Miko Peled: lo Stato di Israele andrà in frantumi e prima di quanto la maggior parte delle persone pensi vedremo una Palestina libera e democratica dal fiume al mare

STUART LITTLEWOOD

21 settembre 2018, American Herald Tribune

Miko Peled, figlio di un generale israeliano e lui stesso ex-soldato israeliano, è ora un noto attivista pacifista e un instancabile militante per la giustizia in Terra Santa. È considerato una delle voci più limpide che chiedono di sostenere il BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) contro il regime sionista e la creazione di un’unica democrazia con uguali diritti in tutta la Palestina storica. Sarà presente al congresso del partito Laburista a Liverpool del 23-26 settembre. Sono stato abbastanza fortunato da avere la possibilità di intervistarlo prima. In una settimana che segna il settantesimo anniversario dell’uccisione di Folke Bernadotte e il trentaseiesimo anniversario del massacro genocida nel campo di rifugiati di Sabra e Shatila, atrocità commesse per perseguire gli obiettivi sionisti, quello che dice Miko potrebbe fornire argomento di riflessione a quanti scrivono sotto dettatura della lobby israeliana.

Stuart Littlewood: Miko, sei cresciuto in una famiglia sionista con una formazione sionista. Cos’è successo perché tu te ne allontanassi?

Miko Peled: Come suggerisce il titolo della mia autobiografia “The General’Son” [Il figlio del generale], sono nato da un padre che era generale dell’IDF [l’esercito israeliano, ndt.] e allora, come evidenzia il sottotitolo, ho intrapreso un “viaggio di un israeliano in Palestina”. Il viaggio ha chiarito a me, e attraverso me spero che chiarisca al lettore, quello che “Israele” è e cos’è la Palestina. È un viaggio dalla sfera dell’oppressore e occupante (Israele) a quella dell’oppresso (Palestina) e del popolo nativo della Palestina. Ho scoperto che di fatto è lo stesso Paese, che Israele è la Palestina occupata. Ma senza il viaggio non me lo sarei mai immaginato. Per me è stato fondamentale. Mi ha permesso di vedere l’ingiustizia, la deprivazione, la mancanza di acqua e di diritti, e via di seguito. Più mi sono permesso, e continuo a permettermi, di avventurarmi in questo viaggio, più sono stato in grado di vedere cosa realmente sia il sionismo, cosa sia Israele e cosa sono io in tutto questo.

Molti mesi fa hai avvertito che Israele stava “impegnandosi al massimo, stava calunniando, stava cercando qualunque mezzo possibile per bloccare Jeremy Corbyn [segretario del partito Laburista inglese e futuro candidato alle prossime elezioni britanniche, ndt.]”, e la ragione per cui viene usata l’accusa di antisemitismo è che non hanno altri argomenti. Ciò si è avverato con Jeremy Corbyn sottoposto a un attacco brutale e continuo persino da parte dell’ex-rabbino capo Lord Sacks. Come dovrebbe affrontarlo Corbyn e quali contromisure gli suggeriresti di prendere?

Nel corso del congresso del partito Laburista dello scorso anno Jeremy Corbyn ha chiarito che non consentirà che le accuse di antisemitismo interferiscano con il suo lavoro come leader del partito Laburista e come uomo impegnato a creare una società britannica e un mondo giusti. In quel discorso ha detto qualcosa che nessun dirigente occidentale oserebbe dire: “Dobbiamo porre fine all’oppressione del popolo palestinese.” E’ sempre stato corretto e il suo appoggio sta aumentando. Penso che stia facendo la cosa giusta. Prevedo che continuerà a farla.

E cosa ne dici dell’esternazione di Sacks?

Non c’è da sorprendersi che un razzista che appoggia Israele se ne possa uscire in questo modo – non rappresenta nessuno.

La direzione del partito Laburista, il NEC, ha adottato in pieno la definizione di antisemitismo dell’IHRA [International Holocaust Remembrance Alliance, organizzazione intergovernativa che si occupa di antisemitismo e ricordo della Shoa, ndtr.], nonostante gli avvertimenti di esperti giuridici e la raccomandazione da parte della Commissione Ristretta della Camera dei Comuni di inserire riserve. Questa decisione è vista come un cedimento a pressioni esterne e ovviamente ha un impatto sulla libertà di parola che è insita nelle leggi britanniche ed è garantita dalle convenzioni internazionali. Come inciderà ciò sulla credibilità del partito Laburista?

Accettare la definizione dell’IHRA è stato un errore e sono sicuro che su quelli che hanno votato per adottarla ricadrà la vergogna. Ci sono almeno due note già emanate dalla comunità degli ebrei ultra-ortodossi, che rappresenta almeno dal 25% al 30% degli ebrei britannici, in cui rifiutano l’idea secondo cui Jeremy Corbyn è antisemita, rifiutano il sionismo e la definizione dell’IHRA.

Tornando all’occupazione, tu hai detto che 25 anni fa Israele ha raggiunto il suo obiettivo di rendere irreversibile la conquista della Cisgiordania. Perché pensi che le potenze occidentali si aggrappino ancora all’idea della soluzione dei due Stati? Come ti aspetti che evolva la situazione?

Gli USA, e soprattutto l’attuale amministrazione, accettano che Israele abbia inglobato tutta la Palestina mandataria e che non ci sia posto per non ebrei in quel Paese. Non affermano il contrario. Gli europei si trovano in una situazione diversa. I politici in Europa vogliono accontentare Israele e lo accettano com’è. Il loro elettorato, tuttavia, chiede giustizia per i palestinesi per cui, con un atto di compromesso poco coraggioso, i Paesi dell’UE trattano l’Autorità Nazionale Palestinese, con uno stile veramente post-coloniale, come se fosse uno Stato palestinese. Penso che sia per questo che gli europei procedono a “riconoscere” il cosiddetto Stato di Palestina, benché non sia tale. Lo fanno per tener buono il loro elettorato senza fare realmente niente per sostenere la causa della giustizia in Palestina. Questi riconoscimenti non hanno aiutato neppure un palestinese, non hanno liberato neanche un prigioniero dalle carceri israeliane, non hanno salvato un solo bambino dalle bombe a Gaza, non hanno alleviato le sofferenze e le privazioni dei palestinesi nel deserto del Naqab [in ebraico Negev, ndt.] o nei campi di rifugiati. È un gesto vuoto, vigliacco.

Quello che dovrebbero fare gli europei è adottare il BDS. Dovrebbero riconoscere che la Palestina è occupata, che i palestinesi stanno vivendo sotto un regime di apartheid nella loro stessa terra, che sono vittime di una pulizia etnica e di un genocidio e che questo deve cessare e che l’occupazione sionista deve finire del tutto e senza condizioni.

Penso che lo Stato di Israele andrà in frantumi e che prima di quanto la maggior parte delle persone pensi vedremo una Palestina libera e democratica dal fiume al mare. La situazione attuale è insostenibile, due milioni di persone a Gaza non spariranno, Israele ha appena annunciato – di nuovo – che due milioni dei suoi cittadini non ebrei non sono accettati come parte dello Stato, e il BDS sta già lavorando.

L’IDF si autodefinisce l’esercito più etico del mondo. Tu hai fatto il servizio militare nell’IDF. Quanto è credibile questa affermazione?

É una menzogna. Non esiste un esercito etico e l’IDF per settant’anni ha partecipato a una pulizia etnica, a un genocidio e a imporre un regime di apartheid. Di fatto l’IDF è una delle forze terroriste meglio equipaggiate, meglio addestrate, meglio finanziate e meglio nutrite al mondo. Benché abbiano generali e belle uniformi e le armi più sofisticate, non sono altro che bande armate di criminali e il loro scopo principale è terrorizzare e uccidere palestinesi. I suoi ufficiali e soldati eseguono con entusiasmo le politiche brutali e crudeli che sono spietatamente inflitte alla vita quotidiana ai palestinesi.

Breaking the Silence” [Rompere il silenzio, ndt.] è un’organizzazione di veterani dell’IDF impegnata a mettere in luce la verità riguardo a un esercito straniero che cerca di controllare una popolazione civile oppressa da un’occupazione illegale. Sostengono che il loro obiettivo è porre fine prima o poi all’occupazione. Quante possibilità di successo hanno secondo te?

Loro e altre Ong simili potrebbero fare una grande differenza. Sfortunatamente non si spingono abbastanza avanti, non chiedono ai giovani israeliani di rifiutarsi di fare il servizio militare nell’IDF, non rifiutano il sionismo. Senza questi due elementi mi pare che il loro lavoro sia in superficie e non faccia un granché.

Spesso gli israeliani accusano il sistema educativo palestinese di produrre futuri terroristi. Com’è l’educazione in Israele?

Il sistema educativo palestinese viene sottoposto ad uno scrupoloso controllo, quindi ogni accusa di insegnare l’odio è priva di fondamento. Tuttavia Israele fa un ottimo lavoro insegnando ai palestinesi che sono occupati ed oppressi e che non hanno altra scelta che resistere. Lo fanno con l’esercito, la polizia segreta, la burocrazia dell’apartheid, infiniti permessi, divieti e restrizioni sulle loro vite.

I tribunali israeliani insegnano ai palestinesi che non c’è giustizia per loro sotto il sistema israeliano e che non contano niente. Non ho incontrato nessun palestinese che manifestasse odio, ma se qualcuno lo fa è a causa dell’educazione fornita da Israele, non di un qualunque libro scolastico palestinese. Gli israeliani seguono un’approfondita educazione razzista che è ben documentata in un libro di mia sorella, la professoressa Nurit Peled-Elhanan, intitolato “Palestine in Israeli Textbooks” [La Palestina nei testi scolastici di Israele. Ideologia e propaganda nell’istruzione, EGA Edizioni Gruppo Abele, 2015, ndtr.]

Le comunità cristiane stanno rapidamente diminuendo. Gli israeliani sostengono che i musulmani li stanno cacciando, ma i cristiani affermano che è la spietatezza dell’occupazione che ha determinato il fatto che tanti se ne vadano. Che opinione ti sei fatto? Gli israeliani stanno cercando di seminare zizzania tra cristiani e musulmani? É in corso una guerra di religione che spinge i cristiani ad andarsene?

I cristiani rappresentavano il 12% della popolazione palestinese, ora sono a mala pena il 2%. Non c’è nessun altro colpevole oltre a Israele. Israele ha distrutto le comunità e le chiese cristiane come ha distrutto quelle musulmane. Per Israele gli arabi sono gli arabi e non hanno posto nella Terra di Israele. Raccomando vivamente l’eccellente reportage del defunto Bob Simon nel programma “60 minuti” della CBS del 2012 intitolato “Cristiani in Terra Santa”. Alla fine si è scontrato con l’ex-ambasciatore di Israele a Washington che voleva che la messa in onda venisse annullata.

Attualmente ti definisci una persona religiosa?

Non lo sono mai stato.

Tu conosci Gaza. Come giudichi la capacità di Hamas di governare? E mediatori onesti potrebbero lavorare con essa per raggiungere la pace?

Non ho modo di giudicare Hamas in un modo o nell’altro. Ho parlato con persone che hanno lavorato a Gaza per molti anni, sia palestinesi che stranieri, e la loro opinione è che fin dove può arrivare un governo e prendendo in considerazione le durissime condizioni in cui vivono, meritano un elogio.

Qualcuno sostiene che l’opinione pubblica israeliana è per lo più ignara degli orrori dell’occupazione e che la verità gli viene nascosta. Se è vero, ciò inizia a cambiare?

Gli israeliani sanno benissimo delle atrocità e le approvano. Gli israeliani votano, e votano in gran numero e per settant’anni hanno continuato a votare per persone che hanno portato loro e i loro figli a commettere quelle atrocità. Le atrocità sono commesse non da mercenari stranieri, ma da ragazzi e ragazze israeliani che per la maggior parte fanno orgogliosamente il servizio militare. L’unica cosa che è cambiata è il discorso. Nel passato in Israele c’era un’apparenza di discorso civile, e oggi non esiste più. Oggi affermare che Israele deve uccidere sempre più palestinesi è perfettamente accettabile. Nel passato le persone provavano un certo imbarazzo ad ammettere che la pensavano in quel modo.

Israele ha condotto una serie di attacchi armati in acque internazionali contro imbarcazioni per l’aiuto internazionale che portavano rifornimenti di medicinali urgenti e di altro genere non militare alla popolazione assediata di Gaza. Equipaggio e passeggeri sono stati regolarmente picchiati e incarcerati, alcuni uccisi. Ora gli organizzatori devono rinunciare o rinnovare i loro tentativi utilizzando tattiche diverse?

Le flottiglie di Gaza sono sicuramente da lodare, ma se l’obiettivo è raggiungere le spiagge di Gaza sono destinate a fallire. Il loro valore risiede solo nel fatto che sono un’espressione di solidarietà e ci si deve chiedere se il tempo, lo sforzo, il rischio e le spese giustifichino il risultato. Israele farà in modo che nessuno riesca a passare e il mondo non presta loro molta attenzione. A mio parere le flottiglie non sono la forma migliore di azione. Nessuno dei problemi nella continua tragedia dei palestinesi può essere risolto singolarmente. Non l’assedio a Gaza, non i prigionieri politici, non la questione dell’acqua, non le leggi razziste, ecc.

