Israele stravolge la legge per evitare l’inchiesta della CPI

Maureen Clare Murphy

30 maggio 2019 – The Electronic Intifada

Israele conta sui muscoli degli USA per bloccare l’inchiesta della Corte Penale Internazionale sui presunti crimini di guerra perpetrati nella Cisgiordania e nella Striscia di Gaza occupate.

“La Corte Penale Internazionale dell’Aia non ha giurisdizione per discutere materie riguardanti il conflitto israelo-palestinese”, ha dichiarato questa settimana Sharon Afek, procuratore generale militare di Israele, alla conferenza annuale di Herzliya, una riunione ad alto livello delle élite politiche e militari israeliane.

“Israele è un Paese rispettoso delle leggi, con un sistema giudiziario indipendente e forte e non vi è motivo perché le sue azioni vengano prese in esame dalla CPI”, ha aggiunto Afek.

Il quotidiano di Tel Aviv Haaretz ha affermato che recentemente l’ufficio della procura generale militare ha anche pubblicato un rapporto che sostiene che l’esercito ha svolto “conferenze e seminari sulle implicazioni giuridiche” delle azioni delle forze di occupazione.

“L’iniziativa è stata sollecitata dagli scontri settimanali tra soldati e palestinesi nell’ultimo anno, come anche dall’esame della Corte Penale Internazionale sulle azioni (dell’esercito) nella guerra contro Gaza del 2014”, ha aggiunto Haaretz.

La situazione in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza è sottoposta ad indagine preliminare da parte della Corte Penale Internazionale dal 2015. Lo scorso anno il suo procuratore capo rivolto un monito senza precedenti ai leader israeliani, avvertendo che potrebbero subire un processo per le uccisioni di manifestanti disarmati a Gaza.

Durante le manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno a Gaza più di 200 palestinesi, compresi 44 minori, sono stati uccisi e altre migliaia sono state ferite. Nella sola giornata del 14 maggio 2018, il giorno più letale delle proteste da quando sono cominciate all’inizio di quell’anno, circa 1400 palestinesi sono stati colpiti da proiettili veri nel corso delle proteste.

I giudici dell’Aia hanno anche ordinato alla Corte Penale Internazionale di mettersi in comunicazione con le vittime dei crimini di guerra in Palestina.

Indagini di facciata

Afek ha ordinato un’inchiesta della polizia militare sull’uccisione di 11 palestinesi durante la Grande Marcia del Ritorno.

Israele mantiene l’apparenza di un solido apparato interno di indagine per evitare di essere chiamato a rispondere di fronte ai tribunali internazionali. Le associazioni per i diritti umani hanno definito le inchieste dell’esercito israeliano sulle sue violazioni contro i palestinesi un meccanismo di insabbiamento.

All’inizio di questo mese l’esercito ha chiuso la sua indagine sull’uccisione di Ibrahim Abu Thurayya, un uomo con le gambe amputate colpito alla testa durante una protesta nel dicembre 2017.

A settembre 2016 l’associazione palestinese per i diritti umani Al-Haq ha affermato che “dal 1987 nessun soldato o comandante israeliano è stato incriminato per aver deliberatamente causato la morte di un palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza occupate.”

Da allora vi sono state due incriminazioni – entrambe in episodi di notevole gravità in cui l’uccisione è stata ripresa in un video.

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Nel 2017 il medico militare israeliano Elor Azarya è stato condannato a 18 mesi (di carcere) per l’uccisione a bruciapelo di Abd al-Fattah al-Sharif nella città cisgiordana di Hebron nel 2016. Quella sentenza è stata in seguito ridotta di un terzo.

L’anno scorso Ben Dery è stato condannato a nove mesi di prigione per quella che ‘Defence for Children International Palestine’ ha definito l’“uccisione deliberata” del diciassettenne Nadim Nuwara durante le proteste fuori da una prigione militare della Cisgiordania nel maggio 2014.

Distorcere la legge

Durante il suo intervento alla conferenza di Herzliya, Afek ha accusato le autorità di Hamas a Gaza di mandare migliaia di persone “a varcare la barriera di confine.”

“Questo solleva sostanziali problemi giuridici, incluso quale sia l’adeguato quadro giuridico in base al quale l’esercito deve rispondere”, ha aggiunto.

Israele ha cercato di giustificare l’uso della forza letale contro i manifestanti di Gaza dicendo che le manifestazioni e la loro repressione mortale fanno parte di un conflitto armato con Hamas.

Una commissione d’inchiesta indipendente promossa dalle Nazioni Unite ed associazioni palestinesi per i diritti umani lo hanno confutato. Affermano che le manifestazioni di massa lungo il confine tra Gaza e Israele sono una questione di applicazione della legge riguardante i civili sottoposta al diritto umanitario internazionale. Le uccisioni e le menomazioni di manifestanti non possono quindi essere giustificate sostenendo che sono avvenute durante un conflitto armato.

La commissione d’inchiesta ha predisposto un fascicolo riservato contenente dei dossier su presunti responsabili di crimini internazionali in relazione alla Grande Marcia del Ritorno, da sottoporre alla Corte Penale Internazionale.

Israele fa affidamento sulle minacce e intimidazioni da parte degli USA per impedire una regolare inchiesta da parte della CPI.

Anche Paul Ney, procuratore del Dipartimento della Difesa USA, è intervenuto alla conferenza di Herzliya durante quello che Haaretz ha descritto come “un attacco coordinato contro la giurisdizione della Corte Penale Internazionale”, da parte di USA e Israele.

Ney ha detto che gli USA “non hanno in nessun modo dato il consenso ad alcun esercizio della competenza giurisdizionale da parte della CPI” e che la sua presa in esame di accuse contro personale USA è ritenuta “una flagrante violazione della nostra sovranità nazionale e un attacco allo stato di diritto americano.”

La CPI si arrende alle intimidazioni

In aprile i giudici istruttori della CPI hanno deciso all’unanimità di rinunciare ad aprire un’inchiesta sui crimini di guerra in Afghanistan, adducendo le scarse probabilità di “ottenere una significativa collaborazione da parte delle autorità competenti”, riferendosi agli USA.

L’annuncio è arrivato alcuni giorni dopo che gli USA hanno revocato il visto al procuratore capo della Corte Penale Internazionale.

Il presidente USA Donald Trump ha avvertito che “qualunque tentativo di incriminare personale americano, israeliano o alleato troverà una pronta e dura risposta.”

Alla conferenza di Herzliya Ney ha detto che la CPI non ha giurisdizione per perseguire presunti crimini internazionali di Israele e degli USA, perché nessuno dei due Stati ha aderito allo Statuto di Roma, il trattato che ha istituito la Corte.

Gli USA hanno inoltre adottato misure punitive e coercitive contro l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina per i suoi tentativi di vedere Israele incriminato presso la CPI, compresa la chiusura della sua rappresentanza a Washington l’anno scorso.

L’Autorità Nazionale Palestinese ha aderito allo Statuto di Roma nel 2015, accettando la giurisdizione della CPI riguardo a presunti crimini commessi nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, dal 13 giugno 2014.

Maureen Clare Murphy è capo redattrice di ‘The Electronic Intifada’ e vive a Chicago.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Reporter Senza Frontiere accetta un premio da un regime che uccide giornalisti

Ali Abunimah

28 maggio 2019 – Electronic Intifada

Reporter Senza Frontiere sta affrontando dure critiche per aver accettato un premio da un regime che uccide giornalisti.

All’inizio del mese l’associazione, spesso nota con le sue iniziali in francese RSF, durante una cerimonia all’università di Tel Aviv a cui ha partecipato il presidente israeliano Reuven Rivlin, ha ricevuto il premio “Dan David” per “la difesa della democrazia”.

Il direttore di RSF Christophe Deloire ha ritirato il premio a nome del gruppo.

L’ambasciatrice francese a Tel Aviv Hélène Le Gal ha definito la cerimonia di premiazione “una bellissima serata”.

Elsa Lefort, militante francese per i diritti umani, ha detto di “essere rimasta senza parole davanti a un simile cinismo.”

Lefort, moglie di Salah Hamouri, avvocato franco-palestinese recentemente incarcerato per più di un anno da Israele senza imputazioni, ha aggiunto che i suoi pensieri sono andati ai “giornalisti palestinesi uccisi a Gaza e a quelli che languiscono nelle prigioni dell’occupante.”

Prendere di mira i giornalisti

In febbraio una commissione d’inchiesta indipendente dell’ONU ha rilevato che lo scorso anno i cecchini israeliani “hanno sparato intenzionalmente” a giornalisti palestinesi che stavano informando sulle proteste della Grande Marcia del Ritorno a Gaza.

Due sono stati uccisi – Yaser Murtaja and Ahmed Abu Hussein.

All’inizio di questo mese, la madre di Murtaja, Khairiya, ha chiesto alla pop star Madonna di non esibirsi alla competizione musicale Eurovision.

Yaser era un giovane modesto, pacifico, disarmato, che andava sul confine di Gaza con la sua videocamera per trasmettere al mondo la vera immagine di Israele, che assassina i sogni di bambini e giovani,” ha scritto.

Mio figlio non voleva morire, cercava la vita, amava il suo lavoro, voleva far crescere suo figlio con dignità e libertà. Yaser amava questo Paese, e non voleva lasciarmi.” La Commissione per la Protezione dei Giornalisti ha definito l’uccisione di Murtaja e di Abu Hussein “parte di uno schema”, notando che nessuno è mai stato chiamato a rispondere di queste e altre uccisioni di operatori dei media da parte di Israele.

L’organizzazione per i diritti umani con sede a Gaza “Al Mezan” ha documentato più di 230 attacchi contro giornalisti durante la Grande Marcia del Ritorno, 100 dei quali con proiettili veri e altrettanti provocati da candelotti lacrimogeni.

Hamza Abu Eltarabesh, che spesso collabora con questo giornale, recentemente ha detto al podcast di Electronic Intifada di aver smesso di indossare un giubbotto con la scritta STAMPA quando informa sulle proteste di Gaza e cerca solo di mischiarsi alla folla perché l’esercito israeliano ha deliberatamente preso di mira moltissimi giornalisti.

All’inizio di questo mese aerei da guerra israeliani hanno attaccato e distrutto a Gaza City gli uffici dell’agenzia di notizie turca Anadolu.

Persino Reporter Senza Frontiere ha riconosciuto che “le forze israeliane hanno continuato a sottoporre giornalisti palestinesi ad arresti, interrogatori e detenzioni amministrative, spesso senza basi concrete” e che negli ultimi anni le autorità dell’occupazione israeliana hanno ripetutamente chiuso mezzi di informazione palestinesi.

Il giorno dopo la cerimonia di premiazione lo stesso Deloire, il direttore di Reporter Senza Frontiere, ha accusato Israele di “crimini di guerra” contro giornalisti.

