Rischio di carneficina e Medio Oriente in fiamme

Patrizia Cecconi

29/03/2019, Pressenza

Domani 30 marzo, Giornata della Terra e anniversario dell’inizio della Grande marcia per il ritorno, sarà un giorno importante, forse tragicamente importante, in Palestina.  Gaza è sotto i riflettori perché lì si gioca la parte più dura della partita, ma ci saranno manifestazioni in tutta la Palestina  e quel che succederà domani avrà ripercussioni in Israele, sempre più vicino alle elezioni, ma andrà anche oltre Israele.

Ormai tutto il Medio Oriente, tra accordi e disaccordi, alleanze che un tempo sarebbero sembrate improbabili e  alleanze tradizionali, devastazioni  per mano dell’Occidente e assestamenti precari,  tutto il M.O. si è trasformato in una polveriera.

In tutto questo Israele ha una sua parte importante, in particolare in Siria dove, nel silenzio o con l’approvazione  sia di alcuni paesi arabi che di paesi occidentali, ha effettuato circa 800 raid per colpire quello che è il suo nemico principale: l’Iran. E l’Iran prima o poi risponderà.  Il giornale israeliano Haaretz oggi titolava  che la repubblica islamica sta dichiarando guerra a Israele, ma in modo trasversale, attraverso Gaza. Praticamente lo farebbe fornendo armi ad uno dei partiti della resistenza armata, il Jihad islamico, i cui  missili non sono più i “razzetti” artigianali che facevano solo boom. Ma anche Hamas, sebbene meno ricco di forniture simili, può contare su missili che non sono più solo razzetti artigianali e gli ultimi lanci, che siano stati accidentali, o pilotati da provocatori e strumentali ad altro come ad esempio le elezioni israeliane, o spediti come test deterrente – tutte ipotesi verosimili – lo hanno dimostrato, e la partita che si giocherà domani dovrà tenerne conto.

Israele ha già comunicato che farà fucilare chiunque si avvicini alla recinzione. Lo ha sempre fatto e domani forse lo farà con maggiore zelo. Lungo i circa 40 km che segnano la linea dell’assedio via terra, Israele ha dislocato mezzi corazzati in quantità impressionante e il premier dello Stato ebraico ha dichiarato che non esclude la possibilità di un attacco da terra (quindi contro la popolazione civile). Una minaccia  contro ogni norma del Diritto internazionale, visto che la Striscia è sotto assedio, ma Israele può tutto.

Intanto la popolazione di Gaza si sta organizzando. C’è grande eccitazione. Parteciperanno sicuramente in tanti e non certo perché lo vuole Hamas come lascia intendere Israele. Anzi, si ha motivo di ritenere che Hamas avrebbe raffreddato e forse fermato la marcia, se avesse potuto. Questo ce lo ricordano anche alcuni degli intervistati.

Ricordiamo che la Marcia NON è “di” Hamas, per quanto ovviamente la componente del partito al governo abbia una voce importante all’interno del comitato organizzatore, come ci dice Yousef Hammash,  giornalista di Gaza. Oltre a Y. Hammash abbiamo sentito molte altre voci dal nord al sud, interviste raccolte necessariamente per telefono visto che per motivi di sicurezza chi scrive è stata fatta uscire dalla Striscia. Alcuni degli intervistati hanno chiesto l’anonimato e rispettiamo, ovviamente,  la loro volontà, mentre Y. Hammash e il dr. Said Sehweil dell’ospedale Al Awda ci hanno autorizzato a riportare i loro nomi.

Per tutti la giornata di domani è un’incognita, e tutti temono il peggio. Il dr. Said comunica che l’UHWC di cui fa parte l’ospedale Al Awda ha 6 punti di emergenza dislocati da Nord a Sud e sono tutti in stato di allerta temendo un grande afflusso di feriti. Inoltre vi sono i  team di primo soccorso che, insieme a tutte le altre organizzazioni sanitarie, dalla Mezzaluna Rossa all’UHCC, saranno direttamente lungo il border.  Il dr.Said dice anche che alla manifestazione parteciperà la delegazione egiziana responsabile della mediazione tra Gaza e Israele, con la chiara intenzione di monitorarla e di evitare che si verifichi la carneficina che molti temono.

La delegazione ha raggiunto alcuni risultati, ma ciò che viene offerto per tacitare i gazawi è lontanissimo da ciò che ha dato inizio alla Grande marcia e il governo locale si trova stretto ancora una volta in un cul de sac, tra l’accettare gli aiuti per migliorare la situazione economicamente critica della popolazione – motivo delle manifestazioni di malcontento – e rispettare gli obiettivi che hanno  dato vita un anno fa a questa straordinaria iniziativa di protesta, sostanzialmente pacifica, da parte palestinese, costata finora 256 vite, di cui circa 50 bambini,  e un numero impressionante di feriti.

Come dice Y. Hammash “gli accordi non rispettano  quello che noi vogliamo e gli egiziani non sono onesti con i gazawi. Loro vogliono che domani sia una giornata calma, hanno ottenuto che Israele faccia  passare tramite Erez il denaro del Qatar per pagare gli stipendi  degli impiegati governativi. Per Israele è un periodo sensibile a causa delle elezioni del prossimo 9 aprile e questo determina molte scelte” . Quindi Hamas accetterebbe la mediazione egiziana? chiedo.  “Hamas non può convincere 2 milioni di persone per un po’ di denaro. Gli egiziani stavano chiedendo ad Hamas di fare pian piano le mosse giuste per tenere i dimostranti sotto controllo  e impedire loro di avvicinarsi alla recinzione.”  Vuoi dire che verrebbe accettato il denaro contro la richiesta di dignità? “Esatto.  Hamas deve capire che non è questione di denaro e se domani ci saranno più di 10.000 persone nessuno potrà tenerle sotto controllo e forse ci saranno un sacco di martiri”.

Chiedo a Yousef se appartiene a qualche formazione politica e la risposta è negativa, nessun partito né ora né in passato e aggiunge che domani andrà alla marcia “perché domani è un giorno speciale”. Domani, me lo hanno confermato molte altre persone, uomini e donne,  di diversa e di nessuna appartenenza politica, andranno alla marcia perché domani è una questione di dignità e nessuno dei numerosi intervistati  è disposto ad accettare il controllo sui partecipanti richiesto dall’Egitto (e quindi da Israele) ad Hamas.  Andranno i ragazzi che hanno come interesse prioritario lo skateboard, andranno le donne che sono determinatissime e porteranno figli e figlie. Andranno fianco a fianco e con un’unica bandiera, militanti di Hamas e di Fatah. Per qualcuno domani sarà una specie di festa, così mi dice un vecchio militante di Fatah che andrà anche lui con i suoi figli.

Chiedo se non hanno paura che la giornata di domani inneschi la temuta escalation che porterebbe al disastro minacciato da Netanyahu ed una delle persone intervistate, che preferisce mantenere l’anonimato, mi  dice che“ i razzi su Tel Aviv hanno avuto la loro efficacia e Netanyahu, seppure nella propaganda elettorale, deve sempre mostrare  durezza contro i palestinesi come elemento vincente, non potrebbe vincere se si trovasse una pioggia di razzi su Tel Aviv, neanche se come risposta sterminasse un milione di gazawi.” Quest’affermazione mi porta a rivedere le precedenti valutazioni circa i potenti missili non rivendicati né da Hamas né dalla Jihad e che ufficialmente sarebbero partiti per errore o per colpa di un fulmine.  La stessa persona dice che “se domani alla marcia gli israeliani uccidessero un quadro di Hamas o della Jihad la faccenda si complicherebbe molto.” Ma tutto resta un’incognita e molto dipende dai risultati della mediazione egiziana.  Un’altra delle persone intervistate mi conferma  che sono tutti estremamente preoccupati  e mi dice testualmente “siamo tutti  preoccupatissimi ma tutti altrettanto volenterosi di voler partecipare, donne e bambini in prima linea”. Insomma sembra proprio lo spaccato della cultura gazawa, cultura in senso antropologico, quella per cui riescono a convivere situazioni contrastanti anche nella quotidianità.

Un altro degli intervistati mi ha detto che dalla mediazione egiziana si sono avute una serie di condizioni positive quali la promessa che il valico di Rafah resterà aperto, che i pescatori potranno arrivare a 12 miglia marine (lo prevedevano già  gli accordi di Oslo!), che verrà fatto passare un alto numero di camion con merci, ovviamente israeliane, così i gazawi avranno le merci, magari non tutti avranno i soldi per comprarle, ma Israele avrà il suo mercato di sbocco a Gaza e, infine, pare che sia stata accettata la possibilità di esportare merci da Gaza. Ma, conclude, “alcuni saranno arrabbiati ed altri vorranno accettare, però non è questo quello che noi vogliamo”.

Infatti l’obiettivo della marcia, quello sintetizzato nello slogan “o grandi sulla terra o martiri sotto terra”, è la libertà di movimento, quindi la rottura dell’assedio e il diritto al ritorno nelle case da cui i palestinesi sono stati cacciati. Ma questo Israele non sembra proprio volerlo accettare, anche se è nell’ordine del Diritto internazionale e dovrebbe già essere da molti anni un fatto e non una richiesta.

Domani forse sarà una carneficina o forse si avvererà il miracolo, ma una cosa è chiara a tutti coloro che pur senza appartenenza partitica hanno una visione politica della situazione, e questo lo riconferma il giornalista intervistato all’inizio, quando dice che “seppure davvero si rompesse l’assedio resterebbe il grave problema della divisione politica interna” e aggiunge “ora Israele grazie a Trump prende il Golan, domani prenderà la West Bank e lascerà Gaza a due milioni di persone . No, abbiamo bisogno di una situazione interna di cambiamento e di unità” praticamente quello che la Grande marcia ha praticato e ha provato a insegnare alle leadership che finora non hanno imparato.