Solo una strategia mirata e ben coordinata per delegittimare e abbattere il regime sionista può portare giustizia alla Palestina. Il BDS ha il miglior potenziale per questo, ma non viene utilizzato a sufficienza e si perde troppo tempo a discuterne i vantaggi.

Sicuramente una delle debolezze di quelli che si preoccupano di vedere la giustizia in Palestina è che chiunque abbia un’idea semplicemente “vi si dedica”. Ci sono poco coordinamento e poca strategia riguardo alla questione fondamentale di come liberare la Palestina. Israele è riuscito a creare un senso di impotenza da questa parte e a legittimare se stesso e il sionismo in generale, e questa è una sfida impegnativa.

Questa settimana è stato il settantesimo anniversario dell’uccisione di un diplomatico svedese, il conte Folke Bernadotte, da parte di un commando sionista mentre fungeva da mediatore del Consiglio di Sicurezza dell’ONU nel conflitto arabo-israeliano. Tutti sono rimasti stranamente indifferenti a questo, persino gli svedesi.

Questo è stato uno tra i molti assassinii politici perpetrati da gruppi terroristici sionisti di cui nessuno è stato chiamato a rispondere. Il primo fu nel 1924, quando assassinarono Yaakov Dehan [scrittore ebreo olandese antisionista, ndt.]. Poi nel 1933 uccisero Chaim Arlozorov [sindacalista, poeta e politico israeliano, ndt.]. Il massacro nel 1946 dell’hotel King David [sede del governo mandatario britannico in Palestina, ndt.] fu ovviamente motivato da ragioni politiche e provocò quasi cento morti, molti dei quali persone innocenti che si trovarono nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Poi nel settembre 1948 l’assassinio a Gerusalemme dell’intermediario dell’ONU e membro della famiglia reale svedese, Folke Bernadotte, che a quanto pare era arrivato con piani per porre fine alla violenza in Palestina, piani che i dirigenti sionisti non consideravano accettabili. Bernadotte è sepolto in un’umile tomba di famiglia a Stoccolma, che io sappia non sono previste cerimonie commemorative o qualunque riferimento a questo anniversario da parte di alcuna organizzazione ufficiale svedese. Mio nonno fu il primo ambasciatore israeliano in Svezia. Ciò avvenne poco dopo l’assassinio e fece un buon lavoro per garantire che il governo svedese mettesse a tacere la questione.

Ci furono molte più uccisioni e massacri – viene in mente l’attacco contro la nave da guerra USA “Liberty” e il ruolo giocato dalla brutalità dell’apparato sionista che vede l’assassinio come uno strumento legittimo per raggiungere i propri obiettivi politici. Si sa o si ricorda poco di queste brutali uccisioni. Innumerevoli dirigenti, scrittori, poeti, ecc. palestinesi vennero assassinati da Israele.

Il movimento di solidarietà con la Palestina ripone molte speranze nel BDS. Quanto è efficace il BDS e come la società civile può aumentare al massimo la pressione?

Il BDS è un processo molto efficace ma lento. Non funzionerà per intervento magico o divino. Le persone devono accoglierlo a pieno, lavorare duramente, chiedere l’espulsione di tutti i diplomatici israeliani e l’isolamento totale di Israele. C’è troppa tolleranza per quelli che promuovono il sionismo, Israele e l’esercito israeliano e questo deve cambiare. I politici eletti devono essere obbligati ad accettare il BDS in toto. I gruppi solidali con la Palestina devono passare dalla solidarietà alla resistenza totale, e il BDS è la forma ideale di resistenza a disposizione.

Ci sono altre questioni fondamentali che stai affrontando adesso?

Ritengo che a questo punto sia fondamentale passare dalla solidarietà alla resistenza. È importantissimo utilizzare gli strumenti a nostra disposizione, come il BDS. L’approvazione della legge israeliana sullo Stato-Nazione è un’opportunità per unire di nuovo i cittadini palestinesi di Israele con gli altri palestinesi. Tutti noi dobbiamo cercare di portare l’unità totale tra i rifugiati, la Cisgiordania, Gaza e il 1948 [cioè Israele, ndt.] e chiedere la totale uguaglianza di diritti e la sostituzione del regime sionista che ha terrorizzato la Palestina per settant’anni con una Palestina libera e democratica. Spero che questa opportunità venga colta.

Per terminare, Miko, come stanno andando i tuoi due libri – ‘The General’s Son’  e ‘Injustice: The Story of The Holy Land Foundation Five’ [Ingiustizia: la storia dei cinque della “Fondazione della Terra Santa”, sui responsabili di una Ong USA ingiustamente condannati per finanziamenti mai avvenuti ad Hamas, ndtr.]? Mi pare che l’ultimo, che racconta come il sistema giudiziario negli USA sia stato indebolito a favore di interessi filo-israeliani, dovrebbe essere un libro molto letto qui, nel Regno Unito, dove la stessa cosa sta avvenendo nelle nostre istituzioni politiche e parlamentari e potrebbe diffondersi nei tribunali.

Beh, stanno andando bene, benché nessuno dei due sia ancora un best seller, e dato che stiamo dalla parte meno popolare della questione è difficile venderlo. “The general’s son” è uscito nella seconda edizione, per cui va bene, e naturalmente mi piacerebbe vedere questo e “Injustice” in mano a più persone. Purtroppo però poca gente ha capito come l’occupazione in Palestina stia colpendo le vite di persone in Occidente a causa del lavoro di gruppi di controllo sionisti come il Board of Deputies [gruppo di parlamentari britannici che appoggia Israele, ndt.] in Gran Bretagna e AIPAC e ADL [due associazioni lobbistiche a favore di Israele, ndtr.] negli USA.

In questo solo caso, cinque innocenti stanno scontando condanne di lunga durata nelle prigioni federali degli USA solo perché sono palestinesi.

Molte grazie, Miko, ti ringrazio per aver trovato il tempo di condividere le tue opinioni.

La principale delle molte idee positive che ho avuto da questo incontro con Miko è la necessità per gli attivisti di cambiare marcia e accelerare dalla solidarietà alla resistenza totale. Ciò significherà maggiore coinvolgimento, miglior coordinamento, modificare gli obiettivi e una strategia più acuta. Di fatto un BDS MK2, sovralimentato e con benzina ad alto numero di ottani. In secondo luogo, dobbiamo trattare il sionismo e quelli che lo promuovono con molta minore tolleranza. Come ha detto Miko in un altra occasione, “se opporsi ad Israele è antisemitismo, allora come chiamate l’appoggio a uno Stato impegnato da settant’anni in una brutale pulizia etnica?”

Riguardo a Jeremy Corbyn – se legge questo articolo – sì, sarebbe meglio che ci andasse giù pesante con i seminatori d’odio, compresi i veri antisemiti con la schiuma alla bocca, ma dovrebbe anche ripulire il partito Laburista della sua altrettanto spregevole “Tendenza Sionista”. E questo vale per tutti i nostri partiti politici.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Intervista al Coordinatore della Grande Marcia per il diritto al Ritorno

Patrizia Cecconi

23 febbraio 2019, Pressenza

Il 22 febbraio si è svolto a Milano un incontro pubblico con l’avvocato Salah Abdel Ati, residente a Gaza, che ha portato la sua testimonianza sulla Grande Marcia del Ritorno e sulla situazione nella Striscia.

Alla fine dell’incontro Patrizia Cecconi ha fatto alcune domande all’avvocato S. A. Ati che riteniamo interessante proporre anche nel nostro sito. L’articolo integrale con la cronaca della serata milanese è stato pubblicata su Pressenza.

D. Lei è un giovane avvocato ma ha già molti anni di esperienza nelle lotte per i diritti umani in Palestina. Vuole raccontarci un po’ della sua vita a Gaza?

R. Veramente non sono tanto giovane, ho 44 anni e due dei miei quattro figli sono già all’università. Il ragazzo studia ingegneria e la ragazza è al primo anno di farmacia. Noi vogliamo che i nostri figli studino e tutte le famiglie a Gaza vogliono questo. Non tutti però possono date le condizioni economiche, ma la percentuale di iscritti all’Università, maschi e femmine, è molto alta. 

D. Lei fa parte delle famiglie arrivate a Gaza in seguito alla cacciata dovuta alla Nakba o è originario della Striscia? 

R. Sono uno di quel 75% di gazawi che vive in un campo profughi in quanto la mia famiglia è arrivata a Gaza dopo essere stata cacciata dalla Palestina storica. Da allora viviamo nel campo profughi di Jabaliya, al nord della Striscia.

D. Jabaliya è il luogo da cui partì la prima intifada, cioè la rivolta delle pietre, come venne chiamata, dopo l’uccisione di alcuni palestinesi investiti da un camion dell’esercito israeliano nel dicembre del 1987, è così? 

R. Sì, la rivolta partì da Jabaliya. La situazione era già carica e quella fu l’occasione che fece esplodere la rabbia palestinese. Inoltre, il giorno dopo l’investimento, gli israeliani spararono, uccidendolo, a un bambino che aveva lanciato delle pietre e da Jabaliya la rivolta si allargò e si espanse in tutti i territori occupati. Io ero un ragazzino e, come tutti gli altri ragazzini, partecipai alla rivolta. La mia gamba destra porta ancora i segni lasciati da Israele. 

D. Durante e dopo la prima intifada si occupò di politica in modo sistematico o rimase nelle fila della rivolta spontanea?

R. Mi occupai di politica. Entrai nel Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP) e venni eletto rappresentante degli studenti. Sono rimasto nel Fronte popolare fino ad alcuni anni fa. 

D. Il PFLP ha sempre rappresentato l’anima laica e di sinistra della Palestina, è vero?

R. Sì, il PFLP è stato il primo partito ad avere delle donne tra i suoi massimi dirigenti, però ora non faccio più parte dell’organizzazione politica, ma continuo a svolgere le attività in cui ho sempre creduto e per le quali ho lavorato anche nel Fronte Popolare.

D. Per esempio?

R. Per esempio la formazione politica e sociale dei giovani, i tavoli di formazione e di dialogo con le donne. Lo studio dei diritti umani e le violazioni che Israele, ma anche le autorità che governano la Palestina, sebbene in forma e numero diversi, commettono. Tutti i programmi che svolgiamo nel sociale. Insomma tutto ciò che dovrebbe preparare alla vita in una società libera, quella per la quale lavoriamo e per la quale abbiamo iniziato l’esperienza della Grande Marcia del Ritorno.

D. Lei è coordinatore per gli aspetti legali della Grande Marcia del Ritorno. Ci può dire come e da chi è nata l’idea di questa marcia che finora ha visto circa 250 martiri e oltre 25.000 feriti? E chi realmente la porta avanti? Le faccio questa domanda perché i nostri media, a parte quelli “di nicchia” ne parlano come di un progetto imposto da Hamas alla popolazione gazawa. Un progetto crudele che manda a morire tanti innocenti. 

R. No, non è un progetto di Hamas. Io ho molti contatti con l’Occidente e so bene come vengono manipolate le notizie. Intanto diciamo che in questo modo la colpa delle uccisioni non si dà agli assassini ma si scarica su una parte della società gazawa, quella che ne rappresenta il governo di fatto. Hamas può essere accusato di restrizioni e di una visione reazionaria rispetto ai valori della sinistra laica, ma non può essere accusato degli omicidi israeliani. Israele uccide manifestanti inermi, si è accanita su due dei giornalisti più competenti e conosciuti anche all’estero, due reporter che mandavano foto inequivocabili alle agenzie internazionali. Non è un caso. I suoi cecchini colpiscono il personale sanitario mentre presta soccorso. Sparano sui bambini. Sono tutti crimini contro l’umanità e se il diritto internazionale non sanziona Israele per questi numerosi e continui crimini, Israele continuerà a commetterli e queste violazioni peseranno anche sulle vostre democrazie. Comunque la grande marcia non è un progetto di Hamas, ma il movimento di Hamas partecipa, al pari di membri di Fatah, del Fronte Populare, del Fronte Democratico, degli altri movimenti politici e delle organizzazioni della società civile che hanno aderito in grande numero alla marcia.

D. Le ripeto la domanda che le avevo fatto e alla quale già mi ha risposto, ma solo in parte. Abbiamo capito che non è nata da Hamas e che non è governata da Hamas, ma come è nata l’idea della Grande Marcia?

R. È nata alla fine del 2017 discutendo sulla situazione che ci vede schiacciati sotto l’assedio. Acqua quasi totalmente non potabile, elettricità somministrata a piacere di Israele tre, quattro ore a caso durante il giorno o la notte col chiaro intento di rendere più difficile possibile la vita dei gazawi. Campi continuamente distrutti o dalle ruspe o dagli aerei che spargono diserbanti. Bombardamenti israeliani a piacere. Disoccupazione altissima. Salari tagliati anche dall’Anp. Il grado di esasperazione dei giovani e degli adulti che si alterna a fenomeni di depressione per mancanza di futuro. Insomma una situazione insostenibile. Discutendo veniva fuori che in questi 70 anni in tutta la Palestina e, in particolare, in questi 12 anni di assedio a Gaza, nessuna lotta è mai riuscita vincente. 