Credibilità danneggiata

Il fatto che Reporter Senza Frontiere abbia ricevuto questo premio danneggia gravemente la sua credibilità,” ha osservato la pubblicazione francese ‘Agence Média Palestine’.

In effetti, ricevendo un premio per la ‘democrazia’ in presenza di Reuven Rivlin, il presidente del regime israeliano che lo scorso luglio ha approvato la legge sullo Stato-Nazione che istituisce ufficialmente l’apartheid, non contribuisce alla democrazia, semmai il contrario.”

L’agenzia “Média Palestine” ha accusato Reporter Senza Frontiere di aver preso parte a una manifestazione propagandistica intesa a ripulire l’immagine di Israele.

Gli attivisti palestinesi hanno chiesto a precedenti destinatari di rifiutarsi di accettare il premio Dan David.

Per esempio, nel 2010 il PACBI, la Campagna Palestinese per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele, ha detto alla celebre scrittrice canadese Margaret Atwood che la sua accettazione del premio avrebbe appoggiato una “campagna ben avviata per occultare le gravi violazioni delle leggi internazionali e dei diritti umani fondamentali da parte di Israele.”

L’autrice di “Il Racconto dell’Ancella” ha ignorato gli appelli dei palestinesi ed ha accettato il versamento di un milione di dollari del “Dan David”.

Il premio “Dan David” è assegnato dall’università di Tel Aviv, che è essa stessa totalmente complice del sistema di occupazione, colonialismo di insediamento e apartheid di Israele.

La commissione del “Dan David Price” include Henry Kissinger, l’uomo di stato americano noto per una spaventosa serie di crimini, compreso il fatto di aver architettato il colpo di stato militare in Cile nel 1973 e i bombardamenti genocidi in Cambogia che hanno ucciso 1,7 milioni di persone.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La falsa rivoluzione di Madonna: Eurovision, egemonia culturale e resistenza

Ramzy Baroud

22 maggio 2019Palestine Chronicle

Lo scorso marzo è mancata all’età di 51 anni Rim Banna, famosa cantante palestinese che ha musicato le poesie palestinesi più commoventi. Banna ha colto nel modo più nobile e melodioso la lotta dei palestinesi per la libertà. Se potessimo immaginare gli angeli che cantano, lo farebbero come lei.

Quando Banna è morta, tutti i palestinesi hanno pianto la sua scomparsa. Benché pochi mezzi di comunicazione internazionali abbiano dato la notizia della sua morte a un’età relativamente giovane, il fatto che sia stata vinta dal cancro non ha ottenuto molta attenzione o discussione. Tristemente la morte di un’icona palestinese di resistenza culturale che ha ispirato un’intera generazione, a cominciare dalla prima Intifada nel 1987, è stata a malapena notata come un fatto degno di nota e di riflessione, persino tra quanti pretendono di perorare la causa palestinese.

Confrontatela con Madonna, un’“artista” che si è impegnata per l’auto-esaltazione, la fama personale e l’arricchimento. Quest’ultima ha rappresentato i valori morali più degradati, utilizzando l’intrattenimento a buon mercato e soddisfacendo le più basse caratteristiche comuni per rimanere il più a lungo possibile famosa nel mondo della musica.

Mentre Banna aveva una causa, Madonna non ne ha nessuna. E, mentre Banna rappresenta la resistenza culturale, Madonna simbolizza l’egemonia culturale globalizzata – in questo caso, l’imposizione della cultura consumistica occidentale sul resto del mondo.

L’egemonia culturale definisce la relazione degli USA e di altre culture occidentali con il resto del mondo. Non è cultura come nelle conquiste intellettuali e artistiche collettive di quelle società, ma come una serie di strumenti ideologici e culturali utilizzati dalle classi dominanti per mantenere la dominazione su [popoli] svantaggiati, colonizzati ed oppressi.

Madonna, Michael Jordan, i Beatles e la Coca-Cola, rappresentano molto più di semplici interpreti e di una bevanda frizzante: sono anche uno strumento per garantire il dominio culturale, quindi economico e politico. Il fatto che in qualche città in giro per il mondo, soprattutto nell’emisfero sud, la Coca Cola scorra “più liberamente dell’acqua” la dice lunga sullo strumento economico e sulla dimensione politica dell’egemonia culturale.

Questa questione è diventata problematica quando Madonna ha deciso di esibirsi in Israele, come ha fatto varie volte in passato, in quanto parte della competizione canora Eurovision. Sapendo chi è e da che parte sta, la sua decisione non dovrebbe aver rappresentato una sorpresa – dopotutto nel suo concerto del settembre 2009 a Tel Aviv cantò avvolta in una bandiera israeliana.

Ovviamente è fondamentale che ad artisti del suo calibro ed ai partecipanti, che rappresentavano 41 diversi Paesi, venga ricordata la loro responsabilità morale verso i palestinesi occupati ed oppressi. È anche importante che ci si opponga ai continui tentativi di Israele di mascherare la sua apartheid e i suoi crimini di guerra in Palestina.

Infatti non si dovrebbe consentire che continui l’insabbiamento delle violazioni israeliane dei diritti umani utilizzando l’arte – noto anche come “art-washing” -, mentre Gaza è sotto assedio e i bambini palestinesi vengono colpiti e uccisi quasi ogni giorno, senza rimorso e senza responsabilità legale.

Questa è la ragione per cui questi eventi artistici sono importanti per il governo e la società israeliani. Israele ha utilizzato l’Eurovision come distrazione rispetto allo spargimento di sangue in evidenza non lontano dalla location di Tel Aviv. Quelli che si sono adoperati per garantire il successo dell’evento, sapendo benissimo come Israele lo stia utilizzando in quanto opportunità per normalizzare la sua guerra contro i palestinesi, dovrebbero seriamente vergognarsi.

Ma, d’altra parte, dovremmo essere sorpresi? Eventi musicali come Eurovision non si trovano forse al cuore dello schema globalizzante dell’egemonia culturale centrata sull’Occidente, con l’unico proposito di imporre una visione capitalistica del mondo, in cui la cultura occidentale è consumata come una merce, non diversamente da un panino McDonald o da un paio di jeans Levi?

Chiedere alla sessantenne Madonna di evitare di intrattenere l’apartheid israeliana può essere considerato utile come strategia mediatica, perché contribuisce a mettere in luce, anche se solo momentaneamente, un problema che altrimenti sarebbe stato assente dai titoli dei giornali. Tuttavia, concentrando l’attenzione su Madonna e qualunque siano i principi dei diritti umani che lei in apparenza appoggia, abbiamo anche assunto il rischio di nobilitare inavvertitamente lei e i valori consumistici che rappresenta. Oltretutto, in questa traiettoria centrata su Madonna, abbiamo anche ignorato la resistenza culturale della Palestina, il nucleo centrale che sta dietro il “sumud” (fermezza) palestinese nel corso di un secolo.

Mentre è importante mantenere pressione su quanti sono impegnati nell’appoggiare politicamente, economicamente e culturalmente Israele, questi sforzi dovrebbero essere secondari rispetto all’appoggio alla cultura della resistenza dei palestinesi. Comportarsi come se le buffonate sul palco di Madonna rappresentassero una cultura vera, ignorando nel suo complesso la cultura palestinese, è fare come gli studiosi che affrontano la decolonizzazione dal punto di vista dei colonizzatori, non dei colonizzati. La verità è che le Nazioni non possono liberarsi realmente della mentalità colonialista senza che le loro narrazioni prendano il centro del palcoscenico in termini di politica, cultura e ogni altro aspetto della conoscenza.

L’errore dell’intellettuale consiste nel credere che si possa sapere senza capire e, ancor di più, senza sentire ed appassionarsi,” scrisse l’intellettuale antifascista italiano Antonio Gramsci. Ciò comporta che l’intellettuale e l’artista sentano “le passioni elementari del popolo, le comprendano e, quindi, le spieghino e le giustifichino.”

La verità è che fare appello al senso morale di Madonna senza immergerci appassionatamente nell’arte di Banna non farà, a lungo termine, il bene dei palestinesi. In ultima analisi solo sposare la cultura della resistenza palestinese terrà a bada i messaggi culturali egocentrici, egemonici e a buon mercato delle Madonna di tutto il mondo.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story [L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press, Londra, 2018). Ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è studioso non residente presso il Centro Orfalea per gli studi globali e internazionali, Università di California, Santa Barbara.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Perché la Germania ha condannato il BDS

Nada Elia

Giovedì 23 maggio 2019 – Middle East Eye

La risoluzione tedesca non è la prima: si aggiunge nella stessa linea di precedenti risoluzioni simili adottate dalla Francia e dal Regno Unito

Il 17 maggio il Bundestag, il parlamento tedesco, ha adottato una mozione che condanna il BDS, definendolo “antisemita”.

Questa risoluzione non vincolante, proposta dai cristiano-democratici e dai socialdemocratici di centro sinistra, che fanno parte della coalizione al potere, ha raccolto l’appoggio di diversi partiti tedeschi, tra cui il partito liberal-democratico e i Verdi.

Il partito di estrema destra AfD (Alternativa per la Germania) ha presentato una propria mozione che chiedeva la messa al bando totale del movimento BDS, mentre il partito di estrema sinistra tedesca, Die Linke, non ha appoggiato la mozione del governo, ma ne ha presentato una propria che chiedeva una condanna di tutte le dichiarazioni antisemite del BDS.

Una spiegazione convincente

Poco dopo hanno iniziato a circolare articoli allarmisti, alcuni dei quali affermavano che la Germania era “il primo Paese al mondo a rendere illegale il BDS.”

Per esempio, un’intervista con l’economista politico che vive a Berlino Shir Hever [studioso israeliano degli aspetti economici dell’occupazione dei territori palestinesi, ndtr.] inizia così: “Il parlamento tedesco, il Bunderstag, ha appena adottato un testo legislativo senza precedenti che condanna il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni [contro Israele], noto con l’acronimo BDS. Ha considerato il BDS antisemita e illegale. Ciò fa della Germania il primo e unico Paese al mondo a rendere illegale il movimento BDS.”

Hever offre una spiegazione molto interessante (per non dire molto convincente) del perché la Germania abbia condannato il BDS. Ricordando che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato per due volte che era stato Hadj Amin al-Husseini, il Gran Muftì di Gerusalemme, e non Adolf Hitler, ad aver avuto per primo l’idea dello sterminio degli ebrei, Hever suggerisce che Netanyahu offra ai tedeschi una via d’uscita dal loro senso di colpa relativo all’Olocausto.

“Invece di sentirvi colpevoli dell’Olocausto, di dovervi scusare e prendervi la responsabilità dei crimini che sono stati commessi tanti anni fa, in realtà potete attribuire la colpa ai palestinesi,” spiega Hever.