Intanto oggi, a dimostrazione del fatto che la grande marcia appartiene al popolo, nel senso che è veramente un’espressione popolare e non decisa dalle autorità locali, un buon numero di gazawi ha realizzato la marcia del venerdì in attesa di domani. Ci sono stati feriti, perché gli sniper hanno comunque sparato, ma non molti e non gravi.

Domani si capirà se il Medio Oriente aggiungerà altre fiamme a quelle che già ardono e l’Iran entrerà in gioco in forma più determinata attraverso il Jihad, come ipotizza Haaretz, o se i missili forniti alla resistenza avranno avuto il loro effetto deterrente e, quindi, anche gli sniper avranno avuto indicazioni conseguenti e l’impressionante ammasso di artiglieria lungo il confine sarà solo una esibizione di forza potenziale nel  braccio di ferro tra popolo assediato ed esercito assediante.

Betlemme, 29 marzo 2019




Uccisione di un paramedico a Betlemme

Da Gaza a Betlemme… la scia di sangue non si ferma

Pressenza

27.03.2019 Patrizia Cecconi

 

Fuori gli internazionali dalla Striscia di Gaza! I testimoni obiettivi sono sgraditi. Israele seguita a bombardare, non riconosce la tregua e i media mainstream dichiarano che Israele risponde ai missili inviati dalla resistenza gazawa e non dicono che invece non accetta il cessate il fuoco.  Anzi, per la verità i media che rispettano le veline israeliane non parlano mai di “resistenza”, sarebbe come legittimarla mediaticamente, la resistenza, effettivamente legittima per il Diritto internazionale. Loro parlano di terrorismo o, al più, di azioni armate, come se i missili israeliani fossero caramelle alle quali Hamas o Jihad rispondono con i loro razzi.

Israele ha invitato i vari consolati a ritirale i loro cooperanti e volontari. Qualcuno non voleva uscire, compreso chi scrive, ma la situazione si fa difficile, anche burocraticamente, dobbiamo assolutamente uscire. Ora siamo a Betlemme. Betlemme, per i cristiani il luogo di nascita di Gesù. Betlemme, per cristiani, musulmani e laici palestinesi luogo, al pari degli altri, di continua repressione e di continui crimini israeliani. ULTIMO QUELLO DI IERI SERA. Sajid Mezhir, un giovane infermiere che stava prestando soccorso ad alcuni ragazzi feriti dall’esercito occupante entrato nel campo profughi di Dheisheh, periferia di Betlemme.

A circa 70 chilometri da Betlemme, Gaza, tutta la notte sotto bombardamento. Ogni tanto sul cielo di Betlemme sfrecciava un F16. Gli esperti lo riconoscono dal rombo. Qui, guardare un areo che sfreccia in cielo non dà quasi mai l’idea della libertà di chi può viaggiare in luoghi esotici. Qui, quando sfreccia un aereo si guarda la direzione e poi si fa un cenno con la testa come a dire “è diretto laggiù”. E quando un aereo è diretto “laggiù” non porta turisti, non potrebbe neanche atterrare visto che nel 2001 Israele ha distrutto completamente l’aeroporto internazionale di Rafah-Striscia di Gaza, come prima azione di assedio, quella dal cielo, alla quale negli anni successivi, dopo aver evacuato la Striscia dai coloni ebrei, si sarebbe aggiunto l’assedio completo: da terra e dal mare. Quello contro il quale dimostrano i gazawi, ogni venerdì, da un anno esatto. Manifestazioni alle quali Israele ha risposto con 256 assassinati a freddo, ragazzi, donne, uomini e bambini, infermieri che prestavano soccorso, fotografi e giornalisti. Ne ha uccisi “solo” 256 perché i gazawi hanno organizzato una fitta cortina di fumo nero bruciando vecchi copertoni d’auto, ma ne hanno feriti circa 28 mila e di questi alcune centinaia resteranno invalidi a vita.

Ma in questi giorni a Gaza succede anche altro. Non una novità per la Striscia, ma certo non una cosa qualunque, vale a dire che Israele ha ripreso a bombardare pesantemente, e che la resistenza gazawa ha ripreso a lanciare missili. Una spirale senza fine che sembra vedere nelle prossime elezioni israeliane una delle sue cause perché, come ogni analista politico sa, la vittoria elettorale in Israele si gioca sulla capacità di dimostrare durezza contro il popolo palestinese occupato e, in particolare, contro quello assediato nella Striscia di Gaza. In base a quanto sopra il Consolato italiano, per la sicurezza dei suoi cittadini e dietro indicazioni israeliane circa la durezza dei bombardamenti, ha deciso l’evacuazione e quindi ci troviamo a Betlemme. Come diceva un giornalista molto importante, non può farsi buon giornalismo se non si ha empatia. Ebbene, senza la pretesa di fare buon giornalismo, posso dire che l’empatia con una comunità con la quale si sono vissuti mesi scanditi da bombardamenti, funerali, stato d’assedio, ma anche strana gioia, feste, allegria, sogni e lavoro, non può mancare. E’ proprio per quell’empatia che ci si sente quasi dei traditori dovendoli lasciare sotto le bombe perché noi, occidentali, possiamo contare su una protezione che non possiamo condividere con loro.

Bene, prendiamo le notizie telefonicamente. Questi circa 70 chilometri che ci separano li ripercorreremo presto a ritroso. Così almeno speriamo. Uscendo da Eretz abbiamo visto una lunga colonna di mezzi corazzati entrare. Non è certo un buon segno, ma speriamo che Netanyahu completi il suo messaggio elettorale senza ulteriori stragi e intanto speriamo di ritrovare tutti vivi i nostri interlocutori, amici più o meno stretti e conoscenti con cui abbiamo scambiato un sorriso, un caffè, uno shukran o un salam ailekum in tutto questo tempo.

Dunque, siamo a Betlemme. Non ci sono bombardamenti, noi siamo al sicuro. Betlemme è sotto intera giurisdizione dell’Autorità palestinese ma i soldati israeliani fanno continue incursioni nei due più grandi campi profughi alla sua periferia: Aida e Dheisheh. Entrano per arrestare, entrano per spaventare, entrano per controllare, entrano per capriccio. ENTRANO. E con estrema frequenza, quando entrano, corre il sangue. Quello dei feriti e, a volte, quello dei morti assassinati.

Ieri sera hanno ucciso deliberatamente il giovane Sajid Mezhir, solo 17 anni, mentre stava aiutando dei cittadini feriti dai soldati occupanti entrati nel campo. Soldati del più coccolato e più criminale Stato tra quelli considerati, in questo caso a torto, democratici: Israele.

Anche questa morte non farà notizia nei media mainstream, a meno che qualche giovane esasperato da tanta continua violenza impunita non decida di vendicarsi, in suo nome, contro qualche soldato israeliano. In quel caso i media alzeranno al massimo i loro megafoni per invocare all’unisono il coro che suona “SICUREZZA PER ISRAELE”.

Ho lasciato obtorto collo Gaza, dove il sangue palestinese scorre a fiumi, e sono tornata in Cisgiordania, dove il sangue palestinese seguita a scorrere senza interruzione. A Betlemme, a Nablus, a Gerusalemme, a Hebron….. Un unico popolo, diverse fazioni politiche, diverse leadership, ma un unico popolo che paga per l’arroganza criminale dell’unico vero nemico comune: l’occupazione israeliana della Palestina. Oggi i funerali di Sajid, ultimo giovane martire. Per ora.

 

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Attachi israeliani contro Gaza

Israele lancia attacchi contro Gaza, mettendo a rischio il ‘cessate il fuoco’

Fonti ufficiali israeliane hanno messo in discussione le affermazioni dei dirigenti di Hamas secondo cui è stato raggiunto un cessate il fuoco per porre fine alle violenze di questa settimana

 

Middle East Eye

 

Della Redazione di MEE

26 Marzo 2019

 

Israele ha colpito alcuni obiettivi nella Striscia di Gaza assediata, rompendo potenzialmente il cessate il fuoco che secondo Hamas sarebbe stato negoziato tra Egitto e Israele.

Secondo Haaretz, che ha citato un portavoce dell’esercito israeliano, Israele ha attaccato un complesso di edifici e un deposito di armi di Hamas nel distretto di Khan Younis.

Martedì sera l’esercito israeliano ha affermato che un razzo da Gaza ha colpito la regione israeliana di Ashkelon senza causare vittime o danni.

Martedì notte gli attacchi di Israele sono avvenuti un giorno dopo che un razzo da Gaza ha colpito una casa a nord di Tel Aviv.

Contrariamente alle affermazioni di Hamas, i mezzi di informazione israeliani Haaretz e Ynet martedì hanno informato che non è stato raggiunto un cessate il fuoco per porre fine al riacutizzarsi della violenza nella Striscia di Gaza durante questa settimana.

Durante la giornata di lunedì l’esercito israeliano ha bombardato alcuni obiettivi a Gaza, compresi l’ufficio del dirigente di Hamas Ismail Haniyeh e la casa di una famiglia palestinese nel centro di Gaza City.

La violenza è iniziata dopo che un razzo lanciato dal territorio palestinese assediato ha colpito una città nel centro di Israele, ferendo sette persone.

Israele ha subito accusato Hamas di essere dietro l’attacco, ma il gruppo palestinese ha negato ogni responsabilità.

Lunedì una fonte non identificata a Gaza ha detto all’AFP [agenzia di stampa francese, ndt.] che il razzo potrebbe essere stato lanciato inavvertitamente a causa del “cattivo tempo”.

Mentre montavano i timori di una guerra totale israeliana, il portavoce di Hamas Fawzi Barhoum lunedì sera ha detto che era stato raggiunto un cessate il fuoco.

Secondo il ministero della Sanità di Gaza sette palestinesi sono rimasti feriti durante la notte da attacchi aerei israeliani.

Secondo Haaretz martedì pomeriggio un razzo lanciato da Gaza è caduto in una zona disabitata in Israele, facendo scattare le sirene di allerta. Il razzo non ha causato nessun danno né feriti, afferma il giornale israeliano.