La resistenza è un nostro legittimo diritto ma né la resistenza armata, né la non violenza hanno mai portato all’ottenimento dei diritti spettanti al nostro popolo. Allora abbiamo pensato, discutendo e anche litigando, che un vero movimento popolare, un movimento di massa, senza uso di violenza, avrebbe potuto aiutarci ad ottenere quel che ci è dovuto. Abbiamo pensato che un diritto riconosciutoci dall’ONU già nell’anno della Nakba rappresentava tutti i palestinesi, la Risoluzione 194, cioè il nostro diritto al ritorno nelle terre, nelle case da cui siamo le nostre famiglie sono state cacciate. Così abbiamo pensato, organizzandoci in comitati, a organizzare questa grande marcia, ricreando lungo il confine dell’assedio, gli accampamenti in cui le tende portavano il nome dei villaggi e delle città da cui siamo stati cacciati. Sarebbe stato un grande movimento e forse il mondo delle istituzioni ci avrebbe finalmente dato ascolto. La grande marcia non vuole divisioni tra fazioni politiche e questo è un altro nostro importante obiettivo. 

D. Ma non avete messo in conto che Israele avrebbe potuto fare una carneficina? 

R. Israele ci ammazza ogni giorno e il mondo sta in silenzio. I nostri giovani hanno ideato il fumo nero degli pneumatici per coprire la vista ai cecchini, ma il mondo non ferma Israele, anzi lo protegge e addirittura abbiamo letto sui vostri giornali che i nostri giovani sono violenti perché incendiano gli pneumatici! Il nostro popolo ama la vita, non vuole morire, ma la morte è messa in conto. Lei ha visto durante la proiezione dei filmati [presentati durante l’incontro di Milano] che abbiamo adottato la vostra canzone “Bella ciao”? Ebbene l’ultima strofa della vostra canzone è quella che ci porta a lottare a rischio della vita, morire per la libertà. 

D. Caro avvocato, è eroico e mi azzarderei a dire commovente quel che mi sta dicendo, ma il mondo delle istituzioni non sembra capirlo.

R. È per questo che sto facendo questo viaggio. Domani sarò a Bruxelles perché abbiamo bisogno di lobbies politiche che ci aiutino a imporre a Israele le giuste sanzioni secondo la normativa giuridica internazionale. Senza sanzioni che costringano Israele al rispetto dei diritti umani non ci saranno né giustizia né pace. 

D. Lei a Gaza dirige il centro Masarat, giusto? Qual è l’attività di questo centro?

R. Il Masarat – Palestinian Center for Policy Research & Strategic Studies  segue una filosofia di apertura in tutte le direzioni e l’obiettivo prioritario su cui stiamo lavorando da molti anni è quello di raggiungere la riconciliazione tra le due fazioni più importanti, i cui leader governano rispettivamente la Cisgiordania (Fatah) e la Striscia di Gaza (Hamas). Noi siamo convinti che senza unificazione tra tutte le forze politiche non ci sarà alcuna possibilità di battere l’occupazione. Sul fronte interno, dal punto di vista politico, lavoriamo per questo. Sul fronte esterno lavoriamo per ottenere il rispetto dei diritti umani da parte di Israele, ma se cogliamo violazioni dei diritti umani da parte delle autorità palestinesi non esitiamo a denunciarle e a chiedere che vengano ripristinati i diritti violati. Recentemente abbiamo denunciato come violazione dei diritti umani anche il taglio degli stipendi agli impiegati di Gaza da parte dell’ANP.

D. Questo tipo di denunce non può acuire le distanze tra Fatah e Hamas?

R. No, perché noi non denunciamo per conto dell’una o dell’altra fazione politica, ma in nome del rispetto del popolo palestinese che è un dovere rispettare, quale che sia l’orientamento politico dei singoli cittadini. Noi abbiamo un programma con obiettivi precisi e strategie precise. Critichiamo i comportamenti che ledono il popolo palestinese e sono quelli che acuiscono le intolleranze politiche. Il nostro obiettivo finale è la fine dell’occupazione perché è da questa lunghissima occupazione che genera la corruzione, l’esasperazione e sfiducia.

Abbiamo un numero altissimo di diritti riconosciuti sulla carta ma mai applicati. Domani a Bruxelles, dove speriamo di poter avere presto una sede, e nei giorni successivi a Ginevra (Commissione dei diritti umani) andrò con questo compito, quello di segnare un passo concreto verso la fine dell’occupazione.

D. E se l’obiettivo interno per cui lavorate da anni non si realizzerà?

R. Se si realizzerà avremo una chance, non la certezza, ma una chance di abbattere l’occupazione. Se invece non si realizzerà resteremo in una situazione continuamente precaria, Israele seguiterà a mangiarsi la Cisgiordania e seguiterà lo stillicidio di vite palestinesi sia lì che a Gaza. Ma a Gaza potrebbe anche prendere forma la sempre minacciata nuova guerra di aggressione, e allora non sarà solo Gaza a pagarne le conseguenze. Noi vogliamo l’unificazione, ma sappiamo che in realtà non abbiamo delle leadership democratiche. In Palestina abbiamo delle figure di grande intelligenza, ma non si riesce a uscire dalla logica del personalismo, mentre avremmo bisogno di una struttura democratica. Noi lavoriamo per questo ed è per questo che operiamo in tutte le direzioni che poi è il significato che ha il nome dell’associazione che presiedo, “Masarat”, cioè “in ogni direzione”.

D. Vorrei farle un’ultima domanda. Vedo che ormai è notte fonda e domattina presto dovrà partire, ma può dirmi cosa pensa dei Paesi arabi rispetto alla situazione di Gaza e della Cisgiordania?

R. Sarò necessariamente sintetico. I Paesi arabi sono l’essenza della conflittualità poliedrica. Prendiamo ad esempio il Qatar. Il Qatar ha interessi sia in Cisgiordania che nella Striscia, offre finanziamenti, ricostruisce interi quartieri distrutti dai bombardamenti ma, al tempo stesso, collabora con Israele. Questa è una situazione che in modo più o meno evidente ritroviamo in quasi tutti i Paesi arabi. Non abbiamo altri alleati credibili che noi stessi, per questo il nostro obiettivo è l’unità dei palestinesi e quindi la riconciliazione. 

D. Bene, la ringrazio e le auguro buona fortuna a Bruxelles e a Ginevra.

R. Vorrei chiudere affidandole un messaggio per il popolo italiano. Al popolo italiano vorrei dire: potete sostenerci boicottando Israele affinché capisca che la società civile non sostiene i suoi crimini, e potete sostenerci chiedendo alle vostre istituzioni di esprimersi a favore della nostra causa, cioè a favore della giustizia.

 




Gaza sotto i droni israeliani

Angelo Stefanini

18 febbraio Salute Internazionale.info

Nella Striscia di Gaza non c’è scampo ai droni israeliani. Oltre che nei conflitti armati sono usati a scopo di sorveglianza, per compiere “assassini mirati” (o “uccisioni extra-giudiziarie) o per disperdere manifestazioni al confine con Israele con il lancio di gas lacrimogeni e liquido nauseante. L’impatto psicologico di queste armi è ovunque; dalla famiglia che, dopo aver perso un figlio colpito da un drone, si chiude in casa ogni volta che sente un ronzio in cielo, al bambino che torna a casa da scuola riferendo di come la classe non riesce a concentrarsi sui compiti a causa di un fastidioso ronzio nel cielo.

Un recente studio[1] condotto su 254 pazienti amputati dell’Artificial Limb and Polio Centre (ALPC) di Gaza mostra come la causa più comune delle lesioni che hanno condotto alla amputazione di uno o più arti era dovuta ad attacchi con droni armati.[2] Rispetto ad altri tipi di arma i droni hanno provocato le amputazioni più traumatiche nei palestinesi sopravvissuti durante le incursioni militari israeliane e periodi di cessate il fuoco nella Striscia di Gaza dal 2006 al 2016. In particolare, le ferite causate da droni hanno richiesto amputazioni più prossimali che sono state seguite, dopo l’iniziale intervento d’emergenza, da un numero maggiore di operazioni chirurgiche rispetto alle amputazioni traumatiche causate da altre armi. L’aumentato carico di lavoro medico che ciò ha comportato si è aggiunto agli oneri pressoché insostenibili che gravano sul sistema sanitario di Gaza provocati dagli oltre undici anni di blocco illegale che Israele sta imponendo a quella popolazione: insufficienti forniture mediche ed energetiche, mancanza di acqua pulita e condizioni di lavoro insicure per il personale sanitario.

Gli autori dello studio, norvegesi e palestinesi, affermano che il crescente uso di droni armati telecomandati a distanza non deve essere passivamente accettato dalla comunità internazionale ma affrontato criticamente all’interno di una specifica cornice legale ed etica. La loro ricerca contribuisce a colmare una lacuna nella nostra conoscenza sulle conseguenze della guerra moderna sui civili. Oltre a documentare la maggiore prevalenza di amputazioni correlate ai droni rispetto a quelle causate da altre armi nei palestinesi di Gaza, questo studio contribuisce a confutare la tesi che i droni armati riducano al minimo i danni collaterali, una delle principali giustificazioni addotte al loro uso.[3]

 

Gaza sotto i droni

Nella Striscia di Gaza non c’è scampo ai droni israeliani. Soprannominati in arabo “zenana” (“il fastidioso rimbrottare della moglie” nell’accezione egiziana) per il molesto ronzio che emettono, i droni sono onnipresenti. Oltre che nei conflitti armati sono usati a scopo di sorveglianza, per compiere “assassini mirati” (o “uccisioni extra-giudiziarie) o per disperdere manifestazioni al confine con Israele con il lancio di gas lacrimogeni e liquido nauseante. Il fatto che dal 2005 Israele abbia ritirato i suoi coloni e non abbia una presenza evidente all’interno della Striscia non significa che l’occupazione non sia ancora una brutale realtà quotidiana, in gran parte gestita a distanza dai cieli. Paragonando a David e Goliath (ovviamente a parti invertite) il divario di forza tra i manifestanti palestinesi e l’esercito israeliano, in questo caso il Goliath israeliano non ha nemmeno bisogno di entrare nel campo di battaglia.

Dai primi attacchi di droni israeliani nel 2004 fino al 2014, secondo il Centro Al Mezan, Israele con quest’arma a Gaza ha ucciso circa 2.000 persone.[4] Hamushim, gruppo israeliano per i diritti umani, sostiene che la guerra dei droni è stata responsabile di quasi un terzo delle 1543 vittime civili nella guerra del 2014.[5] Parlando con la gente di Gaza è chiaro, tuttavia, che il numero preoccupante di morti e feriti dovuti ai droni non racconta tutta la storia. L’impatto psicologico di queste armi è ovunque; dalla famiglia che, dopo aver perso un figlio colpito da un drone, si chiude in casa ogni volta che sente un ronzio in cielo, al bambino che torna a casa da scuola riferendo di come la classe non riesce a concentrarsi sui compiti a causa di un fastidioso ronzio nel cielo.[6] Gli abitanti di Gaza si sono in qualche modo abituati al rumore insidioso del drone. Lo racconta in modo suggestivo il Dr. Atef Abu Saif, professore di scienza politica alla Al-Azhar University di Gaza, nel suo diario del conflitto del 2014, The Drone Eats With Me (“Il Drone Mangia Con Me”). Sembra così vicino che “potrebbe essere qui accanto a noi“. E aggiunge “È come se volesse unirsi a noi per la serata aggiungendo una sedia invisibile“. Questa “familiarità” con i droni, tuttavia, non attenua le terribili incognite che accompagnano la loro presenza: perché si trovino là fuori, se stiano sorvegliando cosa, se siano armati o se stiano per colpire chi.

Etica del drone

Nel 2009 Daniel Reisner, ex capo del dipartimento legale dell’esercito israeliano, ha dichiarato al quotidiano Haaretz: “Se fai qualcosa per abbastanza tempo, il mondo lo accetta … Il diritto internazionale progredisce attraverso le violazioni.”[7] I rappresentanti israeliani, in questo modo, si sono apertamente vantati di aver aperto la strada a una delle pratiche più controverse della guerra moderna: uccidere con un telecomando. Nel recensire lo sconcertante libro Rise And Kill First -The Secret History of Israel’s Targeted Assassinations [“Alzati e uccidi per primo: la storia segreta degli assassinii mirati di Israele”], un ex-agente della CIA scrive: “Una delle prime cose che mi è stata insegnata quando sono entrato nella C.I.A. è che noi non commettiamo omicidi. […] Per questa politica abbiamo trovato un eufemismo. Non li chiamiamo più assassinii. Ora, sono ‘uccisioni mirate’, il più delle volte eseguite da droni che sono diventati l’arma d’avanguardia americana nella guerra al terrore.”[8] Una triste eredità lasciata dal presidente Barak Obama è stata un tremendo aumento dell’uso dei droni soprattutto in Pakistan, Somalia e Yemen causando la morte di circa 3.797 persone, tra cui 324 civili.[9]Molti sostengono che la combinazione di moderna tecnologia e intelligence sofisticata fa sì che l’uso di droni sia il modo più efficace a disposizione dell’antiterrorismo operativo. In effetti, in teoria cos’è più attraente che uccidere i “terroristi” dall’aria con una tecnologia elegante minimizzando il rischio per le forze di terra? Siamo in un’epoca in cui una tecnologia brillante che consente la raccolta e l’analisi apparentemente raffinata delle informazioni consente di rimuovere l’elemento umano – e l’umanità – dal processo decisionale.