“Ed è un messaggio in codice rivolto alla destra tedesca,” prosegue, aggiungendo: “A quanto pare alcuni partiti di sinistra hanno manifestato il desiderio di liberarsi del proprio senso di colpa per l’Olocausto equiparando il movimento BDS, promosso dai palestinesi, all’antisemitismo. Ovviamente non è un movimento antisemita.

Ma così facendo dicono: «Oh, noi lottiamo contro l’antisemitismo scegliendo di sostenere Israele, lo Stato d’Israele, piuttosto che sentirci responsabili della protezione del popolo ebraico.»

La sinistra tedesca

Un altro militante che vive a Berlino, Ronnie Barkan, dissidente israeliano e sostenitore del BDS, offre una spiegazione più convincente della ragione per cui certi partiti della sinistra tedesca abbiano sostenuto la legge anti-BDS: essa [la sinistra tedesca, ndtr.] è razzista.

Dobbiamo capire che, come il movimento ha recentemente ricordato alla gente, «il BDS prende di mira la complicità e non l’identità.»

Barkan paragona la risoluzione tedesca contro il BDS alla legge israeliana sullo Stato-Nazione. Mentre la legge sullo Stato-Nazione non ha fatto altro che codificare il razzismo latente nel Paese, scrive Barkan, senza cambiare niente, il fatto che sia stata finalmente formulata in termini semplici, spogliata del suo «linguaggio sionista-liberal orwelliano», ha risvegliato tutti gli spettatori in delirio che avevano fino ad allora creduto alla «democrazia israeliana».

Allo stesso modo, sostiene Barkan, la mozione tedesca anti-BDS non fa che evidenziare la vera natura del popolo tedesco, che resta profondamente razzista. La collera di Barkan è però rivolta soprattutto contro la sinistra tedesca, che secondo lui si rende gravemente complice delle azioni intese a far tacere la dissidenza e la militanza a favore dei diritti dei palestinesi.

In effetti l’abbandono del sostegno alla Palestina da parte di un gruppo di sinistra europeo era stato segnalato qualche anno fa in un articolo della rivista “Jacobin” [periodico della sinistra radical americana, ndtr.] intitolato “Il problema palestinese della sinistra tedesca”, che sottolineava, tra i principali tradimenti, come il presidente di “Die Linke” a Berlino, Klaus Lederer, fosse intervenuto ad un raduno filo-israeliano durante la guerra contro Gaza [l’operazione “Piombo Fuso”, ndtr.] del 2008-2009.

Non si era trattato di un caso isolato. In quanto “senatore per la cultura”, Lederer ha anche cercato di annullare altre manifestazioni filo-palestinesi, come ad esempio la “conversazione con Manal Tamimi [zia di Ahed, la ragazza palestinese condannata da Israele per aver schiaffeggiato due soldati, ndtr.]” dell’anno scorso, organizzata dal gruppo “Donne sotto occupazione”.

Con Stavit Sinai e Majed Abusalama, Barkan è membro di “Humboldt 3” [i tre attivisti denunciati per aver manifestato contro un incontro all’università Humboldt, ndtr.], che di recente è stato imputato per aver interrotto la conferenza di un membro della Knesset [parlamento, ndtr.] israeliano che aveva appoggiato l’attacco israeliano contro Gaza nel 2014 [operazione “Margine protettivo”] all’università Humboldt. Nella sua dichiarazione al tribunale, Abusalama ha spiegato: «Migliaia di musulmani e di palestinesi in Germania non si sentono liberi di esprimersi senza rischi. Hanno la sensazione che potrebbero essere perseguitati in qualunque momento semplicemente per aver gridato ‘Liberate la Palestina’, o per sognare di tornare liberamente nel proprio Paese, in base al diritto al ritorno imposto dall’ONU. Temono le persecuzioni per aver chiesto l’uguaglianza, la dignità, la libertà e la giustizia a Gaza.»

Combattere le menzogne

Qualunque siano le ragioni complesse che spiegano l’abbandono da parte della sinistra tedesca del sostegno popolare ai diritti dei palestinesi, è necessario contrastare alcune menzogne contenute in quest’ultima risoluzione. In primo luogo, come sottolinea Middle East Eye, questa iniziativa non è vincolante, è assolutamente simbolica.

In altri termini la Germania non ha “reso illegale” il BDS, ha adottato una risoluzione che lo condanna (a torto) come antisemita. In secondo luogo, la risoluzione tedesca non è la prima, si iscrive nella linea tracciata da precedenti risoluzioni simili prese dalla Francia e dall’Inghilterra.

Nel 2015 la Francia aveva condannato un collettivo di attivisti del BDS a una ammenda di 14.000 euro, più le spese legali, per aver promosso il BDS in un supermercato, affermando che è un reato promuovere il boicottaggio in quanto esso è intrinsecamente «discriminatorio» in base alla Nazione di provenienza.

E nel 2016 la Gran Bretagna ha emanato una legge per vietare a enti pubblici di boicottare i prodotti israeliani. Così finora solo la Francia ha «reso illegale» il BDS, infliggendo un’ammenda a dei militanti.

Tuttavia, nonostante la dichiarazione del sistema giuridico francese secondo cui il BDS è intrinsecamente discriminatorio, bisogna capire che, come ha ricordato di recente il movimento BDS, «esso prende di mira la complicità e non l’identità».

In effetti numerose industrie boicottate, come Caterpillar, Hewlett-Packard e G4S, non sono israeliane.

Negli Stati Uniti ogni tentativo di applicazione di risoluzioni statali che vietano il BDS è stato contestato con sentenze favorevoli nei tribunali, come dimostra un recente articolo del “Washington Post “ intitolato giustamente: «Le leggi contro il BDS sono popolari. Ciò non vuol dire che siano costituzionali».

La più recente causa vinta contro un divieto imposto dallo Stato contro il BDS ha avuto luogo a Pflugerville, in Texas, dove un’insegnante, Bahia Amawi, ha denunciato il distretto scolastico per non aver voluto rinnovare il suo contratto quando lei ha rifiutato di firmare una clausola in cui dichiarava di non si sarebbe impegnata nel movimento BDS.

Nell’aprile 2019 Amawi ha ottenuto un’importante vittoria quando il giudice ha emesso un’ordinanza contro la legge anti-BDS che la priverebbe dei suoi diritti civili e del suo lavoro.

Obiettivi del BDS

Tuttavia, siccome ci si può aspettare che delle leggi contro il BDS vengano discusse e votate in diversi Paesi d’Europa e nord America (anche il governo canadese ha condannato il BDS), certi punti meritano di essere ripetuti e chiariti.

Più precisamente, gli obiettivi del movimento BDS sono i seguenti: mettere fine all’occupazione illegale della terra palestinese e smantellare il muro illegale dell’apartheid, concedere ai cittadini palestinesi di Israele l’uguaglianza dei diritti e riconoscere il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi. Ne consegue che affermare che il movimento BDS sia “antisemita” equivale ad affermare che il “semitismo” (famiglia linguistica condivisa tecnicamente da numerosi gruppi nazionali ed etnici, ma a tutti gli effetti, in questo caso, un’etnia) sia di per sé un sotto-gruppo razziale colonialista suprematista che viola il diritto internazionale.

Chiaramente la logica stessa di una tale rivendicazione è sbagliata a diversi livelli. In secondo luogo, trattandosi dell’affermazione secondo cui il BDS cerca di “delegittimare” Israele, mentre non fa altro che esercitare una pressione su di esso perché rispetti il diritto internazionale, bisogna chiedersi perché un Paese si senta minacciato quando gli si chiede di rispettare i diritti dell’uomo. La giustizia è una minaccia solo nei confronti dell’ingiustizia. Se Israele, in quanto Paese, è minacciato, si sente “delegittimato” dalle richieste che si adegui alle leggi internazionali – quello che il BDS cerca di ottenere –, allora chiaramente questo Paese rappresenta una flagrante violazione del diritto internazionale. In fin dei conti, che il boicottaggio di Israele sia illegale o meno, la “legalità” di un movimento, di un’ideologia, di una politica o di una prassi non è un indicatore della sua integrità morale. Fino alla sua abolizione l’apartheid era legge.

Come la schiavitù. E per tornare al contesto tedesco, è stato lo stesso per l’Olocausto. Anche se il BDS diventasse illegale, un reato, non sarebbe immorale. Quando la legge si schiera dalla parte dell’oppressore, quelli che vi resistono e cercano di cambiarla hanno la morale dalla loro parte.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Nada Elia

Nada Elia è una scrittrice e commentatrice politica della diaspora palestinese che attualmente lavora sul suo secondo libro “Who You Callin’ “Demographic Threat?” [Chi definisci ‘minaccia demografica’? Note dall’intifada globale]. Docente di Studi di Genere e Globali (in pensione), fa parte del gruppo dirigente della campagna USA per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele (USACBI).

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 7 – 20 maggio 2019

Il 10 maggio, nella Striscia di Gaza, vicino alla recinzione israeliana che la delimita, durante proteste avvenute ad est di Rafah nell’ambito della “Grande Marcia di Ritorno” (GMR), un palestinese di 24 anni è stato ucciso ed altri 425 circa sono stati feriti.

Oltre il 47% dei feriti sono stati ospedalizzati; 56 di questi erano stati colpiti con armi da fuoco.

In aree [di terraferma] adiacenti alla recinzione perimetrale [sul lato interno della Striscia] e [di mare,] al largo della costa di Gaza, le forze israeliane, per far rispettare le restrizioni di accesso [imposte ai palestinesi], hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 21 occasioni non collegate a proteste per la GMR, provocando tre feriti, tra cui un contadino e un pescatore. In tre occasioni, le forze israeliane sono entrate a Gaza, vicino a Beit Hanoun (Nord della Striscia), Deir al Balah (Area Centrale) e Rafah [Area Sud], ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

In Cisgiordania, durante proteste e numerosi scontri, le forze israeliane hanno ferito 24 palestinesi, tra cui quattro minori [dettaglio nel paragrafo seguente]; questo numero rappresenta una riduzione significativa, di circa l’85%, rispetto alla media quindicinale di 155 feriti registrata nei primi mesi di quest’anno. Sei palestinesi [dei 24] sono rimasti feriti durante scontri con le forze israeliane verificatisi nei pressi dell’area di Bab al Amud nella Città Vecchia di Gerusalemme. Altri due palestinesi sono stati aggrediti fisicamente e feriti dalle forze israeliane vicino all’area di Beit Hanina, a Gerusalemme Est, mentre tentavano di attraversare la Barriera senza autorizzazione. Il 10 maggio, a due ambulanze palestinesi è stato negato l’accesso alla Città Vecchia di Gerusalemme e due paramedici sono stati fermati, aggrediti fisicamente e feriti dalla polizia israeliana; questo episodio è avvenuto successivamente ad una intesa con le autorità israeliane che prevedeva l’attenuazione delle restrizioni di accesso a Gerusalemme Est durante il mese musulmano del Ramadan [vedi più avanti]. Un altro palestinese è stato ferito nel villaggio di Kafr Qaddum (Qalqiliya) negli scontri scoppiati durante la protesta settimanale contro le restrizioni di accesso e contro l’espansione degli insediamenti [colonici israeliani]. Altri tre palestinesi sono stati feriti dalle forze israeliane durante scontri scoppiati dopo l’accesso di coloni israeliani alla sorgente di Ein Harrasheh ed in un parco pubblico nella zona B del villaggio di Al Mazra’a al Qibliya (Ramallah). Secondo fonti della Comunità locale, i coloni israeliani avevano sparato in aria ed avevano istituito un checkpoint improvvisato, impedendo ai palestinesi l’accesso alla zona. Due palestinesi sono stati arrestati.