Un funzionario anonimo di Gaza ha detto alla Reuter [agenzia di stampa britannica, ndt.] che l’attacco con i razzi di martedì è stata un’azione individuale, non approvata da Hamas o da qualunque altro gruppo armato nel territorio palestinese.

 

“Faremo quello che è necessario”

Invece fonti ufficiali israeliane hanno chiesto una dura risposta contro Hamas.

Parlando martedì all’annuale conferenza del gruppo lobbystico filo-israeliano AIPAC in un video filmato da Israele, Netanyahu ha detto che è stata usata una “grande forza” per rispondere ad Hamas.

“Nelle ultime 24 ore (l’esercito israeliano) ha distrutto importanti installazioni terroristiche di Hamas a un livello mai più visto dalla fine dell’operazione militare a Gaza di quattro anni fa [operazione “Margine protettivo”, ndt.] … E vi posso dire che siamo pronti a fare molto di più,” ha detto il primo ministro israeliano.

“Faremo quanto necessario per difendere il nostro popolo e il nostro Stato.”

Le sue dichiarazioni arrivano a due sole settimane dalle elezioni israeliane, in cui [Netanyahu] deve affrontare un’importante sfida con l’ex-generale dell’esercito israeliano Benny Gantz.

Il ministro dell’Educazione israeliano di estrema destra, Naftali Bennett, un alleato di Netanyahu, ha invitato l’esercito del Paese a utilizzare la forza bruta per “neutralizzare” Hamas, mettendo in guardia contro il fatto di prendere una posizione debole contro il gruppo palestinese.

Secondo Haaretz martedì egli ha detto: “Se tu fuggi dal terrorismo, il terrorismo ti inseguirà.”

 

(Traduzione di Amedeo Rossi)

 




Cessate il fuoco a Gaza annunciato da Hamas

Hamas dice che è stato raggiunto un cessate il fuoco dopo attacchi aerei sulla Striscia di Gaza

Un portavoce di Hamas afferma che l’Egitto ha contribuito a mediare un cessate il fuoco tra Israele e le fazioni armate palestinesi a Gaza

 

Middle East Eye

MEE e agenzie – 25 marzo 2019

 

Un portavoce di Hamas ha affermato che, dopo che l’esercito israeliano ha compiuto una serie di attacchi aerei contro la Striscia di Gaza assediata, è stato raggiungo un cessate il fuoco con Israele.

Come informano i media locali, in una breve dichiarazione [rilasciata] lunedì sera, il portavoce di Hamas Fawzi Barhom ha detto che l’Egitto ha contribuito a mediare un cessate il fuoco tra Israele e le fazioni armate palestinesi a Gaza.

Al momento Hamas non ha fornito alcun ulteriore dettaglio sull’accordo.

Il cessate il fuoco, di cui hanno riferito per primi i mezzi di informazione di Hamas, è giunto dopo che le forze israeliane hanno lanciato una serie di attacchi contro quelli che ha descritto come “obiettivi del terrorismo di Hamas” nella Striscia di Gaza.

Gli attacchi aerei sono stati lanciati alcune ore dopo che un missile sparato dal territorio palestinese assediato ha colpito una cittadina nel centro di Israele.

L’aumento della violenza ha suscitato timori che potesse essere imminente una campagna di bombardamenti israeliani su vasta scala.

Citando un anonimo funzionario di Hamas, la Reuter [agenzia di notizie britannica, ndt.] ha informato che la tregua è entrata in vigore alle 22 ora locale.

“Grazie alla mediazione dell’Egitto è stato raggiunto un accordo su un cessate il fuoco tra le fazioni palestinesi e Israele,” ha detto il funzionario alle agenzie di stampa.

La Reuter ha affermato che al momento Israele non ha commentato le informazioni sul cessate il fuoco.

Nel primo pomeriggio di lunedì la Reuter ha informato che un attacco aereo israeliano aveva preso di mira l’ufficio del leader di Hamas Ismail Haniyeh a Gaza.

Era improbabile che Haniyeh vi si trovasse, in quanto normalmente Hamas evacua i propri edifici quando si aspetta attacchi israeliani, afferma l’agenzia di stampa. Un portavoce militare israeliano ha rifiutato di commentare l’informazione.

Il movimento Hamas ha negato l’accusa dell’esercito israeliano di aver effettuato lunedì mattina un attacco con il razzo che ha ferito sette persone nella cittadina israeliana di Meshmeret.

Funzionari della sicurezza palestinese e i mezzi di comunicazione di Hamas hanno affermato che gli attacchi aerei israeliani hanno colpito una postazione navale di Hamas a ovest di Gaza City e anche un grande campo di addestramento nella parte settentrionale di Gaza.

È probabile che entrambe le postazioni siano state evacuate, in quanto Hamas ha avuto ore di preavviso che stavano per cominciare attacchi israeliani. Testimoni hanno detto che tre missili hanno colpito l’obiettivo a nord.

Mohamad Ghazali, un capofamiglia palestinese di Gaza City, che si trova nella parte centrale della Striscia, ha affermato che un soldato israeliano lo ha chiamato per telefono dicendogli che lui e la sua famiglia avevano solo qualche minuto per evacuare la loro casa.

“Hanno affermato che nessuno doveva rimanere nella zona. Abbiamo risposto: ‘Abbiamo bambini piccoli, dove li dovrei portare?’” ha detto Ghazali a MEE.

Ghazali racconta che la sua famiglia se n’è andata senza nient’altro che i vestiti che avevano addosso e che qualche momento dopo una serie di missili ha colpito la loro casa.

Ha aggiunto di non capire perché la casa sia stata presa di mira, in quanto non ci sono gruppi armati nel quartiere.

In un comunicato prima del presunto attacco al suo ufficio Haniyeh ha affermato che “l’attuale situazione palestinese sta subendo un attacco su vasta scala a tutti i livelli: a Gerusalemme, in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e all’interno delle carceri israeliane.”

Ha sostenuto che i palestinesi “non si arrenderanno all’occupazione israeliana”, promettendo che “se l’occupante israeliano attraverserà la linea rossa, la resistenza palestinese risponderà di conseguenza.”

Ciò è stato ripetuto da Ziyad al-Nakhleh, segretario generale della Jihad islamica, un gruppo armato che opera a Gaza, che ha affermato che “risponderà duramente a ogni aggressione israeliana contro Gaza.”

Yahya Sinwar, il capo di Hamas, che governa l’enclave costiera assediata, ha annullato un evento pubblico previsto per lunedì pomeriggio, e funzionari di Hamas hanno parlato di “sviluppi”.

Nel contempo lunedì mattina, parlando a Washington, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha detto che Israele “farà tutto il necessario per difendere il suo popolo. Israele non tollererà attacchi con razzi sul suo territorio.”

Anche il presidente USA Donald Trump ha detto che Israele “ha il diritto di difendersi.”

 

Razzi colpiscono a nord di Tel Aviv

Di prima mattina una casa è stata completamente distrutta e almeno un’altra e alcune automobili sono state gravemente danneggiate dopo che razzi sono caduti sulla comunità agricola israeliana di Mishmeret, a circa 20 km a nord-est di Tel Aviv.

L’attacco è avvenuto qualche minuto dopo che l’esercito israeliano aveva attivato le sirene di allarme aereo nella zona e detto che un razzo era stato lanciato dalla Striscia di Gaza.

L’esercito israeliano ha affermato che il razzo era stato sparato da una postazione di Hamas nei pressi di Rafah, a sud di Gaza.

Ma lunedì non era ancora chiaro da dove sia partito il razzo.

“Nessuno dei movimenti di resistenza, compreso Hamas, ha interesse a sparare razzi dalla Striscia di Gaza verso il nemico,” ha detto all’AFP [agenzia di stampa francese, ndt.] un anonimo ufficiale, evocando la possibilità che sia stato il “cattivo tempo”.

Almeno in una precedente occasione in cui Hamas e altri gruppi di miliziani hanno negato di aver lanciato razzi su Israele, essi hanno ipotizzato che un temporale avesse attivato il lancio di un razzo.

Non è tuttora chiaro se l’ufficiale intervistato dall’AFP lunedì alludesse a una simile eventualità.

Il quotidiano israeliano Haaretz ha informato che comunque lunedì mattina il portavoce dell’esercito israeliano Ronen Manelis ha detto che due brigate si stavano dirigendo a sud verso Gaza e che l’esercito stava mobilitando migliaia di riservisti, compresi quelli dell’aviazione.

L’ospedale dove sono in cura le vittime ha affermato che sette israeliani, tra cui un neonato, un bambino di tre anni, una ragazzina di 12 e una donna sessantenne, sono rimasti leggermente feriti da bruciature e schegge. Sei di loro sono membri della stessa famiglia.

L’attacco di lunedì mattina è giunto in un momento di tensioni in aumento in seguito all’ anniversario delle proteste della Grande Marcia del Ritorno a Gaza del fine settimana e mentre Netanyahu si trova in visita a Washington nell’ambito della campagna in corso per un quinto mandato nelle elezioni del 9 aprile in Israele.

Netanyahu ha detto che in seguito all’attacco avrebbe interrotto il suo viaggio negli Stati Uniti, dove era previsto che parlasse alla conferenza dell’associazione lobbystica filo-israeliana AIPAC.

“Alla luce degli avvenimenti riguardanti la sicurezza ho deciso di interrompere la mia visita negli USA,” ha detto Netanyahu, definendo l’attacco un crimine efferato che porterà a una forte risposta israeliana.

Tuttavia, prima di tornare ha incontrato Trump alla Casa Bianca, dove la coppia ha tenuto una conferenza stampa per annunciare che Trump ha firmato un ordine esecutivo che riconosce la “sovranità” israeliana sulle Alture del Golan siriane.

Analisti statunitensi hanno affermato che l’annuncio potrebbe servire a rafforzare le prospettive di Netanyahu nelle elezioni del mese prossimo.

Il principale rivale di Netanyahu nelle imminenti elezioni, l’ex-generale Benny Gantz, che era anche lui a Washingron per partecipare lunedì alla conferenza dell’AIPAC, dopo l’attacco con il razzo ha accusato Netanyahu di aver “mandato in bancarotta la sicurezza nazionale.”