In un’analisi inquietante di come i droni stanno cambiando il mondo, il filosofo Grégoire Chamayou[10] descrive come per la prima volta nella storia uno Stato possa rivendicare il diritto di condurre la guerra in un campo di battaglia mobile che potenzialmente si estende su tutto il mondo. Quello che stiamo vedendo è una trasformazione fondamentale delle leggi della guerra che nella storia umana hanno definito il conflitto militare tra i combattenti (lo “Ius in Bello”) racchiuse nel Diritto Umanitario. Mentre l’uso dei droni armati diventa sempre più la norma, i conflitti moderni hanno ora il potenziale per trasformarsi in una pratica di omicidii segreti e mirati, di là della vista e del controllo non solo dei potenziali nemici ma anche dei cittadini delle stesse democrazie. Utilizzare droni armati (“uccidere anziché catturare”) è divenuto emblematico della dottrina della “lotta al terrore” condotta dagli Stati Uniti e Israele.

Le nostre complicità

Nonostante l’uso israeliano di droni contro individui, luoghi pubblici, istituzioni accademiche e scuole palestinesi sia più frequente del loro uso in qualsiasi altro luogo al mondo da parte di qualsiasi altro esercito, questo “dettaglio” non appare nella maggior parte degli studi pubblicati.[11] La letteratura specializzata si limita a riportare che Israele produce e usa droni, mentre le conseguenze di tale uso a Gaza, giorno e notte, sono sottostimate e quasi assenti. L’aspetto più sorprendente dell’impiego israeliano dei droni a Gaza è che esso intensifica l’occupazione e la rende più redditizia. Israele non fa mistero di usare le guerre a Gaza per commercializzare i suoi droni. Benjamin Ben Eliezer, ex ministro della difesa israeliano, ha allegramente elogiato la vendita di armi israeliane usate nei territori occupati dichiarando che “alla gente piace comprare cose che sono state testate. Se Israele vende armi, sono state testate, provate. Possiamo dire che lo stiamo facendo da 10-15 anni.“[12]

È evidente quindi che la comunità internazionale, e principalmente l’Europa, Italia inclusa, commerciando in armi con Israele, sta partecipando in molti modi diversi alla guerra dei droni israeliani, offrendo un sostegno diretto all’aggressione contro i palestinesi e inviando un chiaro messaggio di approvazione per le politiche criminali di Israele. Un interessante sviluppo che sta emergendo nell’uso dei droni è nella sorveglianza e repressione dell’immigrazione verso l’Europa. Nel settembre scorso, l’Agenzia Frontex della guardia di frontiera e costiera dell’UE ha annunciato[13] l’inizio dei voli di prova di droni in Italia, Grecia e Portogallo. Il dettaglio che il comunicato di Frontex omette è che il tipo di droni in fase di test è stato in precedenza utilizzato per attaccare Gaza. Il già citato Dr. Atef Abu Saif prende in esame una serie di modalità con cui ci rendiamo complici dei misfatti compiuti dai droni israeliani. In primo luogo, Israele addestra i suoi clienti nell’uso dei droni in basi militari all’interno del territorio israeliano probabilmente a pochi chilometri dalla Striscia di Gaza, mentre quello stesso drone sulla cui tecnologia e vantaggi gli alunni sono ammaestrati si aggira sopra la Gaza. Secondo, gli istruttori israeliani che addestrano le forze armate europee sull’uso di questi droni sono le stesse persone che li hanno usati per uccidere decine di civili palestinesi a Gaza. In terzo luogo, gran parte delle informazioni che i militari europei ricevono sui droni che i loro paesi stanno per acquistare si basa sull’esperienza di quei droni nei cieli di Gaza. Quarto, i fabbricanti israeliani di droni sono beneficiari di progetti di ricerca dell’UE. Ciò significa che i contribuenti europei contribuiscono a finanziare nuovi strumenti per uccidere. Infine, alcuni stati membri dell’UE stanno cercando alacremente di partecipare a progetti congiunti di sviluppo di droni con Israele.[14]

Ciò che sembra un approccio orientato al business ha gravi implicazioni per la violazione dei diritti di una popolazione sotto occupazione. “Se da una parte alcuni paesi in Europa o Asia ci deplorano per aver ucciso civili”ha affermato Yoav Galant, capo del comando meridionale dell’esercito israeliano durante l’operazione Piombo Fuso “dall’altra, inviano i loro ufficiali a partecipare ai miei seminari.”  “C’è molta ipocrisia”,  ha continuato “ti condannano politicamente, ma poi ti chiedono dove sta il trucco di voi israeliani che sapete trasformare il sangue in denaro”.  Secondo Mamoun Swidan, un diplomatico residente a Gaza, “l’UE agevola i crimini di Israele contro l’umanità.”[15] L’antropologo israeliano Jeff Halper sostiene che i territori occupati sono cruciali come laboratorio, non solo in termini di sicurezza interna israeliana, ma perché hanno permesso a Israele di diventare il leader internazionale dell’industria della “National Security”. Il suo successo nel vendere il suo know-how agli stati potenti lo rende sempre più restio a restituire i territori occupati ai palestinesi.[16] Mentre Stati Uniti e Israele hanno svolto un ruolo di primo piano nello sviluppo e nell’uso di sistemi d’arma senza equipaggio, oggi esiste una “seconda generazione” di produttori e operatori, statali e non-statali, di droni armati. Secondo l’Osservatorio Diritti, l’Italia sta spendendo quasi 20 milioni di euro per armare i propri droni. Dopo che nel 2015 il Pentagono ha autorizzato il ministro della Difesa italiano ad armare i propri velivoli a controllo remoto, di produzione statunitense, ora, rivela l’Osservatorio sulle spese militari italiane, quasi 20 milioni di Euro sarebbero a disposizione a tale scopo. Sono di questi ultimi mesi le notizie di un’intensificazione delle commesse militari (droni e jet) fra Italia e Israele. [17, 18]

Conclusioni

L’amministrazione Obama ha giustificato l’aumento straordinario di attacchi con droni armati nella sua “guerra al terrore” con il fatto che sono “eccezionalmente chirurgici e precisi da colpire i sospetti terroristi senza mettere ‘in pericolo’ uomini, donne e bambini innocenti”.[19] Un rapporto della polizia militare israeliana fino ad ora tenuto nascosto al pubblico rivela come l’uccisione di quattro bambini palestinesi che giocavano sulla spiaggia nella guerra di Gaza nel 2014 sia stata opera di un drone israeliano.  I quattro cugini furono scambiati per combattenti di Hamas.[20] “Se solo sapessero per un attimo cosa può fare un’arma, il costo che ci fa pagare, penso che si fermerebbero. Penso che non abbiano un’anima. Quando guardano la TV e vedono le notizie, vedono le persone uccise da questi droni, come si sentono? Se venissero qui per una notte e sentissero i bombardamenti, gli aerei e i droni – non so cosa proverebbero – penso che dovrebbero venire qui e vivere la nostra esperienza della guerra e così capirebbero.”[21]  (Ridda Abu Znaid, testimone dell’uccisione della sorella e del cugino in un attacco israeliano di droni nella striscia di Gaza nel 2009, parlando di chi produce e commercia droni.)

Angelo Stefanini, medico volontario del PCRF (Palestine Children’s Relief Fund)

Bibliografia

  1. Hanne Heszlein-Lossius et al. Traumatic amputations caused by drone attacks in the local population in Gaza- a retrospective cross-sectional study. The Lancet Planetary Health 2019;3(1): e40-e47.
  2. Wikipedia.org: Aeromobile a pilotaggio remoto: “Un aeromobile a pilotaggio remoto o APR, comunemente noto come drone, è un apparecchio volante caratterizzato dall’assenza del pilota a bordo. Il suo volo è controllato dal computer a bordo del mezzo aereo oppure tramite il controllo remoto di un navigatore o pilota, sul terreno o in un altro veicolo. […]Gli APR utilizzati per scopi bellici possono essere attrezzati con armamenti o, più semplicemente, con sensori di ripresa che permettono l’invio in tempo reale, notte/giorno, alla stazione di controllo che è posta a decine di chilometri di distanza…”
  3. Byman D. Why drones work: the case for Washington’s weapon of choice. Foreign Affairs 2013; 92: 32–43.
  4. Why has Israel censored reporting on drones?  Electronicintifada.net 18.o4.2016
  5. The Gaza Laboratory — Protective Edge
  6. Gaza: Life beneath the drones
  7.  Consent and Advise. Haaretz.com, 29.01.2009
  8. Kenneth M. Pollack. Learning From Israel’s Political Assassination Program. Nytimes.com, 07.03.2018
  9.  Obama’s Final Drone Strike Data https://www.cfr.org/blog/obamas-final-drone-strike-data
  10. Grégoire Chamayou (2014) Teoria del drone. Principi filosofici del diritto di uccidere. DeriveApprodi.
  11. Sleepless in Gaza. Israeli drone war on the Gaza Strip 
  12. Citato in Cook, Jonathan “Israel’s booming secretive arms trade: New documentary argues success of country’s weapons industry relies on exploiting Palestinians,” Al Jazeera, 16.08.2013
  13. Frontex begins testing unmanned aircraft for border surveillance.  Frontex.europa.eu
  14. Ibid.
  15. Jeff Halper: Questa guerra è contro di noi. Nena-news.it, 0812.2008
  16. Droni militari, l’Italia spende 20 milioni per armarli.  Osservatoriodiritti.it, 08.06.2018
  17. Droni e jet, si intensificano  le commesse militari  fra Italia ed Israele. Italiaisraeletoday.it, 22.11.2018
  18. Obama’s covert drone war in numbers: ten times more strikes than Bush. Thebureauinvestigates.com, 17.01.2017
  19. Secret Israeli Report ‘Reveals Armed Drone Killed’ Four Children Playing on Gaza Beach in 2014. Haaretz.com, 12.08.2018
  20. Resist drone wars: the impact of drone attacks on Gaza. Waronwant.org, 24.03.2014



La strategia anti-BDS di Israele alimenta miti e falsità

Mohammad Makram Balawi

Middle East Monitor15 Febbraio, 2019

Il ministero degli Affari Strategici israeliano ha pubblicato un rapporto dal titolo Terrorists in Suits: The Ties Between NGOs promoting BDS and Terrorist Organizations [Terroristi in cravatta: i legami tra ONG pro-BDS e organizzazioni terroristiche]. L’inchiesta ha i toni del melodramma, specialmente quando raffigura immagini di attivisti pro-BDS affisse su una bacheca in sughero e collegate le une alle altre da tratti rossi, come in una scena di un film giallo.

L’uomo dietro l’inchiesta è il ministro per la Pubblica Sicurezza e degli Affari Strategici Gilad Erdan; senza dubbio ha una fervida immaginazione. Un guazzabuglio di nomi, luoghi, date, eventi, assemblee e immagini mischiati insieme per presentare uno scenario che si presume dissuada la gente dall’appoggiare il movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni e spazzi via tutti i crimini di Israele nei confronti del popolo palestinese. Così facendo, non fa che spacciare miti e falsità.

Nel rapporto si asserisce che tutti gli attivisti pro-Palestina e a favore della giustizia che vi sono menzionati non siano in realtà ciò che sembrano. Viene ad esempio citata una descrizione fatta dalla Corte Suprema di Israele nel 2007 a proposito di Shawan Jabarin, direttore generale della Al-Haq Foundation, una delle più antiche organizzazioni per i diritti umani della Cisgiordania, come di una personalità alla “Dr. Jekyll e Mr. Hyde”. Per “rilevanti questioni di sicurezza”, il tribunale ha appoggiato la decisione dell’esercito di vietargli di lasciare il Paese. Anche la vicedirettrice dell’organizzazione per i diritti Addameer, Khalida Jarrar, è stata descritta in modo analogo; dal 2017 si trova in stato di detenzione amministrativa per il suo ruolo come importante membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP) e per le sue presunte attività terroristiche. La detenzione amministrativa consente a Israele di mantenere persone – guarda caso sempre palestinesi – dietro le sbarre senza alcuna accusa né processo, per periodi di sei mesi rinnovabili.

Una sezione del rapporto punta a presentare un atto di pirateria in mare aperto come una sorta di gesto eroico contro il terrorismo, ovvero quando nel 2010 le truppe israeliane attaccarono la Mavi Marmara, un’imbarcazione battente bandiera turca che faceva parte di un convoglio di navi che portava aiuti umanitari nella Striscia di Gaza assediata. In acque internazionali e nell’assoluto disprezzo del diritto internazionale e della vita umana, gli israeliani sequestrarono il convoglio e uccisero nove attivisti turchi: İbrahim Bilgen, Çetin Topçuoğlu, Furkan Doğan, Cengiz Akyüz, Ali Heyder Bengi, Cevdet Kılıçlar, Cengiz Songür, Fahri Yaldız, Necdet Yıldırım. Un decimo, Ugur Suleyman Soylemez, fu così gravemente ferito da morire dopo un coma di quattro anni. Israele alla fine ha accettato di pagare un risarcimento di più di 20 milioni di dollari alle famiglie delle vittime. I propagandisti israeliani al servizio del ministro Erdan sono ancora oggi impegnati a infangare l’immagine dei martiri e distorcere la realtà riguardo l’accaduto. Difatti, chiunque abbia mai avuto un qualsiasi legame con la Mavi Marmara e il suo convoglio viene ancora accusato di “terrorismo”, compreso l’allora capo della Campagna Britannica di Solidarietà per la Palestina Sarah Colborne, Ismail Patel dell’associazione Amici di Al-Aqsa e i leader palestinesi esiliati Muhammad Sawalha e Zaher Birawi.