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno condotto 81 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 110 palestinesi. La quota maggiore di operazioni (21) è stata compiuta nel governatorato di Hebron mentre il più alto numero di arresti (30) è stato effettuato nel governatorato di Gerusalemme.

Nella Valle del Giordano settentrionale, per consentire una esercitazione militare israeliana, in sei occasioni le forze israeliane hanno sfollato, per 7-20 ore ogni volta, 125 palestinesi (per l’80% donne e minori) appartenenti a due Comunità di pastori, Tell al Khashaba (Nablus) e Humsa al Bqai’a. Le famiglie hanno dovuto stazionare all’aperto o trovare ricovero presso Comunità vicine; nella maggior parte dei casi lo sfollamento è avvenuto di notte, ed hanno dovuto lasciare sul posto le greggi ed il bestiame. Il 16 maggio, l’Associazione per i Diritti Civili in Israele, ha presentato una petizione all’Alta Corte di Giustizia israeliana contro lo sgombero della Comunità di Humsa al Bqai’a. Il 22 maggio, l’Alta Corte di Giustizia ha respinto la petizione. Entrambe le Comunità devono affrontare sistematiche demolizioni e restrizioni di accesso che, insieme ai ripetuti sfollamenti temporanei dovuti all’addestramento militare, destano preoccupazioni sul rischio di trasferimento forzato dei residenti.

Citando la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito una struttura di sussistenza di proprietà palestinese, situata nella zona C del villaggio di Haris (Salfit), colpendo una famiglia di sette persone, tra cui quattro minori.

In concomitanza con il mese musulmano del Ramadan, iniziato il 6 maggio, le autorità israeliane hanno annunciato l’attenuazione delle restrizioni di accesso. Il provvedimento include l’emissione di circa 150.000 permessi per visite familiari in Gerusalemme Est e Israele; inoltre, per le preghiere del venerdì, agli uomini sopra i 40 anni, ai minori di 16 anni e alle donne di tutte le età è consentito l’ingresso a Gerusalemme Est senza necessità di permesso. I residenti di Gaza non hanno avuto permessi per il Ramadan. Secondo il Distretto di Coordinamento israeliano (DCL), per le preghiere del primo e del secondo venerdì di Ramadan, le forze israeliane hanno consentito l’ingresso in Gerusalemme Est, attraverso tre checkpoints circostanti, a circa 75.744 palestinesi il 10 maggio e circa 92.188 il 17 maggio. Nel 2018 i permessi per il primo e secondo venerdì di Ramadan erano stati, rispettivamente, circa 39.300 e 87.085.

Il 13 maggio, Israele ha riaperto entrambi i valichi sotto suo controllo al transito sia di persone che di merci: il valico passeggeri di Erez ed il valico merci di Kerem Shalom. Il provvedimento ha fatto seguito alle severe restrizioni che avevano accompagnato la recente ondata di violenza [vedi il Rapporto precedente] ed alla successiva chiusura generale praticata durante le festività nazionali israeliane.

Durante il periodo di riferimento sono stati segnalati tredici attacchi di coloni israeliani: sette palestinesi sono rimasti feriti e 60 alberi di proprietà palestinese sono stati vandalizzati o incendiati [seguono dettagli]. Tre degli episodi si sono verificati nelle vicinanze dei villaggi di Asira al Qibliya, Qiryat e Yanun (entrambi a Nablus) e Marda (Salfit). In queste località cinque alberi, almeno 50.000 m2 di coltivazioni e un veicolo sono stati vandalizzati, a quanto riferito, da coloni provenienti dagli insediamenti di Yitzhar, Shilo, Itamar, Ariel e Mitzpe Ya’ir. Altri tre attacchi incendiari portati nei villaggi di Asira al Qibliya e Burin (entrambi a Nablus) e Izbat Shufa (Tulkarm), secondo quanto riferito, ancora ad opera di coloni israeliani, hanno provocato estesi danni a terreni coltivati e ad almeno 20 ulivi. Dall’inizio del 2019, l’Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari nei Territori palestinesi occupati (OCHAoPt) ha registrato lo sradicamento, l’incendio o la vandalizzazione di 1.845 alberi da parte di coloni israeliani. Tuttavia, rispetto alla media mensile [di fatti analoghi avvenuti nel] 2018 e nel 2017, il numero sopraccitato rappresenta una riduzione del 44% e del 22% rispettivamente. Nell’area H2 di Hebron, controllata da Israele, coloni israeliani hanno aggredito e ferito tre palestinesi, tra cui due minori, in quattro distinti episodi. Inoltre, secondo il Consiglio del villaggio di Qaryut (Nablus), il 20 maggio, coloni israeliani dell’insediamento di Eli hanno scaricato liquami su terreni palestinesi coltivati ad ulivi; 10.000 m2 di terreni e 40 ulivi sono stati contaminati. Altri quattro palestinesi sono stati aggrediti fisicamente e feriti da coloni israeliani in due distinti episodi accaduti nel quartiere di Sheikh Jarrah e nella Città Vecchia di Gerusalemme.

In Cisgiordania, in almeno tre occasioni, palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani vicino a Gerusalemme, Betlemme e Ramallah; secondo fonti israeliane sono stati danneggiati almeno tre veicoli privati, ma non sono stati segnalati feriti.

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Ultimi sviluppi

Per la seconda volta in due settimane, il 23 maggio le autorità israeliane hanno ridotto l’ampiezza della zona di pesca consentita [ai palestinesi] lungo la costa meridionale di Gaza; a quanto riferito, la riduzione (da 15 a 10 miglia nautiche) è stata comminata come risposta al lancio di palloncini incendiari verso Israele.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




L’assassinio della memoria palestinese: un altro strumento di pulizia etnica

Samah Jabr

Middle East Monitor, 18 maggio 2019

Mentre Israele celebrava la Giornata dell’Indipendenza, all’inizio di questa settimana, ho saputo di due episodi.

Uno mi è stato raccontato da alcuni amici di Gerusalemme che lavorano nelle istituzioni israeliane, che mi hanno parlato del loro disagio durante lo Yom HaZikaron – il Giorno del Ricordo, durante il quale si rende omaggio ai soldati caduti e agli altri israeliani morti a causa del “terrorismo”. Quel giorno, in Israele, suona una sirena in tutto il Paese e tutti devono interrompere qualsiasi tipo di attività stiano facendo – anche guidare una macchina – per dimostrare, con due minuti di silenzio, il proprio ricordo e rispetto per i morti. Una mia amica mi ha detto che il suo capo le ha intimato di alzarsi in piedi durante il suono della sirena, oppure poteva fare proprio a meno di andare al lavoro. Un’altra amica mi ha raccontato di essersi spostata, in quel momento, nello spogliatoio dei dipendenti e di avervi trovato altre dodici lavoratrici palestinesi. Tutte stavano evitando di dover rendere omaggio a quelle stesse persone che ci hanno perseguitato sin da quando è nata l’idea di stabilire lo Stato di Israele sulla nostra terra.

Il secondo episodio ha avuto luogo in una scuola superiore di Gerusalemme, in cui studiano, tutti insieme, palestinesi di Gerusalemme, palestinesi con la cittadinanza israeliana ed ebrei israeliani. In questa scuola è stata collocato un tabellone/cartellone come memoriale dedicato ai soldati israeliani caduti, in modo che gli studenti potessero scrivere il nome “dei loro cari e accendere una candela in loro ricordo”, come ha spiegato il sindacato degli studenti. Senonché, un giorno l’installazione commemorativa è stata trovata con le candele spente e, proprio sul cartellone, la scritta “Ramadan Kareem” (augurio di “buon Ramadan”, ndt.). A quel punto, sono stati coinvolti polizia e partiti di destra. Una ragazza di Gerusalemme è accusata di aver messo in atto questo “atto vandalico” e altri sei (studenti, ndt) di averla sostenuta; tutti e sette sono ora in attesa di punizione. Pare che la condanna dell’atto stia colpendo “tutti gli arabi” della scuola, da cui ci si aspetta una condivisione di colpevolezza e vergogna. Nessuno ha commentato che la presenza del tabellone/cartellone cancella, prima di tutto, la memoria e la storia nazionale dei palestinesi.

Recentemente, Israele ha lanciato contro le scuole palestinesi accuse e provocazioni che sono state portate all’attenzione dell’Unione Europea. Con una risposta scritta sulla questione, Francesca Mogherini, Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, ha confermato che è in programma un’indagine sui programmi scolastici palestinesi: “I criteri di riferimento sono in fase di elaborazione, nell’ottica di identificare il possibile incitamento all’odio e alla violenza, e ogni eventuale mancanza di conformità agli standard di pace e tolleranza nell’educazione stabiliti dall’UNESCO.” Sui programmi scolastici israeliani, però, non è prevista alcuna indagine del genere! A quanto pare, gli israeliani chiedono che i programmi scolastici palestinesi cancellino completamente la storia e la geografia della Palestina e, al lor posto, insegnino la storia dell’Olocausto europeo ai più giovani, già sopraffatti dallo strazio delle loro esperienze dirette di vita.

Io sono totalmente a favore di uno studio accademico e della riforma dei programmi scolastici palestinesi – uno studio che prenda in esame fino a che punto i programmi palestinesi insegnino il pensiero critico, l’autonomia e la rappresentanza, e una riforma che aiuti i giovani palestinesi a comprendere la loro attuale esperienza nel contesto generale di un’autentica storia palestinese. Una tale riforma non riprenderà la versione deformata e amputata della storia palestinese cucita su misura su “desideri e valori” dei donatori. Abbiamo bisogno di un’indagine sui nostri programmi scolastici e di una loro riforma che siano fatte dai palestinesi per i palestinesi.

