono state sospese per il resto della giornata. Questi episodi portano a 336 il totale dei [palestinesi] feriti durante il periodo di riferimento [cioé, 2 settimane]; più del doppio della media del 2019 (136 feriti ogni 2 settimane).

Le forze israeliane hanno effettuato 81 operazioni di ricerca-arresto in Cisgiordania ed hanno arrestato 89 palestinesi, tra cui 12 minori. La maggior parte delle operazioni si sono avute nel Governatorato di Hebron (23), seguito dai governatorati di Gerusalemme (19) e Ramallah (14). Nel quartiere di Al Isawiya a Gerusalemme Est, durante le consuete operazioni di polizia, la situazione è rimasta tesa: a seguito di una di queste operazioni, una ragazza palestinese di 14 anni ha perso conoscenza ed è stata trasportata in ospedale. Secondo quanto riferito, la ragazza avrebbe subito un trauma per la perquisizione svolta dalle forze di polizia nella sua casa.

In Area C e Gerusalemme Est, citando la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito, o costretto i proprietari a demolire, dieci strutture palestinesi, sfollando nove persone e causando ripercussioni su altre 41. Cinque delle strutture demolite, compresa una precedentemente fornita come aiuto umanitario, erano situate in Area C, nel villaggio di Az Zawiya (Salfit) e ad Al Khalayleh, una piccola Comunità nell’area di Gerusalemme, separata dal resto della Cisgiordania dalla Barriera. Le restanti cinque strutture si trovavano a Gerusalemme Est, una delle quali in una Comunità (Khirbet Khamis) separata da Betlemme dalla Barriera. Tre delle strutture in Gerusalemme Est sono state demolite dai proprietari, a seguito del ricevimento di ordini di demolizione.

Individui, ritenuti coloni israeliani, hanno dato alle fiamme una scuola e una moschea, hanno vandalizzato 189 alberi di proprietà palestinese ed hanno ferito quattro palestinesi. I sopraccitati episodi di incendio doloso si sono verificati il 24 ed il 28 gennaio in una scuola del villaggio di Einabus (Nablus) e in una moschea della zona di Sharafat, a Gerusalemme Est. In entrambi i casi, sui muri degli edifici, sono state spruzzate scritte offensive in ebraico [seguono i dettagli]. In due episodi distinti, verificatisi presso gli insediamenti colonici di Bruchin e Shave Shomron, coloni hanno abbattuto 182 alberi appartenenti agli agricoltori dei villaggi di Kafr ad Dik (Salfit) e Sebastiya (Nablus). Coloni israeliani hanno fatto irruzione nel vicino villaggio di Madama (Nablus), dove hanno lanciato pietre contro case palestinesi, vandalizzato ulivi e, negli scontri conseguenti l’irruzione, hanno ferito due palestinesi. Altri due contadini palestinesi del villaggio di As Sawiya (Nablus), mentre lavoravano la loro terra, sono stati colpiti con pietre e feriti da un gruppo di coloni israeliani. Un veicolo palestinese ha subito danni in un separato episodio di lancio di pietre vicino al villaggio di Haris (Salfit).

Secondo varie fonti israeliane, una ragazza israeliana è stata ferita nei pressi dell’area di insediamento di Gush Etzion (Betlemme) e almeno sette veicoli israeliani sono stati danneggiati da lanci di pietre e bottiglie incendiarie, ad opera di palestinesi, contro auto transitanti lungo le strade della Cisgiordania.

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Ultimi sviluppi (successivi al periodo di riferimento)

Il 5 febbraio, nella città di Hebron, durante scontri, le forze israeliane hanno sparato, uccidendo un ragazzo palestinese di 17 anni.

Il 6 febbraio, nella città di Jenin, durante scontri, scoppiati durante una demolizione punitiva, le forze israeliane hanno sparato e ucciso due palestinesi; uno degli uccisi era un poliziotto palestinese che, secondo quanto riferito, durante gli scontri si trovava all’interno di una stazione di polizia.