 

Evacuazioni in tutta Gaza

In seguito all’attacco con un razzo a Mishmeret, la marina israeliana ha impedito ai pescatori palestinesi di salpare dalle spiagge di Gaza.

[Gli israeliani] hanno anche chiuso sia il valico di Karam Abu Salem che di Beit Hanoun, che sono utilizzati per il trasporto rispettivamente di beni e persone.

L’esercito israeliano ha inoltre dichiarato numerose aree nel sud di Israele zone militari chiuse, mentre il Comune di Tel Aviv ha aperto al pubblico alcuni rifugi antiaerei.

Nel contempo lunedì edifici governativi, scuole, prigioni, stazioni di polizia e della sicurezza palestinesi a Gaza sono stati evacuati in previsione di potenziali bombardamenti israeliani.

Il quartier generale della televisione Al-Aqsa è stato chiuso per timore che anch’esso potesse essere preso di mira dagli aerei da guerra israeliani.

Fonti hanno anche detto a Middle East Eye che alcune ong con sede a Gaza hanno evacuato il loro personale internazionale.

Durante l’offensiva israeliana contro Gaza nel dicembre 2008 i primi obiettivi di Israele sono stati i commissariati di polizia.

Il ministero della Salute di Gaza ha emanato un’allerta ai cittadini perché lunedì “dimostrino la massima attenzione e cautela”, aggiungendo che gli ospedali – già gravati dall’assedio e dall’alto numero di feriti in un anno di proteste – sono in stato di allerta.

 

Imminenti elezioni

Mishmeret si trova a più di 80 km dalla Striscia di Gaza ed è raro che un lancio di razzi dall’enclave palestinese possa raggiungere quella distanza.

Tel Aviv, la capitale economica di Israele, e le comunità della sua periferia sono finite l’ultima volta sotto simili attacchi durante la guerra del 2014 con Hamas.

Il 14 marzo sono stati lanciati alcuni razzi verso Tel Aviv ma non hanno provocato né vittime né danni, afferma Israele.

Israele accusa Hamas del lancio di questi razzi, benché al momento un ufficiale anonimo della sicurezza di Gaza affermi che il lancio, che ha mancato ogni area edificata, era stato fatto partire per sbaglio.

Israele considera Hamas, il partito che governa di fatto a Gaza, responsabile di ogni lancio di razzi che arriva dal piccolo territorio palestinese, benché nella zona operino anche altre fazioni armate.

Israele sottopone la Striscia di Gaza ad un blocco durissimo, che per chi lo critica rappresenta una punizione collettiva dei due milioni di abitanti dell’enclave impoverita.

Anche l’Egitto mantiene un continuo assedio, limitando i movimenti di entrata ed uscita da Gaza sul suo confine.

 

 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Altra guerra preelettorale

Non ce n’era proprio bisogno: un’altra guerra pre-elettorale contro Gaza

Ci vogliono leader capaci di parlare della fine dell’assedio, della fine dell’occupazione, di eguaglianza, di libertà e di sicurezza come unica soluzione sia per gli israeliani che per i palestinesi

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Di Haggai Matar e Oren Ziv – 25 marzo 2019

Il razzo lanciato da Gaza che lunedì mattina ha distrutto una casa e ferito sette persone nel centro di Israele ha colto di sorpresa gli israeliani. Da un lato è perfettamente comprensibile; non siamo abituati allo scoppio di razzi nella zona di Tel Aviv, e certamente non a razzi che abbiano un  effetto così devastante. Un attacco  contro civili, contro una famiglia che sta dormendo, è una cosa terrificante.

D’altro lato, l’attacco può sorprendere solo se lo si isola da tutte le vicende che non trovano spazio nell’informazione: i manifestanti disarmati uccisi alla barriera tra Israele e Gaza quasi ogni settimana (solo di recente un ragazzino di 14 anni è stato ucciso dai cecchini israeliani), diversi incidenti mortali in Cisgiordania nelle scorse settimane, e attacchi ed altre azioni intraprese contro prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Quando parliamo delle aggressioni palestinesi, difficilmente qualcuno cita il fatto che dall’inizio dell’anno le forze israeliane hanno ucciso 30 palestinesi a Gaza e in Cisgiordania.

Il lancio del razzo è una sorpresa solo se ci permettiamo di dimenticare il più ampio contesto della realtà quotidiana dell’occupazione – dagli arresti di bambini palestinesi nelle loro aule scolastiche agli attacchi dei coloni ai contadini palestinesi – o l’assedio di Gaza, che ha lasciato i suoi abitanti impoveriti e senza speranze.

Ovviamente  nulla di tutto ciò giustifica gli attacchi a civili israeliani, ma dovrebbe ricordarci che è Israele che attacca i civili palestinesi tutti i giorni. Non possiamo perdere di vista quel contesto quando parliamo di ciò che potrebbe succedere la prossima volta.

In risposta al lancio del razzo di lunedì mattina il primo ministro Netanyahu ha detto che Israele “risponderà con la forza”. (Nel momento in cui scriviamo quegli attacchi sono iniziati). Il vice ministro della Difesa Eli Ben Dahan, che ha visitato la casa distrutta nel moshav [comunità agricola cooperativa, ndt.] di Mishmarot, ha illustrato le tre opzioni del governo israeliano: continuare a colpire i “depositi vuoti” a Gaza, rioccupare la Striscia, o ripristinare il programma israeliano di omicidi mirati.

Il ministro dell’Educazione Naftali Bennett [del partito di estrema destra dei coloni “Casa Ebraica”, ndt.] ha detto che Hamas deve essere “sottomesso”, mentre il rivale di Netanyahu, Benny Gantz, i cui spot elettorali fanno vanto dell’aver ricacciato Gaza all’età della pietra, ha incolpato dell’attacco Netanyahu, per non aver colpito più duramente Hamas e Gaza. Politici di estrema destra hanno chiesto che Gaza venga “spianata”.

Alcuni abitanti di Mishmarot, tuttavia, hanno un approccio differente. Yoni Wolf, la cui famiglia vive nella casa distrutta dal razzo, lunedì mattina ha detto ai giornalisti che Israele deve “riconquistare non solo la propria capacità di deterrenza, ma anche il buonsenso.” Un altro abitante della città ha detto che uno dei suoi ex dipendenti, un palestinese di Gaza, lo ha chiamato per chiedergli come stava: “Non tutti ci odiano”, ha detto.

Il pericolo è che adesso, in seguito all’attacco a Mishmarot, alla luce delle imminenti elezioni e nel tentativo di mantenere la propria immagine di “mister sicurezza”, Netanyahu possa essere trascinato nel più letale e devastante ciclo di violenze cui abbiamo assistito dall’ultima guerra contro Gaza nel 2014.

Ma c’è un’altra strada. Possiamo fermare il massacro. Non dobbiamo scatenare un’altra guerra pre-elettorale. Possiamo smettere di lanciare vuoti slogan sulla distruzione del regime di Hamas. Sono bugie, sono sempre state bugie. Ciò di cui abbiamo bisogno è un leader che parli di negoziati, di porre termine all’assedio e all’occupazione, di eguaglianza, libertà e sicurezza come unica soluzione sia per gli israeliani che per i palestinesi.

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su Local Call [sito web israeliano legato a +972].

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Inferno a Gaza

È cominciato l’Inferno a Gaza

di Patrizia Cecconi da Gaza

L’Antidiplomatico

Gaza 25 marzo 2019

 

Gaza stanotte si è addormentata sotto una tempesta naturale che faceva concorrenza ai bombardamenti israeliani, ma si è svegliata con la notizia che un nuovo missile ha colpito a nord di Tel Aviv centrando un’abitazione e ferendo 7 persone tra cui, per fortuna leggermente, 3 bambini. Quindi si è svegliata temendo che non saranno i fulmini a coprire prossimamente il cielo, ma l’aviazione israeliana, come già minacciato da Netanyahu che sta tornando in fretta e furia da Washington.

Le agenzie di stampa israeliane stamattina abbondavano, come ovvio,  in notizie circa i feriti e i danni provocati dal potente missile Farji5, i media internazionali hanno fatto loro eco abbondando  anche in notizie di colore, tra cui i ricoveri per stato di panico nonostante i rifugi sicuri, o la morte  di un cane rimasto sotto le macerie, cosa sicuramente triste ma che, se si mette sul piatto della bilancia rispetto agli assassinii a freddo dei palestinesi e alla demolizione di decine di migliaia di loro case con morti umani sotto le macerie, sembra un’attenzione quantomeno squilibrata.

Ma al di là delle notizie per così dire di colore, ce ne sono due piuttosto strane, la prima è che l’iron dome, cioè il più sofisticato sistema antimissilistico, capace di intercettare e neutralizzare i razzi nemici era stranamente spento quando il missile è arrivato. La seconda è che, nonostante il missile lanciato da Rafah abbia centrato una zona residenziale ferendo e facendo gravi danni, le scuole oggi sono rimaste aperte.

Se i due missili di circa dodici  giorni fa, quelli ai quali Israele rispose con una notte di bombardamenti distruggendo più di 100 strutture e ferendo diverse persone, sono rimasti  senza chiaro mittente tanto che alcune ipotesi sono state di “razzi elettorali” ed altre di “razzi distrazionali pro-Hamas”, il missile di questa mattina crea ancora più dubbi. Sia la  volta precedente che oggi , è stato ipotizzato dalla stampa israeliana, portavoce del governo,  che possa essersi trattato di un errore. Fa un po’ ridere quest’idea che sprovveduti ragazzotti spingano su un bottone sbagliato avendo accesso a luoghi che non sono certo una sala biliardo e quindi è difficile crederci. Proviamo a esaminare i motivi di dubbio.