Le accuse contro tali attivisti includono: apparire su canali televisivi di Al-Aqsa, di proprietà di Hamas; incoraggiare le flottiglie di liberazione a rompere l’assedio di Gaza; chiedere la fine della vendita di armi ad Israele e organizzare manifestazioni in favore del legittimo diritto al ritorno dei palestinesi e le proteste nell’ambito della Grande Marcia del Ritorno. Secondo il rapporto di Erdan, sarebbe già sufficiente andare a Gaza per offrire supporto umanitario e morale ai palestinesi, o descrivere Israele come uno Stato di apartheid, per essere additati come terroristi, nonostante Israele rientri perfettamente nei criteri per essere definita tale.

In tutto il testo di Terroristi in cravatta… c’è uno sfrontato disprezzo per il diritto internazionale, per le risoluzioni dell’ONU e anche per il puro e semplice buonsenso, e rispecchia lo spregio che Israele mostra nei confronti di quelle leggi e convenzioni mirate a proteggere chi è più vulnerabile e a offrire loro giustizia. In nessun punto del testo pare che i suoi autori siano anche solo lontanamente consapevoli della brutale occupazione militare di Israele, a cui sono asserviti i tribunali del Paese e le sue agenzie di sicurezza. Il rapporto cita infatti sentenze e inchieste di Shin Bet, l’agenzia per la sicurezza interna, come se fossero documenti indipendenti e completamente imparziali, cosa del tutto irragionevole. Qualsiasi opposizione o resistenza all’occupazione illegale e belligerante viene classificata come terrorismo, e guai a chi la pensi diversamente.

Secondo Erdan e il suo staff, nessuno è immune a tali gravi accuse, siano essi organizzazioni di società civile, fazioni di palestinesi, intellettuali o attivisti. L’inchiesta sostiene che 42 fra le principali ONG su quasi 300 organizzazioni internazionali promuovano la “delegittimazione di Israele” e la campagna BDS contro lo Stato sionista. Anche solo questo, insiste il reportage, è ragione sufficiente per classificarli come “terroristi” e per screditarli, insieme al loro considerevole lavoro. Tale attivismo, agli occhi del ministero degli Affari Strategici, sarebbe accettabile solo quando ciò avvantaggia Israele, altrimenti è bollato come “terrorismo”.

Esattamente come quando il presidente degli Stati Uniti George W. Bush, in seguito agli eventi dell’11 settembre, affermò che “chiunque non è con noi è con i terroristi”, non viene lasciato alcuno spazio alla via di mezzo, nonostante sia perfettamente ragionevole essere sia contro gli Stati Uniti che anche contro il terrorismo. Israele ha adottato la stessa filosofia, per cui o sei pro-Israele o sei un terrorista, non si può essere a favore della giustizia se quella giustizia va a vantaggio delle popolazioni della Palestina occupata.

Quando, mi chiedo, Israele e i suoi sostenitori si accorgeranno che l’attivismo a favore della giustizia e pro-Palestina non sono un problema, bensì che è l’occupazione israeliana a costituire il nocciolo della questione?

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Maria Monno)




Guerra contro la natura: il colonialismo sionista ha distrutto l’ambiente in Palestina

Ramzy Baroud e Romana Rubeo

11 febbraio 2019, Middle East Monitor

Le ultime vittime della guerra contro l’ambiente in Palestina sono stati 450 ulivi distrutti la scorsa settimana da bulldozer dell’esercito israeliano. La distruzione di alberi di proprietà palestinese ha avuto luogo nei villaggi di Bardala, nella valle del Giordano, e di Yatta, nel sud della Cisgiordania. Anche altre decine sono state distrutte da coloni ebrei illegali.

È un mito che solo l’Israele sionista abbia “fatto fiorire il deserto.” Al contrario, da quando è stato fondato sulle rovine di più di cinquecento villaggi e cittadine palestinesi che distrusse e cancellò dalla carta geografica, Israele ha fatto l’esatto contrario. Nel lasso di qualche decennio la terra abitata da palestinesi musulmani, cristiani ed ebrei da migliaia di anni è stata sfigurata al di là di ogni immaginazione.

La Palestina contiene un ampio potenziale per la colonizzazione di cui gli arabi non hanno necessità né sono in grado di sfruttare,” scrisse uno dei padri fondatori di Israele e primo capo del governo, David Ben Gurion a suo figlio Amos nel 1937.

Tuttavia l’Israele sionista ha fatto di più che “sfruttare” semplicemente quel “potenziale per la colonizzazione”: ha anche sottoposto la Palestina storica a un’incessante e crudele campagna di distruzione che continua tuttora. È probabile che essa continui finché prevarrà il sionismo, in quanto ideologia razzista, egemonica e sfruttatrice.

Fin dai suoi inizi, a metà e alla fine del XIX^ secolo, il sionismo politico ha ingannato i suoi seguaci con la descrizione della Palestina storica. Per incoraggiare la migrazione ebraica in Palestina e per fornire un simulacro di giustificazione etica per la colonizzazione ebraica, il sionismo ha costruito miti che rimangono tuttora un tema centrale. Secondo i primi sionisti, per esempio, la Palestina era una “terra senza popolo per un popolo senza terra”. Venne anche detto che si trattava di un deserto arido, che attendeva i coloni ebrei dall’Europa e da altre parti con l’urgente missione di “farlo fiorire”.

Tuttavia quello che i sionisti hanno fatto alla Palestina invece è incompatibile con il loro discorso teorico, in quanto razzista, colonialista ed esclusivista, come è sempre stato. La terra di Palestina, circa 16.000 km2 dal fiume Giordano a est fino al mar Mediterraneo, diventò l’oggetto di un crudele esperimento, iniziato nel 1948 con la pulizia etnica del popolo palestinese e con la distruzione dei suoi villaggi, della sua terra e delle sue coltivazioni. Questo sfruttamento della terra e del suo popolo è cresciuto con intenso fervore nelle generazioni successive.

Sradicare alberi, bruciare coltivazioni

Le colonie ebraiche illegali a Gerusalemme est e nella Cisgiordania occupate sono state costruite su terre agricole e da pascolo palestinesi confiscate. L’ impatto immediato di queste azioni è stato lo sradicamento di milioni di ulivi e di alberi da frutto, e la conseguente erosione del suolo in molte parti della Palestina occupata.

Coloni armati aggrediscono contadini palestinesi in tutta la Cisgiordania, spesso con la protezione dell’esercito israeliano. Una delle loro principali missioni è sradicare gli alberi palestinesi e dare alle fiamme le coltivazioni, nel tentativo di obbligare i palestinesi ad andarsene, come primo passo prima di rubare la terra e costruire altre colonie illegali.

Per avere un’idea di quello che ciò significhi a livello locale, si legga parte della testimonianza del contadino palestinese Hussein Abu Alia, pubblicata in uno studio dell’ufficio dell’ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari nei territori palestinesi occupati (UNOCHA OPT): “All’inizio abbiamo sorpreso i coloni che rubavano le olive dai nostri alberi. Poi hanno iniziato a spezzare i rami, ma quelli ricrescevano e abbiamo anche piantato nuovi alberi per sostituire quelli danneggiati. Allora tre anni fa, quando siamo andati a raccogliere le nostre olive, siamo rimasti scioccati nel trovare gli alberi tutti gialli e secchi…I coloni hanno forato i tronchi e hanno iniettato una sostanza velenosa che ha ucciso gli alberi fin dalle radici.”

Prosciugare il fiume Giordano

Le colonie ebraiche illegali consumano grandi quantità delle già impoverite risorse idriche palestinesi. Di fatto il controllo dell’acqua è stato una delle prime politiche messe in atto da Israele dopo l’inizio della sua occupazione militare nel 1967. Le politiche discriminatorie di Israele riguardo all’uso e abuso dell’acqua sono note come “apartheid idrico”. Lo sconsiderato consumo di acqua da parte di Israele e l’irregolare uso delle dighe hanno un esteso e forse irreversibile impatto ambientale, alterando profondamente l’ecosistema idrico.

A causa delle nuove dighe costruite nel nord per fornire ai contadini (cioè ai coloni ebrei illegali) accesso all’acqua”, ha informato l’israeliano Ynet News [sito informativo in rete, ndtr.], “la portata del fiume Giordano è significativamente diminuita.”

Queste informazioni dei media sull’impatto distruttivo di Israele sul Giordano sono state per anni importanti notizie.

Spianare il paesaggio

La costruzione per abitazioni, per l’agricoltura e per le infrastrutture da parte e per i coloni ebrei è di per sé un disastro ambientale. C’è un significativo impatto sulla biodiversità locale della Cisgiordania.

Il livellamento del terreno e gli scavi alterano il suolo e hanno un notevole impatto sull’agricoltura. Oltretutto interrompono anche l’uniformità del paesaggio e il rapporto organico tra gli esseri umani e l’ambiente naturale.

Israele non dimostra alcun rispetto per la Palestina e la sua gente. Lo Stato colonialista sionista sta distruggendo l’habitat locale, gli animali e le specie uniche della regione.

 

La spazzatura di Israele

Secondo uno studio condotto dall’Ufficio per l’Ambiente dell’Amministrazione Civile [l’istituzione militare che governa i territori palestinesi occupati, ndtr.] in Cisgiordania, giornalmente vengono prodotte dai coloni israeliani circa 145.000 tonnellate di rifiuti domestici. Come prevedibile, molta di questi rifiuti, comprese le acque reflue, vengono scaricati su terra palestinese senza tenere in alcun conto l’ambiente palestinese o le persone e gli animali che vi vivono.

Nel solo 2016 sono stati sversati in Cisgiordania 83 milioni di m3 di acque di scarico. Questa quantità sta aumentando costantemente e rapidamente.

Strade solo per ebrei

Per di più, i danni inflitti all’ambiente dalle colonie ebraiche vanno oltre lo spazio fisico di quelle colonie illegali. Negli anni Israele ha costruito una fitta rete di strade che uniscono le colonie illegali tra loro e con Israele. Lo scopo è fornire un “transito sicuro” per i coloni ebraici. Queste strade di comunicazione sono solo per l’uso degli ebrei, ai palestinesi è vietato utilizzarle per qualunque ragione.

I cosiddetti “percorsi sicuri” circondano completamente molti villaggi palestinesi nella Cisgiordania occupata e la loro costruzione ha comportato la confisca di centinaia di ettari di terra palestinese fertile. Oltretutto col tempo le fattorie palestinesi situate all’interno di queste strade di collegamento diventano inaccessibili ai loro proprietari e sono quindi lasciate incustodite o occupate da Israele per ragioni “di sicurezza”.

Avvelenare la Striscia di Gaza

La guerra di Israele contro la natura va oltre le colonie ebraiche illegali. L’uso da parte dello Stato sionista di uranio impoverito, fosforo bianco e altri tipi di armi tossiche ha ucciso e ferito migliaia di palestinesi, per lo più civili, nella Striscia di Gaza assediata. Oltretutto esso ha distrutto anche l’ambiente in modo quasi irrimediabile.

Le massicce offensive militari contro i palestinesi a Gaza nel corso dello scorso decennio hanno lasciato terribili ferite sulle persone e sul loro ambiente. L’incalcolabile numero di bombe e missili lanciati da Israele nei bombardamenti del 2008-09, del 2012 e del 2014 ha lasciato nel suolo un’alta concentrazione di metalli tossici.

Secondo il “New Weapons Research Group” [Gruppo di Ricerca sulle Nuove Armi] – un gruppo di scienziati indipendenti e medici con sede in Italia – frammenti metallici lasciati da armi israeliane includono tungsteno, mercurio, molibdeno, cadmio e cobalto. Sono tutti elementi tossici che si sostiene provochino tumori, infertilità e serie malformazioni congenite.

Raccolti rovinati

All’ambiente di Gaza non viene risparmiato un destino terribile neppure quando finiscono le offensive e le incursioni militari, seppur di solito in modo temporaneo. Anzi, l’esercito israeliano spruzza regolarmente erbicidi nei pressi della barriera che separa il territorio assediato da Israele. L’erbicida più comunemente utilizzato è il glifosato.

La Croce Rossa ha avvertito che il danno causato dal frequente uso di erbicidi nelle zone di confine da parte di Israele va al di là della distruzione delle coltivazioni palestinesi. Provoca alle persone che vivono nella Striscia di Gaza anche complicazioni a lungo termine per la salute.

Il prezzo del muro dell’apartheid

Mentre il muro dell’apartheid, che Israele ha costruito sulla terra palestinese nella Cisgiordania occupata, è spesso preso in considerazione da un punto di vista politico o dei diritti umani, il suo impatto sull’ambiente è raramente affrontato.

Tuttavia, perché venisse costruito, sono stati sradicati dai bulldozer israeliani decine di migliaia di ulivi, alcuni vecchi di 600 anni. Il fatto che alcuni di questi alberi fossero protetti dalla legge sul patrimonio culturale internazionale ha semplicemente fatto rallentare l’esercito israeliano. La distruzione continua tuttora.