Il 6 febbraio, nella Città Vecchia di Gerusalemme, un palestinese, cittadino israeliano, ha aperto il fuoco contro forze israeliane che, a loro volta, lo hanno colpito e ucciso; un poliziotto israeliano è rimasto ferito.

Il 6 febbraio, a Gerusalemme Ovest, un palestinese si è lanciato con l’auto contro un gruppo di soldati israeliani, ferendone 13; si è quindi dato alla fuga, incolume.

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Perché l’Autorità Nazionale Palestinese non è in grado di mobilitare il suo popolo?

Mariam Barghouti

4 febbraio 2020 – Al Jazeera

Per decenni l’ANP ha represso le proteste palestinesi e minato la mobilitazione di massa palestinese.

Con l’annuncio il 28 gennaio dell’ “accordo del secolo” dell’amministrazione Trump, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) è entrata in azione. A poche ore dalla cerimonia alla Casa Bianca, durante la quale il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha divulgato i dettagli del suo piano, il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha dichiarato “mille no all’accordo del secolo”.

L’ANP ha quindi proceduto a rilasciare una serie di minacce, tra cui ancora una volta quella di rompere gli accordi con i corpi di sicurezza israeliani, e un appello a manifestazioni di massa contro l’accordo proposto.

Nonostante tutti i suoi affanni retorici, tuttavia, la leadership palestinese non è riuscita a radunare una forte reazione all’oltraggiosa violazione dei diritti dei palestinesi che è in realtà la proposta di Trump. Non è riuscita nemmeno a mobilitare la propria gente. Perché?

Perché da oltre 20 anni l’ANP ha partecipato attivamente alla repressione del popolo palestinese, mantenendo uno stretto rapporto con le forze di sicurezza israeliane. Il suo atteggiamento, i suoi discorsi e le politiche passate e presenti sono sempre stati diretti non a proteggere i diritti e il benessere del popolo palestinese, ma a mantenere il potere a tutti i costi.

L’ “accordo del secolo” ha smascherato la duplicità dell’ANP e il costo che ha rappresentato per la mobilitazione di massa palestinese.

Reprimere il dissenso palestinese

Dalla sua istituzione nel 1994 a seguito dei disastrosi accordi di Oslo, l’ANP ha fatto poco altro che aiutare Israele a pacificare i palestinesi mentre la loro terra, proprietà e risorse venivano confiscate dai coloni ebrei. Per garantirsi il potere, la leadership palestinese ha portato avanti una stretta cooperazione con Israele, torturando i dissidenti palestinesi e fornendo informazioni sugli attivisti palestinesi.

Ha anche represso violentemente qualsiasi protesta pubblica che minacciasse la sua stretta sul potere o fosse considerata una “minaccia” dagli israeliani. Ha ripetutamente schierato la guardia nazionale, la polizia antisommossa e gli scagnozzi fedeli a Fatah, il partito che controlla l’ANP, per reprimere il dissenso.

La mia prima esperienza con le maniere forti dell’ANP è stata nel 2011, durante una manifestazione in piazza Manara a Ramallah di solidarietà con le rivoluzioni dei vicini Paesi arabi. Centinaia di giovani si sono riuniti pacificamente, scandendo slogan politici, chiedendo l’unità tra Fatah e Hamas contro le regole di Oslo. Nel giro di poche ore siamo stati attaccati, malmenati e arrestati.

Nel 2012, siamo scesi in strada per una protesta contro la prevista visita a Ramallah del vice primo ministro israeliano Shaul Mofaz, un uomo accusato di aver commesso innumerevoli crimini contro i palestinesi, incluso il massacro di Jenin durante la seconda Intifada e l’assassinio di vari leader palestinesi.