Il primo fatto significativo è la potente gittata di questo missile, che dovrebbe essere di fornitura iraniana e dovrebbe far parte degli stoccaggi della Jihad islamica.  Tra Rafah e Tel Aviv passano 120 chilometri. Mai un missile lanciato da Gaza è arrivato tanto lontano. Inoltre la Jihad ha sempre rivendicato le sue azioni militari ma questa volta, esattamente come dodici  giorni fa, rifiuta ogni responsabilità e al momento i suoi capi sono in riunione con i capi di Hamas che rifiuta, a sua volta, ogni rivendicazione.

Perché Jihad e/o Hamas avrebbero dovuto lanciare un missile tanto potente sapendo che questo avrebbe innescato una risposta violentissima? Vogliono un’escalation? E’ proprio loro il missile lanciato da Rafah, cioè da pochi metri dall’Egitto? Qual è dunque il motivo e  il messaggio lanciato da quest’azione? E se non è stato Hamas, come affermano a Gaza persone che non sono assolutamente simpatizzanti del governo locale, né la Jihad, chi e perché ha lanciato il missile?

Stranamente Israele non ha ancora risposto se non con modeste azioni a Beit Hannoun, estremo nord, questa mattina, senza grossi danni né feriti.

Anche questo è strano, non rientra nella “tradizione” israeliana le cui rappresaglie sono sempre violentissime e sproporzionate alle azioni della resistenza palestinese. Qui si sta aspettando la risposta israeliana, ma anche la risposta ufficiale che dovrebbe uscire dalla riunione congiunta di Hamas e Jihad. La Jihad ha già pubblicato un comunicato laconico che fa eco alle minacce di durissima rappresaglia da parte di Israele, dichiarando che la risposta della resistenza sarà a sua volta durissima.

Altra cosa strana, per tutto il giorno i droni sono stati a riposo, stanno arrivando adesso, 17 ora locale. Volano bassi, pessimo segnale.

Intanto Israele ha mandato l’esercito in massa lungo la linea dell’assedio e ha chiamato i riservisti. Gli iron dome, che stavolta funzioneranno, sono stati dislocati in tutto il territorio israeliano. Inoltre sono stati avvertiti gli abitanti degli insediamenti prossimi alla Striscia di Gaza di organizzarsi che ci sarà presto un violentissimo attacco aereo. Ci sarà prima del rientro dall’America di Netanyahu? Chi ne prenderà “i meriti”? Mentre scrivo arriva la notizia del primo attacco israeliano a nord dalla parte del mare.  I droni seguitano a volare bassi.

Il popolo palestinese di Gaza pagherà le conseguenze di ogni cosa. Israele ha chiesto ai Consolati stranieri di evacuare i propri cittadini. Questo è un segnale pesantissimo. I valichi sono stati chiusi, ma tanto questo per i gazawi rientra nella normalità dell’assedio, mentre il segnale che viene mandato al mondo è preciso: faremo un massacro al quale nessuno potrà sfuggire, portatevi fuori i vostri quattro internazionali perché non vogliamo testimoni. E i consolati si stanno attrezzando. Chi scrive sarà probabilmente costretta domattina ad uscire da Gaza, lasciando sotto le bombe solo uomini, donne e bambini gazawi, gli stessi di cui conosce nomi, visi, risate e sogni, e lasciando ai megafoni  israeliani la sola voce che arriverà in Occidente.

Le ultime notizie riaffermano che Israele “risponderà” ad ogni attacco, mentre da Gaza la resistenza risponde  che replicherà da ogni punto della Striscia ad ogni attacco israeliano. Non è una partita di risiko. E’ una tragedia annunciata. E su tutto c’è la grande ala delle prossime elezioni che probabilmente verranno vinte grazie al sacrificio del popolo gazawo. Quello che non muore di paura scappando nei rifugi, ma che muore per davvero, proprio come il povero cane israeliano che ha commosso i media, ma probabilmente senza  muovere la stessa commozione.  Gli attacchi sono appena iniziati. Possiamo solo sperare che qualcuno riesca a fermarli prima che si trasformino nell’inferno annunciato.

 




Primo anniversario Grande Marcia del Ritorno a Gaza

Mentre la Grande Marcia del Ritorno di Gaza si avvicina al primo anniversario, l’iniziatore delle proteste, Ahmed Abu Artema, discute della costruzione di un movimento non violento

 

MondoWeiss

Allison Deger – 22 marzo 2019

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Tutto è iniziato a causa di un uccello. Ahmed Abu Artema, l’improbabile leader del più ampio movimento palestinese da decenni, un pomeriggio di febbraio dello scorso anno camminava a grandi passi lungo la barriera di separazione che divide la sua casa nella Striscia di Gaza da Israele. Al crepuscolo ha visto uccelli volare nel cielo, attraversare la barriera “e nessuno li fermava”.

È stato un momento di assoluta chiarezza. Ahmed era fisicamente intrappolato dentro un territorio non statale assediato, e nello stesso luogo c’era uno stormo di uccelli più libero di lui.

“Perché complichiamo questioni semplici? Una persona non ha il diritto di muoversi liberamente come un uccello?” si è chiesto. Guardando di nuovo la barriera, frustrato ha pensato: “Mi tarpa le ali,” “Uccide i miei sogni” e “interrompe le mie camminate serali.”

“E se uno di noi- palestinesi di Gaza – vedesse se stesso come un uccello e decidesse di arrivare fino a un albero dall’altra parte della barriera?” Ahmed ha supposto: “Se quell’uccello fosse palestinese, gli sparerebbero.”

Più tardi quella notte Ahmed ha postato su Facebook un messaggio che è diventato virale in cui chiedeva ai palestinesi di marciare verso la barriera con l’obiettivo di accamparsi a pochi chilometri dall’altra parte della barriera, un vero diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi che non possono più aspettare una soluzione dal moribondo processo di pace. Pochi mesi dopo, il 30 marzo 2018, la festa palestinese del Giorno della Terra, generalmente celebrata con manifestazioni, ha segnato l’inizio della prospettiva di Ahmed.

Denominate la Grande Marcia del Ritorno, le proteste da allora sono continuate ogni venerdì, a volte con decine di migliaia di partecipanti. Negli ultimi mesi ad intermittenza un piccolo gruppo di israeliani si è unito a loro dall’altra parte della zona cuscinetto.

“L’idea si è talmente diffusa da essere diventata nella Striscia di Gaza un movimento sociale,” mi ha detto questa settimana Ahmen durante una camminata in giro per monumenti a Washington in un tranquillo pomeriggio di primavera. Aveva una spilla con la bandiera palestinese appuntata sulla sua elegante camicia. Al mattino aveva parlato al “Carnegie Endowement for International Peace” [fondazione Carnagie per la Pace Internazionale, centro di ricerca per la pace mondiale, ndt.] nel contesto di un giro di tre settimane organizzato dall’ “American Friends Service Committee” [Comitato del Servizio degli Amici Americani, associazione religiosa quacchera che si impegna per la pace e la convivenza, ndt.]. Le sue osservazioni in questo articolo sono tratte sia dal suo discorso ufficiale che dalla conversazione con me che ne è seguita.

A 34 anni è un padre occhialuto, affabile eppure metodico, di quattro bambini con meno di 8 anni, con qualche capello grigio. È stato negli USA per circa due mesi ed è ancora stupito di alcuni degli aspetti della vita fuori dall’assedio che Gaza sta subendo nell’ultimo decennio. Il suono degli aeroplani, in particolare. “Quando senti un aereo, è un segno di vita, ma a Gaza è un segno di morte,” dice.

Ahmed aveva viaggiato all’estero solo una volta prima d’ora, un breve soggiorno in Egitto. Questo è il suo primo viaggio da adulto da qualche parte e la prima occasione in cui è stato lontano dalle proteste del venerdì. “L’ho scritto come un sogno, poi sono andato a dormire,” dice. “Non è stato il mio potere come individuo che ha fatto diffondere l’idea.”

Non c’è un confine internazionale che delimita Gaza. È stretta dalla linea armistiziale della guerra arabo-israeliana del 1948, rafforzata dopo la guerra del giugno 1967. Una zona cuscinetto si estende lungo la frontiera orientale, ed è profonda circa un chilometro. Dentro Gaza il filo spinato e la rete metallica sono visibili dalla principale autostrada che in un altro contesto sarebbe chiamata una strada di campagna. Via Saladino, che prende il nome dal fondatore del califfato degli Ayyubidi, che inaugurarono un periodo di prosperità economica in buona parte del Medio Oriente, può essere percorsa in auto in soli 30 minuti, senza andare in fretta.

In questa strada, “se tu guardi alla tua destra puoi vedere la barriera di filo spinato,” dice Ahmed, e alla tua sinistra una flotta navale israeliana nel mar Mediterraneo.

“Immagina di essere confinato in un simile spazio,” e nello stesso momento circondato dai 2,2 milioni di abitanti di Gaza, dei quali due terzi sono rifugiati originari di terre all’interno di Israele, aggiunge Ahmed.

Dal punto di vista funzionale Gaza continua ad essere un non Stato, quasi un’aberrazione storica in cui un’enclave dell’impero ottomano e in seguito del mandato britannico non ha mai conquistato l’indipendenza come Stato palestinese durante la colonizzazione di tutto il Medio Oriente che fece seguito alla Seconda Guerra Mondiale. Durante gli accordi di pace di Oslo venne promesso uno Stato, ma deve ancora essere realizzato. In base alle leggi internazionali sarebbe la parte occidentale del frammentato territorio palestinese occupato. Eppure per i suoi abitanti più vecchi la Striscia è stata soggetta a un turbinio di poteri stranieri senza che se ne veda la fine. Un ottantenne palestinese ha vissuto sotto il controllo britannico, giordano ed ora israeliano. Benché i coloni e i soldati israeliani se ne siano andati da Gaza durante il disimpegno del 2005, originato da un precedente accordo di pace, Israele controlla ancora tutti i posti di blocco dentro e fuori Gaza tranne uno, e ha giurisdizione su cielo e mare.