Per fare posto al muro, anche migliaia di ettari di terra palestinese sono stati bruciati, insieme agli alberi e all’habitat che li circondava. Al loro posto Israele ha costruito un muro alto otto metri massicciamente fortificato, totalmente estraneo al paesaggio palestinese e accompagnato da tutto l’armamentario dell’occupazione, comprese torri di guardia, recinzioni elettrificate e telecamere di sorveglianza.

È questo il “vasto potenziale per la colonizzazione” di cui si vantava Ben Gurion più di 80 anni fa? La verità è che i palestinesi hanno dimostrato di essere molto più “qualificati” a coesistere con la natura piuttosto che a “sfruttarla”, come hanno fatto i sionisti. Il costo di questo sfruttamento, tuttavia, non è solo pagato dal popolo palestinese, ma anche dall’ ambiente. Le prove davanti ai nostri occhi mettono ulteriormente l’accento sulla natura colonialista ed egocentrica del progetto sionista e dei suoi fondatori, totalmente privi di prospettiva.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Palestina: Femminismi e resistenza

DWF (Donna Woman Femme)

Rivista trimestrale, giugno 2018, (pag.136)

Edizioni UTOPIA, Roma

Saggi, articoli, interviste a cui hanno collaborato:

Rana Awad, Giada Bonu, Patrizia Cacioli, Federica Castelli, Ingrid Colanicchia, Noemi Ciarniello, Cecilia Dalla Negra, Teresa Di Martino, Serena Fiorletta, Paola Masi, Roberta Paoletti

Recensione di Cristiana Cavagna

L’editoriale di questo particolare e interessante numero monografico della storica rivista femminista (dedicato alla giovane infermiera Razan Al Nijjar, uccisa a Gaza durante le manifestazioni per il ritorno) esplicita ciò che è al centro di questo lavoro: la doppia resistenza delle donne palestinesi, all’occupazione israeliana e a alla società patriarcale palestinese.

Le autrici la articolano in un percorso che vede le donne protagoniste, da quelle rifugiate nei campi profughi, a quelle detenute nelle prigioni israeliane, alle donne della resistenza nonviolenta, alle attiviste delle tante, più o meno note, associazioni per i diritti, alle poetesse, alle scrittrici, alle musiciste, alle artiste (una sezione specifica della rivista è dedicata proprio alla rappresentazione artistica come atto politico e forma di resistenza).

Va segnalata, in apertura, un’utile sintetica cronologia, che va dal 1897, data di fondazione dell’Organizzazione Sionista Mondiale, al 2018, con lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme e con le manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno, a Gaza, nel 70^ anniversario della Nakba.

Particolarmente interessante, e in certo modo propedeutico a tutto il lavoro, è il primo saggio, di Cecilia Dalla Negra: “Palestina, Storia, Terra, Lotta di donne” che, pur non ignorando la fondamentale partecipazione degli uomini, sottolinea il ruolo giocato dalle donne fin dagli albori della lotta contro la colonizzazione sionista.

Femminile è la Palestina, femminile è la terra, la resistenza e la parola che la esprime – muqàwama – , femminili sono le olive, e se gli alberi sono uomini, donne sono le radici….e femminile è la Storia, che racconta come, nel 1893, le donne organizzarono la loro prima manifestazione nella cittadina di Afula, opponendo i propri corpi alla costruzione di un insediamento ebraico sulla loro terra….”

Corpi che ritornano sempre nella narrazione al femminile della storia della Palestina: il 1917, anno della Dichiarazione Balfour, in cui le attiviste contestano la creazione di un ‘focolare ebraico’ in Palestina; il 1921, in cui viene fondata la prima organizzazione politica femminile, la ‘Palestinian Arab Women’s Union’; la ribellione al dominio britannico nella Grande Rivolta del 1936-39, che parte dalle campagne dove la partecipazione femminile è altissima, anche per la ridotta divisione di genere nel lavoro agricolo; gli anni ’60 con la lotta armata e la maggior politicizzazione delle donne, anche se la leadership del movimento resta maschile; la prima Intifada, la nascita dei Comitati di Resistenza Popolare con l’autorganizzazione e l’autoproduzione, con le donne in primo piano, per boicottare l’economia dell’occupante; la seconda Intifada del 2000 e poi il ripiegamento della società su sé stessa e la nascita della militanza delle donne islamiste, che si impongono all’interno delle strutture istituzionali e politiche della Striscia di Gaza.…Fino al volto della resistenza di oggi, quello di Ahed Tamimi, la sedicenne del villaggio di Nabi Saleh, incarcerata per aver schiaffeggiato un soldato israeliano entrato nel suo cortile.

Proprio a una donna, Manal Tamimi, di Nabi Saleh, villaggio famoso per la sua resistenza nonviolenta, è dedicata una delle tante interviste: “Non sono una supermamma, sono una mamma palestinese, un’attivista e una combattente….per me la cosa più difficile è essere normale quando ho due figli in prigione, e non a casa.”

Sono tante, stimolanti, le testimonianze.

Sawsan Shunnar, ex detenuta politica: “La cultura era parte integrante della nostra quotidianità: leggevamo poesie, letteratura e discutevamo persino di cinema…le detenute politiche utilizzavano le canzoni militanti come codice per comunicare tra loro… Vi sono differenze nette con le detenute di oggi…nella visione del proprio ruolo e anche nell’aspetto estetico….e la visione politica della maggioranza delle detenute di oggi non è chiara…”

Tamar Zeevi è una giovane ‘refusenik’: dopo 115 giorni in una prigione militare, è stata rilasciata dall’esercito, che l’ha riconosciuta formalmente come obiettrice di coscienza a causa dell’opposizione all’occupazione israeliana.

Significative le parole di una giovane palestinese dei territori occupati, membro della più antica organizzazione femminista israeliana,’Isha l’Isha’, dove operano insieme donne israeliane e palestinesi: “Le donne israeliane bianche credono di dovermi liberare, in quanto vittima di una società tradizionale e patriarcale…ma posso liberarmi da sola: abbiamo bisogno di alleate, non di insegnanti”.

Non si possono non menzionare le due lunghe e ricche interviste a Meri Calvelli, attivista a Gaza dal 1987, che puntualizza la drammatica situazione della Striscia, e alla scrittrice Susan Abulawa, nei cui ormai famosi romanzi emerge la capacità delle donne di coltivare il ‘sumud’, la resilienza..

Quasi a conclusione, un articolo dell’organizzazione “Palestinian Working Women Society for Development” esprime forti critiche e richieste ai responsabili politici palestinesi: “…scarsa volontà politica di denunciare lo stato occupante per crimini di guerra contro i palestinesi, specialmente contro le donne; assenza di volontà politica di cambiare la condizione delle donne secondo le convenzioni internazionali, inclusa la CEDAW (Convenzione ONU contro la discriminazione delle donne, del 1979);….la Palestina deve fare i passi necessari per incorporare la CEDAW nella legislazione nazionale….”

Ma è ancora nell’editoriale che troviamo forse una conclusione, forse un’ipotesi di speranza: “La lotta femminile e femminista palestinese è stata una costante che si è sempre intrecciata a quella per la liberazione nazionale…con la consapevolezza che il gioco del ‘prima la liberazione nazionale, poi quella sessuale’ è stato smascherato….”

Cioè, con le parole di una delle più note autrici del mondo arabo, Fadwa Tuqan (definita dal più famoso e importante poeta palestinese Mahmoud Darwish la poetessa della Palestina): “Come posso mettere la mia penna al servizio della liberazione nazionale, se non sono libera io stessa?”.




Rapporto OCHA del periodo 29 gennaio – 11 febbraio 2019 (due settimane)

Nella Striscia di Gaza, durante le proteste della “Grande Marcia di Ritorno”, le forze israeliane hanno ucciso due minori palestinesi; 530 i feriti registrati.

Altri due palestinesi sono morti per le ferite precedentemente riportate. I due ragazzi, di 14 e 17 anni, sono stati uccisi, venerdì 8 febbraio, con armi da fuoco, in due episodi verificatisi nei pressi della recinzione perimetrale. Secondo le Associazioni per i diritti umani, entrambi gli episodi si sono verificati ad una distanza compresa fra tra i 60 e i 250 metri dalla recinzione e i due ragazzi non rappresentavano una minaccia per le forze israeliane. Lo stesso giorno, secondo fonti israeliane, i palestinesi hanno lanciato ordigni esplosivi contro le forze israeliane ed hanno tentato di violare la recinzione con Israele, ma non vi sono stati ferimenti di israeliani. Gli altri due morti, entrambi uomini, non sono sopravvissuti alle ferite riportate nelle precedenti manifestazioni del 18 e 29 gennaio: uno era stato ferito con arma da fuoco e l’altro era stato colpito da una bomboletta di gas lacrimogeno. Una delle manifestazioni si era svolta sulla spiaggia per protestare contro il blocco navale. Dopo questi ultimi fatti, salgono a 263 le uccisioni di palestinesi nel contesto delle proteste tenute a Gaza dal marzo 2018; nel numero sono compresi 49 minori. Secondo il Ministero della Salute di Gaza, delle 530 persone ferite durante il periodo di riferimento 248 sono state ricoverate; tra queste 64 erano state colpite con armi da fuoco. I rimanenti sono stati assistiti sul campo.

A Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 40 occasioni non riconducibili alle proteste [di cui sopra]. In uno degli episodi un palestinese è rimasto ferito. Inoltre, cinque ragazzi palestinesi sono stati arrestati, secondo quanto riferito, mentre tentavano di infiltrarsi in Israele. In altre tre occasioni, le forze israeliane sono entrate a Gaza e, nelle vicinanze del recinto perimetrale, hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo.

Il 10 febbraio, a sud-est di Rafah, in seguito all’inalazione di un gas tossico, effuso dagli egiziani all’interno di un tunnel per il contrabbando, due palestinesi (un lavoratore e un membro delle forze di sicurezza palestinesi) sono morti e altri due membri della sicurezza sono rimasti feriti. Dal 2013 la maggior parte dei tunnel per contrabbando sono stati distrutti o bloccati dalle autorità egiziane, tuttavia alcuni restano ancora operativi.

In Cisgiordania, in due presunte aggressioni avvenute nei pressi di checkpoint israeliani, due palestinesi, tra cui una ragazza, sono stati uccisi dal fuoco delle forze israeliane ed un altro ragazzo è rimasto ferito. Nel primo caso, il 30 gennaio, al posto di controllo di Az Zaayyem (Gerusalemme), una guardia di sicurezza privata israeliana ha sparato e ucciso una ragazza palestinese di 16 anni che, presumibilmente, aveva tentato di effettuare una aggressione con coltello; il suo corpo è stato trattenuto dalle forze israeliane. Nel secondo caso, avvenuto il 4 febbraio vicino al checkpoint di Al Jalama (Jenin), le forze israeliane hanno sparato e ucciso un 20enne e ferito un ragazzo di 16 anni. Secondo i media israeliani, le vittime avevano lanciato un congegno esplosivo artigianale da una motocicletta in transito. In entrambi i casi non è stato riferito alcun ferimento di israeliani. Dall’inizio del 2019, in attacchi o presunti attacchi effettuati in Cisgiordania, sono stati uccisi dalle forze israeliane tre palestinesi, tra cui un minore.

Il 7 febbraio, in un bosco alla periferia di Gerusalemme Ovest, una 19enne israeliana, proveniente dall’insediamento [colonico] di Teqoa, è stata violentata e accoltellata a morte. È accusato dell’omicidio un palestinese arrestato dalle forze israeliane a Ramallah il giorno seguente, nel corso di una operazione [di polizia].

In Cisgiordania, 35 palestinesi, tra cui almeno undici minori, sono stati feriti dalle forze israeliane durante proteste e scontri. Quasi la metà dei ferimenti (16) sono stati registrati nel villaggio di Al Mughayyir (Ramallah), durante la dimostrazione settimanale contro l’espansione degli insediamenti colonici su terra palestinese. In questo villaggio, durante il precedente periodo di riferimento (26 gennaio), coloni israeliani avevano ucciso un residente e ferito altre nove persone. Altri 13 palestinesi sono rimasti feriti in scontri verificatisi durante operazioni di ricerca-arresto tenute nei villaggi di Biddu e Al ‘Eizariya (entrambi a Gerusalemme), nel Campo profughi di Jenin e nei villaggi di Al Bireh e Abu Shukheidim (entrambi a Ramallah). Nel complesso, le forze israeliane hanno condotto 163 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 117 palestinesi, tra cui nove minori. Delle lesioni registrate durante il periodo di riferimento, il 34% è stato causato da armi da fuoco, il 31% da inalazioni di gas lacrimogeno richiedenti cure mediche, il 31% da proiettili di gomma e il restante 4% da altri mezzi.

Sempre in Cisgiordania, le forze israeliane hanno predisposto almeno 68 checkpoint “volanti” e, in almeno 80 occasioni, hanno effettuato controlli tramite “checkpoint parziali” (checkpoint non presidiati in modo continuo), aumentando ritardi e tempi di percorrenza, e rendendo difficoltoso l’accesso delle persone ai servizi e ai luoghi di lavoro. Questi provvedimenti rappresentano un incremento del 110% rispetto alla media settimanale del 2018. In un caso, le forze israeliane, hanno negato a tre donne, insegnanti palestinesi, l’accesso alla loro scuola attraverso l’unico checkpoint di accesso al villaggio di Beit Iksa (Gerusalemme): la motivazione addotta era che i loro nomi non comparivano nell’elenco corrispondente al checkpoint.