Di recente, il Ministro palestinese dell’Educazione primaria e secondaria, alla presenza di alti funzionari palestinesi come Azzam e Saeb Erekat, ha presentato un libro intitolato “Il nostro Presidente è il nostro esempio”, che ha una foto di Mahmoud Abbas in copertina e dovrebbe contenere, pare, citazioni dai suoi discorsi. Gli alti funzionari inizialmente avevano lodato il libro e annunciato che sarebbe stato distribuito nelle scuole palestinesi di ogni ordine e grado. L’iniziativa, però, è stata accolta da così tante critiche e scherno sui media accademici e popolari che il governo ha fatto marcia indietro e ha annunciato che il libro, alla fine, non farà parte del programma scolastico.

Questo è un momento dell’anno angosciante per noi – un momento in cui ricordiamo i tragici eventi che hanno portato all’occupazione della Palestina e immaginiamo quel che ancora dovrà succedere con “l’Accordo del Secolo”. Cerchiamo tra le pieghe della storia non detta dei vinti e lì apprendiamo della malvagità del progetto sionista e delle potenze internazionali che hanno fornito agli ebrei colonizzatori gli strumenti necessari per la conquista della nazione palestinese; del tradimento della leadership araba ufficiale che ha indebolito i palestinesi, e dell’ingenuità e dell’inadeguatezza della leadership palestinese che ha riposto la propria fiducia in questa leadership araba e nelle potenze occidentali. La Nakba è cominciata molti anni prima dell’effettivo insediamento di Israele e continua ancora oggi, riflessa nelle nostre profonde preoccupazioni riguardo all’ “Accordo del Secolo” e nella consapevolezza che, dalle origini, le dinamiche del potere a livello globale non si sono sostanzialmente sviluppate.

La Nakba non riguarda solo i palestinesi, ma l’intero mondo arabo, perché l’intera regione viene indebolita e danneggiata dall’occupazione israeliana, anche se è capitato ai palestinesi di “essere tra i piedi” e di dover essere uccisi o dislocati per fare spazio alla nuova colonia degli Imperi Occidentali. Lo Stato di Israele è nato grazie a pulizia etnica, massacri e crimini molto simili a quelli che oggi vengono commessi dallo Stato Islamico nel percorso verso la creazione dell’ennesimo Stato religioso. La differenza è che Israele è riuscito a cancellare la memoria. Chi si ricorda di quando l’Hagana, tra il 22 e il 23 maggio 1948, costrinse i palestinesi a scavare le proprie fosse comuni a Tantoura, dopodiché sparò e li seppellì lì? Questa è la storia dell’ “esercito più morale del mondo”. I capi terroristi del passato sono oggi uomini di Stato e hanno vinto premi Nobel, anche se il manifesto da ricercato di Menachem Begin dovrebbe servire da promemoria.

Oggi, l’Eurovision Song Contest che si svolge a Tel Aviv nell’anniversario dei crimini israeliani dell’ “indipendenza” è un esempio della strategia di lavaggio del cervello che Israele utilizza da sempre per indurre la gente a dimenticare la storia, anche quella più recente, nella quale l’esercito israeliano ha ucciso 60 palestinesi e ne ha feriti 2.700 in un sol giorno, mentre manifestavano al confine di Gaza durante la Grande Marcia del Ritorno, per protestare contro il trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme.

E mentre la cultura e la politica di Israele sono in grado di ricordare in modo ipersensibile e maniacale la propria storia, Israele è implacabile nel suo attacco contro di noi. La guerra contro la nostra storia è parte della guerra al nostro pensiero, nonché un muto proseguimento della pulizia etnica della Palestina. Noi conserviamo ricordi carichi di dolore tanto quanto la speranza per il futuro; si dice che coloro che non ricordano il passato sono condannati a riviverlo. L’opinione espressa in questo articolo appartiene all’autore e non necessariamente rispecchia la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Elena Bellini)




“Questo è ‘art-washing’”: attivisti israeliani protestano contro l’Eurovision

Megan Giovannetti da Tel Aviv, Israele

17 maggio 2019 – Middle East Eye

Decisi a denunciare la situazione dell’occupazione e dell’assedio di Gaza da parte di Israele, un gruppo di israeliani ha organizzato manifestazioni quotidiane

Questa settimana centinaia di persone hanno affollato ogni giorno il villaggio Eurovision sulla spiaggia di Tel Aviv, godendosi i festeggiamenti che hanno circondato la competizione musicale che quest’anno è arrivata in Israele.

Ma, mentre l’ambiente potrebbe sembrare benevolo e accogliente, un gruppo di attivisti israeliani ha preso l’impegno di svelare un lato molto diverso della competizione canora Eurovision 2019.

Shahaf Weinstein, 26 anni, ha detto a Middle East Eye: “Siamo qui perché Eurovision, e naturalmente Eurovillage, sono una grande e lucrativa attività che aiuta Israele a promuovere i suoi cosiddetti valori di luogo giovane, alla moda, multiculturale, ospitale con gli LGBTQ, quando di fatto è uno Stato dell’apartheid.”

Questo è pink-washing, art-washing [utilizzo di tematiche omosessuali o artistiche per trasmettere un’immagine positiva, ndtr.], e noi siamo contrari.”

Eurovision 2019: perché Israele ospita la competizione musicale?

Il nome della competizione canora suggerisce che si tratti di una questione europea, quindi perché Israele, un Paese mediorientale, può parteciparvi e perché ospita la gara di quest’anno?

L’ammissione all’Eurovision non è basata sulla geografia ma sul fatto di essere membro della “European Broadcasting Union [Unione Europea di Radiodiffusione] (EBU), che organizza l’evento, e l’“Israeli Public Broadcasting Corporation” [Compagnia Pubblica Israeliana di Radiodiffusione] ne fa parte.

Tecnicamente ciò significa che anche Paesi arabi come Egitto, Giordania, Libano, Siria, Marocco e Tunisia hanno i titoli per parteciparvi.

In effetti il Marocco vi partecipò nel 1980, dopo che Israele si era ritirato perché la data della competizione si sovrapponeva alla festa della Pasqua ebraica.

Israele è entrato per la prima volta nell’Eurovision nel 1973 ed ha vinto la competizione quattro volte, compreso lo scorso anno, quando Netta Barzilai ha vinto in Portogallo. In precedenza ha ospitato l’evento nel 1979 e nel 1999, tutte e due le volte a Gerusalemme.

Weinstein, ebrea israeliana, fa parte di un collettivo di attivisti di vari gruppi che ha organizzato proteste quotidiane contro il fatto che Israele ospiti l’Eurovision e la positiva ribalta internazionale che ne deriva.

Mercoledì, mentre israeliani e turisti stavano festeggiando su una spiaggia del villaggio del festival Eurovision, i palestinesi stavano commemorando il 71° anniversario della Nakba – la “catastrofe” in arabo – quando centinaia di migliaia [di palestinesi] vennero cacciati dalle proprie case nel conflitto che ha accompagnato la creazione di Israele.

Lo stesso giorno Weinstein e altri 12 attivisti hanno messo in scena presso la sede [dell’Eurovision] “die-in” [una protesta in cui i partecipanti simulano la propria morte, ndtr.], manifestando contro la Nakba e la continua uccisione di manifestanti palestinesi nella Striscia di Gaza assediata.

Indossando magliette con la scritta sulla schiena “Gaza libera”, gli attivisti hanno recitato le morti stendendosi per terra. Avevano appeso al collo foto di palestinesi uccisi durante la violenta repressione da parte di Israele contro il movimento di protesta della Grande Marcia del Ritorno di Gaza durata un anno.

Essendo stata rafforzata la sicurezza in previsione di queste proteste, a cinque attivisti è stato negato l’ingresso nel villaggio Eurovision e sono stati tolti i documenti di identità. Altri otto sono riusciti a superare i controlli di sicurezza e a mettere in pratica il piano.

Sono ebreo. Ho il privilegio di essere qui e protestare mentre ai palestinesi di Gaza che protestano viene sparato,” ha detto Omer Shamir, un ventiseienne di Tel Aviv.

Io rischio molto poco, ho la ‘democrazia’ – quella democrazia che stanno cercando di mostrare al mondo,” ha detto Shamir. “Ce l’ho in quanto ebreo, ma i palestinesi non ce l’hanno.”

In quanto israeliani siamo responsabili”

La sera prima, durante un corteo a Tel Aviv, Nimrod Flashenberg ha esposto le proprie ragioni per scendere in piazza.

Penso che noi, in quanto israeliani, lo Stato di Israele, siamo responsabili delle sofferenze (dei palestinesi),” ha detto Flachenberg, 28 anni, a MEE. “Quindi dobbiamo dire ‘basta con l’occupazione e con l’assedio.’”

La manifestazione di martedì notte ha coinciso di proposito con il giorno in cui la cantante israeliana Netta Barzilai ha vinto l’Eurovision 2018, consentendo che Israele ospitasse la gara canora di quest’anno.

È stato anche il primo anniversario dello spostamento ufficiale dell’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme, mentre in contemporanea 68 palestinesi venivano colpiti a morte durante le proteste.

Il corteo ha coinvolto 300 sostenitori, e Flashenberg ha denunciato una mancanza di sentimenti contrari all’occupazione tra gli ebrei israeliani come una ragione della scarsa partecipazione.

In Israele la popolazione ebraica sta andando verso destra,” ha detto. “Si sta chiudendo. Sta chiudendo gli occhi alle sofferenze dei palestinesi attorno a noi.”

Weinstein crede che la conquista della politica israeliana da parte della destra sia “parte del processo internazionale di neo-fascistizzazione che stiamo vedendo avvenire in molti Paesi, compresi gli USA (e) l’Europa.

In molti posti la popolazione sta diventando più rancorosa, più islamofoba e più razzista. La gente sta ascoltando sempre meno.”

Secondo Weinstein “l’occupazione continua a causa della complicità della comunità internazionale,” che secondo lei è la ragione per cui la protesta e le azioni di boicottaggio dell’Eurovision in Israele sono importanti nella lotta per i diritti dei palestinesi.

In effetti Israele sta lavorante senza sosta con la sua hasbara,” ha detto Flashenberg, utilizzando il termine ebraico per intendere la diffusione di informazioni positive [riguardo a Israele], “ed ha avuto molto successo nel suo tentativo di mettere da parte la questione palestinese nell’agenda internazionale.”

Secondo Flashenberg ospitare l’Eurovisione è solo un esempio del tentativo di Israele di normalizzare la sua occupazione delle terre palestinesi.

Shamir, che ha manifestato martedì notte, è d’accordo.

Ospitare la competizione dell’Eurovision vuol dire pretendere che (Israele) sia un normale Paese europeo, progressista e ospitale per i gay,” ha detto.