Durante l’ultimo decennio e mezzo Gaza è stata governata dal movimento islamico Hamas. In questo periodo Gaza non solo è stata fisicamente separata dalla Cisgiordania, ma sempre più isolata politicamente da Ramallah dopo che il governo si è diviso nel 2006, pochi mesi prima che iniziasse l’assedio israeliano e un anno dopo le elezioni palestinesi, le ultime a parte le elezioni comunali. Da allora l’Autorità Nazionale Palestinese con sede in Cisgiordania ha intavolato negoziati di pace con Israele con la mediazione degli USA, promossi direttamente da John Kerry e ora dal presidente Donald Trump, con il destino di Gaza spesso messo in secondo piano.

Da quando lo scorso anno Trump ha dichiarato Israele come capitale di Gerusalemme, secondo Ahmed c’è stato un punto di svolta per i suoi amici e per lui. Da quel momento egli non conosce più nessuno che veda gli USA come un mediatore imparziale del processo di pace. “Sappiamo ovviamente che storicamente le amministrazioni americane sono state vicine ad Israele,” dice Ahmed. “La nostra esperienza non ci lasciava alcuno spazio per fidarci dell’amministrazione USA, ma Trump è l’esempio più estremo.”

Trump, dice Ahmed, è stato la ragione per cui i palestinesi si sono sentiti spinti ai margini. Protestare vicino alla barriera con Israele è sempre stato considerato da tutti come pericoloso. “Con le sue politiche che influenzano Israele ha provocato l’incendio. Le persone hanno sentito che i propri diritti fondamentali erano in pericolo.”

L’ONU dice che nelle manifestazioni iniziate lo scorso marzo le forze israeliane hanno ucciso 260 palestinesi, e ne hanno feriti più di 26.000, circa 7.000 dei quali sono stati colpiti da proiettili veri. Durante le proteste nei pressi della barriera i palestinesi hanno ucciso due soldati israeliani e ne hanno feriti quattro.

In passato Ahmed ha cercato di organizzare a Gaza un movimento nonviolento che facesse breccia negli sbarramenti con Israele. Il momento in cui ci è arrivato più vicino è stato quando aiutò a organizzare una manifestazione nel maggio 2011 in cui rifugiati palestinesi in Libano e in Siria si riunirono a migliaia sui confini con Israele e a decine entrarono in Israele. “The Guardian” [giornale inglese di centro sinistra, ndt.] all’epoca informò che le forze israeliane ne avevano uccisi 13 sul fronte settentrionale e feriti 60 a Gaza con proiettili veri. Contemporaneamente nella regione hanno avuto luogo cambiamenti drammatici.

“Quando sono iniziate le primavera arabe, soprattutto dopo la caduta di Hosni Mubarak (in Egitto), ci siamo sentiti ispirati,” dice Ahmed.

Infatti, mentre si stava svolgendo un’insurrezione in piazza Tahrir, giovani chiusi nei caffè a Gaza e Ramallah e scoraggiati come Ahmed hanno tentato una rivoluzione palestinese di quel genere. La “Coalizione della marcia del 15”, a volte chiamata Hirak Shababi [“Il movimento dei giovani”, che ha partecipato alle proteste contro la politica economica del governo giordano, ndt.], ha galvanizzato i giovani palestinesi in Cisgiordania e a Gaza per chiedere la riconciliazione tra Fatah, con base in Cisgiordania, e Gaza, governata da Hamas. È stato il primo movimento sociale dell’epoca di twitter, e il primo episodio di intenso attivismo che prendeva di mira la loro stessa dirigenza. Ma la dissidenza ha avuto vita breve, contrassegnata da divisioni interne e repressione brutale. Dopo due anni il nuovo movimento dei giovani è finito in niente.

“Avevano dei limiti politici,” dice delle proteste precedenti, “non c’era una posizione chiara riguardo alle divisioni politiche e a quale fosse la causa scatenante.”

“Hamas diceva di essere contro la divisione, Fatah diceva di essere contro la divisione. Che senso ha quando tutti dicono la stessa cosa?” Per Ahmed, il suo obiettivo aveva bisogno di un linguaggio semplice: “Vogliamo tornare alle nostre case e siamo rifugiati.”

Ahmed è ben conscio del fatto che grandi zone in cui una volta si trovavano i villaggi palestinesi in Israele distrutti nella guerra del 1948 non sono mai state economicamente sfruttate. Attivisti del gruppo israeliano “Zochrot” e urbanisti dell’organizzazione palestinese “Badil” hanno suggerito la possibilità di utilizzare le riserve naturali di Israele come luoghi per il reinsediamento dei palestinesi. Però in Israele c’è uno scarso appoggio a questa idea, tranne che da parte di qualche centinaio di persone di estrema sinistra, e questa causa non è mai stata abbracciata da alcun partito politico, compresi i partiti arabi in Israele.

Un precedente negoziato di pace tra l’ex primo ministro israeliano Ehud Olmert e il presidente palestinese Mahmoud Abbas sarebbe fallito in parte sul numero di palestinesi a cui consentire eventualmente di tornare in Israele. Olmert ne aveva accettati 5.000 e il presidente George W. Bush, che sovrintendeva ai colloqui, offrì di concedere 100.000 cittadinanze USA nel contesto di una soluzione dei due Stati. Per i palestinesi questi numeri erano bassi in modo offensivo. I rifugiati palestinesi sono più di 7 milioni.

“Se il mondo ne avesse la volontà sarebbe in grado di mettere fine alla tragedia di questi rifugiati,” dice Ahmed. “Vogliamo una soluzione basata sulle fondamenta della giustizia, dell’uguaglianza e dell’umanità,” per “coesistere con i nostri vicini ebrei in base ai valori della cittadinanza.”

“Mentre il popolo ebraico ha il diritto di vivere in pace e sicurezza, non è giusto risolvere una tragedia creandone un’altra,” dice.

Per come la vede Ahmed, parte di questa ingiustizia è dovuta al fatto che la vita a Gaza è cambiata, rapidamente. Molte case hanno l’elettricità solo per sei ore al giorno, con interruzioni che durano fino a 16 ore. Il sistema sanitario sta crollando. I tagli dell’amministrazione Trump ai servizi per i rifugiati hanno provocato la chiusura di ambulatori. Gravi malattie non possono essere trattate sul posto e i permessi per uscire per essere curati in un ospedale israeliano, egiziano o in altri luoghi sono sempre più difficili da ottenere.

Ahmed ha smesso tre anni fa di portare i suoi figli a nuotare al mare perché l’inquinamento è molto grave ed è stato messo in rapporto con alcuni decessi. Ora, durante i giorni caldi d’estate vanno ancora sulla spiaggia, ma la famiglia rimane sulla sabbia. Quando i jet israeliani passano sullo spazio aereo di Gaza, un rumore che descrive come frequente, terrorizzano suo figlio, “Abdelrahman ha molta paura ogni volta che sente un aereo.”

“So di molti bambini che sono morti alla sua età, ma io non gli ho mai parlato di questo,” dice Ahmed.

“Questa è una delle ragioni per cui sono un attivista. Cerco, non da solo, anzi, noi cerchiamo di creare un mondo migliore per i nostri bambini,” dice. “Non posso immaginare per loro la stessa vita che ha vissuto mio padre, che vivo io.”

La decadenza delle infrastrutture iniziò sul serio circa dieci anni fa, quando l’ONU avvertì che Gaza sarebbe diventata “inabitabile” entro il 2020. Il rapporto venne pubblicato in risposta al peggioramento delle condizioni dovute al blocco, ma Ahmed sostiene che “un completo collasso economico è già avvenuto” un anno prima della scadenza prevista, “rendendo Gaza una terra totalmente desolata.”

“Accetteresti una vita come questa o chiederesti qualcosa di meglio?” chiede.

“Se tu fossi un giovane di Gaza potresti arrivare a 35 anni senza avere mai avuto un lavoro,” spiega. “Essere padre a Gaza significa che ti vergogni perché non puoi provvedere alla tua famiglia.”

Con Gaza che sta diventando inabitabile, peggiorata dal fattore Trump, Ahmed si è trovato con un pubblico impaziente di cercare alternative. A Gaza i tempi erano maturi per tentare la nonviolenza su vasta scala.

Nel suo primo post su Facebook nel gennaio 2018 ha auspicato tattiche pacifiste.

“E se 200.000 manifestanti accompagnati dai media internazionali marciassero pacificamente e oltrepassassero la barriera di filo spinato a est di Gaza per entrare per qualche chilometro nella nostra terra occupata, portando la bandiera palestinese e le chiavi del ritorno [molti profughi palestinesi hanno conservato le chiavi delle case da cui sono stati cacciati da Israele, ndt.]?” Ha scritto Ahmed. “E se decine di migliaia di palestinesi erigessero un villaggio di tende all’interno di Israele e continuassero ad utilizzare metodi pacifisti rimanendo là senza fare ricorso ad alcuna forma di violenza?”

La maggioranza dei dimostranti ha rispettato l’insistenza sulle proteste pacifiche, anche se molti hanno lanciato pietre, gomme incendiate o fatto volare aquiloni incendiari che hanno bruciato ettari di terreno agricolo israeliano. Le forze israeliane hanno sparato sui dimostranti proiettili veri e lacrimogeni, gli aquiloni ora sono intercettati dai droni. Le scene sono a volte caotiche e Ahmed viene a sapere delle vittime solo quando la manifestazione del venerdì si disperde e lui ha il tempo di controllare le notizie.

Israele sostiene di avere il diritto di utilizzare una forza letale per difendere i propri confini. Rispondendo a un recente rapporto sui diritti umani pubblicato all’ONU un portavoce del ministero degli Esteri israeliano, Emmanuel Nahshon, ha affermato che le proteste sono inscenate da Hamas. Ha detto al “Christian Broadcasting Network” [Rete Televisiva Cristiana, gestita da gruppi evangelici filo-israeliani, ndt.] che “Hamas utilizza i civili a Gaza come scudi umani per i terroristi.”

Ahmed sa che il suo impegno di lunga data per la nonviolenza non è condiviso da tutti. Ma vede il sostegno da gruppi come Hamas subordinato alla spinta di quelli che praticano la nonviolenza, non viceversa. La resistenza pacifica è di nuovo diffusa.