A Gerusalemme Est e nella Zona C, a motivo della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, sono state demolite o sequestrate quindici strutture: 39 palestinesi sono stati sfollati e sono stati [variamente] compromessi i mezzi di sussistenza di altri 70 circa. Secondo quanto riferito, sette delle dieci strutture prese di mira a Gerusalemme Est, tutte residenziali, sono state demolite dai proprietari al ricevimento delle ordinanze definitive di demolizione; questo ha evitato di incorrere in ulteriori multe. Le altre cinque strutture erano situate in Area C. Nel complesso, in Cisgiordania, dall’inizio del 2019 sono state demolite o sequestrate da Israele 48 strutture.

Il 6 febbraio, nella Valle del Giordano settentrionale, per consentire all’esercito israeliano le esercitazioni di addestramento, le forze israeliane hanno sfollato circa 400 palestinesi, per tempi fino a 14 ore. Ciò ha interrotto le attività lavorative e l’accesso ai servizi di due Comunità di pastori, Khirbet ar Ras al Ahmar e Hammamat al Maleh, situate in un’area designata [da Israele] come “zona per esercitazioni a fuoco”. Le Comunità situate in tali zone vivono in un contesto coercitivo e sono sottoposte al rischio di trasferimento forzato.

Sempre in Area C, nella Valle del Giordano settentrionale, le autorità israeliane hanno sradicato circa 500 alberi, hanno spianato 4.000 m2 di terra coltivata e danneggiato una rete di irrigazione; la motivazione è che l’area è dichiarata [da Israele] “terra di stato”. L’episodio è avvenuto il 6 febbraio, nel villaggio di Bardala (Tubas) e ha colpito i mezzi di sostentamento di sette famiglie. In un episodio simile, accaduto il 22 gennaio durante il precedente periodo di riferimento, nel villaggio di Safa (Hebron), vicino all’insediamento di Bat Ayin, le autorità sradicarono 1.250 alberi di proprietà palestinese.

Altri 425 alberi e 14 veicoli sono stati vandalizzati e un palestinese è rimasto ferito, in aggressioni ad opera di coloni israeliani [segue dettaglio]. Nei pressi del villaggio di Jibiya (Ramallah), coloni israeliani hanno aggredito fisicamente e ferito un palestinese di 20 anni. Secondo fonti locali palestinesi, in tre diversi episodi accaduti in At Tuwani e Sa’ir (entrambi a Hebron) e Jalud (Nablus), un totale di 425 alberi di proprietà palestinese sono stati vandalizzati dai coloni israeliani. Inoltre, in altri quattro episodi separati accaduti nei villaggi di Al Lubban ash Sharqiya, Huwwara (entrambi a Nablus), Al Khalayleh e a Gerusalemme, coloni israeliani hanno forato le gomme di 14 veicoli palestinesi ed hanno spruzzato scritte offensive, mentre nel Villaggio di Deir Dibwan (Ramallah) hanno cercato di incendiare una moschea. La tendenza all’aumento delle violenze dei coloni registrata negli ultimi anni è continuata nel 2019 con una media di sette attacchi settimanali risultanti in lesioni o danni materiali, rispetto ai cinque nel 2018 e tre nel 2017.

Su strade prossime a Ramallah e Gerusalemme, secondo quanto riferito dai media israeliani, durante vari episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi, sono rimasti feriti due coloni israeliani e almeno tre veicoli sono stati danneggiati.

Il valico di Rafah, tra Gaza e l’Egitto, sotto controllo egiziano, è rimasto aperto in entrambe le direzioni. 1.125 persone sono entrate a Gaza e 3.191 ne sono uscite. Dall’inizio dell’anno, il valico è rimasto aperto per 28 giorni.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Ragazza palestinese colpita a morte ad un checkpoint israeliano

Ali Abunimah

30 gennaio 2019, Electronic Intifada

Mercoledì forze israeliane hanno ucciso una ragazza palestinese al checkpoint di al-Zaayim nella Cisgiordania occupata a est di Gerusalemme.

La polizia israeliana ha sostenuto che Samah Zuhair Mubarak ha tentato di accoltellare una guardia di sicurezza del posto di controllo prima di essere colpita mortalmente.

Il ministero della Sanità dell’Autorità Nazionale Palestinese ha attribuito a Mubarak l’età di 16 anni, e i mezzi di comunicazione hanno informato che era in terza superiore.

Come in molti casi precedenti in cui un presunto aggressore palestinese è stato ucciso, nessun soldato israeliano è rimasto ferito durante l’incidente.

Un portavoce della polizia israeliana ha twittato una foto del coltello che secondo lui portava Mubarak: la polizia israeliana ha anche rilasciato un montaggio video che mostrerebbe parte dell’incidente.

Il filmato mostra una persona tutta vestita di nero e con uno zainetto che si avvicina al checkpoint. Poi mostra da lontano una lite in cui una persona appare inciampare o fare un balzo in avanti, e poi cadere all’indietro a terra come se le avessero sparato.

Il video è tagliato, per cui non mostra quello che è successo nei secondi precedenti alla discussione e agli spari.

Mostra anche un soldato che mette le manette a Mubarak chiaramente inerme stesa a terra, mentre un altro soldato le punta contro un fucile.

Cure mediche negate

In molti casi di attacchi presunti o reali da parte di palestinesi contro soldati israeliani, le forze di occupazione hanno abitualmente utilizzato forza letale – esecuzioni extragiudiziarie – contro persone che non rappresentavano un pericolo imminente o avevano smesso di rappresentare un pericolo.

Dopo gli spari di mercoledì il “Times of Israel” [giornale on line israeliano che si autodefinisce indipendente, ndtr.] ha affermato: “In alcuni casi fonti ufficiali israeliane hanno detto che palestinesi sembravano aver attuato aggressioni o tentato di farlo per essere uccisi dalle forze di sicurezza israeliane, come forma di ‘suicidio per mano di un poliziotto’”.

I media locali hanno informato che le forze israeliane hanno impedito ai primi soccorritori di prestare aiuto a Mubarak dopo che era stata colpita.

Nessuna delle immagini rilasciate dalla polizia israeliana o che hanno circolato nelle reti sociali e visionate da “Electronic Intifada” mostra assistenza a Mubarak da parte di personale medico o che siano stati messi in atto tentativi di salvarle la vita.

Generalmente cure mediche a palestinesi colpiti dalle forze di occupazione israeliane vengono negate o attivamente impedite.

Riguardo a simili incidenti del passato, Amnesty International ha affermato che “in base alle leggi internazionali è un dovere fondamentale fornire soccorso sanitario a un ferito, e non farlo – soprattutto se in modo intenzionale – viola il divieto di tortura e di altre punizioni crudeli, inumane e degradanti.”

Famiglia scioccata

Un membro della famiglia ha detto ai media palestinesi che, in seguito all’uccisione di Mubarak, Israele ha arrestato suo padre Zuhair Mubarak dopo averlo convocato per un interrogatorio alla prigione militare di Ofer.

“Noi sapevamo che Samah stava andando a scuola e siamo rimasti sorpresi dalla notizia della sua morte. Non sappiamo nessun altro dettaglio su quello che è avvenuto al posto di controllo,” ha aggiunto il membro della famiglia.

La famiglia di Mubarak è originaria della Striscia di Gaza, ma vive nella città di al-Ram, nella Cisgiordania occupata a nord di Gerusalemme, dove suo padre si è trasferito all’età di 18 anni.

È la terza minorenne palestinese ad essere uccisa dalle forze israeliane dall’inizio del 2019. “Samah aveva una personalità infantile, non aveva opinioni o ideologie estremiste, era di una famiglia religiosa, siamo tutti religiosi, e non avrebbe mai fatto quello che sostiene Israele,” ha detto alla rivista Donia al-Watan [sito palestinese di notizie in rete, ndtr.] lo zio di Samah, Fathi al-Khalidi.

Candelotto lacrimogeno letale

Nel contempo martedì a Gaza il quarantasettenne Samir Ghazi al-Nabbahin è morto in seguito alle ferite ricevute durante le proteste della Grande Marcia del Ritorno dello scorso venerdì.

Il ministero della Sanità di Gaza ha affermato che al-Nabbahin era stato colpito al volto da un candelotto lacrimogeno sparato dalle forze di occupazione israeliane.

Il 14 gennaio un altro palestinese di Gaza, il tredicenne Abd al-Raouf Ismail Salha, era morto in seguito alle lesioni riportate quando giorni prima era stato colpito alla testa da un candelotto lacrimogeno israeliano. Al-Nabbahin è stato sepolto mercoledì in mezzo a scene di dolore.

Martedì almeno altri cinque palestinesi sono rimasti feriti dal fuoco israeliano mentre partecipavano a una marcia settimanale nel nord di Gaza contro il blocco marittimo israeliano del territorio.

Tamara Nassar ha contribuito alla ricerca.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 15- 28 gennaio 2019 ( due settimane)

In Cisgiordania, in tre distinti episodi, tre palestinesi, tra cui un minore, sono stati uccisi dalle forze israeliane

[di seguito il dettaglio]. Il 21 gennaio, al posto di controllo di Huwwara (Nablus), i soldati hanno sparato e ucciso un palestinese che, a quanto riferito, avrebbe tentato di pugnalare un soldato; il suo corpo è ancora trattenuto dalle forze israeliane. Il 25 gennaio, vicino al villaggio di Silwad (Ramallah), un 16enne è stato ucciso con arma da fuoco ed un altro è stato ferito. Secondo fonti israeliane i ragazzi stavano lanciando pietre contro veicoli israeliani quando sono stati colpiti; fonti palestinesi affermano invece che i ragazzi stavano giocando. Lo stesso giorno, a Gerusalemme Est, la polizia israeliana, ha aperto il fuoco e ucciso un palestinese di 37 anni; questi era alla guida di un’auto e, secondo quanto riferito, non aveva rispettato l’ordine di fermarsi, destando il sospetto che l’auto fosse stata rubata. Questi episodi portano a 11 il numero di palestinesi uccisi in Cisgiordania dalle forze israeliane dall’inizio di dicembre 2018.

Nel corso di un attacco portato contro il villaggio di Al Mughayyir, vicino a Ramallah, coloni israeliani hanno sparato e ucciso un palestinese, ferendone altri nove [di seguito il dettaglio]. L’episodio si è verificato il 26 gennaio, quando coloni israeliani armati, provenienti dall’insediamento colonico avamposto di Adei Ad, hanno fatto irruzione nel villaggio provocando scontri con i residenti. Un palestinese di 38 anni è stato colpito alla schiena e ucciso, e altri 15 sono rimasti feriti: nove ad opera di coloni e altri sei per mano delle forze israeliane che sono arrivati sul posto e si sono scontrati con i residenti. Secondo i media, i coloni di Adei Ad hanno affermato che in quello stesso giorno palestinesi avevano accoltellato un residente dell’avamposto, tentando di trascinarlo all’interno del villaggio. Le autorità israeliane hanno avviato un’indagine. Negli ultimi anni, Al Mughayyir è stato obiettivo di attacchi sistematici e molestie provenienti dai vicini insediamenti colonici avamposti. Tali insediamenti sono stati realizzati senza autorizzazione ufficiale israeliana e senza permessi di costruzione; tuttavia sono protetti dalle autorità israeliane e provvisti di servizi.

Altri quattro attacchi da parte di coloni israeliani hanno provocato lesioni o danni a proprietà palestinesi. Due degli episodi hanno riguardato la vandalizzazione di 50 ulivi: il 18 gennaio ad Al Mughayyir ed il 19 gennaio nel villaggio di Surif a Hebron. Inoltre, nella Città Vecchia di Hebron ed in una zona agricola nei pressi del villaggio di Jibiya (Ramallah), tre palestinesi, tra cui un ragazzo, sono stati feriti dal lancio di pietre da parte di coloni. Nel corso del 2018, OCHAoPt [Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari nei Territori occupati] ha registrato 280 attacchi di coloni israeliani che hanno causato ferimenti o morte a palestinesi o danni a loro proprietà (tra cui oltre 8.000 alberi). Ciò significa, rispetto al 2017, un aumento del 77% del numero di episodi.

Complessivamente, nel corso di numerosi scontri avvenuti nelle città e nei villaggi della Cisgiordania, sono stati feriti dalle forze israeliane 115 palestinesi, tra cui 10 minori. Quasi la metà dei ferimenti (52) si sono verificati durante scontri provocati dall’ingresso in Nablus di un folto gruppo di israeliani in visita alla Tomba di Giuseppe, accompagnati da soldati. Altri 20 palestinesi sono rimasti feriti durante operazioni di ricerca-arresto condotte nella città di Abu Dis (Gerusalemme), nel Campo Profughi di Balata e nel villaggio di Tell (entrambi a Nablus). Nel complesso, le forze israeliane hanno condotto circa 150 di tali operazioni, 42 delle quali hanno provocato scontri. Nei villaggi Ras Karkar e Al Mughayyir (Ramallah), due delle proteste settimanali contro le attività dei coloni hanno provocato altri dieci feriti. Altre due proteste settimanali, tenute nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est contro l’imminente sfratto di una famiglia palestinese dalla loro casa, si sono concluse senza feriti. Del totale delle lesioni provocate durante il periodo, il 46% è stato causato da aggressioni fisiche ed il 34% da inalazione di gas lacrimogeno richiedente cure mediche; le rimanenti sono state provocate da proiettili di gomma (12%) e da proiettili di arma da fuoco (2%).