Per cui l’unico modo per svegliarsi da questo inganno è la pressione internazionale, che avviene nella forma delle sanzioni e del boicottaggio.”

Ma Shamir non pensa che le persone attorno a lui siano sufficientemente “scosse” da far scoppiare la bolla del comfort.

In genere direi che Tel Aviv è considerata piuttosto di sinistra, ma molti dei miei amici, i miei coetanei, non vengonoa protestare,” ha detto.

Il fatto che siano occupanti è ancora molto comodo (per loro), il che penso ci riporti al punto del perché sia importante ora sottolineare che (Israele) non è un posto normale.”

Dovrebbero divertirsi”

Le proteste giornaliere nel periodo che ha preceduto la finale dell’Eurovisione di sabato sono un modo per cercare di ricordare alla gente la realtà della vita dei palestinesi sotto occupazione israeliana, ha affermato Shamir. Anche se si tratta solo di “un pizzicotto”.

Lunedì Shamir e altri attivisti hanno proiettato inquietanti immagini da Gaza su un grande schermo davanti al principale palco del villaggio dell’Eurovision. Lentamente una folla danzante sotto di esso ha iniziato a capire quello che stavano vedendo, e le cose hanno preso una piega violenta.

È stato tutto un po’ ironico per Shamir, che ha detto che l’Eurovision doveva mostrare quanto pacifico e “normale” sia Israele. Invece “alcune persone ci hanno picchiati, hanno rubato il nostro proiettore e sono scappati,” ha detto.

Weinstein ha sperimentato una reazione simile mercoledì.

Subito dopo il “die-in”, circa una decina di israeliani l’ha circondata, gridando insulti volgari e facendo rumore per impedirle di essere intervistata dalla stampa.

Dicevano che i miei genitori dovevano vergognarsi di me – cosa che non fanno,” dice Weinstein. “Dicevano che dovrei vivere ad Ashkelon (una città del sud vicino a Gaza), e che dovrei andare a Gaza. Mi hanno detto un sacco di orribili insulti.”

Nani, una donna di Ashkelon, ha detto a MEE di essersi unita alla folla che gridava contro Weinstein perché la giovane attivista è israeliana e considera questo comportamento come un tradimento.

Sta contro e non con Israele perché vuole liberare la Palestina,” ha detto Nani.

Ruthie, 42 anni, pensa che sia una vergogna che attivisti siano andati al villaggio dell’Eurovision per protestare.

Sono venuti qui, quindi dovrebbero divertirsi,” ha affermato.

Ruthie è arrivata dal lontano confine del deserto meridionale per godersi dei festeggiamenti e crede che ospitare la competizione musicale sia una buona cosa per l’immagine di Israele.

Penso che stiano protestando perché non conoscono davvero la situazione e quello che succede realmente,” ha detto Ruthie a MEE. “Come puoi vedere qui va tutto bene, questa è la situazione qui. Impariamo a conviverci.

Siamo venuti per divertirci e accogliamo chiunque perché venga in Israele e si diverta. È un posto veramente sicuro.”

Flashenberg vive vicino al villaggio Eurovision e sente ogni notte i gioiosi festeggiamenti, che trova fastidiosi.

C’è qualcosa in questa accettazione ed esaltazione internazionale riguardo a Israele che ovviamente è, agli occhi dei palestinesi e di chi vuole la pace, sconvolgente,” ha detto.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Decine di feriti nella marcia dei palestinesi alla barriera di Gaza nel Giorno della Nakba.

MEE and agencies

15 maggio 2019 – Middle East Eye

Le forze israeliane hanno ferito decine di palestinesi a Gaza, quando migliaia di manifestanti si sono radunati vicino alla barriera di confine tra Gaza e Israele per commemorare il giorno della Nakba.

Il Ministero della Salute di Gaza ha comunicato che mercoledì sono stati feriti almeno 65 manifestanti, compresi 15 che hanno presentato ferite da armi da fuoco.

La protesta è stata organizzata per commemorare il Giorno della Nakba (catastrofe), l’anniversario dell’espulsione forzata di circa 750.000 palestinesi nel 1947-48, prima e durante la fondazione dello Stato di Israele.

Mercoledì un portavoce dell’esercito israeliano ha detto a Middle East Eye che almeno 10.000 palestinesi hanno preso parte ai “disordini” nei dintorni della barriera.

Il portavoce ha detto che vi sono stati “molti tentativi” di infrangere la barriera e che le forze israeliane hanno reagito con “mezzi antisommossa”.

Quest’anno le manifestazioni per il Giorno della Nakba si svolgono due settimane dopo che un’offensiva aerea israeliana ha ucciso oltre 20 palestinesi a Gaza e ne ha feriti molti di più.

Il 6 maggio Israele e le fazioni palestinesi hanno raggiunto un cessate il fuoco.

Ogni anno, il 15 maggio, i palestinesi di tutto il mondo commemorano la Nakba, organizzando manifestazioni e chiedendo una soluzione alla loro grave situazione in modo che possano tornare alle case da cui sono stati espulsi.

Si stima che 15.000 palestinesi siano stati uccisi durante la fondazione dello Stato di Israele 71 anni fa. Vennero anche distrutti quasi 500 villaggi palestinesi.

L’agenzia di informazioni Reuters ha riferito che Khader Habib, un membro della fazione palestinese Jihad Islamica, parlando in uno dei siti della protesta a Gaza, ha chiamato i palestinesi a “sollevarsi” e “affermare i propri diritti in Palestina.”

“La Palestina è nostra. Il mare è nostro, la terra è nostra e gli stranieri devono essere cacciati”, ha detto.

Lo scorso anno la Nakba ha coinciso con il trasferimento dell’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme, una contestata decisione dell’amministrazione Trump che è stata accolta con generale rabbia e frustrazione.

In seguito al trasferimento dell’ambasciata, circa 40.000 palestinesi hanno manifestato l’anno scorso a Gaza e le forze israeliane hanno ucciso almeno 60 persone e ne hanno ferite più di 1.000.

Associazioni per i diritti umani e ricercatori delle Nazioni Unite hanno criticato l’esercito israeliano per uso eccessivo della forza nel reagire alle manifestazioni prevalentemente non violente a Gaza.

Nelle frequenti proteste presso la barriera di confine sono stati uccisi quasi 300 palestinesi e alcune migliaia sono rimasti feriti.

Tali proteste, note come la “Marcia del Ritorno”, sono iniziate nel marzo 2018. Chiedono che i palestinesi possano tornare alle loro case in quello che oggi è Israele.

Per decenni Israele ha respinto quella richiesta, nonostante la Risoluzione 194 dell’ONU [del 1948, ndtr.] sancisca il diritto al ritorno dei palestinesi.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Accordo del secolo

L’“accordo del secolo”? La benedizione americana al furto di terre e alla ghettizzazione dei palestinesi da parte di Israele

Nel corso degli ultimi 18 mesi la squadra di Trump per il Medio oriente sembra aver iniziato ad applicare il piano anche se non l’ha ancora reso pubblico

 

Jonathan Cook

 

Venerdì 10 maggio 2019 – Middle East Eye

 

Un rapporto pubblicato questa settimana dal giornale Israel Hayom che svelerebbe in apparenza “l’accordo del secolo” di Donald Trump dà l’impressione di un piano di pace che avrebbe potuto essere elaborato da un agente immobiliare o da un venditore di automobili.

Ma se l’autenticità del documento non è dimostrata, e al contrario persino messa in discussione, esistono seri motivi per credere che apra la strada a ogni futura dichiarazione dell’ amministrazione Trump.

 

Grande Israele

Si tratta soprattutto di una sintesi della maggior parte delle pretese della destra israeliana per la creazione del Grande Israele, con qualche concessione destinata ad ammansire i palestinesi – la maggior parte delle quali con l’obiettivo di alleggerire parzialmente lo strangolamento dell’economia palestinese da parte di Israele.

È esattamente ciò a cui assomiglierebbe l’“accordo del secolo” in base alle dichiarazioni del mese scorso di Jared Kushner che davano un primo quadro di questo piano.

L’organo di stampa che ha pubblicato la fuga di notizie è altrettanto significativo: Israel Hayom. Questo giornale israeliano appartiene a Sheldon Adelson, un miliardario americano dei casinò, uno dei principali donatori del partito repubblicano [USA, ndtr.] e uno dei maggiori finanziatori della campagna elettorale di Trump per la campagna presidenziale.

Adelson è anche un fedele alleato del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Nell’ultimo decennio il suo giornale non ha fatto altro che servire da portavoce dei governi ultranazionalisti di Netanyahu.

 

Netanyahu responsabile della fuga di notizie?

Adelson e Israel Hayom  hanno facile accesso alle figure più rappresentative delle amministrazioni americana e israeliana. Ed è stato ampiamente denunciato che nel giornale si scrivono poche cose interessanti senza che non siano state approvate in precedenza da Netanyahu o dal suo proprietario all’estero.

Il giornale ha rimesso in dubbio l’autenticità e la credibilità del documento, che è stato diffuso sulle piattaforme delle reti sociali, suggerendo persino che “è assolutamente possibile che il documento sia un falso” e che il ministero degli Esteri israeliano aveva deciso di occuparsi della questione.

La Casa Bianca aveva già informato che, dopo lunghi rinvii, aveva l’intenzione di svelare finalmente “l’accordo del secolo” il mese prossimo, dopo la fine del mese sacro per i musulmani del Ramadan.

Un responsabile anonimo della Casa Bianca ha dichiarato al giornale che il documento divulgato era “ipotetico” e “inesatto” – il genere di debole smentita che potrebbe ugualmente significare che il rapporto è, in effetti, in gran parte esatto.

Se il documento si rivela autentico, Netanyahu sembra essere il colpevole più probabile della divulgazione. Ha supervisionato il ministero degli Esteri per anni e Israel Hayom è spesso definito come il “Bibiton”, o il giornale di Bibi, dal soprannome del primo ministro.

Tastare il terreno

Il presunto documento, come l’ha pubblicato Israel Hayom, sarebbe un disastro per i palestinesi. Supponendo che Netanyahu ne approvi la divulgazione, le sue motivazioni non sarebbero forse molto difficili da individuare.

Da un certo punto di vista la divulgazione potrebbe costituire un mezzo efficace per Netanyahu e l’amministrazione Trump per tastare il terreno, per lanciare un ballon d’essai e decidere se osare pubblicare il documento così com’è o se devono apportarvi delle modifiche.

Ma è anche possibile che Netanyahu sia forse arrivato alla conclusione che mettere palesemente in pratica l’essenza di quello che già riesce a fare di nascosto potrebbe avere un prezzo non gradito – un prezzo che al momento potrebbe preferire evitare.