“Le nostre richieste sono semplici e oneste, vogliamo tornare, vogliamo una vita dignitosa. Persino quelli impegnati nella resistenza armata hanno iniziato a capire come può essere efficace la non violenza pacifica,” dice.

“Ci sono persone nella Striscia di Gaza che si oppongono ad Hamas, e c’è un contesto che circonda le attuali proteste nella Striscia di Gaza e ciò include la dura situazione che molte persone vivono,” dice “e molti errori che Hamas ha commesso nell’amministrare la Striscia di Gaza.”

“Ma io vorrei affermare che tutto questo dissenso con Hamas riguarda l’amministrazione e il modo di governare. Questi dissensi non riguardano l’occupazione” dice.

 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Ispettori dell’ONU chiedono a Israele di rivedere le “regole d’ingaggio” nell’imminenza dell’anniversario delle proteste a Gaza.

Un News -18 marzo 2019

Lunedì gli ispettori nominati dal Consiglio [ONU] per i Diritti Umani hanno esortato Israele a rivedere le regole d’ingaggio del suo esercito poco prima del primo anniversario dell’inizio delle manifestazioni presso la barriera di confine del Paese con Gaza, con un bilancio di centinaia di palestinesi morti e altre migliaia feriti.

Parlando a Ginevra il presidente della commissione d’inchiesta sulle proteste del 2018 nel territorio palestinese occupato, Santiago Canton, ha spiegato quello che la commissione ha scoperto riguardo alle relative regole dell’esercito israeliano.

“In base alle regole, possono essere colpiti alle gambe in qualunque momento,” ha detto. “Mentre in teoria questa fondamentale condizione di istigazione doveva essere attribuita solo quando la folla poneva un’imminente minaccia alla vita [dei soldati], in realtà – e questa è stata una delle principali conclusioni della commissione –raramente è stato così.”

Le dichiarazioni di Canton hanno fatto seguito alla sua affermazione secondo cui “la principale conclusione della commissione…è che abbiamo trovato fondati motivi per credere che l’esercito israeliano abbia commesso gravi violazioni dei diritti umani e delle leggi umanitarie internazionali.

Durante le manifestazioni dello scorso anno nella Striscia di Gaza – definite “Grande Marcia del Ritorno e della Rottura dell’Assedio”- la commissione ha scoperto che sono stati uccisi 189 palestinesi, 183 dei quali da proiettili veri.

Tra le vittime ci sono stati minori, persone disabili – compresa una persona amputata a entrambe le gambe che è stata colpita e uccisa mentre era sulla sua sedia a rotelle – , giornalisti e personale paramedico.

A meno di due settimane dall’anniversario dell’inizio delle proteste, la preoccupazione della commissione è evitare che si ripetano dimostrazioni con morti come quelle del 30 marzo, del 14 maggio e del 12 ottobre. “Noi speriamo che la comunità internazionale venga coinvolta per evitare più morti e più sparatorie durante l’anniversario,” ha detto Canton ai giornalisti dopo il suo discorso della mattina al Consiglio per i diritti umani. “Penso che sia la ragione per cui questa presentazione è stata importante. In sostanza è importante che Israele modifichi le regole d’ingaggio e blocchi le sparatorie.”

Si è premuto il grilletto 6.000 volte”

Oltre a quanti sono stati uccisi durante le proteste settimanali alla barriera di confine con Israele, la commissione ONU ha sottolineato i danni causati da proiettili ad alta velocità, che hanno sostituito quelli ricoperti di gomma inizialmente utilizzati contro i manifestanti.

“Nel caso di molte delle uccisioni, ci sono stati fori molto piccoli in entrata e molto grandi in uscita,” ha detto il membro della commissione Sara Hossain. “Abbiamo anche prove dettagliate sul tipo di proiettili, ma pure sull’uso di fucili di precisione di lunga distanza, di sofisticati dispositivi ottici di mira,” ha aggiunto.

“Sappiamo che nel mirino dei cecchini il bersaglio può essere ingrandito, per cui avrebbero potuto sapere le conseguenze di almeno una parte dei tiri. Ciononostante hanno premuto il grilletto, e ciò è avvenuto più di 6.000 volte.”

Alla domanda riguardo alla legalità del fatto di prendere di mira dimostranti disarmati in una manifestazione, la commissione ha insistito che farlo sulla base dell’appartenenza dei singoli a un gruppo armato è illegittimo.

“Crediamo che in una situazione di controllo della folla e che noi crediamo fosse fondamentalmente di civili, se in essa ci sono individui che possono essere un bersaglio legittimo, in ogni caso non si può sparare contro la massa, perché si potrebbero uccidere o colpire individui innocenti,” ha detto Canton.

Apprezzata l’inchiesta di Israele su 11 episodi

La commissione ha anche apprezzato le indagini su undici episodi che Israele ha detto di voler intraprendere, anche se Hossain chiede maggiore trasparenza.

“Sulla natura delle inchieste, per quelle di Israele, hanno annunciato che ci sono questi 11 episodi…ma ciò dopo un anno,” ha affermato. “E non ci sono dichiarazioni su come procedono queste inchieste e pensiamo che ci sia quanto meno un obbligo etico di rivelare quale sia il loro risultato.”

Hossein ha detto che nel rapporto della commissione per il Consiglio per i Diritti Umani è stato anche affrontato il problema del lancio di aquiloni e palloni incendiari da parte dei manifestanti di Gaza, notando che hanno provocato “significativi danni alle proprietà” nel sud di Israele.

Lunedì, in un ulteriore incontro, il relatore speciale del Consiglio per i Diritti Umani Michael Lynk ha messo in guardia su un’imminente “catastrofe umanitaria” a Gaza legata alle “soffocanti restrizioni” sugli abitanti della Striscia.

“Israele ha continuato a imporre un ermetico blocco aereo, marittimo e terrestre attorno a Gaza, controllando chi e cosa entra ed esce dalla Striscia (di Gaza),” ha detto Lynk al Consiglio. “Per circa cinque milioni di palestinesi che vivono sotto occupazione il peggioramento della fornitura di acqua, lo sfruttamento delle risorse naturali e la deturpazione del loro ambiente sono sintomatici della mancanza di ogni significativo controllo che possono avere sulla loro vita quotidiana.”

Una gravissima preoccupazione è dovuta all’“esaurimento delle fonti naturali di acqua potabile a Gaza e all’impossibilità per i palestinesi di avere accesso alla maggior parte delle loro sorgenti in Cisgiordania,” ha detto il relatore speciale.

L’agenzia ONU per la salute avverte che il livello di necessità delle vittime di Gaza è enorme

In concomitanza con gli sviluppi al Consiglio per i Diritti Umani di lunedì, l’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) ha chiesto 5,3 milioni di dollari per aiutare le molte migliaia di gazawi feriti e menomati durante le manifestazioni.

“La vastità delle necessità traumatologiche a Gaza è enorme: ogni settimana continuano ad arrivare agli ospedali pazienti feriti, che necessitano di complesse cure a lungo termine,” ha detto il dottor Gerald Rockenschaub, capo dell’ufficio del OMS per i Territori Palestinesi Occupati.

L’OMS ha ripetuto la preoccupazione che l’imminente anniversario di un anno della “Grande Marcia del Ritorno” il 30 marzo possa avere come risultato ulteriori vittime e un incremento di persone che hanno bisogno di cure traumatologiche e di servizi di riabilitazione.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Hamas reprime le proteste per le condizioni di vita a Gaza

Kaamil Ahmed

16 marzo 2019, Middle East Eye

I palestinesi di Gaza hanno protestato per tre giorni contro il crescente costo della vita e gli aumenti delle tasse

Pare che le forze di Hamas abbiano represso le proteste per migliori condizioni di vita nella Striscia di Gaza assediata, incolpando delle dimostrazioni la rivale Autorità Nazionale Palestinese. 

Le proteste sono proseguite sabato per il terzo giorno consecutivo, per denunciare le misere condizioni economiche, il crescente costo della vita e gli aumenti delle tasse.

Le manifestazioni si sono svolte in tutta Gaza, ma si sono concentrate a Deir al-Balah, una cittadina a sud di Gaza City.

Riprese dal vivo postate sui social media da Deir al-Balah sembrano mostrare forze di sicurezza di Hamas in assetto antisommossa che picchiano i manifestanti con bastoni.

Dei testimoni, che in gran parte filmavano dalle loro case, hanno gridato vedendo altri abitanti inseguiti, compreso un uomo che sembrava chiedesse agli altri manifestanti di smettere di lanciare oggetti contro la polizia.

La giornalista di Gaza e corrispondente di MEE Hind Khoudary ha detto che i manifestanti, comprese le donne, sono stati picchiati e che le forze di sicurezza hanno fatto incursione nelle case intorno al luogo della protesta. Ha aggiunto che durante le dimostrazioni si è sentito il rumore di proiettili veri.

L’associazione palestinese per i diritti umani Al-Haq ha criticato le “gravi aggressioni” ai manifestanti, inclusi tre membri dell’associazione di Gaza per i diritti ‘Commissione indipendente per i diritti umani’.

“Le aggressioni contro di loro sembrano indicare che i servizi di sicurezza a Gaza volevano impedire che conducessero il loro lavoro a favore dei diritti umani, e ostacolare il loro monitoraggio e la documentazione delle violazioni e le relative conseguenze sulla situazione dei diritti umani”, ha detto sabato Al-Haq in una dichiarazione.

L’organizzazione ha affermato che centinaia di manifestanti si erano radunati in diverse città, esponendo cartelli che chiedevano sia al governo de facto di Hamas che al suo rivale, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) capeggiata da Fatah con sede nella Cisgiordania occupata, di migliorare le condizioni di vita.