Nel corso di scontri avvenuti nella prigione israeliana di Ofer (Ramallah), sono rimasti feriti 150 prigionieri palestinesi e sei membri delle forze israeliane. L’episodio è avvenuto il 21 gennaio, quando le forze israeliane, alla ricerca di telefoni cellulari ed altri oggetti vietati, hanno fatto irruzione nella prigione scontrandosi con i prigionieri. Il numero di feriti palestinesi è stato riportato dalla Associazione dei prigionieri palestinesi e da mezzi di informazione palestinesi, mentre i ferimenti di israeliani sono stati riportati da media israeliani.

Nella Striscia di Gaza, la prosecuzione delle manifestazioni della “Grande Marcia di Ritorno”, tenute presso la recinzione, ha visto l’uccisione di un palestinese ed il ferimento di altri 703. L’uccisione del palestinese si è verificata il 25 gennaio, a est di Rafah; l’uomo è stato colpito con arma da fuoco. Da fine marzo 2018 sale quindi a 184 il totale di palestinesi uccisi nel corso di proteste. Secondo il Ministero Palestinese della Salute e le Organizzazioni per i Diritti Umani, dei 703 feriti durante il periodo di riferimento 319 sono stati ricoverati; 83 di questi erano stati feriti da armi da fuoco.

Sempre a Gaza, in episodi occorsi nei pressi della recinzione, un membro di un gruppo armato palestinese è stato ucciso, e altri quattro, oltre a un soldato israeliano, sono rimasti feriti. Gli episodi in questione sono avvenuti il 22 gennaio, ad est del Campo Profughi di Al Bureij: [ci sono stati] spari da parte palestinese e attacchi aerei israeliani diretti contro diversi siti militari e posti di osservazione dislocati in aree settentrionali e meridionali [della Striscia di Gaza].

Ancora a Gaza, in Aree ad Accesso Riservato di terra e di mare, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 27 occasioni, non riferibili alle manifestazioni. Un insegnante palestinese ed un membro di un gruppo armato sono rimasti feriti. In quattro occasioni, ad est della città di Gaza e di Rafah, le forze israeliane sono entrate nella Striscia ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e scavi in prossimità della recinzione perimetrale.

In Cisgiordania, le autorità israeliane hanno demolito 20 strutture di proprietà palestinese, sfollando 26 palestinesi e incidendo sui mezzi di sostentamento di altri 54. Diciannove strutture sono state demolite a causa della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele: sei a Gerusalemme est e 13 in Area C. La restante struttura era un appartamento nella città di Yatta (area A), che è stato fatto esplodere e distrutto per “motivi punitivi”. L’appartamento era l’abitazione di un palestinese che, nel settembre 2018, pugnalò mortalmente un colono israeliano, venendo a sua volta ferito con arma da fuoco ed arrestato.

Le autorità israeliane hanno sradicato 1.250 ulivi di proprietà palestinese, colpendo i mezzi di sostentamento di sei famiglie; gli ulivi erano stati piantati in un’area dichiarata [da Israele] “Terra di Stato”. L’episodio è avvenuto il 22 gennaio in un’area agricola vicino al villaggio di Beit Ummar (Hebron), nelle vicinanze dell’insediamento colonico di Bat Ayin. Gli alberi sradicati avevano tra i cinque e i nove anni. Un reclamo contro lo sradicamento degli alberi, presentato da due delle famiglie presso un tribunale militare israeliano, era stata precedentemente respinto.

Il 28 gennaio Israele ha annunciato che non rinnoverà il mandato degli osservatori internazionali nella zona H2 della città di Hebron, sotto controllo israeliano. La “Presenza Internazionale Temporanea in Hebron” (TIPH), creata nel 1994, è l’unica agenzia con un esplicito mandato finalizzato alla documentazione di quanto accade nella Zona H2; l’unica autorizzata ad accedere a piedi e con veicoli in qualsiasi parte della Città e in qualsiasi momento. Si teme che la sua partenza genererà un vuoto cui potrebbe conseguire un aumento della violenza di coloni e un deterioramento delle condizioni di vita di una popolazione già vulnerabile.

A quanto riportato da media israeliani, in 11 casi, durante il periodo di riferimento, palestinesi hanno lanciato pietre e bottiglie incendiarie verso veicoli israeliani, provocando danni a quattro auto. Gli episodi si sono verificati sulle strade principali dei governatorati di Gerusalemme, Ramallah, Nablus, Betlemme ed Hebron.

Il valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto, controllato dall’Egitto, è rimasto chiuso al transito delle persone in uscita [da Gaza]. La chiusura parziale è in atto dal 7 gennaio, in seguito all’allontanamento dal valico del personale dell’Autorità palestinese, conseguente a contrasti con Hamas. Durante il periodo di riferimento, per cinque giorni a settimana il valico è rimasto aperto all’ingresso in Gaza, consentendo l’accesso a 1.485 persone. Da maggio a dicembre 2018, il valico è stato aperto, di regola, cinque giorni alla settimana.

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Ultimi sviluppi (successivi al periodo di riferimento)

Il 30 gennaio, ad un posto di controllo ad est di Gerusalemme, una ragazza palestinese di 16 anni è stata colpita e uccisa dalle forze israeliane; secondo quanto riferito aveva tentato di pugnalare un soldato.

Il 29 gennaio, dopo una chiusura in uscita [da Gaza] di tre settimane, il valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto, sotto controllo egiziano, è stato aperto eccezionalmente per consentire l’uscita di casi urgenti.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Un generale israeliano lancia la sfida a Netanyahu sbandierando il massacro di Gaza

Jonathan Cook

28 gennaio 2019, Palestine Chronicle

Con l’avvicinarsi delle elezioni di aprile, Benjamin Netanyahu ha buoni motivi di temere Benny Gantz, il suo ex capo di stato maggiore dell’esercito. Gantz ha creato un nuovo partito, chiamato “Resilienza Israeliana”, proprio quando la rete di incriminazioni per corruzione si sta stringendo attorno al primo ministro.

Già ora, all’inizio della campagna, circa il 31% dell’elettorato israeliano opta per Gantz al comando del prossimo governo piuttosto di Netanyahu, a cui mancano solo pochi mesi per diventare il leader rimasto più a lungo in carica nella storia di Israele.

Gantz è indicato come la nuova speranza, un’opportunità di cambiare direzione dopo che negli ultimi decenni una serie di governi guidati da Netanyahu hanno spinto Israele ancor più a destra.

Come i precedenti generali di Israele diventati uomini politici, da Yitzhak Rabin a Ehud Barak e Ariel Sharon, Gantz viene dipinto – e lui stesso si dipinge – come un guerriero forgiato in battaglia, in grado di portare alla pace da una posizione di forza.

Prima ancora che avesse fatto una sola dichiarazione politica, i sondaggi gli hanno attribuito 15 su 120 seggi parlamentari, un segnale incoraggiante per coloro che sperano che una coalizione di centro-sinistra questa volta possa trionfare.

Ma ciò per cui in realtà Gantz si batte – rivelato questa settimana nei suoi primi video elettorali – è ben lungi dall’essere rassicurante.

Nel 2014 ha condotto Israele nell’operazione militare più lunga e più spietata che si ricordi: 50 giorni in cui la stretta enclave costiera di Gaza è stata bombardata incessantemente.

Alla fine, una delle aree più densamente popolate al mondo – con i suoi due milioni di abitanti già intrappolati da un lungo assedio israeliano – versa in rovine. Nell’offensiva sono stati uccisi più di 2.200 palestinesi, un quarto dei quali minori, e decine di migliaia sono rimasti senza casa.

Il mondo ha assistito, sgomento. Indagini da parte di associazioni per i diritti umani, come Amnesty International, hanno concluso che Israele ha commesso crimini di guerra.

Si sarebbe potuto pensare che nella sua campagna elettorale Gantz avrebbe voluto stendere un velo su quell’inquietante periodo della sua carriera militare. Neanche per sogno.

Uno dei video della sua campagna sorvola le macerie di Gaza, dichiarando orgogliosamente che Gantz è stato responsabile della distruzione di molte migliaia di edifici. “Parti di Gaza sono state riportate all’età della pietra”, si vanta il video.

Questo è un riferimento alla dottrina Dahiya, una strategia sviluppata dal comando militare israeliano di cui Gantz era un membro di spicco. Lo scopo è quello di radere al suolo le infrastrutture moderne dei vicini di Israele, costringendo i sopravvissuti a condurre un’esistenza di stenti, piuttosto che resistere a Israele. La punizione collettiva implicita nell’apocalittica dottrina Dahiya è senza dubbio un crimine di guerra.

In particolare, il video inneggia alla distruzione di Rafah, un centro di Gaza che ha subito il più intenso bombardamento dopo che un soldato israeliano è stato rapito da Hamas. In pochi minuti l’ indiscriminato bombardamento israeliano ha ucciso almeno 135 civili palestinesi e distrutto un ospedale.

Secondo le indagini, Israele aveva invocato la ‘Procedura Annibale’, nome in codice per un ordine che consente all’esercito di utilizzare qualunque mezzo per porre fine alla cattura di uno dei suoi soldati. Ciò include l’uccisione di civili, come “danno collaterale” e, cosa più discutibile per gli israeliani, anche del soldato stesso.

Il video di Gantz presenta un numero totale di “1.364 terroristi uccisi”, in cambio di “tre anni e mezzo di calma.” Come ha osservato il quotidiano israeliano progressista Haaretz, il video “esalta un conto delle vittime come se fosse un gioco al computer.”

Ma il numero dei morti citato da Gantz supera persino la stima ufficiale dell’esercito israeliano – mentre ovviamente disumanizza quei “terroristi” che lottano per la loro libertà.

In quanto osservatore più imparziale, l’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem stima che i combattenti palestinesi uccisi da Israele ammontavano a 765. Secondo i suoi calcoli, e quelli di altri enti come le Nazioni Unite, quasi due terzi dei gazawi uccisi nell’operazione israeliana del 2014 erano civili.

Inoltre, il “tranquillo” Gantz si attribuisce il merito di ciò che ha beneficiato soprattutto Israele.

A Gaza i palestinesi subiscono sistematici attacchi militari, un assedio continuo che impedisce l’ingresso di beni essenziali e devasta le industrie di esportazione ed una politica di esecuzioni da parte di cecchini israeliani che sparano su manifestanti disarmati presso la barriera che circonda ed imprigiona l’enclave.

Gli slogan della campagna di Gantz, “Solo i forti vincono” e “Israele prima di ogni cosa”, parlano da soli. ‘Ogni cosa’, per Gantz, chiaramente include i diritti umani.

È abbastanza vergognoso che egli creda che la sua consolidata serie di crimini di guerra convincerà gli elettori. Ma lo stesso approccio è stato espresso dal nuovo capo di stato maggiore dell’esercito di Israele.

Aviv Kochavi, soprannominato l’“ufficiale filosofo” per via dei suoi studi universitari, questo mese si è insediato come nuovo capo dell’esercito. In un importante discorso, ha promesso di trasformare il famoso “esercito più morale del mondo” in un esercito “letale, efficiente”.

Nella visione di Kochavi, l’aggressivo esercito un tempo comandato da Gantz ha bisogno di migliorare la sua strategia. Ed egli è un provato esperto in distruzione.

Nelle prime fasi della rivolta palestinese che scoppiò nel 2000, l’esercito israeliano lottò per trovare il modo di annientare i combattenti palestinesi nascosti nelle città densamente popolate sotto occupazione.

A Nablus, dove era comandante di brigata, Kochavi escogitò un’ingegnosa soluzione .L’esercito avrebbe fatto irruzione in una casa palestinese, poi abbattuto i suoi muri, spostandosi da una casa all’altra, penetrando di nascosto in città. Lo spazio palestinese non fu solamente usurpato, ma distrutto da cima a fondo.

Gantz, l’ex generale che spera di guidare il governo, e Kochavi, il generale a capo del suo esercito, sono sintomi di quanto totale sia in realtà la logica militarista che si è impossessata di Israele. Un Israele deciso a diventare una moderna Sparta.

Se dovesse provocare la caduta di Netanyahu, Gantz, come i politici-generali che lo hanno preceduto, si dimostrerà un falso uomo di pace. È stato abituato a comprendere solo la forza, le strategie a somma zero, la conquista e la distruzione, non la pietà o il compromesso.

Cosa ancor più pericolosa, la glorificazione di Gantz del proprio passato militare probabilmente rafforzerà nelle menti israeliane la necessità non della pace, ma in maggior misura della stessa cosa: sostegno ad una destra ultranazionalista intrisa di una filosofia di suprematismo etnico, che respinge ogni riconoscimento dei palestinesi come esseri umani con dei diritti.

(Una versione di questo articolo è comparsa per la prima volta sul National, Abu Dhabi.)

Jonathan Cook ha vinto il Premio Speciale Martha Gellhorn per il giornalismo. Tra i suoi libri: “Israele e il crollo della civiltà: Iraq, Iran ed il piano per rifare il Medio Oriente” (Pluto Press), e “Palestina scomparsa: esperimenti israeliani in disperazione umana” (Zed Books). Ha fornito questo articolo a PalestineChronicle.com.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)