La fuga di notizie intende provocare un’opposizione anticipata al piano che arrivi sia da Israele che dai palestinesi e dal mondo arabo, nella speranza di impedire chee venga reso pubblico?

Forse ha sperato che le indiscrezioni, e la reazione che esse suscitano, obblighino la squadra di Trump per il Medio Oriente a rimandare di nuovo la pubblicazione del piano o a impedirne totalmente la diffusione.

Tuttavia, che “l’accordo del secolo” sia o no svelato tra poco, il documento divulgato – se è autentico – dà un’idea plausibile del pensiero dell’amministrazione Trump.

Dato che la squadra di Trump per il Medio oriente sembra aver cominciato ad applicare il piano, anche se quest’ultimo non è stato reso pubblico, durante gli ultimi otto mesi – dallo spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme al riconoscimento dell’illegale annessione da parte di Israele delle alture siriane del Golan – questa fuga di notizie permette di far luce su come si articolerebbe la “soluzione” americano-israeliana del conflitto israelo-palestinese.

 

Annessione della Cisgiordania

L’entità palestinese proposta sarebbe denominata “Nuova Palestina”, ciò che costituirebbe probabilmente una pagina del manuale di strategia di Tony Blair, ex-primo ministro britannico diventato ambasciatore della comunità internazionale in Medio oriente dal 2007 al 2015.

Negli anni ’90 Blair ha allontanato il suo stesso partito, il partito Laburista, dalla sua tradizione socialista, poi lo ha ribattezzato il partito favorevole alle imprese, che ha dato come risultato – sbiadita copia di quello che era – il “New Labour”.

Il nome “Nuova Palestina” maschera efficacemente il fatto che questa entità demilitarizzata sarebbe sprovvista dei caratteri e dei poteri normalmente attribuiti a uno Stato. Secondo le rivelazioni, la Nuova Palestina non esisterebbe che su un’infima frazione della Palestina storica.

Tutte le colonie illegali di popolamento in Cisgiordania sarebbero annesse a Israele, ciò che sarebbe in linea con l’impegno preso da Netanyahu poco prima delle elezioni legislative dello scorso mese. Se il territorio annesso comprende la maggior parte della zona C, il 62% della Cisgiordania su cui in base agli accordi di Oslo Israele si è visto accordare un controllo temporaneo e che la destra israeliana intende insistentemente annettere, alla Nuova Palestina resterebbe il controllo del 12% della Palestina storica.

In altre parole l’amministrazione Trump sembra pronta a dare la propria benedizione a un Grande Israele che comprenda l’88% delle terre rubate ai palestinesi nel corso degli ultimi 70 anni.

“Nuova Palestina”

Ma è molto peggio di questo. La Nuova Palestina esisterebbe sotto forma di una serie di cantoni separati, o Bantustan, circondati da un oceano di colonie israeliane – ormai definite parte di Israele. L’entità sarebbe fatta a pezzi e tagliata come nessun altro Paese al mondo.

La Nuova Palestina non avrebbe un esercito, ma solo una forza di polizia con armi leggere. Non potrebbe agire che come una serie di municipalità scollegate tra loro.

In realtà è difficile immaginare come la “Nuova Palestina” cambierebbe in modo sostanziale la triste situazione attuale dei palestinesi. Non si potrebbero spostare tra questi cantoni se non attraverso lunghi giri, delle circonvallazioni e dei tunnel. Più o meno come ora.

 

Municipalità osannate

Il solo vantaggio proposto dal presunto documento è un progetto di bustarelle proveniente dagli Stati Uniti, dall’Europa e da altri Stati sviluppati, anche se finanziato principalmente dai ricchi Stati petroliferi del Golfo, in modo da alleviare la loro coscienza per aver spogliato i palestinesi delle loro terre e della loro sovranità.

Questi Stati forniranno 30 miliardi di dollari (26 miliardi di euro) in cinque anni per aiutare la Nuova Palestina a creare e a gestire i suoi municipi osannati. Se vi sembra una grossa somma di denaro, ricordatevi che ciò rappresenta otto miliardi di dollari in meno rispetto all’aiuto che gli Stati Uniti consegnano da un decennio a Israele per comprare armi e aerei da guerra.

Nel documento non compare chiaramente quello che succederà alla Nuova Palestina dopo questo periodo di 5 anni. Ma, considerato che il 12% della Palestina storica attribuita ai palestinesi costituisce il territorio più povero di risorse della regione – privato da Israele di risorse idriche, di coesione economica e di risorse chiave utilizzabili come le cave della Cisgiordania – è difficile non vedere il naufragio annunciato dell’entità dopo l’affievolirsi del flusso iniziale di denaro.

Anche se la comunità internazionale accettasse di destinare più soldi, la Nuova Palestina sarebbe per sempre totalmente dipendente dagli aiuti.

Gli Stati Uniti e altri Paesi sarebbero in grado di aprire o chiudere i rubinetti in base al “buon comportamento” dei palestinesi – come avviene attualmente. I palestinesi vivrebbero in modo permanente nel timore per le conseguenze delle critiche dei guardiani della loro prigione.

Fedele al suo impegno di far pagare al Messico la costruzione del muro lungo la frontiera sud degli Stati Uniti, a quanto pare Trump vorrebbe che l’entità palestinese pagasse Israele per fornirle una sicurezza militare. In altri termini, gran parte di questo aiuto di 30 miliardi di dollari ai palestinesi si ritroverebbe probabilmente nelle tasche dell’esercito israeliano.

È interessante notare che il presunto articolo sostiene che sono gli Stati produttori di petrolio, e non i palestinesi, che sarebbero i “principali beneficiari” dell’accordo. Ciò indica come l’accordo di Trump sia venduto agli Stati del Golfo: è un’occasione per loro di legarsi totalmente a Israele, alla sua tecnologia e alle sue capacità militari, in modo che il Medio oriente possa seguire le orme delle “tigri economiche” dell’Asia.

 

Pulizia etnica a Gerusalemme

Gerusalemme è descritta come una “capitale condivisa”, ma le clausole scritte in piccolo dicono tutt’altro. Gerusalemme non sarebbe divisa, con da una parte l’est palestinese e dall’altra l’ovest israeliano, come per lo più si era previsto. Invece di ciò, la città sarebbe diretta da una municipalità unificata sotto controllo israeliano. Esattamente come ora.

La sola concessione significativa ai palestinesi sarebbe che gli israeliani non sarebbero autorizzati a comprare case palestinesi, impedendo – almeno in teoria – l’assunzione del controllo di Gerusalemme est in modo più pesante da parte dei coloni ebrei.

Ma, dato che in cambio i palestinesi non sarebbero autorizzati a comprare delle case israeliane e che la popolazione palestinese a Gerusalemme est soffre già di una grave carenza di alloggi e che un’amministrazione comunale israeliana avrebbe il potere di decidere dove le case potrebbero essere costruite e per chi, è facile immaginare che la situazione attuale – Israele che si serve del controllo della gestione del territorio per cacciare i palestinesi da Gerusalemme – semplicemente continuerebbe.

In più, siccome i palestinesi a Gerusalemme sarebbero dei cittadini della Nuova Palestina, e non di Israele, quelli che sarebbero incapaci di installarsi in una Gerusalemme sotto dominazione israeliana non avrebbero altra scelta che emigrare in Cisgiordania. Sarebbe esattamente la stessa forma di pulizia etnica burocratica che i palestinesi stanno sperimentando attualmente.

Gaza aperta verso il Sinai

Riprendendo le recenti affermazioni di Jared Kushner, genero di Trump e consigliere per il Medio oriente, i vantaggi del piano per i palestinesi sono tutti legati ai potenziali utili economici e non politici.

I palestinesi sarebbero autorizzati a lavorare in Israele, come avveniva normalmente prima di Oslo, e verosimilmente, come allora, unicamente nei lavori peggio pagati e più precari, nei cantieri edili e in agricoltura.

Un corridoio terrestre, sicuramente sorvegliato da contractors militari israeliani che i palestinesi dovranno pagare, dovrebbe ricollegare Gaza alla Cisgiordania. Confermando informazioni precedenti relative ai progetti dell’amministrazione Trump, Gaza sarebbe aperta al mondo, e sul vicino territorio del Sinai sarebbero creati una zona industriale e un aeroporto.

Questa terra – la cui estensione sarebbe da definire nei negoziati – sarebbe presa in affitto all’Egitto.

Come sottolineato in precedenza da Middle East Eye, tale decisione rischierebbe di incoraggiare progressivamente i palestinesi a considerare il Sinai, invece di Gaza, come il centro della loro vita, un altro mezzo per procedere alla progressiva pulizia etnica.

Nel contempo la Cisgiordania sarebbe collegata alla Giordania da due passaggi di frontiera – probabilmente attraverso corridoi terrestri che attraverserebbero la valle del Giordano, che dovrebbe essere annessa anch’essa a Israele. Di nuovo, con i palestinesi chiusi in cantoni non collegati e circondati dal territorio israeliano, c’è da supporre che con il tempo molti cercherebbero una nuova vita in Giordania.

Nel corso di tre anni i prigionieri politici palestinesi sarebbero liberati dalle prigioni israeliane sotto l’autorità della Nuova Palestina. Tuttavia il piano non dice niente sul diritto al ritorno per i milioni di rifugiati palestinesi, i discendenti di quelli che sono stati cacciati da casa loro durante le guerre del 1948 e del 1967.

Pistola alla tempia

Alla maniera di don Corleone, l’amministrazione Trump sembra pronta a mettere una pistola alla tempia dei dirigenti palestinesi per obbligarli a firmare l’accordo.

Secondo il rapporto divulgato, gli Stati Uniti vieterebbero qualunque trasferimento di denaro ai palestinesi dissidenti, con lo scopo di obbligarli a sottomettersi.

Questo presunto piano esigerebbe che Hamas e la Jihad islamica si disarmino consegnando le loro armi all’Egitto. Se rifiutassero l’accordo, il rapporto sostiene che gli Stati Uniti autorizzerebbero Israele ad “attentare” contro i dirigenti – per mezzo di assassini extragiudiziari che costituiscono da molto tempo il pilastro della politica israeliana riguardo ai due gruppi.

Ciò che è meno credibile è il fatto che il presunto documento suggerisce che la Casa Bianca sarebbe pronta a dimostrare la propria fermezza anche nei confronti di Israele, tagliando l’aiuto americano se Israele non rispettasse i termini dell’accordo.

Dato che Israele ha regolarmente infranto gli accordi di Oslo – e il diritto internazionale – senza dover affrontare gravi sanzioni, è facile immaginare che in pratica gli Stati Uniti troverebbero delle soluzioni per evitare che Israele debba pagare le conseguenze di ogni violazione dell’accordo.