Gaza ha subito per oltre un decennio un blocco terrestre, marittimo e aereo imposto da Israele ed Egitto, che limita il movimento sia di merci che di persone. Nello stesso periodo vi è stata una contrapposizione tra Hamas e Fatah, dopo che il primo ha assunto il controllo di Gaza nel 2007 in seguito alle elezioni legislative del 2006 in cui la vittoria di Hamas è stata contestata da Fatah. 

Dal 2017 il leader di Fatah e presidente dell’ANP Mahmoud Abbas ha cercato di aumentare la pressione su Hamas, tagliando la fornitura di elettricità a Gaza e bloccando il pagamento dei salari dei dipendenti dell’ANP a Gaza.

Dopo il ritiro dell’ANP da Gaza nel 2007, essa ha continuato tuttavia a pagare quei dipendenti a condizione che non lavorassero per Hamas. Nelle drammatiche condizioni dell’enclave assediata, i salari dell’ANP sono stati spesso un’ancora di salvezza per molte famiglie di Gaza.

Una dichiarazione di Hamas di sabato attribuisce la colpa delle condizioni economiche del territorio all’assedio e alle misure dell’Autorità Nazionale Palestinese, definendole un “crimine nazionale, morale ed umanitario” finalizzato a seminare divisione tra i palestinesi.

Dopo le proteste di venerdì, l’ufficio ONU per l’Alto Commissario dei diritti umani ha detto di essere “scioccato dalla risposta violenta delle forze di sicurezza di Hamas nel disperdere le dimostrazioni nella Striscia di Gaza”.

“Personale della sicurezza in borghese, tra cui molti armati di bastoni, ha fatto irruzione nelle manifestazioni e impedito con la forza ai partecipanti di filmare o fotografare anche i casi di pestaggi e ricoveri in ospedale di molti manifestanti. Un numero imprecisato di dimostranti è stato arrestato e detenuto dalle forze di sicurezza”, si afferma nella dichiarazione.

Le proteste per le condizioni di vita a Gaza sono iniziate nel momento in cui venerdì per la prima volta è stata annullata la protesta della ‘Grande Marcia del Ritorno’, dopo che aerei israeliani hanno fatto incursioni notturne nell’enclave e sono stati lanciati razzi su Tel Aviv.

La ‘Grande Marcia del Ritorno’, una serie di manifestazioni periodiche iniziata il 30 marzo 2018, chiedeva la fine dell’assedio e la concretizzazione del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi le cui famiglie furono espulse al momento della nascita dello Stato di Israele. Dall’inizio della marcia le forze israeliane hanno ucciso a Gaza più di 255 palestinesi e ne hanno feriti oltre 29.000. Nello stesso periodo sono stati uccisi due soldati israeliani.

La sospensione della ‘Grande Marcia del Ritorno’ avviene nel momento in cui pare che l’Egitto stia facendo da intermediario in un accordo di tregua tra Israele e Hamas – nel timore che, se non si fa nulla, le attuali tensioni possano sfociare in una vera e propria guerra.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Un’impennata della censura: nel 2018 Israele ha censurato in media un articolo al giorno

Haggai Matar

15 marzo 2019, +972

Lo scorso anno la censura dell’esercito israeliano ha vietato la pubblicazione di più notizie che in quasi ogni altro anno in questo decennio. Mentre meno articoli che negli anni precedenti sono stati sottoposti alla verifica, la percentuale di articoli che sono stati parzialmente o totalmente censurati è stata notevolmente più alta.

Nel 2018 la censura militare israeliana ha vietato la pubblicazione di 363 articoli, più di 6 alla settimana, mentre ha parzialmente o totalmente cancellato un totale di 2.712 notizie che le sono state sottoposte a controllo preventivo. Secondo i dati, forniti in risposta a una richiesta relativa alla libertà di informazione presentata da +972 Magazine [sito web israeliano di sinistra in inglese, ndt.], da “Local Call” [versione in ebraico di +972, ndt.] e dal “Movimento per la libertà d’informazione” [associazione israeliana per la trasparenza nell’informazione, ndt.], nel 2018 il censore ha vietato la pubblicazione di notizie più che in qualunque altro anno del decennio.

È aumentato anche il numero di notizie pubblicate con l’intervento della censura, in quanto la percentuale di informazioni censurate nel 2018 è stata più alta che in qualunque anno dal 2011. Solo il 2014 – l’anno dell’ultima guerra israeliana contro Gaza – ha visto una censura altrettanto significativa sulla stampa, quando il censore dell’IDF [l’esercito israeliano, ndt.] ha parzialmente o totalmente cancellato 3.122 notizie e ha completamente bloccato la pubblicazione di altri 597 articoli.

Rispetto al 2017 il picco di interventi censori è significativo: nell’ultimo anno il censore dell’IDF ha impedito la pubblicazione di 92 articoli in più rispetto all’anno precedente, mentre ha parzialmente o totalmente cancellato altre 625 notizie. Negli ultimi otto anni il censore ha impedito che venisse stampato un totale di 2.661 informazioni.

In Israele viene chiesto a tutti i mezzi di comunicazione di sottoporre al controllo della censura dell’IDF gli articoli riguardanti la sicurezza e le relazioni internazionali prima della loro pubblicazione. Il censore ricava la propria autorità dalle “disposizioni d’emergenza” messe in atto dopo la fondazione di Israele e che sono rimaste in vigore fino ad oggi. Queste disposizioni consentono al censore di cancellare totalmente o parzialmente un articolo, vietando ai mezzi di comunicazione di segnalare in qualche modo se un articolo è stato modificato. Negli ultimi anni, tuttavia, sempre più giornalisti in Israele hanno utilizzato il termine “approvato dalla censura” nei loro articoli.

Negli ultimi anni il censore ha anche cercato di estendere il raggio del proprio potere per controllare informazioni prima della pubblicazione in rete, anche notificando a blogs indipendenti e a pubblicazioni digitali, come +972 Magazine, che devono sottoporre a controllo certi articoli.

Mentre i criteri giuridici che definiscono il mandato della censura militare sono sia stringenti che decisamente ampi, la decisione su quali articoli sottoporre al controllo rimane a discrezione dei direttori dei mezzi di informazione israeliani. Nel 2018 i giornalisti hanno sottoposto a controllo 10.938 articoli, meno che nell’anno precedente (11.035). La diminuzione degli articoli presentati, insieme all’aumento degli interventi censori, potrebbe indicare che i redattori hanno imparato cosa sia o non sia di reale importanza per il censore, diventando più selettivi riguardo a quello che presentano [alla censura]. Oppure la riduzione può essere il risultato del fatto che i mezzi di comunicazione pubblicano meno articoli su problemi riguardanti la sicurezza.

Mentre il censore dell’esercito israeliano non rivela quali articoli ha revisionato con maggiore frequenza, è probabile che il significativo aumento della censura lo scorso anno sia legato alle attività dell’esercito israeliano, sia palesi che occulte, contro l’Iran in Siria e in Libano, o ad articoli sulle unità israeliane in incognito nella Striscia di Gaza denunciate da Hamas lo scorso novembre.

Israele è l’unico Paese del mondo democratico in cui ai giornalisti e alle pubblicazioni è legalmente richiesto di sottoporre a controllo i propri articoli prima della pubblicazione e l’unico in cui questa censura può essere imposta penalmente. Oltretutto i poteri della censura militare israeliana si estendono al di là dei mezzi di informazione e includono l’autorità di controllare prima della loro pubblicazione e censurare libri e documenti negli archivi di Stato.

Nel 2018 gli editori israeliani hanno sottoposto 83 libri alla censura militare israeliana, di cui solo 34 sono stati approvati senza nessun intervento. Nel contempo lo scorso anno il censore ha parzialmente o totalmente censurato 49 libri. Nel 2017 sono stati presentati alla censura dell’IDF 84 libri, 53 dei quali sono stati censurati e 31 approvati.

Negli ultimi anni il censore dell’IDF ha anche controllato documenti negli archivi di Stato, presumibilmente come parte di un tentativo di rendere disponibili questi documenti al pubblico. Il personale degli archivi di Stato ha sempre usato la propria discrezionalità riguardo a quali documenti rendere pubblici e quali potessero eventualmente rappresentare una minaccia per il prestigio internazionale o per la sicurezza nazionale. Nel 2018 gli archivi di Stato hanno sottoposto a controllo solo 2.908 documenti, rispetto ai 7.770 del 2016 e ai 5.213 del 2017. La censura dell’IDF, tuttavia, ha rifiutato di comunicare il numero di documenti su cui è intervenuta.

Il censore dell’IDF è escluso dalla legge sulla libertà di informazione e quindi non è affatto obbligato a pubblicare i propri dati. Nel corso degli anni si è anche modificata l’ampiezza delle informazioni condivise. Prima che nel 2015 il generale di brigata Ariella Ben Avraham assumesse l’incarico di capo censore, eravamo abituati a ricevere risposte su quanto materiale di archivio fosse stato censurato, così come su quanto spesso i censori avessero chiesto di eliminare o modificare le informazioni che erano già state pubblicate senza essere sottoposte a controllo.

In una lettera del 2018 il generale di brigata Ben Avraham ha scritto che questi dati non sono più raccolti e di conseguenza non possono più essere divulgati al pubblico. In merito Racheli Edri, direttrice esecutiva del “Movimento per la Libertà di Informazione” ha chiesto che il censore tenga nota di questi dati e li renda pubblici in futuro, ma non ha ricevuto risposta.

Questi dettagli non sono stati inclusi nell’ultima serie di dati diffusi dal censore nel 2019.

Tutti sanno che, di questi tempi, tutta l’istituzione della censura militare deve essere in qualche modo rivista,” dice Edri. “Poiché cerchiamo di capire l’ampiezza del lavoro di revisione dei censori, ci rivolgiamo a loro con l’intesa non scritta che rispondano davvero. Tuttavia, quando non condividono le informazioni con noi, i nostri strumenti per impugnare la loro decisione sono molto scarsi, quasi inesistenti.”

Edri spiega che in un certo senso ciò crea una specie di censura doppia: “Prima loro censurano, poi non forniscono le informazioni sull’ampiezza della censura.”

(traduzione di Amedeo Rossi)