Abbiamo considerato il suo incontro con Abbas un altro atto di complicità dell’ANP con il progetto di insediamento coloniale israeliano. Siamo usciti in massa per protestare, ma siamo stati duramente picchiati dalla polizia dell’ANP. Più tardi, l’intelligence dell’ANP ci ha seguiti e assaliti per strada, ha chiamato le nostre famiglie minacciandole. Peggio ancora, siamo stati calunniati dai lealisti dell’ANP sulle piattaforme dei social media come “traditori” che avrebbero lavorato per una “agenda straniera”.

Nel 2018, siamo scesi in strada per manifestare contro la complicità dell’ANP nel blocco israeliano su Gaza, che ormai ha reso la Striscia invivibile. L’ANP aveva tagliato lo stipendio ai dipendenti di Gaza, cancellato i trasferimenti per cure mediche e l’assistenza finanziaria a centinaia di famiglie bisognose. A causa dei loro meschini interessi di parte, due milioni di palestinesi soffrono condizioni di vita insopportabili. La nostra protesta è stata di nuovo brutalmente attaccata, siamo stati picchiati, trascinati per le strade di Ramallah e arrestati mentre cercavamo di farci curare le ferite in ospedale.

Questi sono solo alcuni esempi della campagna sistematica dell’ANP per mettere a tacere e placare i palestinesi in modo da fornire a Israele un “senso di sicurezza”. Questo non vuol dire che Hamas sia un attore senza colpe; anch’esso ha commesso la sua buona parte di repressione contro la popolazione palestinese a Gaza e ha cercato di mettere a tacere le critiche.

Basta leadership palestinese

Oltre a reprimere il dissenso palestinese, la leadership palestinese, sia in Cisgiordania che a Gaza, ha cercato anche di strumentalizzare la mobilitazione di massa per i suoi miopi obiettivi politici.

Ogni volta che c’è la dichiarazione di un organismo internazionale che minacci la posizione dell’Autorità Nazionale Palestinese come rappresentante del popolo palestinese (e non è stata eletta), assistiamo a una serie di discorsi e dichiarazioni di politici palestinesi che chiamano alla protesta.

L’ANP e le altre fazioni e partiti politici palestinesi considerano la protesta palestinese un’arma che possono usare ogni volta che lo desiderano. Vogliono una mobilitazione di massa solo quando gli fa comodo, non quando è meglio per l’interesse del popolo palestinese.

Il problema è che questo atteggiamento, insieme ad anni di repressione del dissenso e angherie nei confronti della società civile, ha aggiunto un altro livello di repressione – oltre all’occupazione israeliana – lasciando i palestinesi disillusi e danneggiando la loro capacità di mobilitarsi efficacemente per la loro lotta.

Nel corso degli anni, molti hanno smesso di vedere una ragione per scendere in piazza, perché la loro protesta sarebbe stata brutalmente repressa o cooptata da forze politiche che considerano illegittime.

Non c’è da stupirsi quindi se, quando l’ANP ha chiesto la mobilitazione di massa nelle strade contro “l’accordo del secolo”, sono arrivati in pochi. Oggi l’ANP è in grado di mobilitare solo chi è fedele alle sue strutture politiche e al suo braccio armato – Fatah. Per radunare una folla a Ramallah, deve portare in bus le persone da fuori città.

Ormai molti palestinesi hanno perso fiducia nella loro leadership. Molti sanno che le minacce dell’ANP di tagliare i legami con le agenzie di intelligence israeliane sono false. L’ultima volta che l’ha fatto, nel 2017, è venuto poi fuori che il 95% del coordinamento per la sicurezza con Israele era stato mantenuto.

Ma nonostante il fallimento politico e morale dei loro leader, i palestinesi non sono disperati. Continuano la loro lotta per la giustizia, i diritti e la fine dell’occupazione israeliana e dell’apartheid. Continuano a mobilitarsi nonostante i loro leader e la loro complicità con Israele.

Lo spirito della piazza palestinese è vivo, ma non può più essere invocato da forze politiche disoneste. Si manifesterà solo in difesa della legittima lotta del popolo palestinese.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Mariam Barghouti è una scrittrice palestinese americana residente a Ramallah.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)