Imprimatur americano

Il presunto documento presenta tutte le caratteristiche del piano Trump, o almeno di una sua versione recente, perché descrive nero su bianco la situazione che Israele ha creato per i palestinesi nel corso di questi ultimi vent’anni.

Ciò dà semplicemente a Israele l’imprimatur ufficiale degli Stati Uniti per il furto massiccio delle terre e la riduzione in cantoni dei palestinesi.

Dunque, se offre alla destra israeliana la maggior parte di quello che vuole, che interesse ha Israel Hayom – portavoce di Netanyahu – a compromettere il suo successo divulgandolo?

Alcune ragioni potrebbero spiegarlo.

Israele ha già raggiunto tutti i suoi obiettivi – rubare la terra, annettere le colonie di insediamento, consolidare il suo controllo esclusivo su Gerusalemme, fare pressione sui palestinesi perché se ne vadano dalla loro terra e partano per gli Stati vicini – senza annunciare ufficialmente che si tratta del suo piano.

Ha realizzato grandi progressi in tutti i suoi obiettivi senza dover ammettere pubblicamente che la creazione di uno Stato per i palestinesi è un’illusione. Per Netanyahu, la questione deve essere sapere perché dovrebbe rendere pubblica la visione globale di Israele quando può essere realizzata di nascosto.

Timore di un contraccolpo

Ma, peggio ancora per Israele, una volta che i palestinesi e il mondo che sta a guardare capiranno che l’attuale situazione catastrofica per i palestinesi non migliorerà, ci sarà probabilmente un contraccolpo.

L’Autorità Nazionale Palestinese potrebbe crollare, la popolazione palestinese scatenerebbe una nuova ribellione, la cosiddetta “opinione pubblica araba” accetterebbe probabilmente questo piano meno di quanto i suoi dirigenti o di quanto Trump non desideri, e gli attivisti solidali in Occidente, soprattutto il movimento per il boicottaggio, beneficerebbero di un’ enorme spinta per la loro causa.

Inoltre sarebbe impossibile per i difensori di Israele continuare a negare che Israele ha messo in atto quello che l’accademico israeliano Baruch Kimmerling aveva definito “politicidio”: la distruzione dell’avvenire dei palestinesi, del loro diritto all’autodeterminazione e della loro integrità in quanto un solo popolo.

Se questa è la versione della pace in Medio oriente proposta da Trump, egli gioca alla roulette russa – e Netanyahu esiterà forse a lasciargli premere il grilletto.

 

 

Jonathan Cook è un giornalista britannico residente dal 2001 a Nazareth. E’ l’autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese. È stato vincitore del Martha Gellhorn Special Prize for Journalism.

 

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

 

 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Due narrazioni sulla Palestina

Le due narrazioni sulla Palestina: il popolo è unito, le fazioni no

 

Ramzy Baroud

8 maggio 2019 – Palestine Chronicle

 

Le due narrazioni sulla Palestina: il popolo è unito, le fazioni no

Ramzy Baroud

8 maggio 2019 – Palestine Chronicle

 

La conferenza internazionale sulla Palestina, tenutasi a Istanbul tra il 27 e il 29 aprile, ha riunito molti relatori e centinaia di accademici, giornalisti, attivisti e studenti, provenienti dalla Turchia e da tutto il mondo.

La conferenza è stata una rara occasione per sviluppare una discussione di solidarietà internazionale sia inclusivo che lungimirante.

Vi è stato un consenso quasi totale sul fatto che il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (contro Israele) (BDS) debba essere appoggiato, che il cosiddetto ‘accordo del secolo’ di Donald Trump debba essere respinto e che la normalizzazione debba essere evitata.

Tuttavia quando si è trattato di articolare gli obbiettivi della lotta palestinese, la narrazione si è fatta indecisa e poco chiara. Benché nessuno dei relatori abbia difeso una soluzione con due Stati, il nostro appello per uno Stato unico democratico fatto da Istanbul – o da ogni altro luogo fuori dalla Palestina – è apparso quasi irrilevante. Perché la soluzione di uno Stato unico diventi l’obiettivo principale del movimento mondiale a favore della Palestina, l’appello deve provenire da una leadership palestinese che rifletta le genuine aspirazioni del popolo palestinese.

Un relatore dopo l’altro ha invocato l’unità dei palestinesi, pregandoli di fare da guida e di articolare un discorso nazionale. Molti altri nel pubblico si sono detti d’accordo con quella posizione. Qualcuno ha addirittura lanciato la retorica domanda: “Dov’è il Mandela palestinese?” Fortunatamente il nipote di Nelson Mandela, Zwelivelile “Mandla” Mandela, era tra i relatori. Ha risposto con enfasi che Mandela era solo il volto del movimento, che comprendeva milioni di uomini e donne comuni, le cui lotte e sacrifici hanno infine sconfitto l’apartheid.

Dopo il mio intervento alla conferenza, nell’ambito della mia ricerca per il mio prossimo libro su questo argomento, ho incontrato alcuni prigionieri palestinesi scarcerati.

Alcuni degli ex prigionieri si definivano di Hamas, altri di Fatah. Il loro racconto è apparso per la maggior parte libero dal deprecabile linguaggio fazioso da cui siamo bombardati sui media, ma anche lontano dalle narrazioni aride e distaccate dei politici e degli accademici.

“Quando Israele ha posto Gaza sotto assedio e ci ha negato le visite dei familiari, anche i nostri fratelli di Fatah ci sono venuti in aiuto”, mi ha detto un ex prigioniero di Hamas. E ogni volta che le autorità carcerarie israeliane maltrattavano chiunque dei nostri fratelli, di qualunque fazione, compresa Fatah, tutti noi abbiamo resistito insieme.”

Un ex prigioniero di Fatah mi ha detto che, quando Hamas e Fatah si sono scontrate a Gaza nell’estate del 2007, i prigionieri hanno sofferto moltissimo.

 “Soffrivamo perché sentivamo che il popolo che dovrebbe combattere per la nostra libertà si stava combattendo al proprio interno. Ci siamo sentiti traditi da tutti.”

Per incentivare la divisione le autorità israeliane hanno collocato i prigionieri di Hamas e di Fatah in reparti e carceri diversi. Intendevano impedire ogni comunicazione tra i leader dei prigionieri e bloccare qualunque tentativo di trovare un terreno comune per l’unità nazionale.

La decisione israeliana non era casuale. Un anno prima, nel maggio 2006, i leader dei prigionieri si erano incontrati in una cella per discutere del conflitto tra Hamas, che aveva vinto le elezioni legislative nei Territori Occupati, e il principale partito dell’ANP, Fatah.

Tra questi leader vi erano Marwan Barghouti di Fatah, Abdel Khaleq al-Natshe di Hamas e rappresentanti di altri importanti gruppi palestinesi. Il risultato è stato il Documento di Riconciliazione Nazionale, probabilmente la più importante iniziativa palestinese da decenni.

Quello che è diventato noto come Documento dei Prigionieri era significativo perché non era un qualche compromesso politico autoreferenziale raggiunto in un lussuoso hotel di una capitale araba, ma una effettiva esposizione delle priorità nazionali palestinesi, presentata dal settore più rispettato e stimato della società palestinese.

Israele ha immediatamente denunciato il documento.

Invece di impegnare tutte le fazioni in un dialogo nazionale sul documento, il presidente dell’ANP, Mahmoud Abbas, ha dato un ultimatum alle fazioni rivali: accettare o respingere in toto il documento. Abbas e le fazioni contrapposte hanno tradito lo spirito unitario dell’iniziativa dei prigionieri. Alla fine, l’anno seguente Fatah e Hamas hanno combattuto la loro tragica guerra a Gaza.

Parlando con i prigionieri dopo aver ascoltato il discorso di accademici, politici ed attivisti, sono stato in grado di decifrare una mancanza di connessione tra la narrazione palestinese sul campo e la nostra percezione di tale narrazione dall’esterno.

I prigionieri mostrano unità nella loro narrazione, un chiaro senso progettuale, e la determinazione a proseguire nella resistenza. Se è vero che tutti si identificano in un gruppo politico o nell’altro, devo ancora intervistare anche un solo prigioniero che anteponga gli interessi della sua fazione all’interesse nazionale. Questo non dovrebbe sorprendere. Di certo, questi uomini e queste donne sono stati incarcerati, torturati ed hanno trascorso molti anni in prigione per il fatto di essere resistenti palestinesi, a prescindere dalle loro tendenze ideologiche e di fazione.

Il mito dei palestinesi disuniti e incapaci è soprattutto un’invenzione israeliana, che precede l’avvento di Hamas, e persino di Fatah. Questa nozione sionista, che è stata fatta propria dall’attuale primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, sostiene che ‘Israele non ha partner per la pace’. Nonostante le concessioni senza fine da parte dell’Autorità Palestinese a Ramallah, questa accusa è rimasta un elemento fisso nelle politiche israeliane fino ad oggi.

A parte l’unità politica, il popolo palestinese percepisce l’‘unità’ in un contesto politico totalmente diverso da quello di Israele e, francamente, di molti di noi fuori dalla Palestina.

‘Al-Wihda al-Wataniya’, ovvero unità nazionale, è un’aspirazione generazionale che ruota intorno a una serie di principi, compresi la resistenza come strategia per la liberazione della Palestina, il diritto al ritorno dei rifugiati e l’autodeterminazione per il popolo palestinese come obiettivi finali. È intorno a questa idea di unità che i leader dei prigionieri palestinesi hanno steso il loro documento nel 2006, nella speranza di scongiurare uno scontro tra fazioni e di mantenere al centro della lotta la resistenza contro l’occupazione israeliana.

La Grande Marcia del Ritorno, che è tuttora in atto a Gaza, è un altro esempio quotidiano del tipo di unità che il popolo palestinese persegue. Nonostante gravi perdite, migliaia di manifestanti persistono nella loro unità per chiedere la libertà, il diritto al ritorno e la fine dell’assedio israeliano.

Da parte nostra, sostenere che i palestinesi non sono uniti perché Fatah e Hamas non riescono a trovare un terreno comune è del tutto ingiustificato. L’unità nazionale e l’unità politica tra le fazioni sono due questioni differenti.

È fondamentale che non facciamo l’errore di confondere il popolo palestinese con le fazioni, l’unità nazionale intorno alla resistenza e ai diritti con i compromessi politici tra gruppi politici.

Per quanto riguarda la visione e la strategia, forse è tempo di leggere il ‘Documento di Riconciliazione Nazionale’ dei prigionieri. Lo hanno scritto i Nelson Mandela della Palestina, migliaia dei quali sono tuttora nelle carceri israeliane.

Ramzy Baroud è giornalista, autore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story [L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press, Londra, 2018). Ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è studioso non residente presso il Centro Orfalea per gli studi globali e internazionali, Università di California, Santa Barbara.

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)